domenica 5 novembre 2006

l'Unità 5.11.06
La ballata dei circoncisi
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Davanti a certi fatti e a certe di prese di posizione, viene da chiedersi se qualcuno, in questo paese, abbia deciso intenzionalmente e irrevocabilmente di opporsi a qualsiasi politica positiva in fatto di integrazione; o se, per contro, quello stesso qualcuno non sia vittima, a sua volta, di un madornale fraintendimento o di una sciagurata e irreparabile ottusità nei confronti della cruciale questione migratoria. Se escludiamo queste alternative, fatti come quelli dell'Ospedale Regina Margherita di Torino risultano incomprensibili. Dai primi giorni di ottobre in quell'ospedale è stata avviata una sperimentazione che prevede la medicalizzazione della circoncisione rituale. Centoventimila euro stanziati per 300 interventi nell'arco di un anno; interventi semplici, che non comportano rischi clinici di alcun tipo, che sono intesi a ricondurre a un ambito medico pratiche altrimenti clandestine e talvolta dannose. Come per quel bambino quasi evirato, pochi mesi fa, da sua madre: una badante nigeriana residente a Padova, improvvisatasi chirurga.
L'avvio del progetto è stato piuttosto semplice, almeno per quanto concerne le modalità di informazione delle comunità straniere della città. Madih, padre di Ilias e Nadir, tra i primi bambini circoncisi a Torino, è in Italia da otto anni e gestisce un banco ambulante di frutta e verdura in Corso La Spezia; aveva ricevuto un volantino prima dell'estate e l'aveva conservato. I criteri di ammissione al servizio apparivano chiari: permesso di soggiorno, residenza nel capoluogo piemontese, niente ticket, età dei minori cui praticare l'intervento compresa tra gli 1 e i 12 anni. E, così, entrambi i suoi bambini, ed altri con loro, sono stati sottoposti a quell'operazione in condizioni di massima sicurezza. Una sperimentazione simile è stata avviata anche dalla regione Liguria: in tutti gli ospedali della regione si può accedere a pratiche medicali di circoncisione (ed è previsto un ticket).
Fin qui, tutto semplice. Com'era semplice mettere in conto le critiche e le reazioni ostili. Dalle più accettabili («perché quel rituale religioso va finanziato con soldi pubblici?») alle più demenziali («siamo in Italia, non siamo in Arabia Saudita»; e ancora: «a quando l'infibulazione passata dalla mutua?»). Ci sarebbe, eccome, di che rispondere. Perché la circoncisione potrà, sì, avere delle valenze rituali e religiose; ma è, sopra ogni altra cosa, un intervento che molti medici ritengono opportuno, anche in assenza di specifiche patologie che lo rendano indispensabile. Esistono fior di studi scientifici che documentano come l'incidenza di balanopostiti, nei soggetti circoncisi, sia significativamente più bassa; ed esistono ricerche molto serie (una pubblicata sul Lancet), che tendono a dimostrare come la circoncisione riduca notevolmente le possibilità di infezione da Hiv. E, allora, perché non conciliare virtuosamente più esigenze, tutt'altro che contraddittorie? La sperimentazione torinese, così come quella ligure, possono offrire un servizio utile da un punto di vista medico-igienico, ridurre una pratica clandestina pericolosa e talvolta drammatica, offrire riconoscimento pubblico a una cultura, quella islamica, ormai ampiamente presente nella nostra società (tanto più che la circoncisione rituale è praticata da sempre all'interno delle comunità ebraiche in Italia). E consideriamo pure alcune delle eccezioni, come dire?, più ruvide. No, certo che non siamo in Arabia Saudita; e se continua così non siamo neppure negli Stati Uniti o in Australia, dove la circoncisione è largamente diffusa e praticata. Come lo era nel mondo ellenico, nell'antica Roma, nell'Egitto dei faraoni, tra i Caldei che abitavano l'Armenia e il Kurdistan; e ovviamente, come si è detto, tra le comunità ebraiche. Dunque, la circoncisione è una pratica, ancor prima che un rituale, diffusa tra molte culture: tra cui, certo, anche quella musulmana.
Ha qualcosa a che fare con le pratiche di mutilazione genitale femminile? Beh, comporta un intervento mutilatorio; e interessa un organo genitale. Dopodiché sta alla clitoredectomia o all'infibulazione come il taglio di un'unghia (per tener fermo il «fattore mutilante») sta all'amputazione di un braccio. Dicevamo di come potessero essere prevedibili talune critiche: c'è un elemento tuttavia, in questa vicenda, che prevedibile non era. Di venti chirurghi interessati da quella sperimentazione, solo quattro si sono effettivamente resi disponibili. Gli altri si sono appellati all'obiezione di coscienza. Il primo e più netto rifiuto è venuto dal primario di Urologia, Marco Bianchi: «Non è una patologia ma un rito - ha dichiarato - quindi né io né alcun medico del mio reparto partecipiamo alla sperimentazione». Ah, beh... non fa una piega. E però, siccome gli imprevisti sono forieri di altri imprevisti, al neonato partito dell'obiezione (il cui diritto, evidentemente, nessuno intende discutere e nemmeno svalutare o denigrare) si è aggiunto un partito di volontari, provenienti da altri ospedali della città. «Mi rendo disponibile - ha dichiarato il primario di Neurourologia dell'ospedale Maria Adelaide, Roberto Carone - Primo, perché l'intervento non ha controindicazioni, anzi. Secondo, perché questi bambini lo farebbero comunque ma in condizioni rischiose, quindi c'è una responsabilità nel negare l'intervento. Se alcuni colleghi fanno obiezione, mi metto a disposizione». Ecco: anche nei momenti peggiori esistono sempre portatori sani di buon senso.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

Liberazione 5.11.06
La giustizia non può essere affidata alle scelte politiche dei vincitori. Occorre istituire quella corte penale internazionale che sia in grado di tutelare i diritti dell’uomo (anche dei vinti)
Impiccheranno Saddam? E’ stato un processo-farsa
di Giuliano Pisapia


La sentenza nei confronti di Saddam Hussein, accusato di aver ordinato la morte di 148 sciiti nel villaggio di Dujail, è attesa per oggi. Il pm, però, ha già dichiarato che il verdetto «potrebbe slittare di qualche giorno»: il che conferma quanto da molti ipotizzato e cioè che, anche sui tempi della decisione, inciderà la scadenza elettorale negli Stati Uniti.

La notizia della condanna di Saddam Hussein avrebbe, infatti, effetti positivi per Bush, in forte calo di consensi per la sua politica estera. Il presidente degli Stati Uniti - come emerge da un recente sondaggio effettuato in Gran Bretagna, Israele, Canada e Messico - è considerato più pericoloso, per la pace, del leader nordcoreano Kim-Jong-il e del presidente iraniano Ahmadinejad (ed è battuto solo da Bin Laden, peraltro con uno scarto minimo: 75% degli intervistati, rispetto all’87%).

Ma, per ritornare al processo nei confronti di Saddam, se non vi è certezza sui tempi della sentenza, ben pochi sono i dubbi sulla decisione finale. La condanna è data per scontata; la morte per impiccagione è ritenuta molto probabile. Non è certo questa la sede per entrare nel merito delle responsabilità penali di Saddam Hussein, anche se, in tempi non sospetti, ne abbiamo denunciato i crimini e la violazione dei diritti umani (quando invece altri lo armavano e lo finanziavano). Non ci possiamo esimere, però, dal denunciare il fatto che, in tutti i processi per crimini di guerra o genocidio celebrati dopo la seconda guerra mondiale, sono stati solo i vincitori a processare i vinti, malgrado che anche quest’ultimi si fossero spesso resi responsabili di crimini analoghi o altrettanto gravi. Il che ha portato, molti, a ritenere - a torto o a ragione - che alla fine la “politica” abbia prevalso, anche nelle sentenze, sul diritto, con la conseguenza di essere state considerate non imparziali e, quindi, non eque.

E’ sintomatico, a tale proposito, che il coordinatore del comitato di difesa di Saddam Hussein abbia inviato una lettera al presidente Bush, preannunciandogli che «la condanna a morte metterà a ferro e fuoco l’Iraq e porterà la regione verso la guerra civile e quindi verso l’ignoto».

