mercoledì 15 novembre 2006

Repubblica 14.11.06
La voce dello straniero
Si apre oggi a Siena un convegno internazionale tra antico e moderno
La troiana Cassandra non capisce Clitennestra
Lo storico Erodoto descrive i trogloditi
Chi viene da un altro paese non ha solo vesti insolite ma parla in modo incomprensibile
I Greci preferivano paragonare quelle lingue ignote al verso o al gemito di un animale
di Maurizio Bettini


Sulla scena dell´Agamennone Cassandra è muta. Seduta sul carro che l´ha trasportata fino alla reggia - il luogo dove il re e lei stessa fra poco saranno assassinati - non sembra udire le parole che le rivolgono Clitennestra e il corifeo. «Forse come una rondine conosce solo un´ignota lingua barbara» commenta la regina. E poi «se non comprendi le mie parole» le dice «e non intendi, fatti capire non con la voce, ma con le tue barbare mani!» «Sembra che costei abbia bisogno di un buon interprete» le fa eco il corifeo «pare una bestia selvaggia appena catturata» «O forse è pazza e ascolta solo il delirio della sua mente!» conclude sdegnata la regina «non mi abbasserò a gettar via altre parole».
Agli occhi, o forse bisognerebbe dire alle orecchie, di Clitennestra, Cassandra oscilla dunque fra animalità e barbarie. La prigioniera Troiana è una rondine, una bestia selvaggia - il suo linguaggio è barbaro, barbari sono perfino i gesti delle sue mani. Ma dunque Cassandra è veramente una pazza, come vorrebbe la regina? No, è semplicemente una straniera che non comprende la lingua in cui le parlano e, a sua volta, ne parla una che gli altri non capiscono. Cassandra è veramente un paradigma della diversità, e lo è non per il suo abbigliamento, i suoi tratti somatici o il modo in cui si comporta, ma per il suo silenzio. In piedi su quel carro la prigioniera Troiana rappresenta la più drammatica delle alterità: quella vocale.
Quando ci si presenta, infatti, lo straniero non è soltanto avvolto da vesti insolite, non ha solo pelle, occhi o viso di colore diverso rispetto ai nostri: è soprattutto prigioniero di una «voce» che non ci appartiene e che lo separa irrimediabilmente da noi. Ma è poi veramente una voce, la sua? I Greci ne hanno dubitato, e spesso hanno concluso che la vocalità dello straniero rassomigliava piuttosto al grido di un animale, al cinguettio di un uccello o al farfugliare sconnesso del balbuziente. Il fatto è che lo straniero risulta sempre molto difficile da «pensare». Sembra così simile a «noi», eppure parla in modo incomprensibile, è identico e diverso nello stesso tempo. In quale categoria si può infilare un soggetto del genere? Visto che trovarne una appropriata è faticoso, meglio assimilarlo a qualcosa che si conosce già: all´animale, per esempio, ossia la creatura vivente che più si avvicina all´uomo senza esserlo; oppure all´essere umano menomato, inferiore, mal riuscito. Proprio come accade a Cassandra, anche se il suo non costituisce certo l´unico caso.
Ancora in Grecia, infatti, le profetesse che davano responsi oracolari a Dodona, in Epiro, venivano chiamate col nome di «colombe». Nell´antichità circolavano varie spiegazioni sui motivi di questa singolare designazione, ma Erodoto non aveva dubbi in proposito: le profetesse venivano chiamate così perché erano di origine egiziana, e dunque si esprimevano in una lingua diversa dal greco. Quando parlavano, queste «colombe» di Zeus davano insomma l´impressione non di proferire parole, ma piuttosto di cantare, anzi di tubare. Il paragone vocale con le colombe è abbastanza gentile, pur se gli antichi sottolineavano volentieri il fatto che questi uccelli, quando cantano, «gemono» in modo pietoso.
Per certo, però, agli Etiopi Trogloditi era andata peggio.
Erodoto, ancora lui, raccontava che nella corsa costoro sono i più veloci fra gli uomini. Si nutrono di serpenti e di lucertole, aggiungeva, e quando parlano usano una lingua che non somiglia a nessun´altra: stridono infatti, come se fossero pipistrelli. Dalle candide colombe siamo passati a volatili ben più sgradevoli e inquietanti. Nella descrizione di Erodoto i Trogloditi vengono dunque definiti (verrebbe quasi da dire: messi al loro posto) in base a due parametri fra i più spietati che esistano: come si parla e quel che si mangia.
Gli esseri umani non mangiano rettili, solo gli animali lo fanno; proprio come gli esseri umani non stridono, ma parlano. Simili a uomini, eppure tanto diversi da loro, agli Etiopi Trogloditi si addice più una voce di pipistrello che non il linguaggio umano.
Oltre ai Trogloditi, per i Greci esisteva anche un´altra categoria di persone, chiamiamole così, che squittiva invece di parlare: i morti. E´ Omero che li descrive a questo modo, ombre vane che svolazzano nell´Ade lanciando le loro strida. Chi ha perso la luce della vita, ha perduto per sempre anche il linguaggio, l´articolazione ha ceduto il posto ad un miserabile squittio. Provatevi dunque a dialogare con i morti! Achille cercò di farlo, quando l´ombra di Patroclo gli apparve in sogno, ma fu un´esperienza terribile e frustrante. Non si può parlare con chi non ha più il senno e, invece di rispondere alle domande che gli si fanno, squittisce alla maniera di un pipistrello. Il fatto è che anche i morti sono degli stranieri, soprattutto quando vorrebbero tornare nel mondo dei vivi. Direi anzi che i morti sono gli stranieri per eccellenza, così simili a noi - hanno vissuto qui fino a ieri, sono stati i nostri padri o i nostri amici - eppure così irrimediabilmente diversi, tanto quanto neppure un Troglodita potrebbe esserlo. Non è forse questo che più ci inquieta dello straniero, il suo mescolare alterità e identità in una sola persona? Ecco perché alla maniera di Cassandra o delle colombe di Dodona, anche i morti, identici e diversi, assumono voce di animale.
Altre volte allo straniero i Greci attribuiscono non la vocalità della bestia, ma quella del balbuziente, essere umano parlante sì, ma dalla lingua difettosa. Questo infatti significa il termine «barbaros», una parola che ha avuto così tanta (mal augurata) fortuna nelle civiltà successive. Chiamare «barbaros» uno straniero significa in pratica affermare quanto segue: costui non parla una lingua sconosciuta; costui sta semplicemente storpiando la mia. Se non fosse balbuziente, insomma, se fosse sano e normale, lo straniero parlerebbe come noi. La cameriera nera di Via col Vento, con i suoi strampalati «Biss Ohara» e «Sì badrona», non sembrava anche lei un po´ balbuziente? Un po´ stupida per certo. Proprio come il «vu´ comprà» che cerca di convincerci a comprare accendini con la sua fonetica zoppicante, o i bambini cinesi che farfugliano le tabelline alla scuola elementare. Prigioniero di una voce che non ci appartiene, allo straniero viene fatta indossare la maschera (sonora) di Tartaglia, e in lingua altrui cade ed incespica là dove, nella propria, correrebbe più spedito di un Etiope.
Che poi anche i confini fra animalità e barbarie (nel senso della balbuzie) sono molto più labili di quanto sembra. Difficilmente si penserebbe, infatti, che quando la Cassandra di Eschilo viene assimilata ad una rondine, non si evocano solo grida e cinguettii, ma anche lingue che si inceppano: invece è proprio così. E anzi, dietro questo paragone c´è addirittura il ricordo potente di un mito.
Si raccontava infatti che Procne, principessa ateniese, era andata sposa a Tereo re dei Traci. Ma costui si era innamorato della sorella di lei, Filomela, e l´aveva violentata; dopo di che, per evitare che potesse raccontare in giro quanto aveva subito, le aveva tagliato la lingua. Nel seguito della vicenda le due sorelle si vendicheranno di Tereo, uccidendo il figlio di lui e di Procne, Itùs, finché Zeus non trasformerà tutti quanti in uccelli. Filomela diverrà dunque una rondine, Tereo un´upupa e Procne un usignolo. I Greci immaginavano dunque la rondine come una creatura dalla lingua mozzata: un uccello balbuziente, che garrisce suoni smozzicati. Per questo il parlare di Cassandra, la rondine, è doppiamente barbaro, la profetessa Troiana è animale e balbuziente in un colpo solo - sventurata Cassandra, nessuno vuol rendersi conto del fatto che lei è semplicemente una donna alla quale, nella grande lotteria delle lingue, è toccata in sorte una parlata diversa dal greco.

