martedì 7 novembre 2006

l'Unità 7.11.06
Il Csm: «Indulto, il 90% dei processi rischia di finire nel nulla»


Per effetto della legge sull’indulto il 90% dei processi dei prossimi cinque anni sono con sentenze non eseguibili, dunque destinati a «finire nel nulla». Ma non spetta al Consiglio superiore della magistratura chiedere ai capi degli uffici giudiziari di mettere da parte i procedimenti coperti dall’indulto, puntando invece l’attenzione su quelli non coperti dallo sconto di pena. Questo il contenuto del parere che il Csm presenterà oggi al ministro della Giustizia Clemente Mastella nel corso del plenum straordinario. La bozza messa a punto dalla VI e dalla VII commissione del Csm è pronta, dopo che il Guardasigilli lo scorso settembre aveva chiesto ai componenti di Palazzo dei Marescialli di verificare la possibilità di indicare ai responsabili degli uffici giudiziari «criteri di priorità per la trattazione dei processi», privilegiando quelli non coperti dall’indulto. E proprio due settimane fa le due commissioni avevano ascoltato i procuratori generali e i presidenti di Corte d’Appello di Roma, Milano, Napoli, Palermo e Torino. In quell’occasione si era discusso proprio del problema della grande mole di sentenze non eseguibili nei processi coperti dall’indulto. Il documento mette in evidenza come davanti a questa questione l’organo di autogoverno non possa fare molto, visto che la precedenza nella trattazione di alcuni processi rispetto ad altri può essere stabilita soltanto dai responsabili degli uffici. Un’ipotesi per far fronte alla situazione potrebbe essere quella di un intervento del Parlamento. Infatti - come spiegano i consiglieri del Csm - in passato l’indulto è stato sempre accompagnato da un provvedimento di amnistia.
E contro l’indulto e i suoi effetti è tornato subito a tuonare Di Pietro: «Spiace continuare a fare la parte della Cassandra del centrosinistra, ma purtroppo siamo costretti a dire che avevamo ragione quando abbiamo avvertito dei pericoli a una decisione scellerata». Tutto questo, conclude il ministro delle Infrastrutture, richiede che i partiti dell’Unione di riuniscano «urgentemente per discutere di giustizia e per stilare un programma dettagliato su quello che il Governo e la maggioranza intendono fare nel prossimo futuro».

Corriere della Sera 7.11.06
L'allarme del Csm
«Indulto, a rischio il 90 per cento dei processi»

«L'indulto vanificherà il 90 per cento dei processi in corso. Nove sentenze di condanna su dieci saranno cioè non eseguibili». L'allarme viene dal Consiglio superiore della magistratura ed è contenuto nella bozza di risoluzione inviata al ministro della Giustizia Clemente Mastella, atteso oggi alla riunione straordinaria del plenum. Lo scorso settembre, all'indomani delle polemiche scaturite dalla nuova legge, era stato proprio il Guardasigilli a chiedere al Csm di stabilire «criteri di priorità nella trattazione dei processi». La sesta e settima commissione hanno ascoltato i procuratori generali e i presidenti delle corti d'Appello, giungendo alla conclusione che non è possibile indicare i procedimenti da privilegiare, e che una simile decisione spetta solo ai capi degli uffici. I consiglieri di Palazzo dei Marescialli ricordano che in passato è stato il Parlamento a sbloccare situazioni analoghe approvando un'amnistia.

Repubblica 7.11.06
"Nove processi su 10 finiranno nel nulla"
Indulto, allarme del Csm: "Sentenze azzerate". Oggi Mastella al plenum
Confermata la denuncia delle procure
Il ministro Di Pietro, contrario agli sconti, chiede un vertice urgente
Nel 2005 le condanne con pene inferiori a tre anni rappresentavano già il 90 per cento
di Liana Milella