Nessuno può sapere se l’esito di un processo celebrato nel rispetto delle garanzie minime previste dal diritto internazionale sarebbe stato diverso da quello cui perverrà il Tribunale speciale istituito appositamente dalle autorità d’occupazione americane, ma - proprio per questo - bisognava fare di tutto per evitare di celebrare un processo la cui sentenza, qualunque essa sia, potrà essere tacciata di aver violato alcune regole fondamentali, anche del cosiddetto diritto bellico. Basti pensare, ad esempio, al fatto che il processo si è svolto (ed altri si stanno svolgendo) davanti a un Tribunale speciale, con giudici nominati appositamente dal potere politico e con regole processuali decise, di fatto, dai vincitori del conflitto armato. Il che non significa, meglio precisarlo per evitare equivoci, sostenere che Saddam non sia colpevole di quanto gli è contestato, ma che è sempre più urgente creare gli strumenti affinché - anche quando si giudicano crimini contro l’umanità - vi sia un Tribunale indipendente, imparziale e che all’imputato siano garantiti quei diritti processuali che sono parte integrante di un processo il cui esito non sia già precostituito (è significativo, del resto, il fatto che non è stato possibile formare un Tribunale, composto da giudici iracheni indipendenti, per i crimini di guerra, le stragi di civili, le torture ecc., commesse dalle truppe d’occupazione). Ma vi è di più. La sentenza di condanna non è appellabile; i giudici “scomodi”, solo perché non sono stati sufficientemente duri nel respingere le istanze della difesa, sono stati immediatamente sostituiti con altri “giudici”, scelti dal potere politico, alla faccia della divisione dei poteri, della parità delle parti e del principio per cui il giudice deve essere «precostituito per legge». Il diritto di difesa è stato costantemente compresso, e in alcuni casi azzerato.

Potrei andare avanti, ma il processo a Saddam può essere l’occasione per riprendere la riflessione, e la mobilitazione, rispetto a quegli istituti di giustizia sovranazionale che possano realmente, e non solo formalmente, garantire in futuro - in presenza di crimini di guerra e contro l’umanità - un processo equo che garantisca una sentenza che sia unanimemente riconosciuta dalla collettività internazionale.

E la soluzione non può che essere quella di istituire finalmente quella Corte Penale Internazionale, il cui statuto è stato approvato a Roma nel lontano 1998 (e di cui l’Italia è stata la prima firmataria). Un giudice sovranazionale, con regole e norme giuridiche prefissate e approvate dalla comunità internazionale, che si occupi di diritto umanitario, che sia in grado di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, delle minoranze, dei popoli e che abbia la forza di perseguire i responsabili di crimini, ovunque siano avvenuti e chiunque ne sia il responsabile.

Il nostro Paese ha avuto, negli anni passati, un ruolo determinante nel lungo e difficile cammino per raggiungere tale obiettivo. L’Italia, l’Europa - e, in particolare, la sinistra italiana e la “Sinistra Europea” - possono oggi avere un ruolo fondamentale per far avanzare quel percorso iniziato nel 1950 nell’ambito delle Nazioni Unite. Le resistenze di alcune potenze mondiali sono tanto forti quanto inaccettabili; e possono, credo e spero, essere vinte se si riesce a creare una profonda unità tra l’Europa, le nuove democrazie sudamericane e i tanti Paesi “poveri” che già hanno mostrato la loro volontà, ratificando lo statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma. Statuto che, invece, non è stato sottoscritto da Paesi (Russia, Cina, Usa, Israele) - che pretendono l’impunità. Non è casuale, del resto, che lo statuto della Corte penale internazionale non preveda, malgrado l’estrema gravità dei crimini che dovrebbe giudicare, la pena di morte: un Tribunale che difende il diritto umanitario non può, evidentemente, mettersi sullo stesso piano di chi quel diritto umanitario ha violato e calpestato.


Liberazione 5.11.06

Avete capito cosa vuol dire fare politica?
di Rina Gagliardi


Finalmente. Il movimento è tornato in piazza, ha invaso pacificamente e allegramente la città di Roma, ha reso visibili le sue ragioni. La manifestazione di ieri, “Stop precarietà ora! ”, è stata davvero straordinaria, sia per il numero grandissimo di persone, e di giovani, che vi hanno partecipato, sia per la qualità sociale e politica che l’ha caratterizzata. Non è stata, nient’affatto, una manifestazione “contro” - contro Prodi, il suo governo, questo o quel ministro - ma una discesa in massa “per”: “per”, a favore di quei beni che i grandi poteri (e la logica dell’”economia”) negano ai più, e che ancora la politica non riesce a conquistare come Diritto. Per chi ama la politica - la politica non intesa come mestiere più o meno privilegiato, ma come passione per il cambiamento e partecipazione di massa - il 4 novembre 2006 è stata una splendida giornata. E chi non c’era, ha perso una occasione importantissima per capire, o almeno per interrogarsi, sulle domande (e i bisogni) che muovono il popolo italiano, e sulle risposte che bisognerà costruire - con la pazienza necessaria, certo, ma non “da qui all’eternità”. Chi non c’era, a prescindere dalle motivazioni della sua assenza, dovrebbe ora rammaricarsi - e riflettere. Curioso che un politico di qualità come il ministro del lavoro Damiano abbia espresso soltanto un sentimento di “amarezza” e, soprattutto, abbia visto (da casa?) un altro corteo, che gli ha ricordato “gli anni più bui” della storia sociale di questo paese.

Noi abbiamo visto il corteo che c’era: forse centocinquantamila, forse duecentomila persone, che hanno rivendicato un diritto essenziale. Il diritto a un lavoro degno di questo nome, che non “scade” ad ogni trimestre. Il diritto alla cittadinanza piena che solo un lavoro riconosciuto può dare. Il diritto alla dignità e alla speranza. Curioso che il ministro Damiano si senta offeso da rivendicazioni che non sono solo sacrosante, ma investono in profondità la qualità di quella “sciocchezzuola” che chiamiamo democrazia. Come fa un Paese, la sesta o la settima potenza industriale del mondo, a considerarsi compiutamente democratico, se una così larga parte dei suoi cittadini sono costretti a un mercanteggiamento di se stessi così prolungato e così umiliante? Come si fa a non capire che la precarietà non fa soltanto malissimo a chi la vive, ma corrode la stessa convivenza civile e uccide la coesione sociale? Questa consapevolezza era visibile prima di tutto sulle facce delle decine di migliaia di operai metalmeccanici che hanno sfilato per ore nel centro di Roma. Non lo nascondiamo: le bandiere della Fiom-Cgil, a tutt’oggi, ci producono un’emozione del tutto speciale, non paragonabile ad altre. E ieri, gli striscioni metalmeccanici - da Mirafiori alle Rsu della Ciociaria - erano come un fiume in piena, non finivano mai, orgogliosi come le “pettorine” gialle contro lavoro nero e lavoro precario distribuite da “Lavoro e società” - e molto giovani, non solo perchè tantissimi di quei “fiommini” erano anagraficamente molto giovani, nati, quasi certamente, dopo la grande stagione degli anni ’70.

Ma insieme ai “lavoratori garantiti”, caro ministro, c’era un’altra marea - migliaia di ragazze e ragazzi “non garantiti”, con le loro musiche, le loro danze, la loro fantasia, la loro voglia di vivere, nonostante tutta la fatica di conquistarsi un’identità al mese, spedire in giro curricula, contrattare quei cento euro in più che valgono qualche giro in motorino. A larghi tratti, questi giovani inoccupati, disoccupati, interinali erano indistinguibili dai loro quasi coetanei occupati in una qualche azienda del Nord: ecco un tratto nuovo e largamente inedito del corteo, la contaminazione. Sociale, politica, simbolica - e perfino, questa volta, fisica. La contaminazione tra soggetti sociali diversi per generazione e collocazione produttiva, ma capaci ormai di riconoscersi nello stesso fronte, nello stesso “blocco storico”.

