Quel gioco di ruolo tra eskimo e grisaglia
di Eugenio Scalfari
Bertinotti sostiene che questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni.
Ma c'è un limite, se non si vuole creare paura e caos
Fausto Bertinotti ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera' che l'ha pubblicata domenica 21 gennaio. È un'intervista politicamente interessante: prende posizione netta contro l'allargamento della base militare Usa a Vicenza, polemizza indirettamente ma abbastanza scopertamente con Prodi su parecchie e rilevanti questioni; al tempo stesso si augura che il suo governo duri per tutta la legislatura, anzi afferma che questa durata, di per sé, è una condizione non sufficiente ma necessaria per cambiare la società italiana, obiettivo da lui ritenuto assolutamente urgente.
Non starò a commentare i tanti aspetti politici di questa intervista, ma ce n'è uno che definirei filosofico, che voglio qui prendere in esame. L'intervistatore gli chiede ad un certo punto se sia possibile indossare al tempo stesso l'eskimo e la grisaglia, intendendo dire un atteggiamento di lotta (l'eskimo) e uno di governo (la grisaglia). La risposta è questa: "L'idea della fissità dei ruoli è una concezione sbagliata. Questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni, non delle separazioni e dell'albagia. Se si vuole cambiare la società c'è bisogno sia dell'eskimo sia della grisaglia".
C'è un'eco sessantottina in quest'immagine, quando i giovani del movimento studentesco sostenevano la necessità di abolire i ruoli e identificavano pubblico e privato. Era la rivolta contro una classe dirigente e una società incartapecorite, dove l'essenza delle persone e spesso la loro stessa dignità venivano soffocate dal ruolo ad esse assegnato: chi comanda e chi deve obbedire, l'uomo e la donna, i docenti e gli studenti, i genitori e i figli, ciascuno al suo posto con inesorabile continuità.
La lotta contro i ruoli fu la questione centrale del sessantottismo, che postulava la massima libertà e la massima eguaglianza come esiti positivi da ottenere, appunto, dall'azzeramento del 'ruolismo'. Di qui la contestazione accanita degli studenti nei confronti dei loro professori, dei figli contro l'autorità genitoriale, dei lavoratori contro i datori di lavoro e in generale contro l'ipocrisia della società borghese e contro il potere, culmine di tutti i ruoli e della loro schiacciante fissità.
La visione era seducente. Metteva in discussione alcune gravi lacune della democrazia rappresentativa, si rifaceva alla partecipazione diretta di tutti i cittadini al governo della società con evidenti riferimenti all'esperienza della Comune di Parigi del 1871 e alle tesi rivoluzionarie di Rosa Luxemburg che infatti fu allora una delle icone di quella rivoluzione giovanile.
Si sa come andò a finire. E non parlo qui della degenerazione violenta che coinvolse alcuni settori del movimento e imboccò la via sanguinosa e terribile degli anni di piombo, laddove l'insorgenza del Sessantotto era stata non violenta e gioiosa. Parlo invece del rapido fallimento della lotta contro i ruoli, della quale rimase come solo esito positivamente acquisito un mutamento reale nel rapporto uomo-donna che ha poi progredito e si è diffuso nella coscienza collettiva anche se resta largamente incompleto.
Dicevo che il movimento fallì nel suo intento principale e non solo: molti dei giovani che erano stati alla testa di quella rivoluzione virtuale rientrarono rapidamente nei ranghi ascoltando il 'rappel à l'ordre' che sempre sopraggiunge a rimettere in riga le avanguardie. Fecero carriera molti di quei giovani, proprio scalando quei ruoli che avevano vagheggiato di abbattere.
Ma torniamo a Bertinotti e alla sua teorizzazione dell'eskimo e della grisaglia.
Dicevo che c'è un'eco sessantottina in quella visione, ma c'è anche un'eco togliattiana nella tesi che fu del Pci considerato come partito di lotta e di governo. Fu definita la duplicità della linea di Togliatti e del gruppo dirigente comunista.