Repubblica 14.11.06
Lo spettacolo della seduzione e il dramma della psiche
Narcisisti e schizzati così trionfa l'apparenza
Alienazione Oggi, al pari degli schizofrenici, percepiamo il nostro corpo come qualcosa che costruiamo per renderlo corrispondente ai nostri ideali
di Umberto Galimberti


«Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza» scriveva Nietzsche, ponendo fine alla storia dell´anima che, ideata da Platone per costruire un sapere che non si fondasse sulla precarietà dell´esperienza sensibile ma sulla solidità dei costrutti della mente, era stata poi requisita dalla tradizione cristiana e rigiocata in scenari non più di conoscenza, ma di salvezza.
Oggi, col progressivo venir meno della fede nell´immortalità, in quella sorta di neopaganesimo, non necessariamente anticristiano, che caratterizza la modernità, il corpo riemerge dallo svilimento in cui era stato confinato per tutto il tempo dominato dalla storia dell´anima.
Ma questa riemersione è molto ambigua e per nulla emancipata dalla cultura dell´anima. Infatti, dopo aver declinato la "salvezza" nell´ambito più modesto, ma anche più concreto della "salute", per scongiurare la malattia e la morte non più accompagnata da speranze ultraterrene, il corpo recupera tutte quelle pratiche che un tempo erano dell´anima. Dal digiuno nelle forme ossessive delle diete spinte fino all´anoressia che così da vicino richiama le pratiche ascetiche, agli esercizi fisici che, nella loro ritualità e ripetitività, richiamano gli esercizi spirituali intrisi di sacrificio e mortificazione.
In questo modo il corpo diventa quell´istanza gloriosa, quel santuario ideologico in cui l´uomo consuma gli ultimi resti della sua alienazione. Parlo di "alienazione" perché oggi non "abitiamo" più il nostro corpo, ma, al pari degli schizofrenici, lo percepiamo come altro da noi, come qualcosa che dobbiamo "costruire" per renderlo il più possibile corrispondente ai canoni di salute, forza, bellezza che la nostra cultura diffonde perché si possa essere accettati e per autoaccettarsi. Non più il corpo come "veicolo", ma come "ostacolo" per essere al mondo, se non corrisponde ai criteri fissati dalla moda per essere guardati, appetiti e desiderati.
E tutto si ferma lì, nella clausura di un autismo narcisistico che non approda alla comunicazione, ma alla soddisfazione di essere oggetto di un desiderio che, ripiegandosi su se stesso, celebra la sua perversione.
Finita l´epoca in cui del corpo si sfruttava la forza-lavoro, oggi si sfrutta la forza del suo desiderio, allucinandolo con quei bisogni da soddisfare quali la bellezza, la giovinezza, la salute, la sessualità che sono poi i nuovi valori da vendere. Mobilitato nel processo di appetizione-soddisfazione, il corpo diventa l´oggetto del nostro quotidiano esercizio e sacrificio, per raggiungere quell´ideale che la moda propaga con un imperativo che più categorico non può essere, se è vero che mancare l´ideale fissato equivale, a dir poco, a una sorta di esclusione sociale.
Orientando il desiderio e incanalandolo verso gli imperativi della moda, il corpo finisce, a sua insaputa, col mettere in scena lo spettacolo della se-duzione in vista della pro-duzione. Tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, della sessualità gronda infatti del peso del produttivismo. Dai solarium per abbronzarsi alle palestre per tonificare i muscoli, dalle profumerie dove si vendono le creme più assurde alle saune, ai bagni turchi, ai centri benessere, è tutto un diffondersi di quella "economia libidinale" (per utilizzare in senso traslato una felice espressione di Lyotard) con cui il mercato sfrutta la nostra alienazione dal corpo, la distanza che noi avvertiamo tra come "è" e come "dovrebbe essere". E non è chi non veda che là dove c´è "dovere" c´è morale, e quindi regole di condotta, sacrifici, mortificazioni, rinunce.
Così abbiamo ridotto il nostro corpo a un manichino a disposizione della moda che ogni anno ci veste e ci spoglia con gli abiti che decreta, dove l´accessorio sta per primavera, il mantello sta per mezza stagione, il jeans sta per giovanile. Dove "basta un particolare per dare personalità", "un piccolo nulla per cambiare tutto". E così, conferendo al nulla un potere semantico che si irradia a distanza fino a significare qualsiasi cosa, la moda risolve a buon prezzo problemi di identità che pongono fine all´angosciante interrogativo: «Chi sono?».
Componendo diversamente i tratti vestimentari, in modo da apparire contemporaneamente "dolci e fieri", "rigidi e teneri", "severi e disinvolti", la moda offre ai nostri corpi, resi incerti dalle infinite possibilità di cambiamento che vengono offerte, un sogno di totalità, dove non è necessario scegliere, perché si può essere tutto contemporaneamente. E in modo democratico perché il particolare "non costa niente", per cui, nell´uguaglianza delle borse, la moda consegna ai nostri corpi un´identità (o una maschera) ogni giorno diversa nel rispetto della libertà dei gusti.
Come sempre accade si gioca a quello che non si osa essere. E attraverso la moda si può giocare al potere politico perché la moda è monarca, a quello religioso perché i suoi imperativi hanno il tocco del decalogo, si gioca alla follia perché la moda è irresistibile, alla guerra perché è offensiva, aggressiva e alla fine vincitrice. I suoi decreti non hanno una causa, ma non per questo sono privi di volontà, la sua tirannia produce un universo autarchico in cui i pantaloni scelgono da sé la propria giacca e le gonne la propria lunghezza per dei corpi ridotti a manichini d´appoggio.
Ma anche così abbelliti e costruiti i corpi inesorabilmente invecchiano, e non c´è più la fede nell´anima a garantire una speranza di sopravvivenza. Al suo posto subentra, allora, angosciante e ossessiva, la rincorsa a ritroso nel tempo, per recuperare i tratti della giovinezza perduta attraverso gli interventi chirurgici o gli artifici della cosmesi. E qui il danno che si produce non è da poco se i corpi che invecchiano hanno scarsa visibilità, se esposti alla pubblica vista sono soltanto corpi truccati, rifatti e resi telegenici per garantire un prodotto, sia esso mercantile o politico, dal momento che anche la politica oggi vuole la sua telegenia. La faccia del vecchio, infatti, è un atto di verità, mentre la maschera dietro cui si nasconde un volto, trattato con la chirurgia o con un eccesso di cosmesi, è una falsificazione che lascia trasparire l´insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi alla vista con la propria faccia.
Nel suo disperato tentativo di opporsi alla natura, che vuole l´inesorabile declino degli individui, chi non accetta la vecchiaia è costretto a stare continuamente all´erta per cogliere di giorno in giorno il minimo segno di declino. Ipocondria, ossessività, ansia e depressione diventano le malefiche compagne di viaggio dei suoi giorni, mentre suoi feticci diventano la bilancia, la dieta, la palestra, la profumeria, lo specchio. Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l´esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, ed è per il bene dell´umanità, scrive Hillman, che: «Bisognerebbe proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l´umanità» perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda a quel mito della giovinezza che visualizza la vecchiaia solo come anticamera della morte.
Finché consideriamo ogni ruga, ogni capello che cade o incanutisce, ogni tremito, ogni macchiolina ematica sulla pelle esclusivamente come indizi di declino, affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia.
E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alla nostra mente e scopriremo che tante idee che in noi sono maturate guardando ogni giorno in televisione lo spettacolo della bellezza, della giovinezza, della sessualità e della perfezione corporea, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la qualità della nostra personalità, a cui magari per tutta la vita non abbiamo prestato la minima attenzione, perché sin da quando siamo nati ci hanno insegnato che apparire è più importante che essere. E a questo dogma terribile abbiamo sacrificato il nostro corpo, incaricandolo di rappresentare quello che propriamente non siamo, o addirittura abbiamo evitato di sapere.