Noi di Rifondazione l’avevamo chiamato, già qualche anno fa, “nuovo movimento operaio”: nuovo, perché nato nel fuoco della globalizzazione produttiva, dopo la crisi delle grandi narrazioni novecentesche e dopo l’esaurimento del compromesso sociale socialdemocratico; movimento, perché cresciuto all’interno di una pratica politica partecipativa, capace di costruire “da dentro” piattaforme, vertenze, mediazioni; operaio, perché scopre e riscopre la liberazione del lavoro come un cardine di ogni progetto di trasformazione - e perfino di ogni “riforma” non usa a coprire, secondo l’uso attuale, la sostanza di troppe controriforme. Ieri, a Roma, il nuovo movimento operaio ha forse avuto il suo primo, solenne battesimo del fuoco. E sarà stato un caso che Rifondazione comunista non fosse soltanto presente in massa, ma fosse dovunque visibile, in testa, in coda, con le sue bandiere che andavano a ruba (insieme a quelle, richiestissime e presto esaurite, della Sinistra europea), la sua spiritosa lavagnetta con scritto “Io scado il... ”, i suoi militanti di tutte le età, i suoi bellissimi giovani, i suoi dirigenti, parlamentari, sottosegretari e viceministri? No, non è un caso, ma un risultato di cui questo partito, che ha scelto la “contaminazione” come propria cifra culturale e ragion d’essere sociale, può andare fiero. Quanto al coro di zanzare che disquisiscono (con la fastidiosità e la costanza tipica del noto dittero) sulla impossibilità di essere un partito di lotta e di governo, diciamo a tutti loro che la loro idea di politica ci pare, francamente, molto limitata - quasi aziendale. Avete visto ieri la piazza di Roma? Era un pieno di politica, di voglia di nuova politica. Chi ha a cuore - come noi - le sorti e la qualità del governo Prodi, sa che lì, in quel popolo, in quei giovani, in quella rappresentazione simbolica e corposa di nuovo movimento operaio, sta la chiave del successo possibile e auspicabile.

Liberazione 5.11.06
E’ stata una manifestazione enorme, unita, pacifica. E’ servita a denunciare le nuove forme barbare di sfruttamento e schiavitù che in Italia riguardano 7 milioni di persone. Ds, Margherita e Cgil hanno perso una grande occasione. Fortissima la presenza Fiom
199.997 in corteo contro il precariato
Mancavano Fassino, Rutelli e Epifani
di Fabio Sebastiani


Duecentomila persone hanno sfilato in corteo ieri a Roma, per ore, da piazza Esedra a piazza Navona. E’ stata una protesta fortissima, massiccia, pacifica, contro le politiche del lavoro degli ultimi governi che hanno esteso la piaga del precariato, cioè delle nuove feroci forme di sfruttamento del lavoro. Nel corteo i giovani erano la maggioranza. Sul piano delle organizzazioni, le presenze più forti erano quattro: la Fiom, Rifondazione comunista, l’Arci e i Cobas. Le assenze più forti erano quelle di Rutelli e Fassino (cioè Ds e Margherita) e poi quella di Epifani cioè della Cgil (esclusa, appunto, la Fiom). In testa al corteo, tra gli altri, Franco Giordano, Gianni Rinaldini, Paolo Beni, Piero Bernmocchi, Giorgio Cremaschi. Giordano, parlando coi giornalisti, ha detto: «Questa non è una manifestazione né contro né a favore del Governo, è contro la precarietà». Giordano ha anche manifestato apprezzamento per il vicepremier Massimo D'Alema, il quale, in un'intervista ha riconosciuto che questa manifestazione non è contro il Governo ed ha detto di condividere la lotta alla precarietà. «D'Alema ha colto lo spirito giusto- ha detto Giordano - e io gliene sono grato».

il manifesto 5.11.06
Giordano: Ascoltare la piazza
«Questa è una manifestazione che non è nè contro nè a favore del governo. È contro la precarietà». Così il leader del Prc, Franco Giordano, presente dietro lo striscione d'apertura del corteo. «Il governo deve ascoltare le voci e osservare i volti che sono in piazza perchè bisogna bonificare la precarietà. Questo è un elemento decisivo per determinare maggiore giustizia sociale ed un cambiamento di asse nello sviluppo del Paese».
Ferrero: Ministro contento
«La grande partecipazione che ha accompagnato la manifestazione contro la precarietà che si è svolta questo pomeriggio a Roma è un segnale importante e davvero molto positivo». Questo il commento del ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero. «Credo che d'ora in poi questo governo dovrà considerare la lotta alla precarietà come una delle sue caratteristiche principali, allo stesso modo in cui già lo è la lotta all'evasione fiscale».

il manifesto 5.11.06
Qualcosa di sinistra
di Loris Campetti


Una bella manifestazione ha riportato la politica nelle strade di Roma. Un corteo contro la precarietà del lavoro che a sua volta produce precarietà sociale ha dato il segnale di un paese ancora vivo, e un paese è ancora vivo quando interloquisce con la Politica, chiede e orienta risposte alla crisi di prospettiva che emargina intere generazioni di giovani e non più giovani. Scendere in piazza quando al governo ci sono le forze del centrosinistra per le stesse ragioni per cui si scendeva in piazza, con tutto il centrosinistra, quando governavano le destre, trasmette due messaggi forti: il primo, di critica, dice che destra e sinistra si distinguono per le politiche che fanno, e non per la disposizione geografica che assumono nell'emiciclo parlamentare; il secondo, propositivo, indica una strada, un'alternativa all'umiliazione che la filosofia dell'unicità del mercato infligge a chi lavora. Svalorizzare il lavoro non rende più competitivi ma più precari.
Ha poco senso dividersi tra chi legge la grande manifestazione di ieri come un attacco al governo e chi vorrebbe girarla a suo sostegno: il corteo rappresentava un'idea di società «altra», sta allo schieramento che ci governa dire da che parte si colloca. E' preoccupante che un ministro intelligente come Cesare Damiano si dichiari amareggiato per un corteo che avanza critiche a una Finanziaria che non cambia rotta in tema di precarietà. Ed è ancor più preoccupante che un grande sindacato come la Cgil - capace in era Berlusconi di raccogliere 5 milioni di firme in difesa della dignità dei lavoratori e di rompere con gli altri sindacati, per le stesse ragioni per cui si è manifestato ieri, chiamando da sola allo sciopero generale - non fosse tra i promotori del corteo. Come nel luglio 2001 a Genova, il maggior sindacato italiano era presente solo con alcune sue robuste «minoranze»: i metalmeccanici della Fiom, la componente Lavoro e società, importanti Camere del lavoro e tantissimi militanti della Funzione pubblica, della Conoscenza, della Scuola. Dopo il 21 luglio di cinque anni fa la Cgil rientrò nel movimento, ci auguriamo che la stessa cosa avvenga oggi.
E' un'idea pericolosa quella che interpreta la democrazia come pura e semplice delega alla «politica»: un voto ogni cinque anni, se «vincono i nostri» se ne riparla il prossimo lustro e se vince l'avversario si presidiano le piazze. La democrazia evocata dal corteo di ieri è qualcosa di più complesso, offre idee e partecipazione, vede nel conflitto sociale democratico un motore del cambiamento. Sbaglia chi interpreta questa protesta sociale come un problema invece che come una risorsa.
In piazza a Roma, prima ancora delle sigle promotrici, c'erano le persone che subiscono le conseguenze della politica liberista: i precari nei call center, negli ospedali e nelle università, alle linee di montaggio industriali o giornalistiche; i futuri precari che sono gli studenti; chi ha un lavoro a tempo indeterminato ma non per questo è meno precarizzato e ricattato, alla Fiat o alla Telecom o in Ferrovia; gli immigrati, che riassumono in sé tutti gli aspetti della precarietà; infine, la precarietà sociale che chiede case, servizi, cultura, uno straccio di reddito. Una parte consistente di un possibile blocco sociale. Un'opportunità per la sinistra.

il manifesto 5.11.06
A Roma in 200.000 da tutta Italia. Per chiedere l'abrogazione della legge 30, della Bossi-Fini e della «riforma Moratti»
«Siamo tutti precari, e non ci piace affatto»
Le mille facce del «popolo della pace» che ha tenuto in piedi la lotta contro la guerra e il governo Berlusconi: dall'Arci ai Cobas, da «Lavoro società» ai sindacati di base, dagli studenti a una parte dei «disobbedienti» Un mare di metalmeccanici consapevoli che dentro il sindacato si gioca una partita importante, da cui dipende l'autonomia della stessa Cgil. Non ha avuto effetto la «scomunica» emessa giorni fa dalla segreteria
di Francesco Piccioni


