venerdì 15 dicembre 2006

il Riformista 15.12.06
ETICA. CRITERI CONDIVISI E CONDIVISIBILI
Su alcune controversie politico-morali
DI LUIGI MANCONI


Le questioni che qui tratterò hanno, ognuna, uno spessore etico-giuridico assai robusto; e implicazioni particolarmente delicate e talvolta aggrovigliate. E, tuttavia, questo non impedisce che siano trattate sul piano del dibattito pubblico e della decisione politica, a partire da due criteri essenziali e condivisi (meglio: condivisibili).
Il primo criterio teorico-pratico è quello della «riduzione del danno»: ovvero la traduzione in termini politico-sociali di quel principio che, nella teologia e nella morale del cattolicesimo, è il «male minore». Il secondo criterio risiede nella consapevolezza della possibilità di fondare e argomentare in termini etici - non necessariamente di ispirazione religiosa - le opzioni su quei temi controversi e la loro trascrizione normativa.
Questo può aiutare a trovare soluzioni comuni su alcune questioni aperte.
1) Il confine tra cura doverosa e accanimento terapeutico è sottile, lo sappiamo: e spesso incerto. Ma quando una terapia si rivela inequivocabilmente incapace di fermare il progredire devastante del male, di alleviare le sofferenze e di migliorare in qualche misura la qualità di vita del paziente, lì si ha accanimento terapeutico.
E, in presenza di una terapia ostinata e inutile, il codice deontologico dei medici, tutta la giurisprudenza e i protocolli scientifici sono chiari: quella terapia va sospesa. Come affermò l’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, «la rinuncia all’accanimento terapeutico è anche moralmente legittima».
La vicenda di Piergiorgio Welby rientra in quella definizione? A mio avviso, sì. Senza quella macchina, senza il ventilatore polmonare, la sua vita si sarebbe conclusa da tempo e, come dire?, naturalmente. L’intervento del ventilatore si presenta, pertanto, come una protesi, un sussidio meccanico, una strumentazione tecnologica, destinata a prolungare artificialmente la vita di Welby. Questo intervento - utile, e fin provvidenziale, come soluzione d’urgenza e terapia d’emergenza - in una situazione di cronicizzazione, si riduce a motivo di coercizione e afflizione e a fonte di sofferenze.
Interrompere l’attività di quella macchina significa sospendere una terapia fattasi aggressiva e ostile.
Non c’è nulla di utilitaristico in questo ragionamento e non c’è alcuna svalutazione del significato della vita umana. Certo, quella vita può avere un senso e una qualità anche quando non risponde ai parametri economicistici, salutistici e “mondani” della mentalità corrente: ma un corpo che decade progressivamente a sede esclusiva di sofferenze rischia di negare qualunque senso alla sopravvivenza, riducendola a mera perpetuazione del dolore.
Sospendere quel trattamento sanitario è, dunque, ragionevole, pietoso, perfettamente coerente con la nostra Costituzione e, poi, con leggi, regolamenti e codici professionali: e risponde a un’istanza morale, facendosi carico della sofferenza del malato terminale, e delle «scelte tragiche» che quella sofferenza impone.
2) Le tabelle relative alle sostanze stupefacenti sono una questione esclusivamente di natura giuridica, medica, penale e sociale. Di conseguenza, con criteri giuridici, medici, penali e sociali vanno elaborate e valutate. Non certo in base a opzioni morali o religiose. Tali opzioni sono importanti e contano, ma vanno fatte valere altrove e altrimenti rispetto agli ambiti e ai parametri che devono orientare la fissazione di quei limiti tabellari.
Tali limiti, all’interno della normativa vigente, hanno la sola funzione (approssimativa e imperfetta) di indicare un qualche accettabile confine tra detenzione a fini di uso personale e detenzione a fini di spaccio. A questo, e solo a questo, sono funzionali quei limiti.
Fissare quelle soglie massime risponde esclusivamente a un’esigenza di efficacia. Ovvero evitare il carcere, e ciò che comporta, a chi non è spacciatore: così come dichiara di volere la legislazione vigente (Fini-Giovanardi compresa).
Le scelte morali si collocano altrove, e sono legittime e preziose, ma non devono interferire con quei limiti tabellari. Fissare, poniamo, a 5 o a 10 quel tetto non significa disapprovare (se il limite è a 5) o approvare (se è a 10) il consumo di sostanze. Significa permettere che un certo numero di consumatori (se il limite è più alto) o un numero ancora superiore (se il limite è più basso) entri in carcere - contro la ratio della stessa legge, che pure contestiamo.
