domenica 28 gennaio 2007

il manifesto 28.1.07
Kossiga ci covava
di Alessandro Robecchi


La Storia non si fa con i se e con i ma, lo sappiamo tutti, quindi figuriamoci se si fa con Cossiga. Pure, in tempi in cui si dibatte di revisionismo storico, fa piacere che anche il vecchio umorale presidente si dia una bella revisionata alle valvole e dica cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. E siccome si festeggia (?) il trentennale del '77, ecco nuovi entusiasmanti capitoli di quella storia, per quel che vale oggi che persino Silvio ci sembra un film in costume del lontano passato, figuriamoci il Cossiga con la k, puro modernariato. Ma, così, tanto per riassumere, ecco qualche perla: «Quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai cominciammo a chiamarli criminali». Bella pensata, trucchetto non nuovo, probabilmente in voga dai tempi delle piramidi, ma sempre efficace. Cossiga la chiama soavemente «manipolazione del linguaggio» e se ne dichiara responsabile (insieme a Pecchioli) con una certa fierezza: sappiamo peraltro che il linguaggio si fece manipolare volentieri. Sull'anniversario del '77 piove la saggezza cossighiana: «La disposizione che avevo dato alla polizia era: se sono operai giratevi dall'altra parte; se sono studenti picchiate forte e giusto». Niente male come rivelazione, anche per uno che ci ha abituato ai suoi gargarismi storici: dire per non dire, dire a metà, non dire per dire, il tuttismo, e in conseguenza di ciò l'assoluto nullismo, delle rivelazioni di Cossiga. E non mancano scrupoli e caricature di ripensamenti: criminalizzare un'intera area politica (lui lo chiama «sfogatoio») ha spinto parecchi verso la lotta armata. Cosa che i criminalizzati dicevano già in diretta, e non in differita di trent'anni. In più, sempre a sentir lui, Cossiga sa chi sparò a Giorgiana Masi, e precisa che insieme a lui lo sanno altre quattro persone ma che noi - noi tutti - non lo sapremo mai, e questo nonostante l'omicidio non vada in prescrizione. Insomma, alla fine, da consumatori, da utenti, saremmo già pronti all'abbonamento, maturi per un Cossiga-channel che venda come strabilianti cose note e stranote? Oppure lo beccheremo nottetempo, travisato, a scrivere sui muri: «Kossiga ci covava». Sai che scoop.

il manifesto 28.1.07
Piero Fassino: «Fecondazione, referendum non ha chiuso la partita»


«Non possiamo ritenere esaurito dal referendum il tema della fecondazione assistita». Così il segretario dei Ds Piero Fassino, intervenuto ieri a Bologna alla conferenza nazionale delle democratiche di sinistra. «Non mi sfugge che c'è stato un referendum che ha dato una certa indicazione - ha spiegato Fassino alla platea femminile - però penso che abbiamo una responsabilità, quella di non considerare la partita chiusa». Riferendosi sempre alla legge sulla fecondazione assistita, ha poi spiegato che ogni giorno crea gravi danni sulla pelle delle donne; per questo motivo, ha detto ancora Fassino, occorrono «soluzioni condivise tra chi oggi governa e chi governava ieri» per correggere questa legge almeno negli aspetti più deleteri. Fassino ha spiegato che le soluzioni condivise «vanno ricercate per la delicatezza estrema della materia, che entra nel vivo della vita delle persone», aggiungendo che c'è bisogno di un consenso largo per non creare lacerazioni. Avere fatto questa legge a colpi di maggioranza, ha poi concluso Fassino, ha creato una lacerazione drammatica che ancora dura. Soluzioni condivise non significa negoziazione dei principi, ma costruire delle soluzioni condivise e condivisibili».

il Riformista 28.1,07
CONVERSIONI. QUANDO IL MAHATMA DISCONOBBE IL FIGLIO HARIRAL
Il Gandhi musulmano che non piaceva a papà
di Anna Momigliano


«Io sono un musulmano, io sono un induista, io sono un cristiano e io sono un ebreo, così come tutti gli altri uomini… Però quello scapestrato di mio figlio Harilal farà bene a rimanere un indù, altrimenti lo disconosco». Con una buona dose di licenza poetica, si potrebbe completare così la celebre frase sull’universalità delle religioni pronunciato dal Mahatma Gandhi, pochi mesi prima che un fanatico musulmano lo uccidesse. A quasi sessant’anni dalla sua morte (martedì si celebra il 59° anniversario), non tutti sanno che il padre della nazione indiana aveva un figlio ribelle, il primogenito Hariral, che si convertì all’Islam nel 1938 cambiando il nome in Abdullah, pare proprio per ripicca nei confronti del padre. Era il periodo della nascita del movimento indipendentista, quando le tensioni tra induisti e musulmani si facevano più forti: divide et impera, si sa, era il motto degli inglesi.
Al tempo però indù e musulmani dedicavano tutte le energie a darsele di santa ragione e, soprattutto, ad affermare gli uni la propria superiorità sugli altri. E in un comizio pubblico di militanti islamici doveva fare un certo effetto presentare al pubblico un convertito illustre: «Il mio nome è Gandhi, Abdullah Gandhi». Dopo la conversione, avvenuta in pompa magna alla moschea Juma di Bombay il 29 maggio, il padre disconobbe pubblicamente il figlio in un articolo pubblicato sulla stampa nazionale. L’articolo, intitolato «Ai miei numerosi amici musulmani», è tuttora rintracciabile nella raccolta Journalist Gandhi, Selected Writings, pubblicata dal Gandhi Book Center. Anche prima, i rapporti tra padre e figlio non erano dei migliori.
Gran bevitore, amante delle feste, della bella vita e celebre donnaiolo, Hariral era da sempre la pecora nera della famiglia Gandhi. «Quando Hariral fu concepito ero completamente schiavo delle mie passioni», avrebbe un giorno confessato il Mahatma, che al momento della nascita del suo primogenito aveva appena 17 anni. Prima di fare voto di castità, il Mahatma ebbe altri tre figli, tutti induisti osservanti impegnati nella causa della disobbedienza pacifica. Con il primogenito, le cose furono sempre diverse: i contatti tra padre e figlio si interruppero quando Hariral aveva poco più di 20 anni, nel 1911.
Quando il Mahatma apprese «dai giornali» della pubblica conversione del figlio, non riuscì a trattenere la rabbia e pubblicò una vera e propria invettiva contro il primogenito degenere, accusandolo di essersi convertito non per amore dell’Islam, bensì a causa del disprezzo che nutriva verso i fratelli indù e sperando di trarre benefici personali. «Se la sua conversione fosse venuta dal cuore, non avrei nulla da ribattere, perché credo che l’Islam sia una religione della Verità, tanto quanto la mia», scriveva Gandhi padre, «Ma ho dei seri dubbi. Tutti quelli che conoscono mio figlio Hariral sanno che frequenta case di dubbia fama, che è indebitato fino al midollo e che per anni è vissuto grazie della carità di alcuni amici».