Roma. Non tutte le polemiche vengono per nuocere. Anzi. Quel tanto di pepe sparso da una spericolata manchette dei Cobas su questo giornale ha spinto tutti gli organizzatori della manifestazione di ieri a raddoppiare gli sforzi. E i risultati si sono visti in piazza. Un fiume di gente ha attraversato Roma. Dal piccolo palco improvvisato, a piazza Navona, si parla di 200.000 persone. E non è una cifra lontana dalla realtà. Quando il corteo è già dentro la piazza, la coda sta appena iniziando a lasciare la stazione Termini.
La partenza è lenta. Bisogna organizzare un cordone di servizio d'ordine per forzare il «blocco» dei giornalisti, piovuti come mosche sullo striscione di testa per strappare una dichiarazione polemica, uno slogan buono per la politica politicante. «Stop precarietà ora!», il drappo bianco apre la marcia, sostenuto dai dirigenti di tutte le associazioni presenti nel comitato promotore. Le bandiere alle loro spalle sono tutte mescolate: Fiom, Arci, Cobas, SinCobas, molte della Cgil, tante arcobaleno. Prima ancora si potevano vedere storici dirigenti sindacali e «pericolosi autonomi» abbracciarsi per la gioia di aver messo assieme così tanta gente.
E' questa l'anima incomprimibile del «popolo di sinistra» che ha retto le piazze negli anni delle guerre e di Berlusconi; che ha imparato a conoscersi e rispettarsi nonostante le differenze e l'orgoglio di organizzazione. Quel «popolo» che ha reagito alle polemiche, e alla volontà di veder fallire questa giornata, raddoppiando treni, pullman, auto.
La precarietà è in cima alla lista dei problemi aperti. Comprende e supera, in parte, anche le questioni della scuola e dell'immigrazione. La piattaforma comune pretende l'abolizione della «legge 30», della Bossi-Fini e della Moratti. Ma la precarietà è un cancro che si diffonde ben al di là della condizione contrattuale, fino a toccare, accomunandole, l'esistenza stessa di persone per altri versi diversissime. I lavoratori della Sogei (la società che gestisce l'anagrafe tributaria) sono a fianco dei dipendenti delle «cooperative» su cui è stata «esternalizzata» parte dell'assistenza sociale. Gli studenti medi o universitari viaggiano vicini a facce di sessantenni che tengono il ritmo anche del sound system montato su un camion («siamo nati con l'esplosione del rock' roll, ci vuol altro per spiazzarci»).
Ma è lo «spezzone» della Fiom - quasi la maggioranza assoluta del corteo - a dare il colpo d'occhio più vigoroso della giornata. La «scomunica» pronunciata dalla segreteria della Cgil, la settimana scorsa, ha stimolato una reazione davvero eccezionale. I metalmeccanici hanno capito che qui si giocava una partita importante: per loro come categoria e per l'«autonomia» di tutta la Cgil. E sono arrivati in massa, inquadrati in file strette, con bandiere, pettorine, striscioni. Città dopo città, a far vedere che una parte decisiva del sindacato è qui. Solo da Torino hanno messo insieme un treno intero e sei vagoni, più di 1.500 persone.
E lo stesso hanno fatto quelli della corrente «Lavoro Società», pur interna alla maggioranza congressuale di Rimini. Con le loro pettorine gialle sono presenti un po' in tutti i settori. Soprattutto dietro gli striscioni della «funzione pubblica» (che pure non aderiva ufficialmente) e della Lombardia.
Striscioni e slogan molto critici con il governo, naturalmente, non mancano («la legge Biagi è da cancellare, è scritto nel programma, non ci provare»). Ma è sul «merito» dei provvedimenti che questo popolo si misura. E' qui che chiede cambiamenti profondi nella struttura della finanziaria. Consapevole oltretutto che la partita sarà durissima («ci vediamo a gennaio, vedrai; Bombassei - vicepresidente di Confindustria, ndr - ha già detto che vuole la flessibilità dell'orario di lavoro»), a partire dal nodo pensioni.
Non manca, come sempre, qualche imbecille che prova a farsi vedere «più estremo» della massa. Ma quasi nessuno se ne accorge. Niente a che vedere con gli allarmi interessati sparsi ad arte nei giorni scorsi.
A piazza Navona si susseguono gli interventi conclusivi, con precari in carne e ossa - invece che leader di organizzazione -a parlare da un palco striminzito, appena un furgoncino. C'è l'immigrato, il «fantasma del S. Andrea» a ricordare lo stato della sanità, quello dei call center e quello della scuola, quello di Napoli e l'occupante di case. Si applaudono tutti, con la testa già a domani, quando le «discussioni» - specie all'interno della sinistra e del sindacato - «diventerà vivace». Ma «con questi numeri davanti al naso si ragiona certamente meglio».
Poi la piazza è colma e il resto del corteo non riesce neppure ad entrare. A largo Argentina si fermano due dei camion, e la piazza diventa il «secondo polo» della serata. Un plotone di carabinieri è preso nella folla da tutte le parti, al punto che un ufficiale nervoso li obbliga a schiacciarsi contro il muro per «non farsi passare la gente alle spalle». Tra le due piazze comincia il via vai di chi si incammina per recuperare un treno o un pullman e di chi va avanti ancora un po' per arrivare «in fondo». Dopo ore di cammino ti ricordi che finché c'è il corteo le gambe vanno alla grande. La stanchezza arriva solo dopo, quando rimani solo. Anche per questo si manifesta: per non rimanere soli davanti a qualcuno che vuol disporre di te come di una cosa. Precaria.

Corriere della Sera 5.11.06
Il Prc esulta: più forti di prima


ROMA — «La manifestazione ha indubbiamente fortificato l'asse di sinistra di questo governo»: a braccetto con i compagni di partito il leader di Rifondazione comunista Franco Giordano non nasconde la soddisfazione. Il corteo è andato bene. Lui non è stato fischiato, grazie anche all'abile regia del responsabile organizzazione del Prc, Ciccio Ferrara, che lo ha fatto uscire al momento opportuno per farlo rientrare quando Cobas e centri sociali erano già sfilati via.
Nessuna protesta clamorosa e chiassosa, dunque: solo qualche slogan del tipo «Bertinotti, Prodi, Visco, la manovra non capisco» e un paio di insulti rivolti, però, al presidente della Camera («che se la fa con i fascisti»). Per il resto, baci, applausi, strette di mano, richieste di foto e di autografi. C'è persino un militante del Pdci con tanto di bandiera del partito che abbraccia il segretario di Rifondazione, lontano dagli occhi di Oliviero Diliberto e Marco Rizzo. Ma il finale in bellezza, per Giordano, è la dichiarazione di Romano Prodi: «È stata una manifestazione pacifica e non antigovernativa». Appena gliela leggono al cellulare, sull'auto che lo porta a casa insieme all'affascinante compagna Griselda, Giordano si attacca al telefono per chiamare il premier e ringraziarlo. D'altra parte qualche oretta prima il leader di Rifondazione comunista aveva spiegato di aver apprezzato il Massimo D'Alema dialogante che l'altro ieri aveva «coperto» politicamente la manifestazione: «Lui — spiegava il segretario del Prc — sì che ha testa politica, mentre Piero Fassino ha scelto proprio questa giornata per parlare bene dei ricchi in una lettera al Corriere della Sera!».
Il clima è euforico e non c'è un sottosegretario, un viceministro o un capogruppo della sinistra radicale che si senta fuori posto. Tutti conoscono tutti in questo corteo. Militanti, manifestanti e passanti salutano i rappresentanti del governo chiamandoli per nome. È l'ennesimo corteo che si fa insieme. E certamente non sarà neanche l'ultimo. Paolo Cento sfila sorridendo: «Con tutti 'sti esponenti dell'esecutivo mi pare proprio una manifestazione filogovernativa», celia con i giornalisti il sottosegretario verde all'Economia, che poi aggiunge: «Comunque, scherzi a parte: non è che non si va più in piazza perché c'è un governo di centrosinistra».
Il rifondarolo Alfonso Gianni è d'accordo con Cento: «Qui ci sarà pure chi urla abbasso Prodi, ma sapete che c'è? Chi se ne frega, non è questo il segno distintivo della manifestazione» spiega il sottosegretario di Rifondazione comunista allo Sviluppo economico. Secondo Gianni il vero problema è un altro: «Con questa Finanziaria così contraddittoria — osserva — non siamo riusciti a spiegare che stiamo facendo una grande redistribuzione del reddito». Ha l'aria soddisfatta anche Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama: «Alcuni alleati si scandalizzano perché siamo qui? Dovranno cominciare ad abituarsi a noi: Rifondazione è un animale strano» ride sotto i baffi neri come la pece il presidente dei senatori di Rifondazione comunista.
E se Cento, continuando a sfilare, definisce «inaccettabili» le critiche ai rappresentanti del governo che partecipano al corteo, un altro sottosegretario, Gian Paolo Patta, è convinto che «sia giusto stare qui». Ovviamente la pensano allo stesso modo Patrizia Sentinelli, viceministro agli Esteri e la sottosegretaria al Lavoro Rosa Rinaldi, entrambe di Rifondazione comunista. Il Pdci Marco Rizzo che profetizzava i fischi al Prc constata che i fischi non ci sono, anzi, e se la prende con il ministro Bianchi, che ha sostenuto che non era il momento di scendere in piazza: «Va bene che è un indipendente — osserva Rizzo — ma che non lo sia troppo!». Gli strali di un'altra esponente dei comunisti italiani, la capogruppo a palazzo Madama Manuela Palermi, sono invece indirizzati a Guglielmo Epifani, «che ha appoggiato con imprudenza questa Finanziaria ed è per questo — aggiunge — che qui c'è poca Cgil». In compenso, c'è tanta Fiom, con Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi in testa al corteo, ma questo aspetto riguarda un'altra partita politica che si sta giocando: quella interna alla più grossa organizzazione sindacale. La Fiom vuole dimostrare a Epifani — accusato, per dirla con Cremaschi, di trattare Prodi e i suoi come «un governo amico», rinunciando alla protesta — di essere tutt'altro che marginale.
Comunque un filino di imbarazzo per il doppio incarico «manifestante-rappresentante del governo» alla fine comincia a serpeggiare. Tant'è che tutti i sottosegretari si affannano a spiegare che non si tratta di una manifestazione antigovernativa. Fuori linea solo Palermi e il rifondarolo dissidente Salvatore Cannavò. Sbotta la prima: «La manifestazione è critica nei confronti del governo: mettiamola come ci pare, ma è così». D'accordissimo il deputato del Prc: «Questo — afferma Cannavò — è un corteo antigovernativo dove se fosse venuto uno come D'Alema, nonostante quello che ha detto a favore della manifestazione, sarebbe stato fischiato».
A sera, però, arriva la dichiarazione di Prodi. Giordano si frega le mani: «Dopo questa manifestazione, ci siamo rafforzati. Il governo ascolterà le richieste che vengono da questo corteo» commenta con i compagni di partito. Il segretario di Rifondazione tira un sospiro di sollievo. E rivolge un muto ringraziamento al buon Ciccio Ferrara che conducendolo dentro e fuori il corteo, attaccato al cellulare per capire dagli altri colleghi del Prc sparsi nella manifestazione dove, quando e se poteva accadere l'incidente, ha evitato i fischi. Magari non ci sarebbero stati lo stesso. Ma anche pochi avrebbero cambiato il segno di una giornata che per Giordano si chiude invece, come sottolinea lui stesso, «in modo più che soddisfacente».