Repubblica 14.11.06
Dai Greci a oggi: storia di un concetto
Noi, figure ridotte a semplici cose
di Mario Perniola


Ribellione. Il nostro corpo non è così remissivo e docile come lo immaginiamo. In esso si manifestano delle controvolontà
Riflessi Gli specchi, i ritratti, le fotografie, perfino i film ci rimandano l´immagine del corpo. Creano il canone occidentale della bellezza

A prima vista, sembra che occuparsi dell´anima sia caduto in disuso. È il corpo che tiene la scena; è il corpo l´oggetto d´ogni cura, riguardo, premura. Se ci si occupa dell´anima, lo si fa in fondo in funzione del corpo, per garantire la sua salute, il suo benessere, la sua obbedienza alla nostra volontà. Anzi pare che questa parola non ammetta il plurale: l´unica cosa che m´interessa è il mio corpo e tanto più mi piace, quanto meno si fa sentire come qualcosa d´autonomo e di separato da me, quanto più è lo strumento di cui io posso disporre senza ostacoli o resistenze. Cos´è la salute se non proprio questo dominio sul corpo? Non parlo solo delle malattie vere e proprie: ma anche di quelle controvolontà che portano a mangiare in modo spropositato oppure a digiunare, a dormire troppo oppure a restare insonne, ad essere consumato dal desiderio sessuale oppure a rifuggirlo, a percorrere impetuosamente strade e attraversare paesi oppure a rimanere chiusi in casa con le persiane serrate facendo credere a tutti di essere fuori. E mi limito alle controvolontà più semplici e comuni, che sembrano emergere dalla resistenza del corpo al nostro dominio su di lui.
Il rifiuto moderno di tutto ciò che si oppone alla nostra autonomia soggettiva, come i dispositivi disciplinari dei rituali, finisce con l´essere una ben strana condizione: in realtà, il nostro corpo non è così docile e remissivo come lo immaginiamo. Quelle controvolontà che si manifestano come resistenze al nostro supposto dominio su di lui sono appunto le dipendenze (nei confronti dell´alcool, della droga, del fumo, del sesso, dei tranquillanti, del cibo, del gioco...): esse ci richiamano ad una dimensione più opaca e più inorganica, più legata alle cose che non riesce a dissolversi nella totale ed incondizionata sottomissione all´anima. Fatto sta che questa prima concezione del corpo si esaurisce nell´anima senziente, ed è perciò un modo di esorcizzare la materialità del corpo, il suo essere una cosa che sente.
È stato il poeta francese Paul Valéry ad affermare che esistono almeno tre diverse idee del corpo. La prima è quella che ho già esposto: essa si risolve nel sentimento della nostra presenza. Questo corpo è informe e noi prendiamo coscienza della sua alterità solo quando qualche parte si oppone alla nostra volontà, come quando siamo malati.
Il secondo corpo individuato da Valéry è l´immagine che di lui ci rimandano gli specchi, i ritratti, le fotografie, i film. Esso è appunto forma ed è quindi connesso con le arti visuali. In questo senso, il corpo per eccellenza è quello umano che l´arte classica ha rappresentato in sculture che sono considerate come i canoni occidentali della bellezza. È quello che vediamo invecchiare fino al punto di ridursi in quella rovina in cui non vogliamo più riconoscerci.
Il terzo corpo per Valéry è privo di una qualsiasi unità. E´ il corpo fatto a pezzi dai ferri dell´anatomia. Questa idea del corpo sembra il risultato della tecnica chirurgica moderna. In realtà i Greci dell´epoca omerica non avevano una parola per nominare il corpo nella sua unità: il corpo era percepito come un insieme di membra, una pluralità di parti, come mostrano le raffigurazioni dell´arte vascolare arcaica, nelle quali sono messi in evidenza soprattutto i muscoli delle gambe e delle parti carnose.
Esiste tuttavia per Valéry l´idea di un quarto corpo, che si potrebbe chiamare indifferentemente corpo reale o corpo immaginario. Esso è per lui una costruzione concettuale non dissimile dalle nozioni elaborate dai fisici che spesso sono aldilà o aldiquà dei nostri sensi, della nostra immaginazione e perfino della nostra capacità di comprendere
È questa un´idea a prima vista piuttosto fumosa di corpo. Ma essa proviene dall´insoddisfazione nei confronti delle prime tre idee. Mi sembra che queste non pensino davvero il corpo in quanto corpo. Nella prima ciò che conta è l´anima della quale il corpo è solo lo strumento: va perduta così la dimensione di "cosalità" del corpo, a favore di una concezione spiritualistica il cui centro è costituito dalla coscienza individuale. Nella seconda ciò che conta è l´immagine la quale mi allontana, non meno dell´anima, dall´esperienza della corporeità. Infine la terza idea del corpo pensa le membra come entità autonome, che per gli antichi Greci erano mosse da forze esterne.
Tutte queste idee del corpo lo intendono come una incarnazione del vivente, un insieme di spiritualità e di vitalità. La parola tedesca Leib (corpo), affine a Leben (vita), esprime bene questo legame tra il corpo e l´esperienza di una sopraelevazione ideale. L´intuizione di un quarto corpo si muove in una direzione completamente differente. Essa scorge nella parola latina corpus qualcosa d´irriducibile ad una sublimazione estetico-spirituale, un aspetto più opaco, inorganico e "cosale", che si trova nella parola tedesca Körper; questo è un corpo non solo diverso, ma perfino opposto al Leib, una specie di controcorpo, se per corpo s´intende il corpo vivente. Fatto sta che il modello concettuale che suggerisce l´idea di un quarto corpo non è il corpo vivente, ma piuttosto la cosa, quindi non un oggetto, che implica l´esistenza di un soggetto (e perciò ci fa ricadere nella prima idea del corpo inteso come strumento dell´anima), ma proprio l´esperienza di una cosa che sente in modo impersonale.