ROMA - Pessima sorpresa per Clemente Mastella al Csm. Oggi alle 15 il ministro della Giustizia approda a palazzo dei Marescialli per il suo primo incontro "di lavoro" dedicato all´organizzazione giudiziaria, ma trova sul tavolo un documento che non potrà fargli piacere e che già scatena la reazione polemica del ministro per le Infrastrutture Antonio Di Pietro («Serve un vertice urgente sulla giustizia»). Sei pagine che parlano dell´indulto e dell´impatto che avrà nei tribunali e nelle corti d´appello d´Italia. Un documento che fotografa, con dati aggiornatissimi, le conseguenze sui processi dello sconto di pena di tre anni approvato a luglio. Dopo le polemiche di Napoli e lo scontro con i magistrati i dati del Csm confermano gli effetti devastanti dell´indulto.
Ecco le cifre fornite al Csm, giovedì 26 ottobre, dai capi degli uffici delle cinque città più grandi in Italia: a Roma il 90% dei processi si concluderanno con sentenze interamente coperte dall´indulto. Su 14.439 processi, solo 1.544 non si svolgeranno inutilmente. Lo hanno riferito al Consiglio il presidente della Corte d´appello Lo Turco e il pg Vecchione. Stessa situazione a Milano: in tribunale il 93% dei processi è coperto da indulto e su 6.143 processi se ne salvano 438. Va peggio davanti al gip dove ne viene falcidiato il 95% con 1.719 processi che sopravvivono su 33.275. Dati del presidente Grechi e del pg Blandini. A Torino si registra la percentuale in assoluto più alta, il 99 per cento. In corte di appello su circa diecimila processi restano solo 104 sono destinati a chiudersi con sentenze che non vengono azzerate dallo sconto di pena (dati del presidente Novità e del sostituto pg Beconi). I vertici giudiziari di Napoli Numeroso e Galgano forniscono una cifra complessiva: su 12.135 processi il 93% (11.153) è cancellato dall´indulto. Infine Palermo dove in primo grado viene "indultato" il 97% dei processi e il 94% in appello. Parola del presidente Rotolo e del pg Celesti.
I dati parlano da sé. Del resto, nel 2005, le condanne con pene inferiori a tre anni rappresentavano già il 90 per cento. La relazione che i tre consiglieri del Csm (Ezia Maccora e Livio Pepino di Magistratura democratica, Luisa Napolitano di Unicost) hanno scritto e che domani sarà approvata per passare con urgenza al plenum prende atto dell´allarme documentato solo dieci giorni fa. Due considerazioni spiccano sulle altre: l´impossibilità per il Csm di emanare direttive per far celebrare prima degli altri i processi non coperti da indulto, e il mancato varo contestuale dell´amnistia. Il primo è, nei fatti, un "niet" a Mastella che un mese fa aveva chiesto al Csm se fosse possibile ordinare ai magistrati l´anticipo dei processi le cui condanne andavano al di là dei tre anni condonati dall´indulto. Il Consiglio risponde che un simile input «esula dai suoi compiti istituzionali». Il documento precisa che «il Csm non può dare né imporre criteri di priorità nel trattare i processi» perché non è mai avvenuto in passato. Solo i capi degli uffici, «e solo nell´ambito dell´organizzazione del lavoro», possono impartire direttive per privilegiare alcuni processi. È accaduto a Milano con la circolare del presidente Grechi.
Quanto all´amnistia Maccora, Pepino e Napolitano si limitano a un excursus storico. Nei 16 provvedimenti di clemenza varati durante la Prima Repubblica l´indulto (che cancella solo la pena) non è mai stato scisso dall´amnistia (che cancella anche il reato e quindi anche i processi). Non a caso, a indulto appena approvato, fu proprio il segretario dell´Anm Nello Rossi a chiedere subito «un´amnistia selettiva» per evitare l´inutile lavoro che ora i giudici si apprestano a fare. Un´amnistia oggi politicamente impossibile, mentre Di Pietro definisce «scellerata» la legge sull´indulto che, secondo lui, «ha messo in pericolo lo stato di diritto del nostro Paese».

Corriere della Sera 7.11.06
Il caso Napoli e il limite ignorato tra lecito e illecito
di Dacia Maraini


«Perché siete venuti? Cosa temete, cosa volete?» chiede Edipo ai cittadini accorsi allarmati davanti alla reggia. E il sacerdote risponde: «La tua città, Edipo, è una nave sbattuta dai marosi, non ce la fa a rialzare la prua dagli abissi della tempesta che ha il colore del sangue, e va morendo di infiniti morti. La dea che porta fuoco, la peste, l'assale e la contamina».
Anche da noi, anche in Italia c'è una città che va «morendo di infiniti morti». E non riesce a tirare su la prua dalla «tempesta che ha il colore del sangue». Cosa fare? A chi rivolgersi? C'è un colpevole per la rovina di Tebe? C'è qualcuno che senza saperlo porta in sé il seme del male? Nel mondo dei simboli tutto è lecito, anche paragonare la peste di Tebe alla peste che sta uccidendo Napoli. Malattia contagiosa fra l'altro, che ha in parte già colpito altre grandi e bellissime città del nostro Paese. Dove si nasconde l'arcano di tanta crudele volontà di morte? Ciascuno ha una risposta. Le colpe vengono date agli amministratori, ai politici, ai cittadini, ai magistrati. Tutti in qualche modo colpevoli di non fare abbastanza, e questo è certamente vero. Ma la radice dell'arbitrio dove nasce e dove va a conficcarsi? In quale colpa personale o collettiva?
Come un Edipo sicuro di sé, il nostro Paese sembra brancolare cieco, di fronte al grande tema della responsabilità. Da un delitto sono nati altri delitti, ma già dal primo è mancata la punizione esemplare. Il sentimento di giustizia è stato offeso e umiliato. La verità è stata negata. «L'offesa alla verità sta all'origine della catastrofe», dice Tiresia che vede tutto, nonostante sia cieco. L'irresponsabilità delle classi dirigenti comincia nel Sud d'Italia già nel dopoguerra, quando si è creduto di poter usare i criminali per ottenere voti e controllo del territorio. Si è chiuso prima un occhio e poi l'altro, in nome dell'anticomunismo, su chi faceva man bassa delle leggi in un'Italia che chiedeva giustizia e veniva messa a tacere con permessi di costruzione fuorilegge, speculazioni di ogni genere, rapine del territorio. Una certa presenza di criminali è fisiologica in una metropoli. Ma quando questi criminali allacciano rapporti vischiosi con la politica, la città viene attaccata dalla peste, proprio come Tebe.
La proposta più onesta, anche se drastica, ma necessaria in questo momento così drammatico, sarebbe concludere un patto fra tutti i partiti, fra tutti gli amministratori: che escludano sistematicamente coloro che sono stati o sono tutt'ora accusati di collusioni con la mafia o con la 'ndrangheta. Il vizio sta proprio in quel sottile limite fra lecito e non lecito che con troppa disinvoltura si è pensato di potere tollerare. Troppi scambi, troppe intese sotterranee, troppe intelligenze con chi fa soldi a palate sulla pelle dei cittadini. Il garantismo non può voler dire aspettare dieci anni per avere la certezza che un uomo ha contrattato con le forze più brutali del Paese. Nel frattempo avanzano gli indulti, la legge perdona, accondiscende, dimentica. La città di Tebe, racconta Sofocle, si è ammalata perché ha chiuso gli occhi, perché non ha saputo né voluto vedere le responsabilità di chi l'ha governata per decenni, diventando di fatto connivente con un modo di vita che disprezza la legalità, denigra lo Stato, umilia la verità.
«L'uccisore che cerchi sei tu», dice tristemente Tiresia a Edipo che si infuria: «Come osa accusarmi, io che ho fatto di tutto, ho versato infinite lacrime e amo follemente la mia città?». Ma non si tratta di lacrime. «Verranno alla luce altre sciagure non volute dal caso, ma dall'uomo —, dice saggiamente un testimone a Edipo —. Sono queste le cose che danno più dolore: le sciagure che l'uomo vuole infliggersi da sé».
Nel Sud fin dal dopoguerra classi dirigenti irresponsabili si sono alleate con i criminali