La Stampa 5.11.06
IL DIESSINO RIFORMISTA: «VEDO UN SOLO RISULTATO: ORA I CITTADINI SONO PIU' CONFUSI CHE MAI»
Morando: «un corteo che crea danni»
di Giacomo Galeazzi


ROMA E’ «preoccupante e crea confusione nei cittadini» la novità di sottosegretari ed esponenti della maggioranza che manifestano contro il governo per una Finanziaria accusata di assecondare la precarietà. «Nell’esecutivo ci sono forze antagoniste che non sanno proprio resistere all’appello a partecipare comunque a un corteo - scuote la testa il diessino riformista Enrico Morando, presidente della commissione Bilancio del Senato -. E’ un dato di fatto che la sinistra radicale si muove per difendere il suo spazio politico perché teme che altri partiti glielo sfilino mentre è al governo». Una doppia collocazione «in piazza e nei ministeri» che è fonte di «ambiguità» e rischia di provocare «seri danni alla coalizione».

Il governo sconfessa se stesso, come protesta la Casa delle libertà?
«Gli organizzatori della manifestazione hanno un evidente pregiudizio negativo contro questo esecutivo, quindi chi ha incarichi ministeriali avrebbe dovuto tenerne conto. Purtroppo alcuni non lo hanno fatto e sono andati al corteo, malgrado le scelte fondamentali di politica economica dimostrino quanto siano ingiustificate le critiche dei manifestanti alla Finanziaria. Nessuno, per esempio, parla degli interventi compiuti per rendere vantaggioso nel Mezzogiorno assumere donne che finora avevano soltanto lavori in nero e precari».

Qual è la causa?
«Entriamo nel merito di quanto è stato deciso dal governo in questi due mesi. Ricordo a qualche sottosegretario che la Finanziaria riduce di tre punti il cuneo fiscale contributivo favorendo le imprese che hanno lavoratori a tempo indeterminato. Sono forse misure inefficaci o poco incisive a giudizio di chi fa parte del governo che le ha adottate? Eppure la Finanziaria aumenta anche l’aliquota contributiva dei lavoratori atipici per incentivare le aziende verso un’occupazione stabile. Finora, invece, all’imprenditore conveniva il lavoro flessibile proprio per il basso contributo previdenziale. Si tratta di provvedimenti concreti, costano soldi e mi preoccupa vedere che non tutti al governo li difendono e valorizzano malgrado fossero già nel programma del centrosinistra».

E adesso?
«Occorre prendere atto nella coalizione che, su una questione strategica come le misure anti-precarietà, i manifestanti non apprezzano il mutamento di indirizzo del governo. Questa contraddizione investe forze importanti che fanno parte di questo esecutivo, e ciò finisce per essere penalizzante ed è necessariamente motivo di preoccupazione per l’intero centrosinistra. L’azione di governo è ispirata alla lotta alla precarietà, dunque ignorare o non valorizzare una scelta così caratterizzante proietta ombre lunghe sull’esecutivo e sulla maggioranza che lo sostiene».

Il prossimo passo?
«Appena le condizioni della finanza pubblica lo consentiranno, partirà la riforma degli ammortizzatori per renderli universali e capaci di coprire tutti i lavoratori, a prescindere dal rapporto di lavoro che hanno in quel momento con la loro azienda. Il governo intendeva applicare già quest’anno il modello proposto dall’economista Tito Boeri, ma nel 2006 era impossibile a causa del 4,8 di indebitamento rispetto al prodotto interno lordo. L’agenda però è fissata e si dovrebbe arrivare nell’arco di un biennio a varare il sistema degli ammortizzatori universali. L’anno prossimo scriveremo le norme insieme alle parti sociali e nel 2008 le nuove misure diventeranno realtà. Un conto sono gli slogan pur condivisibili a favore del lavoro stabile, ma contro la precarietà non si può far tutto in un paio di mesi...».

La Stampa 5.11.06
Governo contro governo
La strana marcia di viceministri e segretari di partito
fra striscioni, slogan antagonisti e i cori «Pueblo unido»
di Fabio Martini


ROMA. Da dieci minuti la testa del corteo si è staccata dal piazzale della stazione Termini e il serpentone si sta allungando su via Cavour in un silenzio innaturale per una manifestazione che si preannuncia arrabbiata. Se ne accorgono dal camion dei Giovani comunisti e lo speaker - per accendere gli animi - urla dal microfono: «Siamo tantissimi, facciamoci un applauso!». Da sotto parte un pallido battimani, ma il ragazzo insiste: «Noi portiamo un pezzo di storia di precarietà e di ribellione. Facciamo un urlo per farci sentire!». Intorno si alza un timido «eh!» e lui insiste: «Più forte! Un applauso per noi!».
Finalmente i ragazzi attorno rispondono e concedono un «Eh!» più convinto.

Sono le tre del pomeriggio e nelle tre ore successive il corteo contro la precarietà si dipanerà tra le strade del centro di Roma confermando le sequenze iniziali: la grinta e l’angoscia dei tanti giovani precari non prenderà voce in slogan aggressivi, ma finirà per essere interpretata da alcuni striscioni preparati dei Cobas. E tutto il «rumore» del corteo sarà espresso da musiche ad alto volume (il solito «Pueblo unido», Bob Marley) e dalle urla degli speaker, che chiamando gli slogan, proveranno a farsi imitare dai manifestanti. Un corteo quasi afono, una processione laica, uno strano corteo. Che ha finito per risentire della semplice, plastica contraddizione che lo attraversava: in testa (e quindi tra i promotori del corteo), alcuni dei personaggi politicamente più influenti nell’Italia contemporanea: Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, il terzo partito della coalizione di governo; il presidente dei 41 deputati del Prc Gennaro Migliore; il verde Paolo Cento, sottosegretario in un ministero strategico come l’Economia; i sottosegretari del Prc Alfonso Gianni, Rosa Rinaldi, Patrizia Sentinelli e del Pdci Giampaolo Patta. Una presenza in piazza che ha indirettamente finito per mettere la sordina a metà corteo, mentre nell’altra metà campeggiavano gli striscioni durissimi dei Cobas. Tipo: «Damiano amico dei padroni, vattene!», «No alla Finanziaria ammazza-precari», «Sindacati governativi, ladri di democrazia». O magliettine come quella che diceva: «Sono precario e mi fa male un po’ il pancino, sarà colpa di Tremonti o di Fassino?».

