venerdì 12 gennaio 2007

l’Unità 12.1.07
Orrore e pregiudizio
Se gli stranieri siamo noi
di Ferdinando Camon


Immagino l’onda di furore che squasserebbe la nazione se a fare una strage del genere, lasciando sul pavimento tre adulti più un bambino più un altro dato per morto, tutti quanti destinati a sparire nelle fiamme dell’incendio, fosse stato un extracomunitario qualunque, un marocchino, un nigeriano. Una strage di italiani eseguita da un africano, una carneficina di cristiani compiuta da un islamico. Sento l’urlo dei lettori, degli ascoltatori, la collera uscire dalle case: solo un islamico può fare cose come questa, un cristiano è impossibile; qui non c’è solo voglia di rubare, di tappare la bocca ai testimoni, fretta di darsi alla fuga, nascondersi, godersi il mal tolto.
Qui non c'è soltanto rapina e dunque rapinatore; qui non c'è un uomo, e sia pure malato, disturbato, uno che vive fuori della legge: qui c'è un demonio, un non-umano, uno che vive fuori dell'umanità. L'umanità è assediata da lupi che le girano intorno, un lupo ha fatto un balzo ed è saltato dentro, ha scannato quelli che ha trovato, tre, quattro, cinque. Se le cose fossero andate così, come all'inizio molti di quelli che scrivono sulla stampa pensavano, adesso i lettori sarebbero sotto choc ad eseguire su se stessi un'operazione psicologicamente complessa: l'esportazione della colpa da noi agli altri, dagli italiani agli extra, dai cristiani ai non cristiani. Una strage del genere non sta nel nostro Dna, noi siamo europei, noi siamo battezzati.
E poi, c'è un bambino in mezzo, e il bambino è l'alibi della madre, e dunque della donna, di ogni donna. Se nel branco degli assalitori c'era una donna, questa si sarebbe buttata a corpo morto per difendere il bambino, non importa figlio di chi: la donna-cristiana, la donna-cattolica, è fatta così, due decine di secoli l'hanno plasmata, giorno per giorno. Non sappiamo come siano costruiti dall'Islam gli uomini islamici. Però sanno sgozzare molto bene. Son fatti apposta. Così sarebbero andate le cose, se un islamico avesse fatto una strage del genere. In questo modo, con queste categorie mentali, eravamo pronti a intenderla.
Le spiegazioni arrivano in un modo che neanche un mese fa immaginavamo. I cronisti inviati sul posto mettono in onda, su Internet, le cronache che leggeremo il giorno dopo sui loro giornali. È come se riferissero a noi, in casa nostra. Come se noi fossimo i direttori del loro giornale. Ed ecco un cronista raccontarci, come se facesse da voce fuori campo in un filmato, che i due assassini sono arrivati insieme, preparavano l'agguato da giorni, quella sera avevano due coltelli e una spranga, spalancata la porta si sono tuffati sulle prede. Il nostro DNA resiste: ma non la donna. Il cronista prosegue: la donna s'è tuffata per prima, dritta sul bambino, il bambino era seduto sul divano e guardava la televisione, lei gli è piombata addosso da dietro, con una mano lo teneva e con l'altra gli tagliava il collo. Dovrebbe avere il goethiano eterno femminino che ci salva tutti, dovrebb'essere battezzata, dovrebbe avere l'istinto materno che le donne sentono risvegliarsi fin dall'età di due anni, quando, se scoppia un incendio, salvano le bambole, come Enea i penati di Troia. Invece è come la «mater tenebrarum» di Dario Argento: se come lei entra scoppia l'Inferno, è perché lei lo contiene dentro di sé e lo scatena sul mondo. C'è uno che guarda tutto, il sopravvissuto che adesso ci racconta: lui vede l'assassino che gli salta addosso e lo rovescia a faccia in giù, gli si siede a cavalcioni sulla schiena, con una mano lo afferra per i capelli e con l'altra gli taglia la gola, un movimento circolare come si fa con le angurie. Immobilizzato, lui vede a pochi centimetri dagli occhi il coltello che gira, e sente un arresto del pensiero: anche adesso non sa spiegarlo, non trova le parole.