E fin qui siamo nella stretta politica, ma secondo me c'è anche dell'altro nella frase bertinottiana "questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni"; qui si mette in gioco il concetto stesso della coerenza dell'io quando si postula che la contestazione del potere e la sua conquista e il suo esercizio possano coesistere con la stessa intensità e senza ipocrisie all'interno della coscienza individuale e di quella collettiva. Non credo che Bertinotti, nell'esprimere questa sua visione, avesse in mente anche i risvolti di carattere analitico-filosofico, ma se questo è il tempo della mescolanza e della contaminazione (e anche secondo me lo è) bisogna andare oltre il recinto troppo stretto del politichese.
Personalmente sono da tempo arrivato alla conclusione che l'io non sia affatto monolitico e che rappresenti l'usbergo della capacità riflessiva della mente. Del resto, dopo Freud, sarebbe difficile attestarsi ancora sull'icona delle monadi, chiuse e sempre eguali a se stesse.
Tuttavia trasferire la flessibilità dell'io e la sua mobilità alla funzione dei ruoli è un'operazione a perdere, da definire 'impossible mission'. Infatti è sempre fallita. Bisognerebbe chiedersene il perché.
Credo che una prima risposta possa essere questa: il ruolo soddisfa un bisogno insopprimibile di oggettività che la comunità esige come garanzia di propria certezza sulla quale costruire i suoi programmi di futuro. Tutto cambia intorno a noi e intorno a ciascuno di noi, ma non può cambiare il ruolo a capriccio di chi lo riveste senza - ove ciò accadesse - suscitare ondate collettive di insicurezza, paura, caos.
A meno che la tesi bertinottiana non sia affetta da ipocrisia, cosa che non vorrei prendere in considerazione.
Corriere della Sera Interventi e repliche 22.1.07
Rifondazione: speranza di trasformazione
di Francesco Troccoli
Con riferimento all'articolo di Dario di Vico sul Corriere del 16 gennaio ("Perché vince Rifondazione") vorrei tentare, da lettore del giornale ed elettore di partito, di andare oltre alle pur interessanti e condivisibili affermazioni che vi sono esposte. Verissimo tutto, Rifondazione è in viaggio. Un viaggio di riforma. Ma basta riconoscere questo per rispondere alla domanda del titolo? Forse è il caso di approfondire. Di ricordare ad esempio che il viaggio è iniziato sotto la spinta di leader (Bertinotti prima e soprattutto, Giordano poi e in encomiabile crescendo) che non limitano o non hanno limitato il campo della propria sfera di interesse e di azione ai "bisogni" primari e più elementari, pur fondamentali, dell'essere umano, come il salario equo o la pensione minima, ma spingono la loro battaglia politica ad un livello più alto, quello delle esigenze. Mi sia consentita la distinzione di queste ultime dai bisogni puri e semplici. Avere il tempo, come l'on. Giordano disse in un bel dibattito qualche mese fa, di badare ai figli nel tempo libero e di goderseli è un'esigenza che nobilta ed umanizza il semplice bisogno di riposarsi e dormire; affermare che l'assassinio di Saddam in Iraq è "uccidere come annullamento dell'umano" (P. Ingrao su Liberazione del 17 gennaio) non è solo il bisogno illuminista di abolire una pena inutile e crudele, ma l'esigenza dell'essere umano di affermare la propria identità, che è vita, trasformazione e possibilità infinite di cambiamento, e non è bestialità assassina; parlare di "non violenza", vessillo della battaglia teorica bertinottiana, non è solo frutto del bisogno materiale di evitare il comportamento violento in quanto inutile e/o illegale, ma esigenza di ribadire la vera tendenza naturale, spontanea, dell'essere umano sano: la socialità, il rapporto tra diversi, bianco- nero, cittadino italiano-immigrato extracomunitario, occidente-oriente, e magari, dulcis in fundo, uomo-donna. Ecco, Rifondazione vince forse anche e soprattutto perché consapevolmente o inconsciamente, le persone che le danno il voto e alcuni (forse non tutti) suoi leader vi ritrovano e ne alimentano un'identità umana, ben prima di quella sociale o politica. In una parola, la speranza di trasformazione, quel movimento irrazionale che dagli animali, che si muovono per bisogni ma non certo per esigenze, ci differenzia in modo unico.