Una manifestazione che ha finito per risentire - ed è questa la novità politica degli ultimi giorni - della crescente divaricazione dentro la sinistra radicale che pure ha promosso il corteo: Rifondazione comunista (presente al governo con ministro e sottosegretari); i Cobas che, nel tentativo di occupare gli spazi lasciati liberi sia dal Prc che dalla Cgil, non si fanno scrupoli ad attaccare frontalmente il governo; la Fiom, che non ha ascoltato l’indicazione del segretario della Cgil Guglielmo Epifani di non partecipare. Aderenti dell’ultima ora, i Verdi e il Pdci, che ha sfilato con un centinaio di militanti, con l’eurodeputato Marco Rizzo, ma non con il segretario Oliviero Diliberto. E visto che l’unico ministro del Pdci, Alessandro Bianchi, aveva fatto sapere di non condividere: («Questo non è il momento per fare manifestazioni»), Rizzo, dalla pancia del corteo commentava: «Bianchi? Un ministro indipendente, anche troppo...». E analoghe battute si scambiavano il capo dei Cobas Piero Bernocchi («Sei vestito con una grisaglia grigio ministeriale...) e il sottosegretario comunista Alfonso Gianni: «Tu invece ti vesti in modo giovanile perché sei più vecchio di me!».

Punzecchiature tra notabili della sinistra radicale che alludono ad una conflittualità all’interno di quest’area che nelle ultime settimane si sta decisamente intensificando. Con una rincorsa a sinistra tra Rifondazione, Cgil, Cobas e Fiom che potrebbe finire per avere ripercussioni anche sul governo. Fino a pochi giorni prima del corteo, la Cgil era tra i promotori. Ma dopo gli insulti di Bernocchi a due sindacalisti della Cgil-scuola, Guglielmo Epifani informalmente aveva chiesto a Rifondazione di evitare commistioni in corteo con i Cobas. La risposta negativa del Prc ha costretto Epifani a sfilare la Cgil. Ma la Fiom è restata e ieri centinaia di bandiere dei metalmeccanici della Cgil sfilavano accanto a quelle dei Cobas.

Corriere della Sera 5.11.06
Ungheria
L'unica vera rivoluzione del Novecento
POLEMICHE Nel libro di Enzo Bettiza una forte denuncia del conformismo ideologico che ha dominato la cultura italiana
di Pierluigi Battista


Convegni, libri, commemorazioni, pentimenti. I cinquant'anni della rivoluzione ungherese hanno permesso di rivisitare eroismi e miserie, errori e oscurità di un episodio cruciale della storia del secolo scorso. Un anniversario, questo del 2006, che si intreccia con i settant'anni del colpo di Stato franchista e l'inizio della guerra civile spagnola. Una duplice occasione per rivisitare il senso e il significato di due grandi eventi storici del XX secolo. L'insurrezione e la repressione in Ungheria, intanto: davvero questo anniversario ha dato l'opportunità di riflettere in profondità su una «rivoluzione vera e popolare», quella che Enzo Bettiza definisce, nel suo
1956 pubblicato da Mondadori, «la sola rivoluzione antitotalitaria e democratica del Novecento» e che però, a differenza di quella del 1917, «nella realtà un colpo di Stato», non è riuscita a «sconvolgere il mondo»?
Molte rievocazioni (e scuse ufficiali), nell'occasione di questo cinquantennio. Ma mai, o molto marginalmente, un tentativo di risposta ai perché posti nel libro di Bettiza: perché quella rivoluzione è stata disconosciuta? Perché, nel mondo, la «rimozione a destra» e la «calunnia a sinistra» hanno sterilizzato l'unica vera rivoluzione del secolo, un'insurrezione popolare autentica e non pilotata, repressa da un immane spiegamento di forze? Immane, se ben 5000, «più di quanti Hitler ne lanciò contro la Russia nel 1941», furono «i carri amati scaraventati da Kruscev e da Zukov contro la minuta, isolata, ma focosa Ungheria». Se una città, Budapest, fu bombardata e resa ancor più spettrale di quella violentata nel 1945. L'Ungheria, scrive ancora Bettiza, ha avuto «il triste privilegio di fornire all'insonne impresa funebre del Cremino la più alta quota di impiccati e di riabilitati». Un'orgia di «tribunali speciali, forche, plotoni d'esecuzione, campi di concentramento». Recentemente Adriano Sofri ha lamentato il carattere corrivo e stereotipato di un'espressione ormai logora come «i fatti d'Ungheria». Bettiza gli dà ragione, e li chiama «i fattacci». Il fattaccio di un'insurrezione che l'Unione Sovietica supercorazzata ha schiacciato, spezzando «la spina dorsale» di una nazione intera.
Ma Budapest non è diventata il simbolo della rivoluzione democratica. Su di essa si è esercitata una memoria debole, reticente, omertosa. Imre Nagy non è stato collocato tra le icone degli eroi sconfitti. I comunisti di Togliatti hanno avuto bisogno di decenni per rinsavire e ammettere l'enormità di un errore. E gli intellettuali che hanno appoggiato gli aguzzini godono ancora di una fama di maestri del pensiero. Recentemente il settimanale Il Domenicale ha pubblicato un'antologia dell'inaudita violenza verbale che in Italia eruttò per infamare quella rivoluzione bollata da Togliatti come «terrore bianco» e «banditismo». Per il filosofo Antonio Banfi in Ungheria si assisteva a «violenze terroristiche scatenate dai rappresentanti del vecchio nazismo». Per Concetto Marchesi, sommo latinista, c'era solo il disgusto per «la cagnara reazionaria, clericale e fascista». Per Augusto Monti, un monumento dell'azionismo piemontese, i «borghesi di tutto il mondo» cercavano solo un pretesto per «sfogare i loro livori antirussi e anticomunisti». Cosa può essere la litania minimizzatrice dell'«abbiamo sbagliato», del «sottovalutammo» e del «non capimmo», rispetto alla portata spaventosa di ciò che accadde nell'indimenticabile '56?
E Bettiza, che di questa sottovalutazione si è molto indignato anche nel colloquio con Aldo Cazzullo sulle colonne di questo giornale, non si capacita del fatto che non solo i custodi dell'ortodossia comunista abbiano impiegato decenni prima di manifestare un minimo di vergogna per essere stati dalla parte dei carnefici, ma anche chi nella storia è passato in Italia come il campione del dissenso. È l'aspetto più amaro (e disperato) della denuncia di Bettiza: rivolta a chi non seppe rompere del tutto, non ebbe il coraggio della solitudine e abbandonò chi ruppe con il Moloch comunista a costo dell'ostracismo. Il manifesto dei «101»? Solo il ricordo enfatico di chi non seppe andare fino in fondo. Quattordici dei loro «faranno marcia indietro spaventati e confusi». Altri «se ne andranno senza clamore, in punta di piedi, sgusciando dalla porta di servizio». L'amarezza di Bettiza si rovescia anche sugli amici, sugli intellettuali che solo più in là negli anni accetteranno le conseguenze di una frattura più radicale con il mondo d'appartenenza: «Renzo De Felice, dopo aver partecipato per qualche tempo alle sfortunate iniziative editoriali di Onofri, finirà col tuffarsi interamente nella storia del fascismo; Lucio Colletti si rifugerà nella contestazione filosofica di Marx e di Hegel e in definitiva soprattutto di se stesso».
E il mito di Antonio Giolitti, la parte della sinistra che si stacca dal Pci, che fa i conti con se stessa, che non persevera nell'errore? Anche questo viene ridimensionato nella ricostruzione impietosa di Enzo Bettiza. Giolitti, «spretato sempre roso dal dubbio», giungerà solo a conclusioni «spente e deludenti», ad uso dei «comunisti infelici», che non hanno trovato la «forza morale e intellettuale per gettare con risolutezza la tonaca alle ortiche. Escono dal partito più addolorati che indignati, e con sprezzante dignità rifiutano la qualifica dell'"ex". Non osano percorrere la strada fino alla soglia dell'abiura». Bisbigli, mormorii, lacerazioni destinate, come infatti si è visto, ad essere ricomposte nella riconciliazione. Qui l'analisi amara di Bettiza prende le forme di una bocciatura senza appello di un intero ceto intellettuale: «L'Italia, nei frangenti di crisi del comunismo, non ha avuto la fortuna di sentire voci simili a quelle echeggianti nella Francia di Gide, Aron, Domenach, Souvarine, Mauriac, Malraux, Camus, Revel, Fejtö e perfino di un grande ondivago come Sartre. Noi abbiamo dovuto contentarci dei sì elargiti da Concetto Marchesi ad uno Stalin paragonato a Tiberio, dei vacillanti sì e no di Norberto Bobbio, dei sommessi borbottii di Italo Calvino, delle indulgenti omertà dei Moravia».
Ecco perché l'unica vera rivoluzione antitotalitaria e democratica (e «calunniata», come ha scritto Federigo Argentieri) del Novecento, in Italia non è stata compresa. E non si comprende l'abisso morale (archiviato come errore, ma senza pathos) in cui caddero anche i migliori e più generosi militanti del Partito comunista: Umberto Terracini — proprio lui, l'eretico — che auspicava l'intervento sovietico «a scudo dei combattenti per la costruzione del socialismo»; Giorgio Amendola, il figlio della tradizione liberale confluito nell'italo- comunismo, «che inveiva contro i " fascisti di Horthy"». Tutti contro la rivoluzione che non lascerà tracce e non sconvolgerà il mondo, perché nell'Occidente liberale «nessuno penserà a soccorrerla», lasciando l'Ungheria «insanguinata, isolata, ignorata». Un'autocensura durata cinquant'anni. Ma che anche oggi ci impedisce di ricordare senza impacci quella grande rivoluzione. L'unica del Novecento democratico.

