giovedì 11 gennaio 2007

l'Unità 11.1.07
Le ingerenze di Fagioli e il destino del settimanale «Left»

Caro direttore,
in una lettera all'Unità e a Wanda Marra, pubblicata martedì scorso, il signor Massimo Fagioli sostiene di voler fare delle «precisazioni» che in realtà rovesciano semplicemente la verità dei fatti nella nota vicenda del settimanale «Avvenimenti» e della sua trasformazione in «Left-Avvenimenti». Wanda Marra si era occupata con grande correttezza giornalistica di quella vicenda . È quindi a conoscenza del fatto che quando il signor Fagioli sostiene di non aver esercitato «nessuna ingerenza» sulla sorte di quel settimanale, non «precisa» ma «falsifica». Non è affatto vero che il direttore di Left-Avvenimenti gli abbia offerto «democraticamente» una rubrica di due pagine settimanali per scrivere tutto ciò che gli passava per la testa. A dirigere il settimanale erano i sottoscritti: il direttore Adalberto Minucci e il condirettore Giulietto Chiesa. Entrambi ci dichiarammo formalmente contrari alla rubrica del signor Fagioli ma, prima a nostra insaputa, poi contro la nostra espressa volontà, i nuovi padroni della società editrice annunciarono e imposero la rubrica dello psicanalista. Il quale sin dai primi due articoli, oltre ad annunciare al mondo che «Freud è un imbecille», ha fatto intendere di essere l'ispiratore e il punto di riferimento politico-culturale della nuova fase del settimanale. Il resto è noto. I nuovi padroni licenziarono in tronco direttore e condirettore, violando ogni regola sindacale e professionale, quanto alla parola «plagio», l'ha tirata fuori nella sua lettera lo stesso Fagioli. Forse era già comparsa in qualche processo giudiziario.
Adalberto Minucci
Giulietto Chiesa


l’Unità 11.1.07
Jean-Pierre Vernant il Maigret del mito
di Ugo Leonzio


LUTTI Muore, a 93 anni, il filosofo e storico francese che ha studiato la mitologia dell’antica Grecia e che scelse come suo «eroe» personale la figura di Edipo. Come un detective cercava le ragioni, le spiegazioni di quelle storie