Perché le parole non esistono. Esisterebbero se a compiere lo sgozzamento fosse un islamico: ne fan tanti, uno più o uno meno. Li abbiamo visti, li sappiamo vedere. Li abbiamo raccontati, li sappiamo raccontare. Ma questi salti nell'appartamento, come se a saltare fosse una bestia e l'appartamento una giungla, questa caccia ai viventi, via uno sotto l'altro, lui non era, noi non eravamo, noi non siamo preparati a vederli compiuti da uno di noi, da noi. Pensavamo che il cuore delle tenebre fosse lontano. Siamo tutti àntropoi, ma noi pensavamo di essere antropologicamente diversi. Nel vichiano passaggio dai bestioni agli uomini noi siamo ormai uomini, e ci tocca il compito di aiutare i bestioni a diventare come noi. Questa strage dice molto sulla coppia di assassini, ma dice qualcosa di noi tutti.
fercamon@alice.it

Repubblica 12.1.07
Quando l’odio è senza controllo
di Umberto Galimberti


Perché ci spaventa la strage di Erba, dove una coppia di vicini uccide una madre, il suo bambino, la nonna e la signora della porta accanto? Lo spettacolo è truce, ma forse quel che più ci angoscia non è tanto la sua truculenza, quanto sapere se noi siamo del tutto immuni dai moti d´animo che hanno provocato questa tragedia.
Del tutto immuni no. E il nostro linguaggio lo rivela quando si abbandona a espressioni che, senza freni, tradiscono i nostri vissuti carichi di odio. Ma dal linguaggio solitamente non passiamo all´azione. A fermarci non è tanto l´uso della ragione, già messa fuori gioco dall´odio, ma quella "dimensione sentimentale" che registra la differenza tra il bene e il male, tra la gravità di un´azione e la sua irrilevanza.
Questa dimensione antecede persino i sentimenti d´amore e odio con cui conduciamo la nostra vita emotiva. Ed è grazie a essa che impediamo al nostro amore di soffocare e al nostro odio di uccidere. Ma quando questa dimensione non c´è? Quando nessuna risonanza emotiva avverte il nostro cuore della differenza tra un gesto innocuo e un gesto truce?
Allora siamo alla "psicopatia". Un termine coniato dalla psichiatria dell´800 per designare una psiche apatica, incapace di registrare, a livello emotivo, la differenza tra ciò che è consentito e ciò che è aberrante, tra un´azione senza conseguenze e un´azione irreparabile. Una psiche priva di quella risonanza emotiva che ciascuno di noi registra quando compie un´azione, dice o ascolta una parola.
E sì, perché la psiche non è una dote naturale che uno possiede per il solo fatto d´esser nato e cresciuto. La psiche è qualcosa che si forma attraverso quel veicolo, così spesso trascurato, che è il sentimento. Ora capita spesso che ai bambini insegniamo a mangiare, a dormire, a parlare. Ammiriamo i loro sprazzi di intelligenza, le loro intuizioni, ma poco ci curiamo della qualità del sentimento che in loro si forma e talvolta, a nostra insaputa, non si forma.
Il sentimento è l´organo che ci consente di distinguere cos´è bene e cos´è male, per cui Kant arriva a dire che è inutile definire cos´è buono e cos´è cattivo, perché ognuno lo "sente" naturalmente da sé. Questo criterio, che valeva al tempo di Kant, oggi vale molto meno. E la ragione va cercata nel fatto che i bambini di oggi sono sottoposti a troppi stimoli che la loro psiche infantile non è in grado di elaborare. Stimoli scolastici, stimoli televisivi, processi accelerati di adultismo, mille attività in cui sono impegnati, eserciti di baby-sitter a cui sono affidati, in un deserto di comunicazione dove passano solo ordini, insofferenza, poco ascolto, scarsissima attenzione a quel che nella loro interiorità vanno elaborando.
