sabato 3 febbraio 2007

Corriere della Sera 3.2.07
«Rifondazione smetta di inseguire fantasmi»
Fassino: servono regole per il dissenso
Il segretario Ds: temo che il Prc ascolti il richiamo della foresta «La maggioranza va sostenuta. Vale pure per Mastella sui pacs»
di Gian Guido Vecchi


MILANO — Lo diceva D’Alema, prima d’andare in Giappone, «quando torno fatemi almeno ritrovare il governo».
«Ma no, il governo lo ritroverà. Però l’allarme di Massimo è giustificato e io lo condivido... ». Piero Fassino abbozza un sorriso un po’ tirato, «la posizione della Cdl è insensata, è difficile chiedere le dimissioni d’un governo di cui si è condiviso l’operato». È appena arrivato alla Camera del lavoro di Milano, ha incontrato i lavoratori d’un call center, discusso del futuro Partito democratico. Solo che il problema è il presente, l’Unione battuta al Senato sulla base Usa di Vicenza, il segretario dei Ds ha appena chiesto un «chiarimento » nella maggioranza e ora precisa: «Occorre che tutte le forze di governo siano consapevoli che l’unità e la coesione della coalizione sono una responsabilità di tutti e non solo di qualcuno. Questione di buon senso».
Scusi,ma dove sta il buon senso nel votare contro a un testo che sostiene il governo?
«Diciamo subito una cosa: la situazione al Senato è frutto di una pessima legge elettorale pensata dal centrodestra proprio per impedire a chi ha vinto di governare. Non lo dico per cercare scuse, credo sia una esigenza del Paese trovare una nuova legge che dia maggiori certezze di governabilità, chiunque vinca».
Non si tratta solo di questo, però.
«No, chiaro. A rigore, di fonte a un testo dove si approva l’operato del governo si dovrebbe votare sì. Se non lo si è potuto fare è perché l’ordine del giorno della Cdl era chiaramente strumentale, basta rileggersi gli interventi dei senatori della destra e la frequenza di attacchi al governo prima del voto; e poi perché ci siamo fatti carico di non spaccare il centrosinistra, sapendo che alcuni partiti non avrebbero votato l’ordine del giorno».
In sostanza, che cosa chiede?
«Mi pare evidente che non si possa archiviare ciò che è successo come un incidente di percorso. La politica è assunzione di responsabilità, non il gioco delle parti messo in scena dalla destra. Il primo punto da chiarire sono le scelte di politica estera del nostro Paese, a cominciare dal rifinanziamento delle missioni militari di pace: non è possibile che mentre l’Italia siede nel Consiglio di sicurezza dell’Onu ci sia qualcuno che ti chiede di andare via dall’Afghanistan, noi che stiamo lì su mandato dell’Onu!».
Il famoso multilateralismo...
«Appunto. Vorrei evitare che, dopo aver combattuto per anni contro l’unilateralismo di Bush perché decide da solo, prevalesse ora l’unilateralismo contro l’Onu. Sarebbe francamente assurdo».
Lei pensa sul serio che l’alleanza con gli Usa o le unioni di fatto siano «questioni di coscienza» e non politiche?
«Ecco, qui siamo al secondo punto da chiarire: come si sta in una maggioranza, quali sono le regole di base. Proprio perché penso che questa maggioranza non abbia alternative e il senso di responsabilità non possa essere solo mio o di una parte».
Lo dice alla sinistra radicale?
«Lo dico a tutti, perché ad esempio sulle coppie di fatto è l’Udeur ad avere una linea rigida».
E quali sarebbero, queste regole?
«Noi abbiamo chiesto un voto per governare, gli elettori ce l’hanno dato, e ora abbiamo il dovere di farlo. È ovvio che non si possa coartare l’opinione o la coscienza di nessuno. Ma l’impegno con gli elettori obbliga ciascuno a misurare i propri comportamenti e definire un limite al dissenso su questo o quel tema: non ci si può spingere fino al punto di mettere in discussione la maggioranza».
Già, ma come si fa?