Repubblica 15.11.06
Il Grand re-tour approda a Roma e discute sull'anima
Raffaello e l'Indemoniato
Cos'è la fede negli uomini praticanti ma non credenti
Redenzione e dannazione da Caravaggio a Pasolini
di Claudio Strinati


Il Grand Re-Tour organizzato nell´ambito della manifestazione "Torino capitale mondiale del libro con Roma" approda appunto a Roma (oggi e domani al Tempio di Adriano) dopo un programma convegnistico colossale, partito il 29 maggio di quest´anno da Catania, che si concluderà a Milano nell´aprile 2007. Ogni città ha un tema da sviluppare, appropriato alla sua storia. Roma ha quello delle Anime.
Redenzione e dannazione da Caravaggio a Pasolini. Questo accostamento è diventato ormai proverbiale data la competenza storico-artistica di Pasolini, allievo di Longhi, che visse il fatto figurativo con un coinvolgimento potente che lo spinse sia alla citazione, come ne La ricotta sia alla rievocazione filologicamente fondata come nel Decameron. Il tormento atroce dell´anima disperata che aspira dantescamente alla Redenzione è ovviamente caravaggesco e spetta, con la stessa forza, la stessa angoscia e la stessa cosmica potenza a un poeta come Pasolini. C´è qualche cosa di autenticamente romano in questo sconcerto che non conosce speranza, forse proprio perché curiale e talora ostentatamente popolaresco, nella sede stessa dell´ossequio burocratico a principi in cui nessuno può credere perché è arduo l´atto in sé del credere nella Fede, qualunque essa sia, ove intimamente e personalmente cercata.
Nelle arti figurative un tale disagio insuperabile del rovello religioso è emerso sul serio nella civiltà romana del Rinascimento e ha avuto le sue logiche conseguenze nelle generazioni successive fino al Caravaggio, interprete supremo di questa umanissima e insondabile situazione.
Fu, però, Raffaello Sanzio a trattare la questione della Fede negli uomini praticanti ma non credenti. Osò, infatti, affrontare l´argomento con una presa di posizione autonoma, sia pure su sollecitazione del cardinale Giulio de´ Medici che gli chiedeva di dipingere una grande pala d´altare per la cattedrale di Narbonne di cui era titolare, con la Trasfigurazione di Cristo, uno degli episodi più oscuri e preoccupanti dei Vangeli canonici. Raffaello osò quello che più volte nella sua vita di pittore papale aveva adombrato, cioè una interpretazione critica «coperta» delle Sacre Scritture in cui presumibilmente credeva ma senza vera convinzione dottrinale. Matteo (17) dice che Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse sopra un alto monte dove fu trasfigurato e conversò con Mosè e Elia, spiegando come il Battista fosse il novello Elia.
Scese poi verso la folla e un uomo gli disse che suo figlio era epilettico e posseduto dal Diavolo ma i discepoli del Redentore non l´avevano guarito. Cristo lo guarì e i discepoli chiesero: «perché noi non abbiamo potuto espellere il Demonio?», «perché avete poca Fede» rispose il Cristo. Raffaello doveva, dunque, raffigurare la Trasfigurazione. Era il 1519 e sarebbe morto l´anno dopo appena completata l´opera che ora è ai Musei Vaticani. Il dipinto, formidabile, non rappresenta solo la Trasfigurazione vera e propria ma anche la scena del fanciullo indemoniato nella zona sottostante. Cristo, però, non è presente in quella zona sottostante.
Il fanciullo indemoniato guarda verso l´alto e non vede nulla, restando immobilizzato nel suo stato di tormentosa dannazione. Nel quadro il miracolo sta avvenendo, certo, ma non è compiuto. Da appena due anni Lutero aveva scatenato il suo attacco senza precedenti contro la Chiesa romana prendendo spunto dalla questione della vendita delle Indulgenze che il papato consentiva e incoraggiava per finanziare i lavori di rifacimento di s. Pietro. Si vendeva la Redenzione, calpestando la dignità e la grandezza della lezione di Cristo. Lutero sosteneva la tesi che la Dannazione venisse proprio dalla Chiesa, strumento del Demonio e veicolo di condanna per l´Umanità. Si racconta che il cardinale Giulio de´ Medici avesse scelto di mettere in gara i due massimi pittori del tempo per scegliere l´opera più bella per la sua Cattedrale e chiese anche a Sebastiano del Piombo di eseguire una gran pala d´altare, con il soggetto della Resurrezione di Lazzaro.
Il cardinale chiese opere che avessero come protagonista il Cristo, in una Roma dove si faceva arte religiosa pressoché quotidianamente ma il personaggio del Cristo era scomparso dall´orizzonte dei pittori. Fu dunque una vera e audace novità quella di commissionare un´opera d´arte a destinazione chiesastica con il Cristo come argomento. Cristo era stato dimenticato e questo diceva Lutero. Il cardinale aveva indicato due soggetti iniziatici, la Trasfigurazione e la Resurrezione di Lazzaro, che trattano proprio la questione della speranza della rinascita e l´angoscia riguardante la volontarietà dei poteri del Cristo. Può Cristo interrompere il corso naturale della vita e della morte, in quanto Redentore dell´Umanità che attende il riscatto dal peccato? La tenebra più opprimente e terrificante incombe, infatti, sul quadro immane di Sebastiano del Piombo mentre Cristo e Lazzaro si confrontano gravati da un peso intollerabile. Le due cerimonie iniziatiche mostrano la faccia oscura e inquieta di una crisi irreversibile. Sono uomini di poca Fede quelli che lavorano sul tema sacro e lo dichiarano nel linguaggio artistico.
Né la Trasfigurazione né la Resurrezione di Lazzaro sono quadri integralmente bellissimi. La Redenzione è bellezza luminosa, nella tesi figurativa di Raffaello, mentre la Dannazione è l´oscurità e il male. Per la prima volta, forse, entrambi questi artisti non esitano a affrontare l´argomento del brutto, del duro, del difficile. I titani di Sebastiano, crollati sotto il peso della loro stessa energia, non sono meno incresciosi, dal punto di vista del linguaggio pittorico, delle crude e nitide figure nella parte inferiore della Trasfigurazione. Il miracolo non avviene e il senso di un «divino possibile» penetra nella materia più sorda e inerte. Piaccia o no anche questo è il Rinascimento romano.

Aprileonline 12.11.06
"Un processo nuovo"
di Emiliano Sbaraglia


Al Teatro della Fiera di Roma tutto esaurito per la presentazione del "Manifesto" proposto da quel popolo dei Ds che non vuole confluire nel Partito Democratico, nel nome del socialismo europeo e di una nuova sinistra italiana

"Oggi a Roma c'è una novità importante. Il Correntone non c'è più".
Comincia così Fabio Mussi questo pomeriggio al Teatro della Fiera di Roma, gremito in ogni ordine di posto, la sua presentazione del "Manifesto" elaborato dalla Sinistra Ds, una sigla che in questa occasione raccoglie tutte quelle energie all'interno dei Democratici di sinistra, che malgrado le pressioni dei vertici del partito non riescono ad accettare la scelta di aderire al Parito democratico senza una discussione profonda e sincera.