Corriere della Sera 3.11.06
La teoria formulata da genetisti ed esperti in scienze politiche
La fede politica è ereditaria?
Uno studio su gemelli indica che è plausibile ipotizzare che le propensioni sociali possono essere ereditate. Ma c'è chi è scettico
di Alessandra Carboni


Lech Kaczynski e il gemello Jaroslaw Kaczynski, uomini politici polacchi (da Internet)
Lech Kaczynski e il gemello Jaroslaw Kaczynski, uomini politici polacchi (da Internet)
STATI UNITI - Ispirati da Aristotele, che nel 350 avanti Cristo ha scritto «l’uomo è per natura un animale politico», alcuni studiosi sono oggi intenzionati a provare scientificamente che la propensione alla politica è realmente insita nell’individuo.
GENI POLITICI - Attraverso l’osservazione del comportamento e dei cervelli di migliaia di coppie di gemelli (identici e non) gli scienziati puntano infatti a dimostrare che la prova della veridicità di quanto affermato dal filosofo greco risiede addirittura nel nostro codice genetico. John Hibbing e John Alford, professori di scienze politiche rispettivamente presso la University of Nebraska-Lincoln e la Rice University, sono convinti che le attitudini sociali possano essere ereditate, quindi tramandate di padre in figlio, e i ricercatori della genetica avrebbero già trovato diversi elementi a favore di tale teoria proprio nello studio dei gemelli identici. A differenza delle coppie di gemelli eterozigoti, quelli omozogoti hanno lo stesso patrimonio genetico: la ricerca ha messo in luce che mentre questi ultimi condividono spesso le stesse idee su temi quali la pena di morte, il nucleare, il ruolo delle donne o della religione, i primi sono sovente in disaccordo. Se si dà per appurato che in entrambi i casi i fratelli siano cresciuti nel medesimo ambiente socio-economico, allora – sostengono Hibbing e colleghi – tale disparità non può che dipendere dai geni.
VOCI CONTRO – Tuttavia, questa teoria incontra il disappunto di un professore della Duke University, Evan Charney, secondo il quale «la sola idea che una cosa come l’ideologia politica possa essere ereditaria è incoerente, non ha alcun senso ed è storicamente imprecisa». Per Charney, infatti, qualsiasi corrispondenza tra i credo politici dei gemelli deve essere attribuita sostanzialmente al contesto ambientale in cui essi vivono, non ai loro geni, poiché si tratta di una spiegazione molto più plausibile, ancorché a sua volta non effettivamente dimostrabile. Insomma, le idee sono diverse e contrastanti, ma è comunque un dato di fatto che – per il momento – il gene della politica non è ancora stato identificato.

il manifesto 5.11.06
Mi considero un costruttivista: il passato non ci è «dato», dobbiamo riferirci alle «prove» e costruirle in un discorso storico Hayden White
Il lato narrativo della storia


C'è chi ha accusato Hayden White di sbarazzarsi con troppa disinvoltura dei criteri in base ai quali distinguere tra vero e falso; mentre per altri avrebbe finalmente restituito la storia al suo dominio, quello di una pratica culturale strettamente connessa con l'esercizio del potere. In questo incontro, torna a liquidare come un residuo positivista l'idea di una immediata corrispondenza tra la realtà storica e la sua rappresentazione
di Giuliano Battiston