«Un parlamentare ha il diritto di avere una posizione difforme e la può esprimere in aula, ma non ne consegue che il dissenso debba ogni volta tradursi in un voto contro. Uno può alzarsi e dire: non condivido per queste ragioni, dopodiché sostengo lealmente la maggioranza e le sue decisioni e voto assieme a tutti gli altri. Diamoci questa regola ».
Il Prc sospetta complotti centristi.
«Nessun complotto. Anche perché così si rovescia la realtà dei fatti. In Senato le forze riformiste si sono fatte carico di non rompere con quelle radicali, e Giordano lo sa benissimo. Né il governo né la maggioranza della coalizione condividono le posizioni di Rifondazione su Vicenza, eppure in nome della coesione abbiamo cercato una soluzione che tenesse uniti tutti. Ma non si può credere che ogni volta ci sia chi si preoccupa di tenere unita la maggioranza e chi invece pone solo condizioni».
Il governo «ha il dovere di durare», dice Bertinotti. A tutti i costi?
«Non si tratta di durare a tutti i costi, ma di essere consapevoli che i cittadini ci hanno chiesto di governare il Paese. Vado in giro e la gente, non solo nostra, mi dice: non litigate ».
Però Rifondazione scalpita.
«Io ho apprezzato in questi mesi lo sforzo vero e sincero che ha fatto Rifondazione per concorrere alle scelte del governo e della maggioranza. Non vorrei che questo sforzo si attenuasse. Che una sorta di richiamo della foresta riportasse quel partito a rigidità che in passato non sono servite a nulla, men che meno a Rifondazione, e hanno fatto pagare al governo Prodi e a tutti costi molto alti ».
Rutelli dice che la misura è colma e si scontra con il Prc e l’intera ala radicale: «Lo dica agli elettori che la coalizione è finita!».
«Non serve a nessuno inseguire fantasmi di complotti. Né alzare la temperatura della polemica. Serve invece che ogni forza della maggioranza si senta responsabile dell’unità della coalizione e sappia che l’Italia ha dei doveri internazionali da onorare».
E se si ripetessero per l’Afghanistan le scene dell’altro giorno?
«Spero proprio di no, sarebbe compromessa l’immagine internazionale che in questi mesi abbiamo fortemente riaccreditato».
Resta il fatto che almeno un terzo della coalizione la pensa in modo diverso...
«No, io qui distinguerei tra forze politiche e singoli. Nel caso dell’Afghanistan mi pare si stia lavorando a un’intesa che consenta a Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani di votare il decreto senza mettere in discussione il nostro impegno di pace a Kabul. E tuttavia sappiamo che singoli parlamentari, nonostante questo, vogliono votare contro»
Cosa dice ai «dissidenti» dell’Unione, da Bordon ad Angius, che si sono rifiutati di votare contro il governo?
«La stessa cosa. Il principio di responsabilità della coesione della maggioranza deve valere per tutti».
Le prospettive del Partito democratico non sembrano rosee, si fa il nome di Veltroni come deus ex machina...
«Anche le vicende di questi giorni dimostrano che una maggioranza guidata da un partito riformista del 35% sarebbe certamente più solida. Per il resto, il centrosinistra è ricco di personalità, tra cui certamente Veltroni. Al momento giusto sceglieremo chi debba guidare il centrosinistra e chi il Partito democratico, coinvolgendo direttamente elettori e aderenti al nuovo partito».
Napolitano è preoccupato.
«Giustamente, è sensibile al rischio che fatti come quello del Senato sconcertino l’opinione pubblica e la allontanino dalla politica, come aveva detto già nel discorso di Capodanno. Bene ha fatto Prodi ad annunciare un vertice che dovrà chiarire i due punti che dicevo: politica estera e criteri di comportamento, per evitare d’ora in poi che eventuali dissensi producano ogni volta una tempesta o una fibrillazione. Quello che è avvenuto è tanto più preoccupante perché rischia di offuscare una fase in cui il governo, dopo la Finanziaria, sta dando segnali chiari di determinazione: le liberalizzazioni, l’accordo coi sindacati sul pubblico impiego, l’avvio dei colloqui con le parti sociali sulla riforma delle pensioni e del mercato del lavoro».