La relazione di Mussi è diretta ed efficace, mira al cuore della questione. "Nessuno osi chiamarci scissionisti; quello che chiediamo è democrazia, un fattore non di poco conto che ultimamente nel nostro ultimamente è venuto a mancare". Gli applausi della platea sono convinti. Ma il ministro non dimentica il ruolo istituzionale attualmente ricoperto, ricordando l'amicizia e il sostegno al governo Prodi, l'apprezzata politica estera intrapresa da Massimo D'Alema, e dedicando un passaggio anche alla sua battaglia interna all'esecutivo per il taglio ai fondi destinati all'università e alla ricerca. Qui gli applausi sono meno spontanei, l'argomento è di quelli che scottano; viene apprezzata la coerenza di mettersi in discussione, ma la posizione della signora Montalcini viene evocata non solo sul palco. L'attacco conclusivo però riaccende gli animi: "Non si può accettare la cancellazione della parola socialismo nel panorama politico italiano, laddove in Europa il socialismo è una realtà, di cui noi vogliamo far parte. Per questo proporremo una mozione al Congresso di primavera: per costruire un socialismo del futuro, per vincere il Congresso. Oggi si è aperto un processo nuovo".
Massiccia la presenza del sindacato, tanti i segretari confederali, ma anche i regionali e i dirigenti delle Camere del Lavoro. Gli interventi si susseguono, dalla giovane insegnante della scuola di Scampia ai giovani rappresentanti del precariato e delle coppie di fatto. Un dato importante: sono molte le donne che qui trovano lo spazio per esprimersi, Fulvia Bandoli è una di queste, e come al solito le sue parole sono precise quanto decise. I temi sono quelli del lavoro, dell'uguaglianza tra sessi, della lotta per la sopravvivenza della specie umana, sempre più minacciata da un mercato globale postideologico, del tutto indifferente ai rischi di una indiscriminata speculazione delle risorse vitali del pianeta.
Arriva il momento di Cesare Salvi, che in linea con quanto detto da Mussi sceglie come destinatari del suo discorso proprio il segretario Fassino e il presidente D'Alema.
"Come ricordato da Mussi, sia il presidente del Senato Marini che il vicepresidente del Consiglio Rutelli in questi giorni hanno apertamente escluso la possibilità di un ingresso del futuro Pd nel Pse, e io rispetto le loro decisioni. Per questo rivolgiamo due domande chiare al presidente D'Alema e al segretario Fassino, alle quali si può rispondere altrettanto chiaramente con un sì o con un no: il prossimo Congresso dei Ds sarà l'ultimo del partito? E il Partito Democratico entrerà nel Pse? Perché queste cose non si possono decidere dopo un Congresso già impostato unidirezionalmente, si devono discutere prima. E tutti insieme. Perché la posta in gioco è quella di una visione politica che punti alle prerogative ineludibili di un socialosmo moderno ed europeo, denso di storia e tradizione".
La chiusura di Salvi introduce la sorprendente riflessione di Giovanni Pieraccini, classe 1918, che ripercorre la nascita popolare del socialismo italiano, datata 1892, e i valori fondanti della Costituzione, riscuotendo l'ovazione di un parterre ammirato e commosso. In prima fila ad ascoltare c'è Reichlin (forse andato via troppo presto...), ma anche Tortorella, Cossutta, Migliore. La partecipazione collettiva si tocca con mano e indica che la giornata di oggi segna veramente un punto di partenza importante, dalle prospettive concrete. Un'impressione ricevuta e dichiarata anche da Valdo Spini, che ribadisce la diversità del progetto - Ulivo rispetto all'algida sovvrapposizione tra Ds e Margherita; da qui l'inevitabile impegno per la costituzione di un soggetto politico diverso, alternativo, che non perda di vista le fibrillazioni in seno a formazioni politiche teoricamente affini, come lo Sdi di Boselli in aperta rotta di coallsione con i radicali della Rosa nel pugno.
Il finale viene affidato a un'altra donna, Pasqualina Napoletano, che di socialismo europeo se ne intende. Anche dalla sua voce arriva l'appello per costruire una forza collettiva, che raccolga e rappresenti tutti coloro che una certa sinistra italiana non vogliono proprio lasciarla morire tra le pieghe di un progetto politico vacuo e ambiguo, fino ad ora destabilizzante più che funzionale agli equilibri della stessa attuale maggioranza.
Cala il sipario, tra proclami lanciati in libertà ("oggi è solo l'inizio...") e una palpabile soddisfazione di tutti.
La giornata al Teatro della Fiera di Roma ha dimostrato il desiderio condiviso di un cambiamento, la voglia di partecipare attivamente a un processo di rinnovamento politico, pur tenendo ancora sostanzialmente al di fuori del dibattito le eventuali prospettive di raccordo non tanto con il futuro Partito Democratico, quanto con le potenziali soluzioni possibili nell'eventuale costituzione di una Federazione della sinistra italiana, anch'essa rivolta all'Europa. Ma per oggi va bene così. Il confronto all'interno dei ds e all'esterno, con un nuovo progetto politico, può iniziare da domani.

Libertà 14.11.06
Bellocchio, pronta la scuola di regia


Piacenza - Prende corpo il sogno di Marco Bellocchio di proporre a Piacenza una scuola di regia cinematografica sull'onda dei seminari estivi che da diversi anni il cineasta piacentino tiene a Bobbio sotto l'etichetta di Farecinema.
Sono aperte infatti le iscrizioni, che si chiuderanno il 18 novembre, al corso di regia, che verrà realizzato proprio a Bobbio, con la direzione dello stesso Bellocchio. Il corso ha l'obiettivo di mettere in grado gli allievi di concepire ed analizzare una sceneggiatura e progettarne la realizzazione, programmare e dirigere la realizzazione della rappresentazione e delle riprese, progettare e collaborare alla realizzazione del montaggio delle scene girate.
Il progetto, che ha una durata globale di 500 ore è suddiviso in quattro fasi: "Dal soggetto alla rappresentazione", "La rappresentazione e le riprese",
"Il montaggio" e "Edizione, distribuzione e promozione dei prodotti cinematografici e teatrali".
Il corso rientra in un progetto finanziato dalla Regione Emilia-Romagna tra quelli riguardanti figure di alta professionalità nell'ambito artistico e sarà realizzato dal Centro Itard in collaborazione con il Comune di Bobbio e l'adesione della Provincia di Piacenza.
L'attività didattica prevede momenti d'aula che saranno condotti da esponenti di spicco della cinematografia italiana, nella scia di quanto già sperimentato nei laboratori estivi che hanno visto la collaborazione di sceneggiatori come Stefano Rulli, Domenico Starnone, Gloria Malatesta, Claudia Sbarigia, Vincenzo Cerami, registi emergenti e affermati come Fulvio Ottaviano, i Manetti Brothers, Piergiorgio Gay, Edoardo Winspeare, Francesco Maselli, Francesca Comencini, Mimmo Calopresti, Emanuele Crialese, Franco Battiato.
Sono previsti anche momenti di esercitazione dove gli allievi sperimenteranno la propria creatività, producendo praticamente ciò che viene concepito in aula e verificandolo poi con i docenti: una vera e propria "scuola", come la intendevano i grandi artisti del Rinascimento, dove il fare esperienza è al centro della crescita professionale e l'insegnamento è legato alla condivisione di esperienze con maestri che hanno realizzato opere importanti.
Il progetto è finanziato dalla Regione tramite il meccanismo dei voucher. Il costo per partecipante è di 8.000 euro. Chi sarà selezionato, tra quelli che avranno chiesto di partecipare, riceverà un finanziamento dalla Regione che coprirà 5.600 euro. Il resto dovrà essere versato dal partecipante come quota di iscrizione.
Il corso è riservato a 15 allievi che saranno selezionati, tra chi avrà richiesto di partecipare, da una commissione formata dagli organizzatori e da esperti.
Per chi voglia intraprendere questa difficile professione è un'occasione unica per sviluppare le competenze necessarie nel rapporto con maestri del cinema.
Il corso inizierà il 13 dicembre e fino al 17 avrà luogo il primo stage con la presenza di Bellocchio e di uno sceneggiatore che spiegheranno il meccanismo del corso ai partecipanti.
Sostanzialmente si tratta di 7 stage di 5 giorni l'uno, da tenersi a Bobbio, che comprendono lezioni delle varie materie e verifiche del lavoro fatto. Queste lezioni, cui prendono parte i docenti che saranno scelti nei prossimi giorni, sono intervallate dal project work, un ciclo di 6 stage da dicembre a maggio in cui i partecipanti lavorano in gruppi e autonomamente ai loro progetti.
Per informazioni e iscrizioni ci si può rivolgere alla sede centrale di Itard Piacenza, in via Amaldi, 5
(tel. 0523-754619, fax 0523-751473, www.itard.it). Ovviamente un occhio di riguardo sarà rivolto ai parteicpanti che risiedono in regione.
red. sp.