Francesco Troccoli
Ansa 30.1.07
Dinosauri col pollice opponibile prima dell'uomo
Da sempre si dice che ad aver fatto la differenza nell'evoluzione tra l'uomo e gli altri animali sia stata la sua struttura della mano, dotata di pollice opponibile. A quanto pare però c'é qualcuno che ci ha preceduti; alcuni scienziati in Texas hanno scoperto infatti che il Bambiraptor, dinosauro simile ad un uccello, di oltre 75 milioni di anni fa, aveva il pollice opponibile, ben prima quindi dei nostri antenati.
Come riporta la rivista News Scientist che cita il 'Journal of Vertebrate Paleontology', la scoperta è stata possibile grazie allo scheletro eccezionalmente preservato di questo mini-dinosauro, non più alto delle nostre ginocchia.
Lavorando sui modelli di ossa, Phil Senter ha scoperto che il Bambiraptor era in grado di tenere in mano la preda o di usare le sue lunghe braccia per portarsi alla bocca gli oggetti, "oltre a toccarsi la punta del pollice con quella del medio - spiega Senter - Cosa finora mai vista in nessun altro dinosauro". Molti dinosauri predatori afferravano infatti la preda con la bocca, mentre il Bambiraptor era in grado di farlo con rane o piccoli mammiferi con una mano sola. I suoi artigli affilati sulla punta delle dita servivano a bloccare la preda da entrambi i lati evitando così di farla scappare.
Anche se sul fossile conservato non c'é traccia di piume, questo dromeosauro era un parente vicino degli uccelli, e il più primitivo finora trovato, il Microraptor, aveva lunghe piume su braccia e gambe.
l’Unità 30.1.07
Boselli: «I ministri si diano una calmata»
«Il Guardasigilli sega l’albero dove è seduto
Dopo le defezioni su Kabul è davvero troppo»
di Andrea Carugati
«Mastella stia attento, perché sta segando il ramo su cui è seduto. Non so a che gioco stia giocando, ma certamente è un gioco pericoloso». Enrico Boselli, segretario dello Sdi, è preoccupato per la piega che ha preso il dibattito sulle unioni civili, subito dopo l’astensione di tre ministri della sinistra radicale sull’Afghanistan: «Qualcuno vuole aprire una pagina di maggioranze variabili, sulla politica estera, sui diritti civili e magari anche sulle liberalizzazioni? Attenzione, perché in questo modo non si dura a lungo».
Il ministro Mastella dice che questa volta ci sono in gioco i valori.
«Rifiuto l’idea che quella delle unioni di fatto sia una questione etica: l’etica c’entra se parliamo di embrioni, o di eutanasia. Qui si tratta solo di garantire il diritto di successione nell’affitto, la reversibilità della pensione, o di poter esprimere un’opinione quando il proprio convivente è ricoverato in ospedale. Non riesco proprio a capire dove stia l’etica. Io avrei voluto una vera legge sui Pacs, come ne esistono in gran parte d’Europa. Si è scelto un compromesso per garantire alcuni diritti e su questo abbiamo un dovere perché l’abbiamo promesso agli elettori come coalizione, non come singoli partiti».
Mastella dice che se tre ministri si astengono sulla politica estera lui ha tutto il diritto di farlo sulla famiglia.
«E infatti mi stupisce molto che i ministri si comportino in questo modo. Se non si condivide un passaggio importante della politica di un governo la prima cosa da fare è dimettersi, non giocare con le parole. Quando 4 ministri, nel giro di una settimana, votano contro il proprio governo ne stanno minando la credibilità davanti all’opinione pubblica, lo stanno indebolendo. Se Mastella persiste in questa posizione, autorizza la sinistra radicale a fare lo stesso sull’Afghanistan. Ma, ripeto, non si può andare avanti con le maggioranze variabili».