l’Unità 3.2.07
Bertinotti: ci sono le condizioni perché il governo duri cinque anni
In viaggio in Uruguay, scherza: qui hanno trovato l’accordo ex Dc e Tupamaros. Forse perché i leader erano in esilio...
di Natalia Lombardo


«Ecco qual è la chiave: l'esilio. Mandiamo i leader in esilio così cresce il consenso popolare»: il paragone è fulminante, la battuta scappa fuori dalla sorpresa di Fausto Bertinotti. Sotto un sole cocente, nel quartiere "Bella Italia" alla periferia di Montevideo, trova la «chiave» del radicamento popolare che tiene unite le coalizioni nel racconto sulla crescita del Frente Ampio uruguayano. Ben 35 anni di vita che saranno celebrati il 5 febbraio, dai 300mila voti del 1971 all'aumento negli anni della dittatura, tra il 73 e l'85. «Allora i leader erano tutti in esilio sparsi per il mondo, il Frente continuava a lavorare. Poi, quando i dirigenti sono tornati dopo la dittatura, abbiamo conquistato il municipio di Montevideo e poi la guida del paese sempre con Tabaro Vazquez», spiega in spagnolo l'assistente della vicesindaca Hyara Rodriguez, socialista.
Bertinotti fa un salto: «Ecco, certo, una volta che togli i dirigenti si vince tra i poveri. Mandiamoli tutti in esilio e vedrai….». Nella battuta c'è un che di liberatorio, fatta dall’altra parte del litigioso emisfero politico italiano. Insomma, «come fanno ex Dc ed ex Tupamaros a stare insieme?» si chiede il presidente della Camera (e il pensiero vola su oltreoceanici Mastella e Diliberto, Binetti e Grillini), «ci riescono perché c'è un vincolo costruito nel rapporto col territorio. Qui in Uruguay come per il Pt - il partito dei lavoratori - in Brasile, la coesione politica è un processo che nasce dalla base, da un blocco sociale nato indipendentemente dalla politica e poi divenuto coalizione, e non viceversa o un cartello elettorale». Quella «partecipazione» che il giorno prima Bertinotti ha suggerito per «riparare i guasti» nell'Unione. Sulle vicende italiane il Presidente della Camera non parla più di tanto: «La sinistra radicale è adulta, può replicare da sola, senza aiuti»; ma conviene sull’idea di un vertice di maggioranza a tutto campo. Convinto comunque che il governo durerà 5 anni.
«La ricetta è chiara: i dirigenti in esilio, le comunità di base crescono e quando tornano i dirigenti si vincono le elezioni e si governa», tira le somme. E la riscossa qui è partita dalle città, dai sindaci, come forse alcuni sognano in Italia. Insomma, «se qualcuno di vuole trasferire in Uruguay…», scherza Bertinotti lasciando il centro giovanile tra orti e murales. Certo qui altro che virgole e paletti sui Pacs: l'Uruguay, pur cattolico, è il paese più laico dell'America Latina, ferito da una povertà senza rabbia. Ma a questi bimbi di periferia che imparano a scrivere grazie al computer viene insegnata l'educazione alla libertà, anche sessuale: fra forme umane fiorite nei disegni, chiedono «il derecho que te gusta una persona de tu mismo sexo», ma anche il «derecho de martubars». Fino al più tenero «derecho a darse besos».

l’Unità Roma 3.2.07
Carracci morto di «melancholia»
La povertà e la depressione dopo la realizzazione della galleria Farnese
Annibale Carracci, a Roma la prima mostra monografica
di Flavia Matitti


«Annibale Carrazzi non altro ha del suo, che scudi dieci di moneta al mese... e una stanzietta alli tetti, e lavora, e tira la carretta tutto il dì come un cavallo, e fa loggie, camere e sale, quadri, e ancone, e lavori da mille scudi, e stenta e crepa...». Così nel 1599 un contemporaneo descriveva la desolante situazione di Annibale Carracci al servizio del cardinale Odoardo Farnese, che lo aveva chiamato a Roma per decorare alcuni ambienti del palazzo di Campo de' Fiori. Annibale, nella sua città natale, Bologna, aveva conquistato una certa fama, insieme al fratello Agostino (1557 - 1602) e al cugino Ludovico (1555 - 1619). Quando nel 1595 giunge a Roma, 35enne, è già un pittore affermato.