Dopo di che, superato o ridotto ai minimi termini il rischio detentivo per i consumatori di sostanze, si porrà il problema di elaborare intelligenti e razionali politiche di dissuasione dal consumo: tanto più efficaci quanto più saranno dirette, contemporaneamente, nei confronti delle cosiddette droghe legali (alcol e tabacco). A questo punto, ciascuno farà valere le proprie opzioni morali, le proprie strategie educative, la propria ispirazione anche religiosa.
3) A proposito di coppie di fatto, il punto cruciale mi sembra il seguente: alla famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio si riconosce un progetto, una condivisione di aspettative e di valori e, dunque, una costituzione morale. Cosa, quest’ultima, che si nega alle altre forme di convivenza e che colloca queste, pertanto, in una condizione di inferiorità: innanzitutto morale. E infatti, secondo i sostenitori in buona fede dell’unicità della famiglia tradizionale, le «altre famiglie» possono essere tollerate e, in alcuni casi e per certe prerogative, tutelate: senza riconoscere loro, però, la piena dignità di relazione, dotata di una intenzionalità morale e di un progetto antropologico-sociale. E, ancor prima, senza riconoscerle come famiglie (e, addirittura, senza dirle famiglie). Questo sia nel caso delle famiglie di fatto a composizione eterosessuale, sia nel caso delle unioni omosessuali. Tanto la prima tipologia quanto la seconda vengono considerate come espressione, se non di disordine, di irregolarità (sociale e morale): e, dunque, suscettibili - al più - di venire tollerate (perché diventate fenomeno statisticamente rilevante).
Ma questo non è sufficiente. Non lo è, in primo luogo, rispetto alle trasformazioni avvenute (e da decenni!) nella società italiana; trasformazioni culturali e sociali, che hanno determinato il passaggio da una tipologia di famiglia a una pluralità di forme relazionali e coniugali. Così che - oggi, in Italia - le «nuove famiglie» riguardano milioni di persone e costituiscono il 17% di tutte le aggregazioni familiari.
Ma la tolleranza risulta insufficiente per una seconda (ancora più importante) ragione: perché non tiene conto della grande «trasformazione morale» in atto. Ed è il punto che più mi preme sottolineare.
Quella trasformazione consiste, sostanzialmente, in questo: una gran parte delle famiglie di fatto (eterosessuali e omosessuali) fonda la propria scelta relazionale e coniugale su principi morali. Che non sono, certo, quelli della «morale di maggioranza» (di derivazione religioso-cattolica): ma che, comunque, chiedono riconoscimento e domandano tutela.
A ben vedere, poi, in termini giuridici, i Pacs si limitano a prevedere l’allargamento del numero di cittadini garantiti da alcuni diritti: che sono una parte di quelli attualmente riconosciuti a due persone che contraggono matrimonio. Chi promuove una visione esclusivizzante di quei diritti («Vuoi usufruirne? sposati!») fraintende la sostanza stessa delle libertà cui essi sono preposti. Quella sostanza è positiva e tende a essere universale e generale. Se è vero che l’esercizio di un diritto non può condurre alla violazione di un altro diritto (da qui il principio della «coesistenza dei diritti»), è altresì vero che - come scrive Giuseppe Capograssi - i diritti «sono tra di loro solidali, fanno insieme sistema; nessuno può essere sacrificato col pretesto di arrivare, mediante questo sacrificio, all’appagamento degli altri». Ecco, esemplarmente, un caso in cui si rispettano entrambe le condizioni: riconoscere diritti ai cittadini impegnati in una convivenza duratura e solidale non minaccia i diritti di alcun altro. Per contro, riconoscere quei diritti vuol dire promuovere quel principio di mutualità, fare sistema, ridurre le disparità, garantire tutela e possibilità di convivenza: oltre che tra due persone, tra i cittadini tutti.
Rifiutare ciò è, a mio avviso, un errore grave: significa ignorare domande e comportamenti assai diffusi e significa accogliere una visione della società italiana, propria di alcuni settori più malinconicamente conservatori delle gerarchie ecclesiastiche: ovvero la società italiana come un deserto etico, dove resiste - assediata e clamans - la morale cattolica, quale solo presidio di valori forti. Le cose non stanno affatto così. La crisi della «morale di maggioranza» (che fu di maggioranza) non ha causato un vuoto di valori e di principi - il deserto dell’etica, appunto - ma ha prodotto, al contrario, un pieno di morali. Al plurale: morali di gruppo e di comunità, di subcultura e di tendenza, di minoranze e di identità. E tuttavia morali. Parziali e provvisorie, ma qualificanti e dirimenti per coloro che vi si riconoscono e meritevoli di rispetto e di tutela in una società pluralista.