Il mito, come la memoria, è una malattia che esige devozione: Jean-Pierre Vernant è stato tra tutti i devoti forse il piu tenace, fortunato e disperato. La sua fortuna è dovuta, almeno in parte, alla disperazione della sua impresa, entrare nel pensiero greco, nella tragedia e nella mitologia cercando di trovarne una ragionevole prima ancora che razionale spiegazione. Vernant non era però un illuminista e neppure un marxista, diffidava sostanzialmente delle cose che amava, e questo è sostanzialmente l’origine del fascino che emana ancora dai suoi libri: la calma, la bonomia, la sicurezza delle indagini di un Maigret insieme all’odore della minestra di cavolo e di Gauloises che portano dritti al suo autore, l’enigma, il mito Simenon. Forse, se oggi il mondo greco di Vernant ci sembra costruito a una sola dimensione, una specie di claustrofobica Flatlandia, è proprio questo voler a tutti i costi trovare una ragione; come Maigret deve braccare, stanare e alla fine scovare l’assassino. Questo è il punto davvero difficile, il passaggio a Nord Ovest della mitologia vista dagli storici che non conoscono affatto la malattia che li abita, che diventa (o è sempre stata) il loro inconscio.
Jean-Pierre Vernant non era un malato immaginario, era andato a trovare con arte di segugio il suo «colpevole», il tragico Edipo, ma invece di seguirlo nei labirinti tragici del suo destino che lo avrebbero condotto davanti a un’immagine di se stesso, cioè dentro i meandri della sua psiche e delle indiscrete motivazioni che lo avevano spinto a scegliere proprio Edipo come suo «eroe» e mito privato, l’inesplicabilità della colpa e non del destino, perché il genio della tragedia greca ha intuito subito e profondamente, uno dei segreti degli uomini: che la colpa viene molto, molto prima del destino e che l’embrione fa già parte di un copione dove le parti non si scelgono ma vengono assegnate. Ogni studioso di mitologia greca dovrebbe partire da questo punto e il suo pensiero dovrebbe forzare questo stretto passaggio per osservare l’abisso o il mare aperto che gli si apre davanti: Vernant, essendo uno studioso di grande talento e un ammalato eccellente (di mitologia), aveva capito che Edipo è la chiave di tutti i miti ma non ha avuto la forza di guardarlo negli occhi. Questo limite, che dopo Nietzsche diventa un vero e proprio limite, se non un punto di vista fuorviante, è stato il confine che consapevolmente Vernant non ha voluto valicare perché troppo rischioso. Nessun professore della Sorbonne potrebbe farlo, perché Edipo, per quanto avido di verità, non l’avrebbe mai cercata in un’aula universitaria - per quanto prestigiosa -, in una biblioteca, o scavando rovine.
Vernant è stato il piu illustre studioso da «crociera» del pensiero greco, il professore che tutti avremmo voluto avere. Ma la differenza tra lui e un navigatore solitario nell’oceano del mito, è quella che corre tra Maigret, marito e sposo fedele, quasi buongustaio, e l’ascetico Sherlock Holmes, tossicodipendente, omosessuale, vegetariano e cultore delle Sonate per violino solo di Johann Sebastian Bach.
Il mondo del mito è disponibile a qualsiasi interpretazione, dipende solo da chi ne osserva la messa in scena: non ci sono regole ma fenomeni a cui dare, di volta in volta, un significato. Osservarli significa fare un viaggio a ritroso nel tempo, entrando nella mente di un uomo primitivo, un Sapiens o un Neanderthal, chiusi nella loro caverna ad osservare i fenomeni distruttivi della natura, della caccia, della morte, del coito. Fenomeni, pulsioni, bisogni, perversioni per cui non esiste alcuna spiegazione, alcuna teologia, alcuna ragione, armi deboli per grandi consolazioni. Del mito ci affascina proprio questo permanere del «caso» e della «necessità». Per questo, forse, il piu grande mitografo del nostro tempo è stato il grande biologo Jacques Monod.
Alla mitologia crediamo proprio perché toglie dagli occhi la luce artificiale delle aule scolastiche per darci il solo meridiano, il grido di Pan evocato da James Hillman; toglie dalle dita il rassicurante fruscio della carta stampata e lo sostituisce con quello del sangue; spegne la voce tranquilla e tranquillizzante di Jean-Pierre Vernant e dispiega il tagliente, ambiguo dialogare dello stupro di Zeus, dello stupro di Apollo, dello stupro di Pan, dello stupro di Dioniso vestito da fanciulla e ebbro di vino e di resina di papaveri bianchi. Se il mito greco è pieno di violenza, di eros nudo, di morte, di vendetta, è perché questi elementi sono alla base del pensiero greco che attraverso la razionalità e la prospettiva del pensiero, ritorna all’enigma, al delitto irrisolto, all’assassino inconsapevole. Come potrebbe uno storico svelare che la sua dedizione al mito si alimenta in questo fondo torbido?
Vernant si è sempre tenuto a debita distanza da Freud e dai suoi complessi, come tutti i mitologi, ma questo è senz’altro un errore, dal momento che l’Olimpo è indistinguibile dal nostro mondo, ugualmente percorso da due pulsioni, Eros e Thanatos, che finalmente si riducono a una sola, essendo Thanatos, la morte semplicemente la cessazione di Eros. Sull’Olimpo degli Dei, ma anche di Edipo, che dagli Dei è dannato, Eros è l’unica vera potenza assoluta che domina e intreccia destini, che fa prigioniero Zeus e se ne prende gioco, come qualsiasi povero mortale che nella coppa, invece dell’ambrosia, scioglie un’overdose di viagra.
Ricordo di aver visto Vernant, molti anni fa, a Piazza del Pantheon mentre gustava una deliziosa coppa di gelato al limone. In quella coppa, in quella coppa, in quella delizia infantile nascondeva il suo nascosto Edipo che ora lo guida, volando con Hermes, ai Campi Elisi.

l’Unità 11.1.07
ROMANZI Il racconto di Irvin D. Yalom, psichiatra alla Standford University: storia immaginaria ma reale ambientata nella Grande Vienna con la partecipazione di Sigmund Freud, Joseph Breuer, Anna O. e Lou Salomè
Nietzsche, vero inventore della psicoanalisi e suo primo paziente
di Bruno Gravagnuolo