Repubblica 7.11.06
Castellitto: "Io, maestro di strada"
Nel cast del "Professore" Luisa Ranieri e Peppe Lanzetta. "Bisogna salvare la città, merita rispetto"
Perché noi dello spettacolo offriamo ai ragazzi l'idea che i rapporti umani siano quelli proposti dall'"Isola dei famosi"?
Strana sensazione girare un film sull'emergenza Napoli in piena emergenza
Nonostante il degrado si respira bellezza. Fa male

di Silvia Fumarola

NAPOLI - Il set è nel cuore della città assediata. Corso Garibaldi stazione della Circumvesuviana. Via vai di passeggeri frettolosi, facce stanche. «Non qui, per favore, spostatevi dietro, muovetevi normalmente» urla l´assistente. «Che film è?» chiede un signore con la busta di plastica in mano. «Un film con Sergio Castellitto». «Complimenti». Si ferma dietro al monitor, per sbirciare la scena. Come lui, tanti altri. Si forma una piccola folla rispettosa. «Se a Roma c´è un set» racconta divertito Castellitto «il romano si sente invaso: "Chi v´ha dato il permesso?", "Adesso dove parcheggiamo?". A Napoli, nonostante tutto quello che succede, sono disciplinati, affettuosissimi». Nel film di Maurizio Zaccaro, Il professore, che sta girando in questi giorni e che andrà in onda a primavera su Canale 5, interpreta Pietro Filodomini, un insegnante che sceglie di stare dalla parte degli ultimi. Giacca di velluto a coste, mescolato tra i viaggiatori, accompagna una ragazzina al pullman che la porterà verso una nuova vita: lontano dalla camorra che la vuole prostituta, schiava per sempre. Lei mangia una sfogliatella: «Ma queste le trovo a Rimini?». Lui accenna un sorriso. «Non telefonare mai, capito? Non scrivere. Ci faremo vivi noi. Non devono trovarti». La bacia sulla fronte, lei sale, prende posto, le guance rigate dalle lacrime. Saluta con la mano, come se accarezzasse il finestrino. «È una strana sensazione girare un film sull´emergenza Napoli mentre Napoli è in emergenza. Perché l´alta velocità ti porta qui in un un´ora e venti, qui: il Terzo mondo. È ingiusto, questa città meravigliosa merita rispetto. Ovunque, nonostante sporcizia e degrado, si respira la bellezza. Fa ancora più male. Ho sentito un´intervista al professor Marco Rossi Doria, a cui, in qualche modo, il mio personaggio s´ispira: "Non si può pensare di salvare questo paese se non si salva Napoli". È vero, bisogna salvare Napoli, adesso. Siamo nel cuore dell´Europa, a due ore da Parigi, ma questa città sembra Chicago nei film in bianco nero degli anni 40».
Eppure i colori sono abbaglianti quando il tassista, rassegnato ma premuroso, intrappolato in un ingorgo infernale, ti chiede di dirgli con precisione dove vai «perché è meglio non andarsene in giro»; quando spiega che «la corsia preferenziale, vedete?, è tutta intasata dalle macchine, perché i vigili capiscono subito chi guida e non lo fermano proprio, hanno paura di essere sparati». Passando per Corso Umberto, su un cumulo d´immondizia, è posato trionfalmente un materasso matrimoniale. Lungo la Marina, al semaforo rosso, giri lo sguardo su un´aiuola spartitraffico: buste di plastica, stracci. Si muove una massa informe. Un plaid copre un barbone: tre, quattro topi gli camminano addosso. Sgrani gli occhi. «Li vede anche lei?». Sì, il tassista li vede. I topi ora sono diventati otto. «Che volete fare? Ce ne sono tanti».
«Girando un film qui, non si può fare finta di niente» riflette Castellitto «abbiamo portato la macchina da presa a Rione Sanità, a 200 metri dal set un ragazzo è stato ucciso per un regolamento di conti. Sì, "regolamento di conti", come nel Far West. Mi hanno stretto la mano: "Grazie di essere venuto in questo condominio abbandonato da tutti". Quando parlo coi napoletani perbene, e sono tanti, mi spiegano che l´ansia è diventata un affare quotidiano. Sembra di essere a Beirut. Senti quelli della troupe che telefonano: "Sei a arrivato a casa? Tutto bene?". Il professore, anche per lo stile asciutto con cui Zaccaro gira, con la macchina in spalla, fotografa la realtà. Nel cast con gli attori - Luisa Ranieri Pietra Montecorvino, Peppe Lanzetta, Donatella Finocchiaro, ndr - ci sono sette ragazzini presi dalla strada. Hanno negli occhi un´autenticità che ti spiazza. Sento già che avrò nostalgia di loro. Un film così, anche se andrà in onda su Canale 5, è servizio pubblico: per questo vorrei fare un appello a Mediaset, chiedere di non massacrarlo con gli spot, ma di interromperlo in modo diverso, magari in due blocchi, primo e secondo tempo. Sarebbe bello inaugurare un nuovo modo di programmare la fiction che affronta temi civili».
«La cartolina dal terrazzo dell´hotel che mi ospita - Capri, la penisola sorrentina, Castel dell´Ovo - toglie il fiato» sospira l´attore «c´è pure la luna: ma il controcampo sono i morti, le sirene della polizia, la miseria, i motorini che sfrecciano. Ha visto? Qui nessuno porta il casco. Ho chiesto perché. Mi hanno risposto: "Il casco lo portano i killer". Lo so che un film è una goccia nel mare, il professor Pietro mi ricorda l´acchiappatore nella segale del Giovane Holden, s´impegna a fare qualcosa che forse è una pazzia: prende per la collottola questi ragazzini sull´orlo del precipizio. Si fa carico. Non voglio perdere l´occasione, voglio parlare con loro, devono sapere che va ristabilito il rispetto delle regole, la legalità. Altrimenti restano prigionieri della sindrome del neorealismo. Li prendiamo dalla strada e li lasciamo dove li abbiamo trovati, invece anche un film può essere un percorso di crescita. Forse è un desiderio catartico, in fondo cosa facciamo noi dello spettacolo? Gli offriamo l´idea che i rapporti umani siano quelli proposti dall´Isola dei famosi. Non sono per un intrattenimento doloroso, ma il limite non ce l´abbiamo più».
Scritto da Stefano Rulli e Sandro Petraglia, prodotto da Grundy, Il professore racconta la battaglia di un insegnante per portare la classe fino alla terza media. Ogni anno, in provincia di Napoli, quasi diecimila studenti abbandonano la scuola. Nel migliore dei casi scelgono il lavoro nero; nel peggiore, vengono arruolati dalla microcriminalità. «Ho girato Don Milani», continua Castellitto «e mi rendo conto, dolorosamente, che i ragazzi abbandonati del Mugello li ritrovo qui, quarant´anni dopo. Le scene della scuola le abbiamo ambientate alla Sanità, nella comunità La Tenda, dove i volontari sono al fianco delle madri per strappare i figli dall´eroina. A Napoli si fa la fila per andare a prendere la dose nei condomini. Non è accettabile. Poi c´è il fatalismo dei napoletani. Come si può non essere travolti dall´ansia, dalla voglia di andarsene? Qui non c´è lo Stato, mi dispiace, ormai c´è un altro Stato: quello che ti protegge il negozio e ti presta i soldi a strozzo. Qualcuno, del vero Stato, deve rispondere. Non dividiamo l´Italia, è una».
L´autista Alberto, che lo scorta ovunque, cita san Paolo: «Dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia». Il camper è nel garage, a due passi dal set. I ragazzi della troupe vigilano. «Aspetti qui che arrivi la macchina, non esca». Lo spiazzo è buio, a terra qualcuno si è già preparato un letto di fortuna, protetto dai cassonetti, tra i topi e i cani.