Quando gli stimoli sono eccessivi rispetto alla capacità di elaborarli al bambino restano solo due possibilità: o "andare in angoscia", o "appiattire la propria psiche" in modo che gli stimoli non abbiano più alcuna risonanza. In questo secondo caso siamo alla psicopatia, all´apatia della psiche che più non elabora e più non evolve, perché più non "sente".
L´appiattimento del sentimento di solito non è avvertito, perché l´intelligenza non subisce per questo alcun ritardo. Anzi, si sviluppa con una lucidità impressionante, perché non è turbata da interferenze emotive, come tutti noi possiamo constatare, quando di fronte a una prova, come un esame, le nostre prestazioni sono sempre inferiori alla nostra preparazione, per interferenza dell´emozione.
Nessuna meraviglia quindi di fronte alla freddezza e alla lucidità con cui la coppia di Erba conduce, per un mese, la sua vita normale come se nulla fosse accaduto, senza lasciar trapelare emozioni. Nessun stupore di fronte all´indifferenza al momento dell´arresto e di fronte all´ostinazione con cui, per un paio di giorni, i due sostengono il loro alibi, crollando solo dopo 10 ore d´interrogatorio, quando ormai anche le forze fisiche cedono.
La complicità nell´esecuzione della strage accomuna marito e moglie in una "follia a due", come la psichiatria francese definisce casi di questo genere. Accomunati dall´odio per i vicini di casa, dopo la strage i due si accomunano nell´amore reciproco, con un legame che il sangue versato rende saldissimo, nella vicendevole difesa di un vincolo di solidarietà che nulla riesce a scalfire, perché la loro psiche è piatta, non registra né pentimenti né ripensamenti. Solo alla fine, per sfinimento, una fredda confessione, senza manifestare il minimo senso di colpa, come se il loro cuore non fosse mai stato sfiorato da quel "sentimento di base" che sa distinguere immediatamente, e prima dell´intervento della ragione, cos´è bene e cos´è male.
Quando i giudici, appurate le prove, condannano tali imputati, sono soliti appurare la loro facoltà di "intendere" e "volere" che ovviamente funziona benissimo. Bisognerebbe però anche valutare la loro capacità di "sentire". E qui si scoprirebbe la radice di certe condotte che risultano aberranti a noi tutti che viviamo sostenuti dal nostro sentimento, ma che non acquistano alcuna rilevanza per chi il sentimento non l´ha mai conosciuto, perché a suo tempo non è stato raccolto, ascoltato, coltivato.
Gli psicopatici sono un caso limite dell´umano, ma la psicopatia come tonalità dell´anima a bassa emotività e a scarso sentimento è qualcosa che si va diffondendo tra i giovani d´oggi che, nella loro crescita, acquisiscono valori d´intelligenza, prestazione, efficienza, arrivismo, quando non addirittura cinismo, nel silenzio del cuore. E quando il cuore tace e più non registra le cadenze del sentimento, il terribile è già accaduto anche se non approda a una strage.
Illustrare questi casi è opportuno, non per sollecitare la nostra curiosità morbosa, ma per capire dove può arrivare la nostra condotta quando non è accompagnata dal sentimento, e quindi richiamare l´attenzione sui processi di crescita dei nostri figli, onde evitare che l´intelligenza si sviluppi disancorata dal sentimento e diventi intelligenza lucida, fredda, cinica, e potenzialmente distruttiva.