Repubblica 14.12.06
SE IL FILOSOFO TI ASCOLTA
Dibattiti/ Una forma diffusa di aiuto per chi ha problemi esistenziali
di PIER ALDO ROVATTI


Non si tratta di una cura con i modelli tradizionali
è implicita la critica a un eccesso di tecnicismo
I nuovi Socrati non si ritengono dei terapeuti ma piuttosto "aiutano a pensare" chi si rivolge a loro
Un ricorso non accolto dell'Ordine degli psicologi rilancia la discussione sul senso del "counseling filosofico"

Non c´è dubbio che la filosofia stia attraversando in Italia un momento abbastanza magico. Il fenomeno è singolare. Non riguarda tanto la qualità e l´originalità delle ricerche specialistiche, è piuttosto un aumento dell´interesse generale verso la filosofia stessa (come attestano le piazze affollate dei proliferanti festival e le mille iniziative che si contano nel solco delle cosiddette pratiche filosofiche).
Il fenomeno covava da anni, adesso però esplode in maniera quasi contagiosa e si accompagna alla nascita, un po´ dovunque, di un oggetto alquanto misterioso (la «consulenza filosofica») sul quale convergono - pare - molti desideri. Questa «pratica» è neonata, nel senso che non si regge ancora sulle sue gambe, ma è già avvolta in una nuvola densa di discorsi che si depositano in saggi, libri, dibattiti e relative polemiche, e che sono decisamente sproporzionati rispetto all´entità effettiva della cosa.
Il fenomeno complessivo del boom della filosofia si presta a molte interpretazioni, nonché equivoci, ma è un fatto davanti ai nostri occhi. E´ ingenuo credere che si tratti di una montatura artificiale ai fini particolari del relativo mercato. Vi si manifesta un´esigenza diffusa, certo tutta da analizzare, anche se già vi si legge con buona evidenza il bisogno di affidarsi a qualche fonte, se non proprio di verità, almeno capace di tenere assieme i segmenti sparsi e spesso confusi di ciò che oggi passa nella testa della gente.
Il fenomeno più ristretto della consulenza filosofica nascente si presta a considerazioni più puntuali. Qui, in vari modi, e per adesso più nell´ambito di ciò che si immagina che in quello di ciò che accade, si gira attorno alla parola «terapia», come se stesse diventando disponibile una specie di cura al deficit di senso che tutti lamentano: una cura che ci permetterebbe di evitare lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista, e - chissà - perfino lo psichiatra. Come se - in termini ancora più espliciti - andare dal filosofo (quando e se ciò fosse possibile) ci esimesse da una qualche medicalizzazione, targata psi, del nostro disagio.
Se è questo il cuore della questione, occorre aprire un dibattito serio, non di parte, che cerchi di vedervi le diverse dimensioni. Il piccolo mondo della consulenza filosofica prende le distanze: noi - dicono - andiamo per la nostra strada, non vogliamo curare nessuno, vogliamo solo «aiutare a pensare» con gli strumenti della filosofia chi ne avesse voglia. E dunque, poiché non siamo terapeuti, non invadiamo in alcun modo il campo della psicologia, né abbiamo alcuna intenzione di farlo.
Il grande mondo variegato e complesso della potente psicologia se ne sta per parte sua abbastanza silenzioso. Un episodio, come quello appena conclusosi al tribunale di Trieste con l´assoluzione di un consulente filosofico denunciato dall´Ordine degli psicologi per abuso della professione, non increspa la superficie tranquilla della numerosa comunità. Il giudice ha sentenziato: «Il fatto non sussiste». Ma secondo me non basta un malaccorto e pur sintomatico autogol per cambiare la partita.
E´ infatti risibile prevedere che un esercito di nuovi socrati sloggi gli psicologi dal loro consolidato ruolo sociale, in una società - appunto - che ha integrato nel suo sistema la cura della psiche attraverso un dispositivo di consulenza capillarmente diffuso e in via di ulteriore espansione.