l'Unità 7.11.06
Mussi: «L’Italia ha bisogno di una sinistra legata al socialismo europeo»


«Il futuro della sinistra non è dentro il Partito democratico» dice Fabio Mussi, ministro dell'Università ed esponente della sinistra dei Ds: «È impensabile che la sinistra possa guardare al suo futuro priva di un grande partito di sinistra di ispirazione socialista. È una bizzarria. Io penso ad una sinistra che si riunifica, ma sotto le bandiere di un' idea non minoritaria, collegata alle grandi forze europee mondiali e non a forze marginali. Questo è fondamentale. L'Italia ha bisogno di una grande forza di sinistra collegata al socialismo europeo. Io penso ad una variante più di sinistra, più radicale di tanti partiti socialisti democratici europei ed arricchita di esperienze dal femminismo all'ambientalismo che nascono fuori dalla tradizione socialista».
E a Angius risponde: «La federazione riformista c'è già. È già stata fatta un paio di anni fa. È stata solennemente costituita e mai riunita. Gavino Angius dovrebbe chiedersi il perché».

Angius: «Il Pd dovrebbe unire nuove culture politiche. Dimenticate a Orvieto»

«Veltroni dice che si è smarrito il senso del progetto originario dell'Ulivo. Sono d'accordo: quel progetto voleva l'aggregazione non solo di Ds e Dl, non solo di componenti ampie della società civile, ma anche di correnti importanti del socialismo, dell'ambientalismo, del femminismo, senza contare i Radicali». Lo afferma Gavino Angius, senatore dei Ds e vicepresidente dell'assemblea di Palazzo Madama. «Il progetto originario dell'Ulivo - aggiunge - è andato smarrendosi in questi anni: radicali e Sdi sono andati per conto loro, i Verdi sono stati abbandonati a se stessi, Di Pietro si è messo da solo: l'Ulivo ha perso pezzi. Ma se si vuole fare un partito nuovo, allora bisogna recuperare Di Pietro e i socialisti, e consentire alle nuove culture della non violenza, dell'ambientalismo, del femminismo, di potersi riconoscere in questo nuovo partito. Ma ad Orvieto non ho neppure sentito nominarle. O il Partito democratico nasce come qualcosa di nuovo che comprenda anche queste nuove culture, oppure siamo di fronte ad una vera involuzione».