La Stampa 12.1.07
Gli assalti alle armerie
Intervista a Luigi Manconidi Iacopo Iacoboni


“Ma dietro la violenza c’erano bisogni veri”

«Volevamo cogliere il briciolo di ragione profonda presente in quei gesti»

“È vero che nel ‘77 l’ex organizzazione di Lotta Continua - pure sciolta da diversi mesi - «non fece l’unica cosa che andava fatta: una campagna totale e senza compromessi contro la violenza dell’Autonomia»? Oltre ovviamente ad Adriano Sofri, l’osservazione formulata da Lucia Annunziata interroga la parte «romana» di Lc (quel che restava di Lc), che aveva esponenti di spicco in Luigi Manconi, Marino Sinibaldi, Marco Lombardo Radice, e ospite il milanese Gad Lerner. È di Manconi-Lerner-Sinibaldi una frase contenuta in un libretto pubblicato da Feltrinelli, e citata da Annunziata: «Il gesto del quindicenne, che ruba il machete dall’armeria saccheggiata per poi abbandonarlo dopo pochi metri (...) è “irrazionale”, e per battere le posizioni che vogliono fare di questi gesti un’occasione di reclutamento, è necessario assumere le ragioni dei “teppisti”, ed esaltare il pezzo (esile e contraddittorio) di verità comunista che contiene; non certo le ragioni dei piccoli commercianti o dei piccoli proprietari di piccole automobili».
Manconi, c’era snobismo, ferocia, e anche una certa tendenza al suicidio politico in quelle parole. Fu lei a scriverle?
«Io feci anche l’editing: quella frase sta in un libro scritto da Lerner, me e Sinibaldi; ma non era uno slogan da corteo, era una riflessione pubblicata in una rivista di cinema, “Ombre rosse”, e in un libro di una collana curata dal filosofo Pier Aldo Rovatti. Se ne dicevano di molto peggiori, mi creda; ed era peraltro una frase che evocava l’Andrè Gide de I nutrimenti terrestri, quello che dice “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità”. Non eravamo così scemi, leggevamo dei libri, riflettevamo...».
Questo è evidente, ma con le P38 vicine qualcuno equivocava alati riferimenti letterari.
«Non c’è dubbio che noi vivevamo nella contraddizione, la attraversavamo, cercando di condurla a un esito non tragico, per quello che si poteva fare a quel punto. È del tutto palese che l’atteggiamento di condiscendenza, se non di vera e propria indifferenza, verso interessi e diritti dei normali cittadini fosse decisamente idiota».
I proprietari di una piccola macchina non erano certo affamatori di popolo, né per forza reazionari...
«Ma certo. Tanto più che, per esempio, la Annunziata era proprietaria di una piccola auto; io no, perché privo di patente, e guidavo perigliosamente un Garelli. Comunque, evocando Gide e contrapponendo paradossalmente ai normali cittadini il “quindicenne”, io, Lerner e Sinibaldi volevamo cogliere quel briciolo di bisogno vero e di ragione profonda che c’era - oltre tutte le degenerazioni, e gli orrori - in quel gesto».
Quello che assalta l’armeria di via Giulia e butta via per strada il bottino.
«Sì».
Il che riconduce alla critica più severa che vi rivolge il libro: potevate fare una campagna senza compromessi contro la violenza degli autonomi e non la faceste. Ma potevate davvero? I ventenni del ‘77 filavano ancora Sofri, Manconi, Lerner, o ormai la miccia era accesa, e andava per conto suo?
«È sempre errato valutare i percorsi storici come se fossero l’esclusivo esito delle volontà dei gruppi dirigenti. Io ero andato via da Lc nel gennaio 1976; Lc si scioglie nel settembre successivo; dunque, fu colta di sorpresa dal ‘77. A quel punto, come singoli militanti noi ci impegnammo come potemmo per bandire ogni pratica e ideologia della violenza; cercammo di salvare il salvabile. Spesso anche al limite, e talvolta oltre lo scontro fisico e la minaccia esplicita».
La Annunziata le è grata di averla fisicamente difesa, con Sinibaldi, quando fu attaccata dagli autonomi.
«Occasioni dure ce ne furono tante. Al convegno di Bologna, al quale ero andato con la mia amica Nadia Fusini, noi ex di Lc dovemmo compiere un’impresa ginnica per consentire al nostro compagno di parlare. E sa chi scegliemmo di far parlare?
Marco Boato.
«L’unico di tutti noi che non avesse mai avuto nessun cedimento alla violenza. Però il ‘77 non fu solo violenza, fu un processo di grande innovazione culturale e sociale».