l'Unità 15.11.06
Sul Vaticano non si può scherzare
Don Georg, segretario del Papa, contro Fiorello e Crozza: la smettano subito
Anche i cardinali Poupard, Kasper e Tonini all’attacco: rispetto per Ratzinger
Dopo l’Avvenire ormai è una crociata contro la satira. E la destra si accoda
di Roberto Brunelli


Voi ridete pure, ma sappiate che il Vaticano vibra di rabbia. In campo ci sono ben tre porporati, il segretario personale del Papa e una bella fetta del mondo politico. Oggi, per la precisione, questa rabbia ha il volto duro di padre Georg, segretario personale di Benedetto XVI. Sotto attacco gli sberleffi, le risate sguaiate, le reiterate battute rivolte a lui e al Papa da alcuni professionisti italiani dell’irrisione. Altrettanto duri i cardinali Poupard, Kasper e Tonini. I colpevoli sono Fiorello, Maurizio Crozza, Luciana Littizzetto.

L MESSAGGIO È SEMPLICE ed efficace: la Chiesa non può esser soggetta a satira. L’altro giorno era stato il quotidiano della Cei, l’Avvenire, a scagliarsi contro quella che definiva una «satira fallimentare non priva di vigliaccheria». Ieri è toccato a lui, padre
Georg Gaenswein, segretario particolare del pontefice, bavarese, 50 anni, già docente alla Pontificia Università della Santa Croce, a lanciare i suoi strali: padre Georg spera che quegli sberleffi irriguardosi che inondano i teleschermi e le radio italiane dalle frequenze di Radio2, di La7 e di Rai3 «smettano subito».
Trasmissioni che il sacerdote però ha ammesso di non aver mai visto. «Né le guarderò mai», aggiunge. Anzi, «queste cose non hanno livello intellettuale e offendono gli uomini di Chiesa». E a chi gli chiede se il Papa medesimo abbia fatto dei commenti al riguardo, il sacerdote risponde: «Un commento del Santo Padre o una sua qualunque reazione sarebbe davvero troppo onore per questa gente». Amen.
Una dichiarazione che pare aver rafforzato un malumore già diffuso nelle stanze vaticane. Addirittura, a prendersela con Fiorello & co, sempre a video e radio spente, c’è anche il cardinale Paul Poupard, presidente del pontificio consiglio per la cultura: dice che ci sono «valori che non si toccano» e parla di «cose che offendono non soltanto un cristiano o un credente, ma una persona». Il cardinale Walter Kasper arriva a temere che «si distrugga tutto», e che a forza di satira sul Papa si finisce per creare «una società del ridicolo». Chiude Ersilio Tonini: «La satira deve portare con sé il rispetto: quella vera ha dei valori da mettere in risalto, quella stupida colpisce in alto per sentirsi grande, ma non capisce che prendere in giro il Papa non è segno di grandezza». Conclusione secca e senza possibilità d’appello: «Sono anime grette e niente di più». Di nuovo: Amen.
Par di capire, insomma, che la Luciana Littizzetto che chiede in regalo il calendario di padre Georg, o l’imitazione di Ratzinger ad opera di Crozza e le battute di Fiorello sul solito padre Georg rampante e modaiolo precipiteranno il mondo contemporaneo nell’anarchia. Non a caso è proprio dall’Avvenire che partono ulteriori strali. Interpellato all’uopo dal Tg2, il direttore del giornale della Cei, Dino Boffo, si scatena: «Credo che questa satira volgare nasconda una punta di vigliaccheria: si bersaglia un uomo che non può difendersi per la natura stessa della sua alta missione... certo, i diritti della satira sono fuori discussione, ma la satira ha anche dei doveri che si incontrano con il diritto dei cittadini a essere rispettati nei sentimenti più profondi. Mi chiedo se oggi c’è bisogno di una satira che offende il paese. Ne risente il sentimento stesso della democrazia».
I tre responsabili di tanto sfascio cuturale e sociale per ora sono chiusi nel silenzio. E mentre il direttore di Radio2, Sergio Valzania, nel cercare di arginare l’ondata di piena cerca di minimizzare («È tutto un misunderstanding!»), la destra si mette l’elmetto: Forza Italia, con Angelo Sanza, arriva a dichiarare che bisogna prendere «esempio dall’Islam per difendere le nostre radici», e conclude parlando di «satira inopportuna e diseducativa». Pasqualino Giuditta, Popolari-Udeur, chiede «più moderazione». «Un po’ più di rispetto» lo chiede anche Giorgia Meloni di An, e il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa parla di «satira sgarbata che offende i credenti». Ma neppure la Margherita ama che «gli artisti, i comici in particolare» dicano ciò che vogliono: sostiene Donato Mosella che essi debbono «darsi delle regole». Massimo Donadi, dell’Italia dei Valori, esclama: «Serve misura!».
Tocca ad uno sconsolato Carlo Leoni, vicepresidente Ds alla Camera, ricordare che «nelle società moderne evolute» la satira è «una delle forme attraverso le quali, da sempre, si esprime la libertà di pensiero e di critica». Il «giovane socialista» Francesco Mosca fa una battuta: «Don Georg si faccia una risata». Capezzone si augura che «non sia necessaria una bolla papale per continuare a fare satira».
Voi ridete, ma al caustico vignettista Vincino non viene tanto da ridere. «Qui si dimentica che l’Italia nasce con la lotta contro lo Stato della Chiesa. I giornali di fine ‘800 e inizio secolo erano pesantissimi al riguardo. Negli anni passati abbiamo fatto satira più pesante su Wojtyla, con Il Male, con Cuore, su Tango». E ora che la satira e la libertà d’espressione sono sotto attacco che pensa di fare? «Noi dobbiamo fare la nostra parte. Anzi, siamo troppo delicati, bisogna andarci molto, molto più pesanti e molto più a fondo». La benedizione di padre Georg, però, se la può scordare.

l'Unità 15.11.06
Indulto: il Dap sballa i numeri, la destra si scatena
L’amministrazione penitenziaria spara: uscite quasi 30mila persone. Prodi dice: «Numeri falsi»
E in serata Mastella ammette: «In un ufficio del ministero hanno mischiato pere e carciofi»