Un pizzico di Mann, uno spruzzo di Musil e una buona dose di Schnitzler. Il tutto agitato con cura. E ne vien fuori Le Lacrime di Nietzsche (Neri Pozza, tr. di Mario Biondi, pp. 425, euro 18), massiccio e godibile romanzo di Irvin D. Yalom, psichiatra alla Stanford University e studioso di Schopenauer, oltre che del filosofo dell’eterno ritorno (sua La cura Schopenhauer, sempre per Neri Pozza).
La formula del cocktail non vuol essere riduttiva, ma allude esattamente alle atmosfere alte del racconto, basato su un rigoroso impianto documentario. Quello relativo ai rapporti Breuer-Freud e Nietzsche-Lou Salomé, due capitoli a loro volta intrecciati con fili visibili e invisibili, tra grande Vienna, Germania guglielmina e Basilea: la Mitteleuropa insomma. Una temperie che l’autore reinventa fantasticamente, basandosi su ciò che effettivamente avrebbe potuto ben essere, e che non fu.
Il «plot»? Nient’altro che l’incontro immaginario tra la fascinosa russa Lou Salomé a Venezia nel 1882 e Joseph Breuer, medico e fisiologo, protettore di Freud, e celebre terapeuta di Anna O., la cui vicenda «isterica» schiuse le vie della psicoanalisi. Lou insegue Breuer, in viaggio con la moglie, in un caffé. Per chiedergli senza conoscerlo un favore: curare Friederich Nietzsche, affetto da lancinanti emicranie e dalla tentazione del suicidio. Richiesta bizzarra, poiché Breuer non sa chi è Nietzsche, presentato come un grandissimo filosofo, e nemmeno il filosofo sa dell’idea di Lou Salomé. Oltretutto come si potrebbe curare un paziente che non sa di doverlo diventare, e che per giunta è orgogliosissimo, e per nulla proclive a lasciarsi trattare con i metodi di Breuer (la cura con la parola che scioglie l’isteria dai sintomi organici)? Insomma, con una serie di stratagemmi la russa fatale che già aveva fatto disperare Nietzsche preferendogli Paul Ree - nella famosa «trinità» che diede scandalo - si allea con il medico viennese presto sedotto. E ottiene che Nietzsche si presenti da lui e si lasci visitare. Al punto infine che Breuer potrà ricoverarlo in una clinica a sue spese. Ma in base a uno strano contratto, in virtù del quale il medico spera di aprire la mente emotiva di Nietzsche, per continuare a sperimentare, dopo Anna O., la sua cura pre-psicoanalitica. Breuer perciò curerà le emicranie di Nietzsche e in cambio quest’ultimo gli somministrerà pozioni di filosofia, per sedare le sue ansie di luminare ebreo-viennese, sconvolto dal male d’amore (Anna O, pour cause!) e frustrato da una vita coniugale appiattita (mal comune con Freud adultero con la cognata). Ne nascerà un corpo a corpo dialettico tra i due. Sulla libertà, sul destino, sulla potenza e sull’eros. E sull’angoscia della morte che ribolle rimossa nel sottoscala dell’inconscio («un burattinaio» che si diverte a far scherzi dalla cantina). Sullo sfondo c’è il giovane Freud, consulente di Breuer sul caso, in seguito lettore prudente di Nietzsche. E poi Vienna, l’antisemitismo crescente e gli scricchiolii dell’Impero. Ovvero tutte le tensioni sociali ed etniche della «Cacania», che anticipano orrori a venire, regalando anche i frutti più alti della Kultur europea. Dall’urbanistica, alla fisica einsteniana, alla psicoanalisi, alla grande musica, alla grande narrativa (Musil-Kafka).
Dunque viene voglia di leggerlo questo romanzo, no? E difatti lo si legge tutto di un fiato e con enorme piacere, almeno per tre quarti. Tra l’altro, nonché tradotto benissimo, è composto di dialoghi serrati e con colpi di scena frequenti. Già pronti per una possibile sceneggiatura e un film d’ambiente.
Senonché il dramma, impreziosito di décor viennese, a un certo punto diventa commedia a lieto fine. O almeno, mezzo lieto fine. Perché? Perché il corpo a corpo filosofico/esistenziale tra paziente e malato, dove i ruoli si invertono e confondono, finisce con una ribellione puramente simulata di Breuer alle convenzioni che l’opprimono, e col suo ritorno nella nicchia borghese. Purificato e in certo senso sedato dalla diagnosi catartica di Nietzsche. Breuer in altri termini, sferzato dalla «cura» libertaria del filosofo, prende contatto con le emozioni inconsce della sua vita infantile. Riconosce la dipendenza affettiva, riduce i suoi traumi da orfano, le sue rabbie. E rinunzia all’onnipotenza risentita che lo spingeva a cercare compensazioni maniacali erotiche. Torna in famiglia rasserenato, dopo aver sognato, con la parvenza del vero, di fuggire a Venezia e farsi un’altra vita alla Mattia Pascal, suggestionato dall’«eterno ritorno». E Nietzsche? Anche lui nella cura si mette in gioco, piange, come racconta in un suo libro l’amico teologo Overbeck. Svela la terribile solitudine di un uomo geniale che raduna in sé le spasmodiche tensioni della storia presente e futura. Ma poi scompare per sempre. Inghiottito dalla follia, che si appalesa quasi come rifiuto della normalità. E qui l’apologo di Yalom è riduttivo. Perché andava spiegata e pedinata la follia del demone Nietzsche. Nel cui specchio ci sono tutte le maschere del 900 e oltre. Profezie, illusioni, ribellioni. Inganni e smascheramenti. Che il filosofo annunciò e da cui fu travolto, dopo aver fatto di sé un «esperimento», come lui stesso scrisse.