Vede prove di Grande centro sulle coppie di fatto?
«Vedo al centro un grande movimento. Il tentativo di immaginare la nascita di un nuovo governo non è più solo nel campo delle fantasie, ma sotto gli occhi di tutti. Ne parla da settimane l’onorevole Casini, una parte dei cosiddetti poteri forti. E il comportamento della sinistra radicale non fa altro che portare acqua al mulino di chi dice che con loro è impossibile governare. Che ci si metta anche Mastella è una cosa che mi sorprende davvero. Se si continua così il rischio di un governo istituzionale si avvicina...».
Eppure i teodem della Margherita sembrano non seguire l’Udeur e si apprestano a votare alla Camera la mozione dell’Ulivo.
«Bisognerà vedere bene. Quelle che ho sentito finora non sono buone parole. Resta l’idea inaccettabile che il Parlamento non possa legiferare su questa materia perché così si mette in crisi l’istituto della famiglia. Questa è pura propaganda e lo dimostrano i fatti: nei grandi paesi europei dove c’è una legge sulle coppie di fatto la famiglia non ne è stata scossa. In Spagna poi una legge è stata proposta e approvata dai popolari di Aznar, non da Zapatero. C’è poi un dato: del milione e mezzo di conviventi italiani l’80% sono cattolici. La Chiesa, che rispetto, dovrebbe interrogarsi sulla crisi dell’istituto matrimoniale e non limitarsi a negare la comunione ai conviventi. Serve qualcosa di più di un anatema».
Insomma, non vede aperture significative da parte dei teodem?
«Questa parte della Margherita sta seguendo la strada di influenzare il merito del ddl del governo. L’obiettivo è quello di svuotare, o comunque di rendere meno incisivo il provvedimento. Bisognerà vigilare affinché esca un testo giusto, per il momento sono molto cauto».
Teme che alla fine venga partorito un topolino?
«Non faccio processi alle intenzioni: Prodi si è impegnato con sincerità e coraggio e con lui i due ministri direttamente coinvolti.Prima di esprimere un giudizio voglio vedere il testo del ddl».
Dunque il rischio è che alla fine i delusi siano i laici?
«Intanto vorrei dire agli italiani che convivono che non devono sentirsi colpevoli, che per lo Stato non sono peccatori. E poi vorrei ricordare ai parlamentari cattolici che quando si è rappresentanti del popolo l’unica Bibbia che dobbiamo avere in tasca è la Costituzione: il Parlamento non fa le leggi per difendere la morale religiosa, ma per garantire dei diritti, o magari per indicare dei reati: tra ciò che è peccato e ciò che è reato c’è una distinzione. È questo che ci differenzia dal fondamentalismo».
l’Unità 30.1.07
Napolitano: dialogo sui Pacs
«Si deve trovare una sintesi anche tenendo conto della Chiesa». E sull’Afghanistan: accentuare la dimensione civile
di Vincenzo Vasile
SCELTA CORAGGIOSA Da Madrid Giorgio Napolitano, a proposito delle unioni civili e delle coppie di fatto auspica la coraggiosa scelta di «una combinazione di diverse sensibilità»: si dichiara certo che si possa trovare «una sintesi nel dialogo», anche «tenen-
do conto delle preoccupazioni espresse dal Papa e dalle alte gerarchie» ecclesiastiche. Occorrono oggi, insomma, lo stesso coraggio e la stessa saggezza che il capo dello Stato rinviene sfogliando la più classica pagina di conciliazione nazionale tra estrema sinistra e mondo cattolico della nostra storia recente: quell'articolo 7 della nostra Costituzione che Togliatti votò alla Costituente il 25 marzo 1947, in rottura con il Psi di Pietro Nenni ferreamente aggrappato invece a posizioni laiciste, giusto poco prima della rottura dei governi di unità nazionale, recependo nella carta fondamentale i Patti Lateranensi, ma ottenendo di sancire nero su bianco che "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani".