Quant’è leggero il Partito democratico
di Massimo Brutti

«Una moderna forza riformista nel Partito del socialismo europeo». Così abbiamo intitolato il documento redatto da un gruppo di iscritti, di parlamentari e dirigenti dei Ds, per aprire e sollecitare una discussione politica, senza rinvii, sui nodi che saranno al centro del congresso. È una discussione necessaria. Perché essa si allarghi, perché assuma un significato vero e serio, dobbiamo tenerla saldamente ancorata alla vita del paese, alle domande di cambiamento e di giustizia sociale che si manifestano con forza in Italia dopo la sconfitta del berlusconismo.
Le immagini della manifestazione di sabato contro la precarietà del lavoro, contro le leggi volute dalla destra ed ancora vigenti sull’immigrazione e sulla scuola, dimostrano quanto sia forte e diffusa l'aspirazione al cambiamento. Quei giovani chiedono riforme, chiedono un'azione di governo ed un sistema di regole che valgano a rafforzare i diritti, a far progredire la scuola e la ricerca, a rendere più stabili i rapporti di lavoro, assicurando così la libertà e le scelte di vita di chi è appena entrato o aspira ad entrare nel mercato del lavoro ed è penalizzato dall'incertezza. È possibile produrre innovazioni reali, presto, su questo terreno? Come si estende l'area dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato? Quali politiche intraprendere, perché questa estensione si attui davvero, in modo tale da giovare ai lavoratori ed alle imprese? Tocca a noi, tocca ai riformisti rispondere a queste domande, offrire strumenti politici concreti. Non lasciamo che sia la sinistra radicale a rappresentare quei tanti giovani che sfilavano sabato e che sono nostri elettori. Essi si aspettano che i Ds e l'Ulivo stiano al loro fianco. Se questo è vero, allora, lo strumento politico che costruiamo ha un'importanza fondamentale
Le parole-chiave del documento che abbiamo sottoscritto sono «riformismo» e «socialismo».
Siamo convinti della loro attualità. Io credo che dalle idealità del socialismo, dalla sua tradizione, in questi anni arricchita da culture nuove come quella ambientalista o come il pensiero femminile, possa venire una risposta moderna e positiva all'appello che ci hanno lanciato i giovani a Roma. L'obiettivo è vincere la precarietà, e più in generale lavorare per rimuovere gli ostacoli sul cammino dell'uguaglianza. Non è questa l'antica e fondamentale sfida per cui vive la sinistra? Nel congresso dei Ds dobbiamo discutere delle innovazioni di cui il paese ha bisogno. Dobbiamo farlo nel vivo di un dibattito democratico che non sia limitato a pochi, che coinvolga e renda protagonisti i nostri iscritti, che parli agli elettori. Non so e non abbiamo deciso se sulla base del documento che abbiamo elaborato vi sarà una terza mozione al congresso dei Ds. Vorrei intanto che le idee in essa appena abbozzate trovassero ascolto e sviluppo. Le proposte da mettere in campo nel dibattito congressuale dipenderanno poi dal modo in cui esso verrà impostato e potranno definirsi solo dopo la riunione del Consiglio Nazionale. Confrontarci subito significa dire fuori dai denti quel che pensiamo sull'idea del «Partito democratico», così come è emersa dai primi passi compiuti in queste settimane e dal seminario di Orvieto, che giudico unilaterale ed insoddisfacente.
Chi ha firmato il documento condivide l'obiettivo di far progredire il progetto unitario dell'Ulivo, fino alla formazione di un nuovo soggetto, che aggreghi le forze riformiste e sappia richiamare alla partecipazione politica settori della società oggi lontani da essa. Abbiamo lavorato insieme per anni, avendo in mente l'unità dei riformismi (che in Italia hanno storie separate, spesso contrastanti) e perseguendo contemporaneamente il rinnovamento della sinistra. In questo quadro abbiamo vissuto aspre battaglie politiche e momenti difficili. Penso al lungo attraversamento del quinquennio berlusconiano ed agli sforzi compiuti per tenere insieme tutte le componenti dell'Unione e per dare a questa un impianto programmatico volto al cambiamento. Il mio rispetto e la mia stima (che sono anche propri di moltissimi iscritti al partito) per il gruppo dirigente dei Ds nascono dal percorso che abbiamo in comune.
Ma ora come possiamo pensare che il nostro dibattito sulla formazione di un nuovo partito sia limpido e parli al paese, e che anzi esso sia suscitatore di energie, se non usciamo dal chiuso delle riunioni ristrette e delle decisioni di vertice, se non cominciamo subito a confrontare le idee e le proposte, in un dibattito pubblico ed aperto? Ciò significa non dare per scontata alcuna decisione ed investire il congresso della sovranità che gli compete.
Dobbiamo partire da un dato, finora evidente. Una parte (non so dire oggi quanto sia ampia) di coloro che condividono l'obiettivo di dare vita ad un nuovo soggetto politico riformista non è d'accordo sulle tesi prevalenti ad Orvieto e sui primi atti che queste hanno ispirato. Non siamo d'accordo sul partito leggerissimo che si sta disegnando: un vertice, un gruppo di professori (cooptati non si sa bene da chi), che elaborano linee e programmi; una organizzazione ridotta all'osso, una partecipazione politica limitata a pochi momenti, accompagnata dalla retorica delle «elezioni primarie» e dei gazebo. È difficile comprendere come la partecipazione possa svilupparsi se non vi sono idee condivise, se non sono chiari gli interessi che si rappresentano, i programmi per i quali si dà battaglia, e se non vi sono meccanismi democratici stabili per confrontarsi sulle idee-guida (soltanto un esempio: la laicità dello Stato), per definire i programmi e per la selezione dei gruppi dirigenti. Tutto ciò è il contrario della insostenibile leggerezza teorizzata ed applaudita ad Orvieto. Non siamo d'accordo sull'azzeramento delle identità politiche esistenti. Anche qui, poiché le idee non si inventano dal nulla, chi ci propone da anni lo scioglimento dei Ds, non ha niente di meglio da offrirci che una cultura eclettica e superficiale, piena di formule astratte e con una visione del paese che è ingenuamente tecnocratica.
Noi non siamo d'accordo con la tesi, ribadita da Pietro Scoppola, secondo cui il nuovo soggetto politico dev'essere in Europa altra cosa dal Partito del socialismo europeo. Non è sensato né per noi accettabile sostenere che i Ds debbano distaccarsi da questa forza riformista, proprio in un momento storico in cui la dimensione europea conta di più che in passato.
Per questo, proponiamo di far crescere il processo unitario con la gradualità che è indispensabile perché esso prenda vigore, perché coinvolga ed unisca forze nuove, senza umiliare nessuna delle storie che stanno dentro l'Ulivo. Un partito in forma federata, da realizzare entro la primavera del 2008, come noi proponiamo nel documento, servirebbe a questo. Niente salti, niente operazioni a perdere. Noi resteremmo così nel socialismo europeo, lavorando per allargarne i confini, e non vi sarebbe alcuna imposizione verso l'una o l'altra delle forze che costituiranno il soggetto nuovo. Contemporaneamente, la forma federata è quella che meglio può aprirsi all'ingresso di altri soggetti, di partiti (come i socialisti democratici e i verdi, con i quali non sarà facile, ma dobbiamo provare), ed inoltre di associazioni e gruppi di cittadini, tutti indispensabili al salto di qualità che l'Ulivo deve compiere nei prossimi anni.
Per quanto ci riguarda, io credo che noi abbiamo il diritto di portare nella nuova forza unitaria le nostre idee, la storia, le speranze di tanti che sono di sinistra e che sono riformisti. Il nostro impegno è stato ed è decisivo: perciò non vogliamo essere azzerati. È vero d'altra parte che se andremo all'incontro rivendicando il ruolo di protagonisti, le nostre convinzioni e gli obiettivi di giustizia sociale che ci muovono, anche gli iscritti ai Ds, che sono tentati dall’idea di andar via, avranno un motivo in più per rimanere con noi.