Manconi, lei dice che nel ‘77 il “congedo” di Lc dalla violenza era già stra-avvenuto. Resta qualcosa da svelare sugli anni in cui quel congedo ancora non c’era, gli anni dell’assassinio di Luigi Calabresi?
«Per quanto mi riguarda, e se posso permettermi di parlare anche per Adriano Sofri, dico che sono state spese le parole della più incondizionata, e spietata autocritica. Sofri ha detto che quella contro Calabresi “fu una specie di lapidazione”; e posso assicurarvi che prende su di sé responsabilità di tanti che in quegli anni hanno scritto e pensato cose analoghe».

Corriere della Sera 12.1.07
ROMANZO L'ipotetico rapporto tra il pensatore e la psichiatria nel libro di Irvin D.Yalom
Quando Nietzsche finì sul lettino di Freud
Una mente geniale e tormentata, che non si vergogna di piangere


Vienna, dicembre 1882. Nello studio del dottor Josef Breuer, il più richiesto medico della capitale, si presenta uno strano paziente. È Friedrich Nietzsche, ex professore di filologia a Basilea e ora filosofo senza allievi che in un continuo peregrinare (Italia, Svizzera, Francia) cerca di trovare sollievo ai mali che funestano la sua esistenza. Emicranie devastanti, vomito, insonnia, disturbi alla vista: nell'arco di un anno, dice, i giorni senza sofferenza non superano le quattro settimane. La visita l'ha organizzata una donna, Lou Salomé: teme che l'amico possa suicidarsi, ma non vuole che sappia del suo interessamento. Del resto, confessa, lei ha rifiutato la sua proposta di matrimonio, ma intanto la possessiva sorella di Nietzsche, Elisabeth, sta seminando orrende dicerie contro di lei ispiratele anche dalla foto che ritrae Lou con la frusta su un carretto trainato da Nietzsche e dal comune amico Paul Rée.
Parte da questo incontro possibile eppure mai avvenuto Le lacrime di Nietzsche (When Nietzsche Wept, pubblicato in America nel 1991 e ora tradotto da Mario Biondi per Neri Pozza), il romanzo di Irvin D. Yalom psichiatra e docente a Stanford. Nonché scrittore: il suo La cura Schopenhauer (2005: ai giorni nostri, uno psicoanalista integra la terapia con gli insegnamenti del Mondo come volontà e rappresentazione) è stato un bestseller mondiale. Quello su Nietzsche è un romanzo storico in cui Yalom ricostruisce luoghi e personaggi con grande esattezza, ma ciò che avviene tra i protagonisti (Nietzsche, Breuer, Lou Salomé e il giovane Sigmund Freud, amico di Breuer) è frutto di invenzione.
Le lacrime di Nietzsche si colloca in un anno- cardine per la filosofia e la psicoanalisi: Nietzsche, a cui restano solo sette anni di attività cosciente (nel 1889, a Torino, precipiterà nella follia da cui non si riprenderà più fino alla morte, 1900), ha appena pubblicato La gaia scienza e sta già pensando a Zaratustra. Intanto, Breuer ha dovuto interrompere il trattamento «catartico» (ipnosi e conversazioni) con Bertha Pappenheim: la moglie, gelosa, non sopporta che il marito si dedichi a quella ragazza isterica che, nelle sue allucinazioni, dice di portare dentro di sé un figlio del medico. Questo caso, noto con il nome di copertura «Anna O.», sarà al centro degli Studi sull'isteria, firmati da Breuer e da Freud e pubblicati nel 1893, il testo che dà l'avvio alla rivoluzione psicoanalitica.