Umberto Galimberti ne ha parlato ampiamente, su questo giornale, nella sua duplice veste di filosofo e di analista, e credo converrà con me che non ci troviamo per nulla in una situazione di congedo dalla psicologia (uso questo termine per denotare l´intero universo psi) e che i consulenti filosofici, con il loro equipaggiamento tecnico così evanescente, non sono certo in grado di rappresentare - anche se lo volessero - una qualche reale concorrenza alla psicologia. Eppure, qualcosa sta accadendo, al di là delle buone intenzioni e delle ragionevoli dichiarazioni che provengono dal piccolo o piccolissimo mondo dei consulenti filosofici.
La filosofia riceve nuovo credito, il che solleva subito tante domande: quale filosofia? Che tipo di filosofi? Per la loro capacità etica? Perché possono chiarificare i nostri pensieri confusi? Ma, se la filosofia riscuote favore, perché comunque sembra in grado di aiutarci, è difficile non vedervi un segnale almeno di perplessità nei confronti dei trattamenti psicologici. La richiesta di aiuto è di per sé un problema.
Cosa dobbiamo infatti pensare di una società, come la nostra, che intensifica la richiesta di un «aiuto» di questo genere? Qualcuno l´ha chiamata «cultura terapeutica» e a me pare una definizione azzeccata. Quello che viene messo in dubbio è se la psicologia possa fornire una risposta davvero convincente.
In un saggio che ho appena pubblicato (La filosofia può curare?, Raffaello Cortina) ho risposto alla domanda contenuta nel titolo che la filosofia può innanzitutto curare se stessa, svestendosi del proprio accademismo e riscoprendo la sua vocazione di esercizio e di pratica pubblica. E´ plausibile una trasformazione dell´insegnamento della filosofia grazie a un bagno di anti-intellettualismo e vedo nella consulenza filosofica, pur con tutte le sue ingenuità, la possibilità di funzionare da pungolo in questo processo.
Mi auguro anche che il topolino testé partorito possa pungolare il gigante della psicologia. Gli psicologi, che per ora osservano curiosi e magari con un sorriso di sussiego quel che sta accadendo, non hanno proprio nulla da temere da quel topolino, ma forse dovrebbero sentir suonare un campanello in casa propria. E chiedersi da dove si origini la perplessità della gente verso le loro pratiche, pur così calzanti alla società di oggi.
E se proprio la filosofia potesse fornire agli psicologi un´occasione autocritica, mettendoli di fronte all´eccessivo tecnicismo delle loro discipline e pratiche? E´ una vecchia questione. Oggi però i termini risultano un po´ diversi, se non altro perché i dispositivi della psicologia sono diventati molto più strutturati e potenti, e la cultura psicologica si è rinforzata e consolidata con criteri «obiettivi» e metodi sperimentali. Non che la psiche sia diventata un oggetto docile e del tutto disponibile. E´ il rapporto tra lo psicologo e il suo oggetto che si è stabilizzato e forse calcificato in un modello di tipo medico-scientifico.
In genere la psicoanalisi ha rappresentato il ventre molle di questo corpo disciplinare, e infatti dalla porta della psicoanalisi sono spesso entrate ventate di rinnovamento filosofico. Ricordo anche che una parte della psichiatria, nel suo dissenso istituzionale, ha dato negli anni Sessanta e Settanta (l´Italia resta un esempio mondiale con le esperienze di Gorizia e di Trieste e la lotta contro i manicomi) una decisa spallata a questo modello e ancora adesso ne costituisce un´antitesi.
E´ davvero un modello vincente? Credo che si stia avvicinando il momento in cui i settori più avvertiti della psicologia debbano porsi davvero questo interrogativo. Non c´è dubbio che nel modello che ho chiamato medico-scientifico, e che oggi è dominante in tutta la cultura psicologica di lingua inglese, ci siano presupposti di pensiero stabilizzati che corrispondono spesso a una sorta di «metafisica ingenua». Una nuova alleanza con la filosofia servirebbe agli psicologi per cominciare a ridiscutere le proprie assunzioni di pensiero, e dunque per riaprire l´orizzonte critico della disciplina mettendo di nuovo al centro la questione del soggetto.
Faccio solo un esempio. Le facoltà di Psicologia, luogo della formazione e laboratorio dei criteri, potrebbero introdurre nei loro piani di studio insegnamenti di filosofia in modo più organico, cioè non solo episodico e complementare come accade adesso. So di non parlare nel deserto poiché questa sensibilità già esiste. E allora c´è da sperare che il fenomeno di cui sto parlando produca qualche effetto virtuoso in questa direzione.