Repubblica 7.11.06
Rutelli al question time: contrari anche all'accanimento terapeutico
Manconi: su questo tema ancora troppa ipocrisia
"Eutanasia, il governo è contrario"
Il vicepremier: nessun caso sommerso negli ospedali italiani
di Caterina Paolini


ROMA - L´eutanasia negli ospedali italiani tra dolore e accanimento terapeutico, tra pietà e legge. C´è chi segnala come venga praticata in modo silenzioso, nascosto e chi invece come il vice premier Rutelli nega categoricamente che questo accada. Il tutto tra polemiche e accuse anche all´interno della maggioranza con Giovanardi dell´Udc e Bobba dell´Ulivo che insistono: «Chi sa di episodi li denunci».
A scatenare la bagarre è stato il sottosegretario alla giustizia Luigi Manconi, tra i primi a presentare un disegno di legge sul testamento biologico negli anni ´90. È stato infatti lui a segnalare i risultati di diverse ricerche mediche, tra le quali quella del centro di bioetica dell´università cattolica di Milano e della Fondazione Floriani, «dove il 3,6% dei medici anonimamente dichiara di aver praticato l´eutanasia e il 15% la ritiene pratica accettabile, mentre il 39% ricorda di aver staccato il respiratore e il 13% ammette l´uso di dosi letali di farmaci in situazioni estreme».
Statistiche importanti in questi giorni in cui cattolici e laici si dividono sul diritto di scegliere come e quando morire, in cui si discute del testamento biologico. Così ieri Rutelli nel question time alle domande di Giovanardi sulle dichiarazioni di Manconi ha ribadito che «al ministero della salute non risulta che venga praticata l´eutanasia negli ospedali», e soprattutto che il governo è contrario alla «dolce morte» come è contrario all´accanimento terapeutico mentre è favorevole al testamento biologico «che non apre in alcun modo la strada all´eutanasia».
«È ovvio che non risulti al ministero della sanità, l´eutanasia è illegale, mica tengono i registri. Il fatto di aver segnalato queste ricerche non significa che io voglia che diventi legale. Ma solo che è ipocrita nascondere la verità, che è su dati reali che bisogna discutere in parlamento», dice Manconi. Un problema complesso visto il sottile crinale che separa il diritto di non voler ricevere cure, previsto dalla costituzione, e l´eutanasia per la quale ora si può essere accusati di omicidio. Ed è su questo che interviene Pessina del Centro Biotetica: «I risultati della nostra ricerca sono stati falsati: non si parlava tanto di eutanasia, piuttosto di sospensione dell´accanimento terapeutico» dice mentre Manconi conferma la sua versione. Non solo. «Nel caso di Welby, tenuto in vita da respiratori e nutrizioni artificiali, non sarebbe eutanasia, ma sospendere l´accanimento terapeutico», dice il sottosegretario alla giustizia. Concorda Chiara Moroni di Forza Italia, che vorrebbe un testamento biologico «vincolante per il medico, perché io sono laica e penso che l´essere umano abbia il diritto quando è ancora cosciente di decidere come vivere e in quali casi questo gli sia insopportabile».