17.449 sono i detenuti usciti dal carcere per effetto dell’indulto, un numero perfettamente in linea con le previsioni fornite dal governo in luglio al momento dell’approvazione della legge di concessione. Eppure, per almeno tre ore, ieri pomeriggio si è assistito ad
una furibonda grandinata di accuse partita dai banchi dell’opposizione in virtù di cifre diffuse nel primo pomeriggio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia che fissavano a quota 29507 il totale di coloro che erano usciti dal carcere per l’indulto. E a nulla erano valse le perplessità su quei numeri espresse persino dal sottosegretario alla Giustizia Luigi Scotti nel corso della riunione della commissione Giustizia della Camera: dal centrodestra il «tiro al piccione» si è scatenato con una violenza inaudita, con la Lega a far da capopopolo. Arrivando persino ad accusare il governo, ed in primis il premier Prodi, di aver ingannato gli italiani con le stime presentate a luglio e smentite poi dai dati del Dap.
Peccato che quei dati, come poi dimostrato da via Arenula, erano frutto di un errore marchiano di calcolo che ne aveva completamente falsato la consistenza. Esattamente quello che esponenti della maggioranza (su tutti il diessino Massimo Brutti e Peppino Di Lello di Rc) avevano subito denunciato in commissione. Ed era toccato a Prodi in persona, da Algeri, intervenire per spiegare che quei dati «non erano esatti» e che comunque era singolare che fra coloro che accusavano il governo ci fossero anche quei partiti che l’indulto lo avevano votato. «Dichiarazioni imbarazzanti», le aveva bollate l’ex sottosegretario forzista Jole Santelli, mentre Alfredo Mantovano (An) chiedeva al premier di riferire in aula sulle conseguenze dell’indulto. «L’unico a non essere esatto è Prodi - rincarava la dose l’ex ministro Castelli - hanno mentito agli italiani».
Peccato che i dubbi espressi erano in realtà più che fondati ed era proprio il ministero della Giustizia a smentirli con una nota diramata in gran fretta in serata. «L’ultima rilevazione statistica - spiegavano infatti da via Arenula - faceva attestare le immediate scarcerazioni a 15750. Tale stima è stata confermata, perché il numero dei definiti che hanno immediatamente fruito dell’indulto si aggira intorno alle 15500 unità. A costoro si sono poi aggiunti circa 2000 reclusi che hanno via via maturato il fine-pena per l’applicazione del beneficio. Il numero complessivo delle persone che sono state scarcerate perché hanno beneficiato dell’indulto - è scritto nella notte - dunque pari a 17.449 unità, ed ha confermato in pieno la stima effettuata». A causare l’errore, infatti, era stato un dato (quello relativo alle persone sottoposte a misure cautelari che avevano riacquistato la libertà) che senza motivo era stato sommato al computo. Un errore, come volevasi dimostrare. Perché, come ha spiegato il ministro della Giustizia Mastella, «non si possono sommare le pere con i carciofi». «Un’ingenuità tecnica degli uffici di un sottosegretario - ha spiegato Mastella - ha creato un equivoco immediatamente chiarito. La polemica della Lega è pretestuosa. Anche perché qualunque dato relativo all’indulto è frutto di una legge approvata a stragrande maggioranza dal Parlamento».ma.so.

Liberazione 15.11.06
Contro Crozza, Fiorello e Littizzetto in campo il segretario di Ratzinger
Vaticano come l’Islam estremo
“Vietato scherzare sul papa”
di Fulvio Fania


Città del Vaticano. Vade retro Crozza. E poi Fiorello. E ancora Littizzetto e l’intera brigata dei comici che si permettono di fare satira sul papa. E che non risparmiano neppure il suo segretario. E’ proprio lui, preso di mira da una caricatura radiofonica che ne enfatizza la fama di prete bello e sportivo, a reagire con durezza aggiungendo così un bel po’ di fuoco alle polveri già sparate dal quotidiano dei vescovi Avvenire. I due corsivi apparsi sabato scorso sul giornale della Cei, che tra l’altro facevano seguito alle severe reprimemde dell’associazione cattolica degli spettatori Aiart, indicavano l’avvio di una vera e propria campagna contro la satira da parte della chiesa in Italia. Adesso don Georg Genswein, che è tedesco e soprattutto segretario di Benedetto XVI, la fa balzare urbi et orbi. «Queste trasmissioni non sono accettabili», sentenzia il più stretto collaboratore di papa Ratzinger, «spero davvero che smettano». E precisa che devono smettere «subito». Più che sperarlo sembra quasi ordinarlo. Eppure don Georg, quegli spettacoli, dice di non averli mai visti e anzi promette che non li guarderà mai. Ciò non gli impedisce di «prendere atto della polemica» e di bollarli senza remore tra le «cose che non hanno livello intellettuale e offendono uomini di chiesa». Uomini di chiesa, mica soltanto il papa. Genswein conclude che «vuole dimenticare» questa faccenda ma in quello stesso istante la fa esplodere ancora più grande.

Qualche cardinale di Curia gli va dietro. Il “ministro” vaticano per la cultura Paul Poupard, il quale essendo francese preferisce seguire le tv d’Oltralpe, giudica la satira su Benedetto XVI un «fenomeno di degrado». «I credenti soffrono - afferma - se il papa viene trattato male». Il cardinale Walter Kasper, connazionale di Ratzinger, gli fa eco: «Una certa autorità va rispettata, altrimenti si distrugge tutto» e l’autorità del pontefice, oltre che religiosa, è «morale».

La Sala stampa vaticana, invece, preferisce trincerarsi dietro un no comment. «Non credo che diremo nulla al riguardo| - afferma padre Federico Lombardi. Meglio non amplificare ulteriormente le dichiarazioni di don Georg, il quale non è nuovo a lasciarsi andare a confessioni in libertà. Non ha forse aggiunto lui stesso che Ratzinger ha evitato giudizi sull’argomento e che «qualunque reazione papale farebbe troppo onore a questa gente», cioè ai disprezzati comici?

Ma una certa voglia di censura cova nei sacri palazzi e trova alimento nel confronto con l’Islam. “Avvenire” cavalca questo argomento. In un suo editoriale Giuseppe Della Torre, rettore della Lumsa, ha accusato Crozza e compagni «di una certa vigliaccheria» perché se la prendono col papa e lasciano stare i musulmani.

Alla irritazione di sempre per la satira considerata come “anticattolica” le gerarchie aggiungono le tensioni del presente. E’ come se Crozza e Fiorello finissero nel tritacarne di contraddizioni in cui è incappata la stessa Chiesa.

Una vignetta danese che raffigurava Maometto come terrorista ha infiammato la protesta del mondo islamico. Di fronte a questo episodio Benedetto XVI ha ripetuto in diverse occasioni che non si devono offendere i simboli e i sentimenti religiosi altrui. La sua critica all’Occidente comprende appunto una presunta tendenza a deridere la fede e comunque a fare a meno di Dio. E se c’era una cosa che Ratzinger teneva a comunicare con i discorsi pronunciati in Germania era proprio che l’Occidente dovrebbe riconoscere il valore pubblico della religione e che senza farlo non potrà essere compreso dal resto del mondo, che è invece caratterizzato da una forte identità religiosa. Però alla fine, quasi per contrappasso, è stato proprio Ratzinger a suscitare nuovamente le ire islamiche con una sua citazione dell’imperatore Paleologo che descrive Maometto quale portatore di cose cattive e disumane.

D’altra parte se non si possono prendere in giro i simboli religiosi della divinità, ciò deve comprendere sicuramente anche la figura del papa?

Era già successo che del pontefice fosse proibito ridere. Un tempo la censura radiotelevisiva bloccava i comici alla fonte, poi fu Benigni a inciampare nelle condanne curiali per il suo famoso “Wojtylaccio” e ancor più per le sue frecciate contro la morale sessuale proclamata dal papa. Ora Benigni, forte dei suoi cantici del Paradiso dantesco, va ospite d’onore anche tra gli invitati della diocesi di Terni, e la Chiesa lo ha definitivamente assolto per essere stato a suo tempo frainteso. Acqua passata, dunque. Solo per lui. Ora tocca agli altri.