Fa effetto, è vero, vedere Nietzsche tramutato in personaggio romanzesco che dialoga con il medico, soffre, piange e addirittura — è la trovata del libro — cura il suo dottore che non si rassegna al distacco dalla giovane paziente. Certo, non è questa la prima né l'ultima volta che il filosofo di Zaratustra si trova a comparire in un testo di narrativa. La prima volta fu nello stesso 1882, in un racconto scritto dalla sorella Elisabeth e rimasto a lungo inedito. In Chiacchiere da caffè su Nora Elisabeth immagina uno strano triangolo: un giovane filosofo assediato da una seduttrice slava (cioè, Lou Salomé) e amato da una brava ragazza tedesca (molto, troppo simile alla stessa Elisabeth). Conclusione: la «cameriera» slava è sconfitta, e in una sorta di incesto letterario il filosofo sposa la tedesca.
Mentre la filosofia nietzschiana pervade e condiziona tutta la letteratura moderna (Strindberg, d'Annunzio, Thomas Mann, Jack London e infiniti altri), lui, il pensatore «per tutti e per nessuno», diventa oggetto di biografie, spesso non poco romanzate. Comincia Lou Salomé, nel 1894, con
Nietzsche nelle sue opere; ma già l'anno dopo la custode dell'archivio e della memoria ufficiale del fratello, Elisabeth, inizia a pubblicare i tre volumi della biografia. Nel 1925, Stefan Zweig dedica a Nietzsche una parte del trittico La lotta con il demone (gli altri due ritratti sono di Hoelderlin e Kleist). Non mancano, è vero, biografie scientificamente rigorose: testo base per ogni ricercatore, in questo senso, è l'opera di Curt Paul Janz, 1979. Certo, da Zweig parte una interminabile serie di vite romanzate, a volte affidate a bravi studiosi come Ruediger Safranski (in Italia, Longanesi), più spesso scritte da disinvolti divulgatori. In Germania, per esempio, si segnalano i libri di Werner Ross, dai titoli già molto significativi:
L'aquila impaurita e Nietzsche il selvaggio, ovvero il ritorno di Dioniso. Ma più scalpore ancora ha fatto il recente volume di Joachim Koehler, Friedrich Nietzsche e Cosima Wagner, pretesa dimostrazione dell'omosessualità del filosofo.
Tornando ai romanzi veri e propri, appena uscito in America è Nietzsche's Kisses (I baci di Nietzsche) di Lance Olsen: il filosofo, sul letto di morte, rivede a lampi la sua vita. Dieci anni prima, David Farrell Krell aveva scritto Nietzsche: A Novel, che, seppure basato su testi e documenti, non rinunciava a inventarsi colloqui di cui non è rimasta traccia. Nel 2001, Laura Pariani con La foto di Orta (Rizzoli) sceneggia con grande sensibilità la gita sul lago del 1882 in cui, pare, il filosofo dichiarò il suo amore a Lou Salomé. Certo, nulla a che vedere con l'audace trasfigurazione operata da Thomas Mann nel suo Doktor Faustus (1947): il protagonista, il musicista Adrian Leverkuehn, grazie alla sifilide contratta in un bordello sviluppa il suo genio demoniaco fino all'abbraccio fatale con il nazismo. E Nietzsche è il modello dichiarato di Leverkuehn. Anche nel film di Liliana Cavani,
Al di là del bene e del male, 1977, c'è la sifilide. E in più ci sono molti accenni ai legami omosessuali fra Nietzsche e l'amico-rivale Paul Rée.
E il Nietzsche di Yalom, invece, com'è? È un personaggio tormentato ma tutto sommato senza macchia. L'ipotesi della sifilide come causa dei suoi disturbi (oggi, peraltro, molto discussa) non è nemmeno presa in considerazione. In cerca di un amore ideale, il filosofo sembra soffrire soprattutto per il rifiuto di Lou. Il filosofo terribile, capace di squassare con i suoi aforismi i dogmi della religione e i principi della morale, si rivelerà un brav'uomo che, durante un franco colloquio in cui scopre il trucco dell'amata-odiata Lou, scoppia pure a piangere. Poi, guarito il dottore, riprenderà il suo cammino solitario verso le vette più alte. Dove, appunto, parla Zaratustra.