Certo si ritorna al nodo: quale filosofia? Un insegnamento anodino costituito da pacchetti di nozioni lascerebbe le cose come sono. Ci vuole una filosofia critica, rivolta più alla «cura di sé e degli altri» (come direbbe Foucault) e dunque più all´esercizio della soggettività che non alla sistemazione delle conoscenze.

Repubblica 14.12.06
Sul banco degli imputati finisce sempre l'indulto
di ADRIANO SOFRI


Si è saputo che il marocchino era tunisino. Che il convivente della giovane donna italiana di Erba era suo marito. Che il furgone usato da Azouz Marzouk per la fuga e ritrovato poco distante non era stato usato da Marzouk, non è stato ritrovato, e non era un furgone. Che l´assassino della moglie, del figlioletto, della suocera, e della coppia di vicini non era l´uomo che ha perso moglie figlioletto suocera e vicini amici. (È morto anche il cagnolino dei vicini, soffocato dal fumo). Che l´uomo con precedenti penali per rapina e spaccio non aveva precedenti per rapina, bensì solo per piccolo spaccio. Eccetera. Contrordine dunque: sei o sette contrordini. Diramati, in copia conforme, agli inquirenti, ai cronisti, ai direttori di telegiornali e giornali, alla cittadinanza di Erba e del resto d´Italia. Perfino le dichiarazioni dei conoscenti, promosse al rango di titoli, per una volta non avevano ricalcato l´avvilente copione delle stragi domestiche: «Era una brava persona, uno come noi: normale, regolare», anzi, l´aggettivo più sintomatico del nostro tempo, prima del raptus: «Tranquillo, tranquillissimo». No, questa volta l´occhio dei conoscenti si era affinato: «Sapevamo che era violento. Ci aveva minacciati tutti». Contrordine anche per loro. Non aveva minacciato nessuno, benché, come ha avuto la forza di dire ancora in sua difesa quell´ammirevole signor Carlo Castagna prima di scoppiare in pianto, «sapessimo che non era uno stinco di santo».
Nella sequela di contrordini, un punto rimane fermo, dopo ulteriore verifica: l´indulto, anzi, L´INDULTO, così, maiuscolo, come nei titoli a piena pagina. Marzouk è effettivamente uscito grazie all´indulto. Su questo punto cruciale nessuno può sollevare dubbi, a meno che non sia in totale malafede. È uscito grazie all´indulto: dunque, se avesse voluto lui massacrare i suoi e i vicini, grazie all´indulto avrebbe potuto farlo.
A questa constatazione nessuno deve sottrarsi, data la verosimiglianza della supposizione: la stessa verosimiglianza che, nel commento autocritico di un importantissimo giornale, ha caratterizzato «tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista». Sebbene Marzouk non sia il feroce assassino della sua famiglia e dei suoi vicini, era verosimile che lo fosse. Infatti era marocchino e/o tunisino, ed era USCITO PER L´INDULTO. Tiriamola bene la conseguenza, senza maramaldeggiare con l´importantissimo giornale, che almeno ha sbattuto in prima pagina la propria resipiscenza. La conseguenza è che L´INDULTO è la verosimile premessa della più efferata strage famigliare. Peraltro la conseguenza era stata tirata, l´altroieri, senza riserve di verosimiglianza, da fior di campioni della demonizzazione dell´indulto, e dei suoi promotori gelosamente scelti.
Non è che abbia voglia di scherzare, né di affidarmi al sarcasmo. L´indecente e vanesio conformismo pressoché universale sulla vicenda di Erba rischia oltretutto di far passare in second´ordine una tragedia agghiacciante e commovente. Fosse stato quel Marzouk, la si sarebbe esorcizzata e archiviata più facilmente. Adesso, bisogna tornare a guardarci dentro, come quei bravi pompieri che sono intervenuti nella casa pensando a un incendio, e ne sono usciti vomitando. È difficile dire francamente quello che ci passa dentro, ogni volta che le pareti di una casa si spalancano davanti ai nostri occhi, a Novi Ligure o già un´altra volta a Erba, o a Parma e in troppi altri posti, e ci sorprendiamo a sperare che i colpevoli non siano "extracomunitari", come se il caso, del resto così frequente, in cui siano italiani, servisse ad attenuare le nostre paure, e a spuntare le armi dei razzisti.