È questo l'episodio clou della breve conferenza stampa del capo dello Stato che praticamente ha concluso ieri sera una fitta agenda di incontri e cerimonie in Spagna. Siamo nel Paese in cui la destra con Aznar ha introdotto i Pacs, e la sinistra di Zapatero le unioni omosessuali: una soluzione è dunque possibile anche da noi? chiedono i giornalisti. La risposta di Napolitano evita diplomatismi: nella realtà italiana c'è una traccia obbligata, che del resto il presidente non manca di indicare sin dal discorso di insediamento davanti alle Camere riunite. Questo solco obbligato è la Costituzione, anche altrove spesso richiamata sull'argomento da Napolitano, prima ancora che riguardo all'articolo 7, per le cospicue parti che richiamano i diritti dei cittadini e per quegli articoli, anch'essi condivisi dai Costituenti che si riferiscono alla famiglia, "società naturale fondata sul matrimonio" (articoli 29, 30 e 31). In altre parole, l'esternazione di Napolitano si può facilmente interpretare come una sollecitazione e un sostegno alla mediazione che personalmente Romano Prodi sta conducendo tra le due ipotesi avanzate dai ministri della Famiglia e delle Pari opportunità, Bindi e Pollastrini: riconoscimento di un forte pacchetto di diritti, senza equiparare le unioni di fatto a matrimoni, sia pure di serie B. Fare sintesi con le preoccupazioni della Chiesa significa, dunque, riallacciarsi a quella temperie da cui scaturì la Costituzione, quando per non far scoppiare una guerra di religione, minacciata nel 1947 da attacchi violenti dell'Osservatore romano ai governi di unità, il leader comunista decise per senso di responsabilità nazionale di schierare i voti dei costituenti del Pci, assieme a democristiani liberali e qualunquisti: l'articolo 7 sarebbe passato egualmente seppur con una maggioranza risicata di cinque voti, ma i primi passi della Repubblica sarebbero avvenuti nel fuoco di un conflitto religioso.
Il caso spagnolo può offrire materiale di riflessione anche sull'Afghanistan: nel colloquio a porte chiuse con Josè Luis Zapatero Napolitano ne ha a lungo parlato. Il governo spagnolo proprio in queste ore sta rinnovando e rafforzando la sua presenza nella missione afghana. Ma Napolitano ha trovato una particolare sintonia con le scelte che prospetta in Italia: "Siamo egualmente molto impegnati ad accentuare la dimensione civile della nostra presenza in quel paese". Dove " la situazione è molto preoccupante e richiede molteplici iniziative che possono essere sostenute dai militari", ma - precisa - "non possono ridursi alla presenza militare". Pur ricordando che "le scelte di governo" non gli competono, il presidente spinge perché il compromesso che si sta cercando all'interno della maggioranza con la sinistra radicale sia trovato in una direzione, molto simile agli intendimenti delle autorità spagnole: nell'accentuare il carattere umanitario e di sostegno alle popolazioni.
La cornice del ragionamento è offerta da un'impegnativa "lectio magistralis" che Napolitano in mattinata ha pronunciato nel ricevere una laurea ad honorem dell'antica Università computense. Le radici dell'Europa contemporanea sono nella ricerca della pace, l'Europa unita non è solo mercato, è uno strumento di pace. E la Costituzione europea non è da considerarsi un lusso, sarebbe ben grave se fosse accantonata. E oggi ancor più che nel passato l'Europa unita e rinnovata nelle istituzioni si rivela uno strumento importante per agire come protagonista per incidere sulle crisi internazionali ''senza mettere in forse la sua storica alleanza con gli Stati Uniti d'America e i suoi legami transatlantici, ma dandosi un più netto profilo e acquistando un suo distinto spazio di movimento''. Tanto più gravi, dunque, sono le esitazioni euroscettiche di fronte alle nuove responsabilità internazionali dell'Europa. Sta qui il punto cruciale: nella necessità di combattere quei "sostanziali scetticismi sulle possibilità di un'effettiva funzione e azione dell'Unione europea come attore globale" capace di contribuire a un più pacifico ordine mondiale. E tutto si tiene: le "residue illusioni di protagonismo dei singoli Stati; la riluttanza a maggiori poteri e risorse all'Unione", sono facce della stessa medaglia. Forti sono le radici, e "non meno forti" le "nuove ragioni" del progetto europeo.