Nuova Agenzia Radicale 07.11.06
Fare l'amore secondo il Corano. Una donna velata tiene lezioni in tv
di Gerardo Picardo


Heba Kotb riceve in un piccolo studio al secondo piano di un palazzo in Sharia Sudani, nel quartiere residenziale di Mohandeseen, al Cairo; alle pareti sono esposti i certificati della sua laurea in medicina e della specializzazione in sessuologia; il telefono, all'ingresso, non smette mai di squillare e la lista d'attesa per un appuntamento è di due mesi.
La dottoressa Kotb, 39 anni, musulmana osservante, sposata e madre di tre figli, è una pioniera della sua materia, considerata tabù in numerosi paesi del Medioriente. Ogni sabato mattina conduce infatti una trasmissione sulla tv di stato egiziana, durante la quale invita personalità anche religiose a parlare della vita di coppia secondo l'Islam e risponde in diretta a domande sul sesso, esponendo sia teorie scientifiche che dettami della morale islamica.
“Il mio è un lavoro che pochi sono disposti a fare nel mondo arabo. Non credo si possa definire difficile, ma diverso. Non sono una persona tradizionale, ho una personalità molto spiccata, ma soprattutto una famiglia che mi sostiene molto - spiega la donna - Penso ai miei genitori, ma anche mio marito, che è un medico e che mi ha sempre appoggiato nelle scelte che ho fatto”. Scelte non facili in un Paese musulmano.
“In un primo momento si rivolgevano a me solo persone delle classi agiate, avevo due, forse tre pazienti alla settimana. Poi invece ho cominciato ad apparire in tv e la gente ha cominciato a conoscermi, a chiamare per un appuntamento, spesso in condizioni di anonimato, e pian piano sono arrivati qui allo studio”. Un percorso, quello verso la consapevolezza sessuale, non facile nemmeno per i pazienti della Kobt. “All'inizio - spiega il medico egiziano - chiedevano tutele sull'assoluta riservatezza degli incontri, non volevano incontrare nessun altro paziente nella sala d'aspetto e molti si preoccupavano di domandare se il portiere del palazzo sapeva di quale tipo di disturbi mi occupavo”.
Una donna indipendente, la dottoressa Kotb, il cui viso è sempre incorniciato dal velo e che da musulmana osservante non dimentica che anche il piacere sessuale, è frutto della volontà di Dio. “Quando ho cominciato a leggere i trattati di sessuologia e di psicologia sessuale mi sono resa conto che non solo non contraddicevano quanto insegnato nel Corano ma, anzi, ripetevano cose che sono assolutamente conformi al messaggio dell'Islam e della Sira, l'insieme dei testi che raccolgono gli atti e le parole del profeta Maometto”.
In particolare, sono due i versetti del Corano che hanno 'ispirato' Heba Kotb. “Uno nella sura Romana, che indica come comportarsi nella vita di tutti i giorni nei confronti della moglie e insegna che l'amore e la passione tra uomo e donna sono frutto del volere divino. E chi non riesce a trovare o a vivere questa passione, deve cercarla perché questa è un dono di Dio. Il secondo nella Sura della vacca, la più lunga tra le sure del libro sacro, che addirittura parla del diritto della donna a provare l'orgasmo”.
Come musulmana, tuttavia, la dottoressa Kotb, non giustifica l'omosessualità, le relazioni extra coniugali e la pornografia. “L'omosessualità esiste in Egitto - dichiara - non ci sono statistiche, perché è proibita per legge, ma non per questo possiamo nascondere la testa sotto la sabbia. Come musulmana e come medico, ritengo si tratti di una malattia. Infatti molti pazienti che sono venuti a chiedermi delle cure contro le tendenze omosessuali si sono riavvicinati alla religione e hanno capito di aver attraversato un periodo di confusione”.
La Kobt ammette poi che “le società arabe stanno cambiando. Ora sono sempre di più le ragazze che decidono di avere rapporti sessuali prima del matrimonio. Non si tratta della maggioranza, certo, ma di una percentuale di gran lunga superiore a quella di dieci o quindici anni fa”. La dottoressa, alla cui ultima conferenza in Yemen sono intervenute oltre 300 donne, racconta di aver lottato molto per affermarsi nel suo campo ma di avere ricevuto dal suo lavoro più soddisfazioni di quante ne avrebbe mai immaginate.
“Circa due anni fa una signora, con figli già adulti, venne da me lamentandosi del fatto che il marito la desiderava ancora e lei si sentiva troppo vecchia per 'certe cose'. La donna in questione aveva solo 43 anni e suo marito 46. Ho capito che c'era qualcosa in lei che non andava e le ho chiesto se suo marito le facesse provare piacere. E' rimasta a fissarmi per qualche secondo poi mi ha confessato, candidamente, che non sapeva che anche le donne potessero avere un orgasmo. Dopo qualche seduta, a cui ha partecipato anche il marito, si è ripresentata nel mio studio e aveva negli occhi uno sguardo diverso e un vestito dai colori sgargianti”.
“Questi - taglia corto la Kobt - sono i tabù che cerco di rompere, per far capire alle coppie che il buon sesso fa bene al matrimonio e non bisogna privarsene a nessuna età”.