Ma voglio ora, quando la lezione del contrordine di Erba è così fresca, e induce a maramaldeggiare alla rovescia contro i maramaldi anti-indulto, fare il contrario. Proporre ancora un esercizio di ragionevolezza. Rinunciare per qualche riga al senno di poi, e proporre di ragionare come si sarebbe potuto fare due giorni fa, quando il delitto di Marzouk veniva dato per provato. «Era uscito per l´indulto». Costui era in carcere con una condanna patteggiata a tre anni e mezzo, per spaccio di cocaina. Grazie ai tre anni d´indulto, avendo scontato i sei mesi, ne è uscito (salvo che anche queste informazioni d´ufficio siano smentite) nello scorso agosto. Senza l´indulto, ne sarebbe uscito perché la legge prevede una misura alternativa alla detenzione per i condannati sotto i tre anni (o quattro, se siano tossicodipendenti) che abbiano un domicilio ed eventualmente un lavoro. Senza ottenere - e non si vede perché no - una misura alternativa prima del fine pena, o almeno i tre mesi all´anno di liberazione anticipata prevista per chi tenga una condotta ordinata, sarebbe comunque uscito allo scadere dei tre anni, una volta espiata l´intera pena. I suoi propositi omicidi sarebbero caduti in prescrizione? La sua violenza, capace di spingersi fino a sgozzare il figlioletto, sarebbe stata addomesticata e placata da altri anni, altri mesi di cella? (Qualche altro centinaio di giorni illuminato ognuno, come si è saputo, da una lettera della moglie, qualche decina di settimane illuminate dall´ora di colloquio con lei e il bambino?) Nessuno, avvisato di una nefanda tragedia, può immaginare quali mire assassine possano sorgere o spegnersi nell´animo di un uomo recluso. Ma intitolare: «Ha sterminato la famiglia», e completare: «Era uscito per l´indulto», vuol dire che l´indulto non solo mette in libertà i delinquenti né solo promuove Previti dagli arresti domiciliari all´affidamento ai servizi sociali, ma autorizza e provoca la strage degli innocenti. Anche a non voler vedere la mutilazione della carità, manifesta oggi per tanti altri segni, e più tristemente dove se ne fa professione, c´è in questo una penosa irresponsabilità civile. E dov´è della giustizia che si fa professione, si può sorvolare sulle scarcerazioni davvero pericolose e oltraggiose, procurate non dal maiuscolo indulto, ma dalle minuscole colpose scadenze di termini. Normali, com´è normale che la nomina del primo presidente della Corte suprema finisca con dodici voti a favore e dodici contro, e un astenuto, supremo esempio di equanimità. Il fracasso sull´indulto ha avvelenato le acque. Chi resti attaccato alla ragione e alla pazienza, e non abbia perso la carità in qualche incidente di carriera, misura sui veri effetti dell´indulto - non dunque i mentiti, né i «verosimili» - la convinzione che la reclusione carceraria sia in una larghissima misura superflua, nociva, e cattiva. Ci sarà tempo per tirare le somme.
Né occorre, per opporsi alle strumentalizzazioni e all´allarmismo, farsi troppo buoni e ottimisti. L´amore di Raffaella Castagna merita la commozione, il rispetto e l´inquietudine che anche i suoi famigliari gli avevano dolorosamente riconosciuto. «Lei lo amava» - e questo ha deciso: era giusto così. Lei, e non solo lei, non ha voluto separare una vocazione professionale di educatrice, di assistente, dal sentimento personale. Ha bruciato una distanza di sicurezza. È stata libera di farlo, e questo non può che ispirare solidarietà e rispetto. Chi abbia esperienze simili sa in quante forme, e con quanti rischi, la distanza bruciata che chiamiamo amore pretenda la vita delle persone. Ci sono ragazzi maghrebini che non imparano a sopportare che la "loro" ragazza italiana resti padrona della propria vita. Ce ne sono che se ne aspettano un vantaggio per la loro sistemazione. Ce ne sono che si servono di una dipendenza dalla droga, e fra un carcere e l´altro si passano la compagna italiana. Ce ne sono capaci di un amore che sappia rinunciare a fare da padroni sulla donna italiana, ma incapaci di sopportare che sia sottratta loro la proprietà di un figlio. Sono sentimenti, lo vedete, molto simili a quelli che si trovano ancora fra gli italiani e cristiani "di ceppo", benché acuiti e complicati dalle differenze di lingua, di religione, di abitudini e di educazione. Spesso, a dirimere le guerre private che usurpano l´amore o gli succedono, nessuna persuasione basta, e bisogna chiamare la polizia, e bisogna che la polizia risponda. A volte non si è abbastanza pessimisti da figurarsi quanto possa costare. Da figurarsi, per usare le parole dette ieri da Marzouk, che «siamo diventati bestie, animali»: sapesse o no di chi parlava.