l’Unità 30.1.07
La crisi della politica e l’aggettivo socialista
di Valdo Spini
In molti si affannano - e giustamente - ad analizzare la crisi della politica, o meglio la crisi dei suoi strumenti principali, i partiti, il distacco tra l'opinione pubblica e le istituzioni, i pericoli che da tutto ciò derivano o possono derivare. Qualcuno giunge fino ad evocare il pericolo di una soluzione populista dei problemi italiani.
Fa senso allora che in questo clima non si colga quanto a ciò contribuisca la disinvoltura con cui si esce e si entra da una all'altra delle grandi parole della politica: democrazia, socialismo, comunismo, e dai relativi aggettivi, democratico, socialista, comunista. Come si può pensare che i partiti, le forze politiche, siano rispettate, quando sono gli stessi gruppi dirigenti che si propongono di gestire fasi politiche che sono state contrassegnate da obiettivi così diversi, come quelli simboleggiati dalle parole comunista, socialista, democratico. Con quale credibilità si pensa di andare allo stesso appuntamento del partito democratico senza aver dipanato nemmeno i motivi per cui si era aderito al socialismo europeo ed ora non lo si considera più come un importante punto di riferimento di principi e di valori.
C'è chi, come Alfredo Reichlin, declina una spiegazione storicistica di questo processo che parte dalla funzione nazionale esercitata a suo tempo dal Pci per postulare un grande partito democratico che un questa funzione nazionale possa succedere al Pci stesso. Ma già con questa affermazione si entra nel campo di un discorso rivolto alla tradizione del Pci e non all'intera sinistra italiana, e anche rispetto al Pci non si coglie la profonda diversità tra questa e quella funzione nazionale. Oggi questa funzione nazionale si esplica con la capacità di rinnovare la sinistra, non fuoriuscire da essa. Si contrasta la crisi della politica e dei partiti, non rimuovendo i principi ed i valori cui questi si ispirano, ma verificandoli e rinnovandoli alla luce delle trasformazioni intercorse. E questo vale oggi per il socialismo europeo.
Si vorrebbe quasi descrivere la fuoriuscita o quantomeno l'affievolimento dei legami dei Ds con il socialismo europeo quasi come un progresso. C'è un grande campo mondiale delle forze progressiste, nota Massimo D'Alema, di cui il socialismo (ma anche la stessa sinistra) sono solo una componente. Si cerca così di dire ai nostri militanti: «Ma sì, tranquillizzati! Anche se non sei più l'alfiere del socialismo europeo in Italia, sei in realtà qualcosa di più. Sei uscito da quegli angusti steccati per collocarti a tutto tondo accanto ai democratici americani, al partito del congresso indiano», e così via.
Sembra quasi che si sia sul punto di dar vita a quell'Ulivo mondiale su cui si era tanto a suo tempo ironizzato. Poi si va a guardare come stanno le cose e si vede che tutto questo dovrebbe sboccare in un'associazione a Strasburgo tra i parlamentari europeo dei ds aderenti al PSE e quelli della Margherita aderenti al Partito democratico europeo e al gruppo parlamentare dell’Alde (Alleanza del liberali e democratici europei). Romano Prodi, presidente onorario e Francesco Rutelli, copresidente con François Bayrou, candidato centrista alla Presidenza della Repubblica francese del Partito Democratico Europeo, potrebbero dire di vedere i Ds arrivare sul loro nome, mentre i Ds dovrebbero rinunciare al nome e al simbolo socialista. Viene quasi da chiudere gli occhi e domandarsi se non si stia sognando, se veramente tutto ciò possa accadere.