Il Riformista 7.11.06
Ritratti. Il best seller del trend setter del pensiero francese liberal-socialista, il Marx postmoderno di Attali
di Massimiliano Panarari


Spirito del mondo. Il filosofo di Treviri era un difensore delle libertà borghesi, ammiratore della forza intellettuale del capitalismo, convinto della centralità dei diritti politici e mai assertore della dittatura del proletariato o di qualsivoglia totalitarismo

E dopo i lib-lab britannici, vennero i lib-soc francesi… Uno di loro, anzi, il lib-soc transalpino per eccellenza, mette in discussione, senza reticenze ma dando finalmente a Cesare ciò che è di Cesare, il padre del socialismo. E ne viene fuori un volume che in Francia e Spagna è divenuto un bestseller e ha guidato le classifiche di vendita della saggistica, ora in uscita anche nel nostro paese. Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo (Fazi, pp. 420, euro 22, trad. di Eleonora Secchi; in appendice un dialogo tra l'autore e il celeberrimo storico inglese Eric J. Hobsbawm su «Marx per il XXI secolo») di Jacques Attali è una biografia intellettuale e fattuale del genio ottocentesco fondata sull'assunto che solo un liberale (per la precisione, un social-liberale à la française) avrebbe potuto evitare di “gettare il bambino con l'acqua sporca”, criticando sì tutti gli aspetti non condivisibili del pensiero del filosofo di Treviri, ma non sottacendo neppure la sua figura e personalità titanica e rilanciando l'impressionante attualità di quello che pareva, fino a poco fa, un grande inattuale. Attali, un intellettuale versatile e cosmopolita (soprattutto se si pensa al contesto d'Oltralpe) come pochi (economista, saggista, letterato, già consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, autentico trend setter delle tendenze contemporanee, dal nomadismo alla poligamia sino al microcredito e al “filantropismo versione Ong”, e molto altro ancora) fa, dunque, i conti con uno dei titani della cultura moderna, un maestro della “scuola del sospetto” (insieme a Nietzsche e Freud) che ha segnato in maniera irreversibile il pensiero dell'Occidente, come le sue prassi politiche.
Insomma, da questo corpo a corpo tra le opere del pensatore della modernità per antonomasia e un intellettuale di oggi scopertosi postmoderno in anticipo sui tempi (Attali è una sorta di anti-Bauman ottimista) emerge un ritratto a tinte forti di Marx, difensore delle libertà borghesi, ammiratore della forza intellettuale del capitalismo, convinto della centralità dei diritti politici e mai assertore della dittatura del proletariato o di qualsivoglia totalitarismo. Un Marx marxiano, per così dire, e antimarxista, tutto da scoprire nella lettura del libro e piuttosto “marziano” rispetto alla vulgata che ci viene tramandata da detrattori e corifei. Con alcuni aspetti curiosi e godibili, non adeguatamente conosciuti, cui Attali rende giustizia. Marx è stato, tanto per fare un esempio, uno straordinario giornalista e un eccezionale pamphlettista (e non poteva essere diversamente data la sua inesauribile curiosità). Autenticamente sofferente in occasione della pubblicazione delle sue opere maggiori, da cui, ossessionato da un incredibile perfezionismo, non voleva mai separarsi (al punto da far giacere nel cassetto tonnellate di progetti di libri incompiuti), diede il meglio di sé nel giornalismo e nella “scrittura veloce”, dai periodici democratico-radicali e socialisti tedeschi pre-1848 alle sue corrispondenze e alla column settimanale sul New York Daily Tribune, il quotidiano statunitense più importante del pianeta con le sue 200mila copie, dove, chiamato dal caporedattore Charles Dana, che lo adorava, si occupò di India, Cina, vicende politiche del mondo e tematiche economiche globali, mettendo così a punto, su un foglio giornaliero, quelle che sarebbero divenute le sue categorie interpretative.
Ed è l'intellettuale che, come ricordava in una delle tante missive al suo finanziatore e sodale Friedrich Engels, più studiò il lavoro odiandolo ferocemente (o, come dissero i maligni, non praticandolo mai…), al punto che la speculazione sull'alienazione costituisce una delle vette della sua opera; per non parlare della tematica dell'ozio creativo, elaborata proprio a partire dai suoi scritti, dal genero Paul Lafargue (il marito della figlia Laura).
Un Marx, dunque, che Attali ci restituisce nella sua pienezza di personaggio faustiano e prometeico, ma anche, all'insegna di un'operazione di ermeneutica culturale di grande efficacia e suggestione, come un inesauribile sperimentatore che attraversò tutto il sapere, da Democrito al romanzo gotico, nel tentativo di fornire spiegazioni, mai esaustive, alla complessità del mondo; per comprenderlo assai più che per dominarlo. Nessun monoteismo teoretico fine a se stesso e nessuna monoliticità dottrinaria (questa, davvero, posticcia e frutto velenoso delle diatribe e dei tentativi di appropriazione indebita scatenati dopo la morte dai suoi supposti fedeli), ma una formidabile intelligenza analitica e una grandiosa apertura alla complessità del mondo. Il Marx ritratto da Attali è un avversario ontologico della “linea totalitaria Hegel-Bismarck-Lassalle-Lenin-Hitler”; e, pur tra mille ripensamenti e revisioni, non considerò mai il socialismo quale legge naturale deterministicamente destinata ad affermarsi. E, dunque, pur con alcuni aspetti certamente indigeribili e indigesti, il Karl Marx che ci restituisce Attali è davvero lo “spirito del mondo”, per giunta di ispirazione effettivamente assai più social-liberale che socialistico-reale. Morto il comunismo, viva Marx!