Corriere della Sera 28.1.07
DIALOGHI Giulio Giorello e Umberto Veronesi si interrogano su eutanasia e clonazione
Se la vita è illimitata si tradisce la specie
La libertà di scelta è individuale, ma non deve compromettere l'Evoluzione
di Pierluigi Panza


La vita di una persona deve rispondere a «signorie» diverse da quelle della coscienza individuale? È questo il grande tema del XXI secolo, che investe l'inizio della vita umana (clonazione, fecondazione assistita), il suo svolgersi (dissoluzione della famiglia, poligamia) e la sua stessa fine (eutanasia, testamento biologico, accanimento terapeutico). Quando saranno del tutto esaurite le scorie del secolo della società di massa e dei totalitarismi, l'avvento di una società globale degli individui si troverà a dover disciplinare, in sostanziale assenza di fondamenti filosofici, questi aspetti di impatto determinante sulle vite (la nostra e l'altrui).
Un contributo laico a questo dibattito è offerto dal dialogo tra Giulio Giorello e Umberto Veronesi in La libertà della vita, a cura di Chiara Tonelli (Raffaello Cortina Editore, pp.116 e 9). Dalla scelta del genere dialogico già si comprende l'assenza di assertività di questo pamphlet, nato dagli incontri preparatori delle conferenze «The Future of Science», che si svolgono ogni anno a Venezia.
La storia della filosofia risponde al tema sopra esposto con tesi contrapposte; si va da quella di John Locke che affidava a Dio la «signoria» della vita individuale a quella di David Hume secondo il quale ciascuno è signore di se stesso. Ma anche volendo sposare quest'ultimo orientamento, dopo gli studi di Michel Foucault si sa che ogni signoria individuale è una sostanziale illusione, poiché s'iscrive in una microfisica di epistemi e norme non scritte che dominano inconsapevolmente l'individuo privandolo del «libero arbitrio» che crede di esercitare. Alla fine, un dibattito razionale sul tema proposto si riduce a un orizzonte politico, ovvero a come un complesso di norme giuridiche possa relazionarsi a questi temi per disciplinarli.
Su ciò, la posizione di Giorello e Veronesi sembra fondare le proprie radici sulla visione di Thomas Hobbes. Partendo da una concezione meccanicistica e deterministica della realtà, nella quale possiamo conoscere unicamente corpi fisici, per Hobbes lo specifico umano si caratterizza per le sue capacità congetturali e per lo sforzo di garantire sicurezza e soddisfacimenti individuali attraverso un sistema regolativo fondato sulla contemporanea rinuncia da parte di tutti ad alcuni diritti naturali, stringendo un patto con cui si trasferiscono dei diritti allo Stato e alle sue leggi. Questo trasferimento può riguardare i temi in esame? Per Giorello sostanzialmente no, poiché la vita è un processo individuale che dialettizza conservazione e innovazione. Veronesi scorge degli scogli per una lettura individualistica e deterministica. «L'istinto di sopravvivenza — nota infatti Veronesi — dovrebbe venir meno dopo un ciclo riproduttivo». Invece continua, «persiste imperterrito» nell'individuo il conatus spinoziano di voler sopravvivere e vedere la morte come ostacolo anche dopo la riproduzione. E ciò mette in difficoltà una visione materialistica, perché non c'è solo un diritto alla morte, ma anche un «dovere» di morire per lasciare spazio ad altri. In tal senso, l'accanimento terapeutico, la conservazione di alcuni embrioni, le ricerche per prolungare illimitatamente la vita individuale si possono configurare come un tradimento verso le nuove generazioni, «delle quali rallentano l'emergere»: in questi casi, la scienza e la medicina non sono più «farmaci», ma una trasgressione all'ordine naturale.
La lotta per l'immortalità contravviene alla rinuncia da parte di tutti ad alcuni diritti naturali in favore delle generazioni successive, cioè è un patto solo tra viventi. La «signoria» della libertà individuale può risultare lecita nel rispetto della norma tra vivi, ma non non risponde alla rinuncia di diritti naturali nei confronti delle future generazioni.