Le critiche di “Avvenire” mescolano le censure di principio ai giudizi estetici, che ovviamente sono sempre opinabili. Il Ratzinger di Crozza, magari un po’ lontano dal personaggio e dai suoi punti deboli reali, viene usato dal quotidiano dei vescovi come pretesto per concludere categoricamente: «Se questo è il circo, giù le mai dal papa e se proprio dovete allungarle fatelo con delicatezza». Tuttavia il segretario di Benedetto XVI non digerisce neppure l’efficace caricatura con cui Fiorello e Baldini lo beffano ogni giorno su Radiodue: un avvenente prete, cinquant’anni indossati ottimamente, che ama il tennis e lo sci, e si dimentica perfino del papa in Turchia perché per quei giorni ha fissato una vacanza sul Mar Rosso. Probabilmente anche dietro le compassate mura vaticane qualcuno ha riso per quelle scenette. Il “bel” Georg ovviamente è stato un facile richiamo per la stampa rosa, però non tutti in Vaticano hanno apprezzato la lunga intervista che il segretario del Papa ha rilasciato all’edizione tedesca di “Radiovaticana” in occasione del suo cinquantesimo compleanno, un testo personalissimo anche sui suoi umani sentimenti giovanili verso le ragazze, prima di farsi prete.

Più seria è la pressione che diversi esponenti del centro-destra sono stati subito pronti a rilanciare per una censura delle satire sul papa. «Satira inopportuna», sostiene Angelo Sanza per Forza Italia, invitando a «prendere esempio dall’Islam per difendere le nostre radici». Addirittura. Più soft il commento della parlamentare di An Giorgia Meloni: «C’è satira e satira - sostiene - ma quella sul papa non è bella». Alla tentazione di cucire le bocche scomode replica il segretario del Prc Franco Giordano che dichiara: «La satira è libertà di espressione. Chi ha un ruolo pubblico non può sottrarsi e lo dico con tutto il rispetto; la satira non deve offendere ma la libertà resta il principio sovraordinato».

Liberazione 15.11.06
In difesa dei comici attaccati dal segretario di Ratzinger in campo colleghi e professionisti. Curzi: «La satira è sacra»
«Perché non si fa una bella risata?»
di Castalda Musacchio

«Don Georg? Si dovrebbe fare una risata. Dovrebbe conoscere la storia e sapere che da Gioacchino Belli in poi la satira nei confronti del Santo Padre rientra nella migliore storia del nostro Paese. Del resto non ci sembra proprio che la satira nei suoi confronti e di quelli del Santo Padre sia mai scaduta in volgarità». In definitiva “viva Fiorello, viva Crozza, e viva la Littizzetto”. Ora, che i giovani socialisti insorgano è un dato quasi scontato. Sta di fatto che non poteva che suscitare subito una fiammata di polemiche, all’indomani dell’anatema lanciato dall’Avvenire contro le gag papali di Crozza su “La7”, la discesa in campo del segretario personale del Pontefice, don Georg Genswein. In definitiva la sua posizione è piuttosto chiara. Basta con la satira su Papa Ratzinger «spero che smetta subito». «Ho preso atto della polemica - spiega Genswein all’Adnkronos - e spero che trasmissioni di questo tipo terminino: d’accordo la satira, ma queste “cose” non hanno livello intellettuale e offendono uomini di Chiesa. Non sono accettabili». Queste “cose” a cui si riferisce il segretario del papa riguardano anche lui, padre Georg. La stessa Littizzetto ne fa spesso oggetto di attenzione a “Che tempo che fa” su Raitre anche se spesso e volentieri ironizza su Ratzinger e più spesso e più volentieri ancora sul cardinale Camillo Ruini ribattezzato “Eminence”. Del resto lo stesso Ratzinger viene ancora ben imitato da Fabio Fazio che sempre su Radio due si allena a sparare ai piccioni «che fencono qui a tare fastidio a cente che lafora».

Che fare? Mettere un bavaglio ai comici?
«Preciso subito una cosa - interviene il segretario Usigrai Carlo Verna - non conosco bene la polemica suscitata da questi attacchi e penso sia anche meglio; ma, e lo dico da cattolico, resto dell’opinione che la satira sia sacra. E’ un diritto, uno dei diritti della democrazia che è alla base di un paese come il nostro. Poi è necessario ancora parlare di queste cose? Mi sembrano davvero “cose” fuori luogo che non appartengono alla nostra cultura. Quello della satira resta un diritto inviolabile e francamente non mi sento neppure di condividere lo spazio per aprire una polemica. Con la Littizzetto io mi diverto moltissimo».

E chi non si diverte con la Littizzetto? E con Fiorello? Su “Viva Radio Due” c’è sempre quel finto padre Georg palestrato che gioca dentro San Pietro.
«La satira - continua ancora Carlo Leoni, vicepresidente della Camera (Ds) - è una delle forme attraverso le quali, da sempre, si esprime quella libertà di pensiero e di critica, giustamente così cara alle società moderne ed evolute».

E le posizioni restano le stesse per lo meno all’interno dell’Unione. Si defilano i moderati cattolici della Margherita. E per bocca di Donato Mosella per esempio (Dl) lasciano intendere che in fondo in fondo ciò che dice padre Georg non è esattamente così sbagliato.
«Ridere, si sa, fa bene - nota Mosella - ma occorre che gli artisti, i comici in particolare, si diano delle regole. Fare satira scegliendo come bersaglio il Santo Padre, penso non faccia ridere molti. E’ solo segno di cattivo gusto e poco rispetto per la figura del Pontefice e anche per milioni di cristiani». Posizione non molto dissimile dal suo collega (anche se dell’Udeur) Pasqualino Giuditta. «Nessuno, tanto meno il Vaticano, vuole fermare la satira. Il problema è quando questa diventa accanimento e sconfina nel ridicolo». In difesa diretta di Fiorello non ha mancato di intervenire Sergio Valzania, il direttore di Radio Rai: «Mi stupisce - commenta Valzania - che i cattolici, sofisticati esperti di comunicazione, non capiscano. La parodia di padre Georg è benevola, un sorriso non può mai essere negativo: da teologo la penserebbe così pure Benedetto XVI. E poi questi ragazzi, la Littizzetto che è una persona dolcissima, o Fazio, vengono tutti da scuole cattoliche, Fiorello l’altro giorno recitava l’atto di dolore, Marco Baldini ha uno zio prete». E chi la satira l’ha sempre fatta, come Vincino, annota che a ognuno spetta il suo. «Noi - chiosa - dobbiamo fare la nostra parte. Anzi - aggiunge - siamo troppo delicati, bisogna andare molto, molto più pesanti e molto più a fondo. Ci stiamo dimenticando che l’Italia nasce con l’anticlericalismo, con la lotta contro lo Stato della Chiesa. I giornali di fine ’800 e inizio secolo erano pesantissimi sulla Chiesa, sui preti, sulle scuole cattoliche. Poi - spiega - tanti anni di Democrazia Cristiana ci hanno fatto dimenticare il nostro Dna. Dovremmo esercitare il nostro diritto al libero pensiero». Eppure qualcuno teme che ci potrebbero anche essere dei ripensamenti in Rai o toni meno “liberi”. E tanto per frenare ogni nube scura che si potrebbe profilare all’orizzonte a chiudere la polemica sollevata dal “caso Georg” è lo stesso Sandro Curzi, consigliere di amministrazione Rai. «Sono sempre stato rispettoso della satira. E credo che dovrebbe essere accettata da tutti. E polemizzare sulla satira è un atteggiamento pericoloso. Rappresenta sempre un elemento di fondamentalismo. Di “puro” fondamentalismo. E quando c’è il fondamentalismo di mezzo non si va davvero da nessuna parte».

c.musacchio@liberazione.it