Gli manca quella «visibilità» internazionale, che solo la Città Eterna può dargli. Il compenso addirittura offensivo, che riceverà dal cardinale Farnese per i magnifici affreschi eseguiti nella galleria del palazzo, lo ferirà così profondamente da farlo ammalare di depressione (melancholia), malattia che lo condurrà prima all’inattività e poi, nel 1609, alla morte (sarà seppellito nel Pantheon, accanto a Raffaello).
Annibale si spegne dunque appena un anno prima della scomparsa dell'altro pittore rivoluzionario col quale s'apre il Seicento: Caravaggio. Sono loro, infatti, a ricondurre l'arte ad interessarsi al "vero", lasciandosi alle spalle il Manierismo, che, dopo decenni, ripeteva ormai stancamente astruse formule compositive.
Eppure, nonostante l'indiscussa importanza del più giovane e più dotato dei tre Carracci, fino ad oggi ad Annibale non era mai stata dedicata una mostra monografica. Appare dunque come un doveroso risarcimento l'esposizione curata da Daniele Benati e Eugenio Riccomini, ordinata nei mesi scorsi a Bologna e ora a Roma, nelle sale del Chiostro del Bramante (fino al 6/05; catalogo Electa). Un'ottantina di opere, tra dipinti e disegni, che consentono di ricostruire l'intero percorso dell'artista, dagli esordi bolognesi all'attività romana. Tuttavia, per comprendere la reale grandezza dell'artista, la mostra non è sufficiente. Infatti, alcuni capolavori dell'artista, come il "Mangiafagioli" o il "Paesaggio con la fuga in Egitto", esposti a Bologna, ma conservati a Roma, si potranno ora vedere nella galleria Colonna e Doria Pamphilj. Inoltre, mancano le due versioni della "Macelleria" (Oxford e Forth Worth), per cui a documentare la novità rappresentata dall'opera di Annibale, tutta basata sul confronto col "vivo", vi sono altri dipinti, non altrettanto celebri, ma ugualmente interessanti, come gli intensi autoritratti, alcuni ritratti e il "Ragazzo che beve" (Zurigo) esposti nelle prime sale, o più avanti lungo il percorso, i "Due bambini che giocano con un gatto" (New York, Metropolitan) o il magnifico "Paesaggio fluviale" (Washington) o ancora i due ritratti di donne cieche. Tra i quadri mitologici spicca il dipinto erotico, di gusto tizianesco, con "Venere e Satiro" (Uffizi) e fa sorridere scoprire che per raffigurare la schiena nuda della dea, Annibale abbia fatto posare il cugino Ludovico «ch'era cicciosetto e polputo». La mostra offre inoltre l'occasione di ammirare una selezione di bellissimi disegni provenienti dal Louvre, per lo più studi preparatori per gli affreschi della galleria Farnese.
Numerose sono poi le opere di soggetto sacro, come la bella pala della chiesa di S. Caterina dei Funari - che quando Caravaggio la vide commentò: "Mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore" - o quella della chiesa di S. Onofrio ma, contrariamente a quanto indicato in catalogo, è assente la pala di S. Maria del Popolo. Evidentemente il prestito non è stato concesso, ed è una scelta anche condivisibile, peccato però che poi, andando a visitare la chiesa, si debba scoprire che "La crocifissione di S. Pietro" di Caravaggio, conservata nella stessa cappella, è sostituita da una riproduzione fotografica, perché l'originale è esposto fino all'8 marzo nella mostra "Petros Eni. Pietro è qui", allestita nella Città del Vaticano, negli spazi del Braccio di Carlo Magno.
Annibale Carracci (fino al 6/05)
Chiostro del Bramante, via della Pace
Info: Tel. 06.68809035
www.chiostrodelbramante.it