il Riformista 11.1.07
EDITORIALE
LA CEI E LE CRITICHE A FERRERO
Uno stupore che stupisce


L'altro ieri monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della Conferenza episcopale italiana è stato convocato assieme ad altri rappresentanti delle confessioni religiose per un'audizione davanti alla commissione Affari Costituzionali presieduta da Luciano Violante e ha fissato i paletti della Cei alle proposte di legge Spini e Boato sulla libertà religiosa. Il punto di Betori è che le norme non devono portare a una «proliferazione indiscriminata» delle intese dello Stato e, nel contempo, vanno «ulteriormente approfondite» quelle parti del testo che potrebbero aprire la strada a pratiche «inaccettabili per l'Italia» come il matrimonio poligamico.
Parole, quelle di Betori, del tutto discutibili. Tant'è che il ministro Ferrero le ha, per l'appunto, discusse. Aveva, ovviamente, tutto il diritto di farlo, di esprimere le proprie perplessità specificando che «pensare che il paese non sia maturo per una legge sulla libertà religiosa, che non metta in discussione il Concordato è un fatto preoccupante di integralismo un po' oscurantista».
Ma alla Cei pensano, evidentemente, che soltanto i vescovi siano liberi di dire ciò che vogliono. I ministri no. Chiusa nelle proprie convinzioni e per nulla desiderosa di confronto, la Conferenza dei vescovi italiani ha ritenuto quindi di poter criticare duramente Ferrero, dicendosi stupita e sorpresa delle sue parole.
C'è da stupirsi dello stupore. Soprattutto quando la Cei, come ha fatto, attacca il ministro perché (sentite sentite) avrebbe «offeso» il parlamento criticando le affermazioni che sono state fatte in una audizione dallo stesso parlamento convocata. Davvero una bella logica. Come se tutte le persone convocate dalle Camere dovessero per forza esprimere opinioni “giuste”. E chi l'ha detto? Forse alla Cei sfugge, ma la democrazia prevede proprio che le persone vengano ascoltate per sapere quello che vogliono e per confrontarsi con esse. E prevede anche che se qualcuno esprime un'opinione che non piace chiunque sia libero di manifestare il proprio dissenso. Dietro al ragionamento (diciamo così) della Conferenza episcopale si nasconde, assai male, una concezione settaria e autoritaria del confronto tra istituzioni dello stato e società. Una concezione che non favorisce certamente il dialogo.

Repubblica del 11.1.07
LA CURIOSITÀ
La protesta degli atei "Non discriminateci"


ROMA - Funerali civili con adeguate «sale del commiato», non imposizione dei funerali religiosi nel caso di funerali di Stato, ora di religione alternativa a quella cattolica, che abbia le stesse «opportunità» di questa e esprima anche le posizioni di atei e agnostici. Queste le proposte dell´Unione atei razionalisti italiani, alla commissione Affari costituzionali della Camera dove si discute della legge sulla libertà religiosa. In pratica hanno chiesto che in classe ci sia anche un´ora di ateismo e di inserire anche le associazioni non confessionali nella proposta di legge sulla libertà religiosa e quindi nelle intese tra Stato e religioni.

Corriere della Sera Roma 11.1.07
SAN CAMILLO
La pillola del giorno dopo è un «codice bianco»: si paga
di Ilaria Sacchettoni


Al San Camillo, dove le adolescenti rumene, lituane e ucraine, si rivolgono per assistenza e prevenzione da gravidanze premature e indesiderate, i medici dicono che il problema è insidioso. E che forse andava studiato (e ora ripensato) con pazienza, prima della fulminea entrata in vigore della nuova legge sui pronto soccorsi a pagamento. Dal primo gennaio infatti, anche la prescrizione della cosiddetta «pillola del giorno dopo» rientra tra le prestazioni a pagamento dei cosiddetti codici bianchi. Venticinque euro che con gli undici della confezione sono diventati proibitivi per una ragazzina (di fascia disagiata tra l''altro) che difficilmente ha accesso a una somma del genere liberamente.
Non solo una questione di soldi ovviamente.
Anche un fatto di prevenzione. A Roma, capitale dell'immigrazione, in cui il ricorso alle interruzioni di gravidanza è sempre minore per le italiane ma ancora alto per le straniere, la prevenzione sarà gratuita e capillarmente diffusa oppure tassata e sporadica?
La prescrizione a pagamento scoraggia le donne e imbarazza gli operatori del San Camillo che finora hanno sempre lavorato sodo per garantire informazione e prevenzione gratuite e che due anni fa, d'accordo con l'assessorato alle politiche sociali del Comune di Roma, aprirono il primo sportello di mediazione culturale per immigrate. Cinesi comprese. Ora cosa faranno?