l’Unità 12.1.07
Il Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera
«Certi politici fanno i papisti più di Ratzinger»
di Luciano Violante


«La libertà religiosa è, tra tutte le libertà costituzionali moderne, la più importante. E non abbiamo ancora una legge che la garantisce per tutti». Parte da qui un bilancio del presidente della Commissione Affari Costituzionali, Luciano Violante sulla legge per la libertà religiosa. «In Italia ci sono oltre 600 confessioni religiose, dalla Chiesa cattolica a quelle minoritarie. È un mondo pieno di differenze, non riconducibile ad uno schema unitario. Non ci può essere una sola risposta...Trattare in modo uguale situazioni diseguali crea più gravi disuguaglianze e contraddizioni».
Da queste audizioni in Commissione cosa è emerso?
«Che sappiamo poco di molte religioni e pochissimo dell'Islam che è la seconda religione italiana. Si parla di matrimonio religioso islamico,ignorando che il matrimonio, nell'Islam, è un contratto tra le parti. La religione non c'entra. L'Islam non ha vertice, è una religione "orizzontale": come si interloquisce con una religione che non ha rappresentanti ufficiali? L'immigrazione, inoltre, ha portato sconvolgimenti profondi. Solo in provincia di Firenze i buddisti sono oltre 25 mila. E poi c'è da domandarsi: cosa è una religione? Cosa e chi la distingue da una setta o da un'impresa commerciale che sfrutta il bisogno del sacro?».
La legge in discussione riesce a rispondere a questa complessità?
«Roberto Zaccaria, che è il relatore, sta svolgendo un lavoro eccellente. Occorre distinguere la libertà religiosa di ciascuno, essere uguale per tutti, da quella dell'organizzazione religiosa, che pone problemi diversi. C'è da tutelare anche i diritti di chi non ha alcuna religione, perché ateo. Ci stiamo misurando con la rottura di alcuni concetti originariamente "monistici": la religione, la cittadinanza, la cultura, erano tutti concetti fondati sull'uno e non sul plurimo. Oggi, invece, sono concetti da rileggere alla luce del "plurimo", di una società plurale, con molte culture, molte religioni e molte cittadinanze. Trovare l'equilibrio tra la nostra tradizione e la nostra modernità».
Ma in questa realtà segnata dal cambiamento ha ancora senso un regime concordatario tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano?
«Non è mettendo in discussione il Concordato che si difende la laicità dello Stato. Non è forse laica la Gran Bretagna dove addirittura la regina è il capo della Chiesa anglicana? La laicità sta nei costumi e nelle regole che si dà un paese. Quello dell'abolizione del Concordato è un tema da studiosi. Non è nell'agenda della politica».
In questa fase non riscontra una debolezza della politica, una sua scarsa autonomia rispetto ai richiami della Chiesa cattolica?
«I richiami della Chiesa sono legittimi. Quella dell'interferenza è una sciocchezza. Il problema è la oggettiva debolezza odierna della politica, che diventa per alcuni partiti ricerca di una maggiore legittimazione presentandosi come il braccio parlamentare del Vaticano. La Democrazia cristiana, per la sua forza, riusciva a mediare e a difendere quasi sempre la laicità dello Stato. Oggi una serie di forze politiche, eredi, vere o finte, di quel partito, fanno la gara a chi è più "papista" del Papa. Li rispetto; ma credo che questa rincorsa possa imbarazzare la stessa Chiesa cattolica».
Non si arriva al paradosso che la Cei esprima posizioni più aperte dei suoi interpreti politici, più fondamentalisti e integralisti?
«Ne sono convinto. Se la Chiesa desse input al mondo politico italiano perderebbe il senso stesso della sua missione che è universale e sacra, non secolare. La minore laicità non dipende dall'atteggiamento della Chiesa ma da quello della politica».
Visto la fibrillazione che su questi temi vive la politica andrà mai in porto questa legge?
«Di questa legge c'è bisogno per un'Italia più moderna e più giusta. Ma non sarà una passeggiata. Il difficile problema nuovo è individuare, riconoscere e difendere la nuova identità dell'Italia di questo secolo».