Infatti, aldilà delle aspettative di molti, il dibattito sul partito democratico ha visto rinascere proprio il dibattito sul socialismo. In tanto avvertono che tra Prodi e Rifondazione c'è uno spazio che oggi non è sufficientemente coperto da nessuno, e che anche le liberalizzazioni di per sé, o almeno quelle liberalizzazioni, come ha detto molto bene Giorgio Ruffolo in un recente articolo non sono sufficienti a definire un riformismo. Allora la capacità dei partiti di essere coerenti tra i loro valori e i loro ideali e le necessità del rinnovamento, è un fattore che tiene attaccati e non distaccati i cittadini alla politica.
Infatti, il socialismo democratico, dato tante volte per spacciato ogni volta che subiva una sconfitta, ha altrettante volte deluso le sue dichiarazioni di morte presunta. Ha saputo adeguare i contenuti della sua azione politica, ma non ha sentito il bisogno di cambiare nome, e cioè l'identità valoriale, ai propri partiti. Ecco allora che il socialismo come fatto politico concreto è tuttora presente in Europa, celebra ad Oporto un congresso di tutto rispetto, riceve il presidente del Comitato Nazionale dei Democratici americani, Howard Dean, si rinnova nei metodi e negli obiettivi, da quello dei diritti civili, a quello della parità di genere a quello della grande sfida ambientale.
Si può pensare con un tratto di penna di cancellare tutto ciò anche in Italia? Non è possibile. A questo si ribellano quei socialisti che non credono che il loro schieramento politico debba meccanicamente morire perché è crollato il muro di Berlino. Si ribellano quegli ex Pci - Pds che prendono sul serio la possibilità di rinnovare, approfondire e procedere sulla strada del socialismo. Si ribellano quei laici che temono nel veto al socialismo europeo una rivalsa neoconfessionale italiana. Ma non si ribellano in nome di un no, bensì in nome di un sì.
Due anni fa il congresso Ds all’unanimità decise di inserire nel simbolo la dizione partito del socialismo europeo. Prendiamo sul serio questa decisione e facciamo davvero un partito del socialismo europeo in Italia. E non ci si venga a dire che ci si è già provato. Non è vero. Non si è voluto pagare nessun prezzo, anche di modesto rinnovamento, al perseguimento di questo obiettivo. La riprova migliore di ciò è in quanto ha affermato lo stesso Massimo D'Alema con rude ma franca sincerità, e cioè che non si può chiedere agli ex-democristiani della Margherita di diventare socialisti perché in fondo non lo siamo mai stati nemmeno noi!
La ragione per cui stiamo insieme nell'area «A sinistra per il socialismo europeo», tra Mussi, Salvi, Bandoli e molti compagni che, come chi scrive, vengono dall'esperienza socialista e laburista (sperando di incontrare presto anche il compagno Giuseppe Caldarola), si fonda su questa intenzione, su questa volontà politica. Non è perché si sia formato un «supercorrentone» della sinistra interna, ma perché si è formata un'area pluralistica nelle provenienze e elle esperienze che ritiene che all'insegna dei principi del socialismo democratico e liberale (socialismo liberale nel senso rosselliano), si può trovare quella sintesi tra riformismo senza socialismo e radicalismo senza riformismo che condannerebbe alla palude la stessa esperienza dell'Unione.
La parola socialismo, lo vogliamo nuovamente ribadire, è ancora attuale, perché in essa è insita l'esigenza di una politica programmaticamente rivolta ad includere e a socializzare nel progresso economico, civile sociale e culturale anche chi ne è rimasto escluso; e questo in modo laico, e cioè con le armi della politica stessa. La parola democratico (usata come sostantivo, perché come aggettivo dovremmo condividerla tutti) è una parola nobilissima, ma rappresenta più una scelta sulle regole che devono improntare la dinamica politica e sociale che un ideale e un obiettivo di fondo. Nella parola socialista c'è qualcosa di più. Veramente pensiamo che si possa con un atto di volontà politica spengerla?