Proprio quando, negli anni '70, la polizia di Los Angeles lo considerava uno dei più pericolosi comunisti della West Coast, gli «storici di professione» cominciarono ad accusarlo di «agnosticismo storiografico» e di «anarchismo epistemologico». Oggi, a distanza di trent'anni, il filosofo della storia e storico della cultura Hayden White è ancora «pericoloso», perlomeno per quegli storici che si ostinano a rivendicare la neutralità e l'oggettività della loro disciplina. L'autore di Retorica e Storia (Guida editore), non ha rinunciato infatti a ripensare criticamente la distinzione aristotelica tra historia e muthos, e continua a liquidare come un residuo dello scientismo positivista l'idea di una immediata corrispondenza tra la realtà storica e la sua rappresentazione.
I suoi saggi alimentano tuttora un dibattito che, se ha avuto il merito di rendere esplicite questioni epistemologiche prima inespresse, ha assunto a tratti toni manichei, dando vita a due schieramenti contrapposti: per gli uni, White si sarebbe sbarazzato con troppa disinvoltura dei criteri in base ai quali distinguere tra vero e falso, finendo con il dissolvere lo statuto conoscitivo della storia; per gli altri, invece, avrebbe finalmente reso evidenti le implicazioni politico-ideologiche nascoste sotto la presunta trasparenza del medium linguistico e formale adottato dagli storici. Così facendo, avrebbe restituito la storia al suo dominio, quello di una pratica culturale strettamente connessa con l'esercizio del potere.
Abbiamo incontrato Hayden White alla Certosa di Pontignano, mentre esce in questi giorni da Carocci il suo Forme della storia. Dalla realtà alla narrazione, dove affronta quelle che definisce, con evidente provocazione, le «forme metafische della storiografia occidentale, così come si ritrovano in tutte le scuole di pensiero - dal marxismo allo struturalismo, dal liberalismo al postmoderno, dalla linguistica alla psicoanalisi. E con lui abbiamo discusso delle reazioni che il suo lavoro ha suscitato negli anni.
Analizzando complessivamente i suoi testi, si ha l'impressione che le sue riflessioni siano orientate in una direzione costante e che nascano dalla medesima esigenza: dimostrare come ciò che siamo abituati a considerare naturale, in particolare il passato, sia in realtà una costruzione culturale. È d'accordo con questa ipotesi di lettura?
Penso sia una lettura corretta. Mi considero infatti un costruttivista: ritengo che il passato non sia qualcosa che ci è immediatamente dato o che sia a nostra disposizione ma che, piuttosto, dobbiamo riferirci alle «prove» del passato e costruirle in un discorso storico. Questo non significa che il passato non sia mai esistito o che gli avvenimenti non siano mai accaduti. Significa, invece, che ogni resoconto storico è costruito e non semplicemente «depositato» nelle prove e nei documenti storici, poiché tali prove sono selezionate da qualcuno che le «taglia» in modi diversi, trasformandole in argomentazioni differenti. In questi termini possiamo dire che il passato è una costruzione: gli eventi del passato sono svaniti, e possiamo vederne soltanto gli effetti, le macerie, i documenti, a partire dai quali tentiamo di ricostruire quegli eventi. Ogni ricostruzione, però, è, nello stesso tempo, una costruzione. D'altra parte, molte culture non si dedicano a quell'insieme di discorsi che noi chiamiamo storia, e gli stessi sistemi di datazione cronologica sono culturalmente determinati. Perché non dovrebbe esserlo anche la storia?
Riferendosi a un saggio di Schiller del 1801 sulla storia come «oggetto sublime», lei ha sostenuto che, invece, l'intera tradizione storiografica moderna si fonda proprio sulla de-sublimizzazione e naturalizzazione degli eventi...
Fin dall'800 gli storici pretendono che il passato si manifesti nella stessa maniera in cui si presenta il passato geologico; ma, se nella geologia abbiamo l'opportunità di osservare e «toccare» i diversi strati temporali, non esiste invece alcun luogo che ci permetta di «vedere» e «toccare» la storia. Agli storici piace credere di potere semplicemente valutare i materiali, e che sulla base dei documenti siano in grado di attestare la verità dei fatti testimoniati. Io ritengo invece che gli eventi di cui parlano gli storici siano gli stessi documenti storici e che la storia come disciplina si basi su una concezione «fotografica» del rapporto che lega gli eventi e i loro effetti ai documenti: i documenti registrati, una volta che siano stati criticamente analizzati, possono restituirci un'immagine fotografica di quanto è accaduto, un resoconto «genealogico» del passato. Secondo questa prospettiva, dunque, tutto ciò che lo storico deve fare è portare alla luce gli accadimenti, scoprendoli come un archeologo scoprirebbe un edificio antico.
Il filosofo della storia Louis Mink ritiene che lei abbia contribuito all'affermarsi della «svolta retorica», proprio per l'importanza che attribuisce agli elementi retorici del discorso storico; ma lei ha sempre preferito parlare di una «svolta discorsiva». Perché?
Perché non sono un linguista, ritengo che il passato sia prodotto dalla discorsività, e che la storia stessa sia - in termini foucaultiani - un discorso piuttosto che una scienza. Ho cercato di dimostrare inoltre che, analizzando i testi storici da un punto di vista retorico, grammaticale e sintattico, e osservandone il sistema simbolico, ci si rende conto che gli storici operano in maniera tale da predeterminare il tipo di materiali su cui concentrano poi l'attenzione. In altre parole, gli storici «prefigurano» il campo storico, orientando i modelli esplicativi e predeterminando le strategie concettuali che useranno per spiegarlo, e scrivono poi un resoconto che «riempia» questa prefigurazione, che sia in grado di «soddisfarla».
Coloro che condividono le sue teorie le attribuiscono il merito di avere sostenuto il passaggio dell'interesse analitico dal referente della ricerca storica - dunque dal «cosa» - al «come»; nonché quello di aver finalmente riconosciuto la differenza che corre tra il prodotto della «costruzione» del passato operata dagli storici e il passato stesso. Coloro che la criticano - tra cui molti storici «di professione», per esempio Carlo Ginzburg - considerano questo passaggio troppo radicale, e si chiedono: «come è possibile fare storia senza il ricorso una verità storica?».
Proprio Ginzburg, un uomo molto colto, che ha una concezione della verità storica profondamente biblica e che si appella verità storica, ha scritto cose di pura fantasia, come Il formaggio e i vermi, un libro che nega ogni aspetto di finzione e che si presenta come un testo storico ma che è, in realtà, una storia fantastica, costruita sulla base di due sole pagine di documenti dell'Inquisizione. Per tornare alla questione del «come», sostengo che per lavorare a una storia della storiografia occorra concentrarsi sullo «scrivere» e sulla relazione che esiste tra la forma e il contenuto, visto che la forma scelta per presentare il materiale storico è essa stessa parte del contenuto. Ogni volta che si scrive una storia, infatti, la maniera in cui il problema viene postulato già determina il tipo di materiali che verranno considerati rilevanti o meno. La descrizione, dunque, prefigura la ricerca e la scrittura. Se assumiamo una prospettiva metalinguistica, questa prefigurazione, che si manifesta anche nella scelta del protocollo linguistico e del dominio semantico, può essere descritta in termini retorici, in tropi e figure. Dunque, dal momento che il referente storico non è più «disponibile», ogni storia sarà non tanto una rappresentazione, una Vorstellung, quanto, piuttosto, una presentazione, una Darstellung, una sorta di messa in scena, di produzione.
Di fronte alle sue teorie gli storici hanno assunto atteggiamenti diversi: alcuni si sono chiusi nello specialismo, come il Brodgelehrte di cui parla Schiller in «Cosa significa e a che scopo si studia la storia universale». Altri, invece, hanno cercato di coniugare il riconoscimento della dimensione «costruttiva» propria della ricerca e della scrittura storica con il rifiuto delle conseguenze scettiche di tale riconoscimento. Qual è il suo atteggiamento di fronte a una disposizione scettica?
Penso che lo scetticismo sia la base della ricerca scientifica, perché comporta la continua contestazione della validità e della stessa legittimità di ogni teoria, la messa in discussione del proprio lavoro, verso il quale bisogna assumere una disposizione costantemente critica. Molte persone però temono lo scetticismo perché esso respinge l'assoluto: il vero nemico dello scetticismo dunque non è la scienza, ma il dogma, religioso, metafisico o morale. All'inizio del diciannovesimo secolo gli storici hanno rivendicato per se stessi il ruolo di depositari neutrali del passato della cultura occidentale. Secondo me gli storici devono essere auto-critici, devono cercare di esplicitare i presupposti epistemologici e metodologici della propria ricerca. Un modo per essere auto-critici è quello di chiedersi in che modo la forma della propria presentazione storica dica qualcosa a proposito di ciò di cui si pretende di parlare letteralmente. Questo atteggiamento diventa tanto più indispensabile se, come faccio io, pensiamo al discorso storico come a una Welthanshauung che è alla base di gran parte della società occidentale, della sua politica, della sua etica, nonché di una certa nozione della cultura e della sua relazione con la politica.
In diverse occasioni lei ha ribadito la distanza che separa la sua concezione della temporalità e della narratività da quella di Paul Ricoeur, il quale avrebbe tentato - secondo lei - «di progettare una metafisica della narratività». Quali sono gli elementi della teoria di Ricoeur che gliela fanno considerare metafisica?
La posizione di Ricoeur è metafisica perché tende a legare la narratività alla dimensione ontologica, come se l'esperienza umana della temporalità si manifestasse e arrivasse a coscienza in una forma narrativa. La filosofia della narratività di Ricoeur può essere letta come il tentativo di conciliare Agostino con Heidegger o, in altri termini, il protestantesimo cristiano con la fenomenologia esistenzialista. Lo sforzo compiuto da Heidegger nella seconda parte di Essere e tempo - lo sforzo di dimostrare che la storicità è un modo della temporalità, un modo di essere nel tempo, ancorando la storicità all'ontologia della condizione umana - consente a Ricoeur di recuperare Agostino e di attribuire una veste «moderna» all'idea della storia come storia della salvazione. Penso che Ricoeur ritenesse di poter trovare nella filosofia di Heidegger una solida base per un certo tipo di etica e di moralità cristiana protestante. In questi termini il peculiare intreccio tra la filosofia moderna e secolare di stampo heideggeriano e la teologia medievale agostiniana gli ha permesso di interpretare il Dasein (l'esserci) come una auto-definizione, ma anche come una auto-salvazione.
A proposito di Foucault, di Barthes e di Derrida, lei ha parlato di feticizzazione del testo, di melanconia dell'attività strutturalista e di elitarismo, arrivando a definire Derrida «il Minotauro imprigionato nel labirinto del linguaggio ipostatizzato dello strutturalismo». Più tardi, lei ha un po' rivisto il suo giudizio. Oggi, in quali termini riconosce l'influenza di questi tre autori sul suo percorso speculativo?
Roland Barthes e Michel Foucault sono quelli che più mi hanno influenzato tra gli studiosi della loro generazione, mentre ho sempre guardato a Derrida come a un «fenomeno» particolare: un autore capace di scrivere su una varietà sorprendente di argomenti, alcuni dei quali troppo vicini al misticismo perché mi interessassero veramente. In termini generali, ritengo che il decostruzionismo sia uno strumento utile per definire meglio alcuni contributi del poststrutturalismo, ma rimane il fatto che per Derrida il decostruzionismo è interminabile, mentre noi siamo destinati a morire. Credo di poter dire che Derrida, che ho avuto modo di conoscere personalmente piuttosto bene, sia stato soprattutto uno scrittore. Una volta mi ha raccontato una storia significativa: mi disse che si era trasferito dall'Algeria a Parigi per diventare uno scrittore di letteratura filosofica come Camus o Sartre, e che proprio per questo aveva cercato di iscriversi alla facoltà di Lettere della Sorbonne. Non poté farlo, però, perché per essere ammessi bisognava conoscere il greco, e fu così che passò alla facoltà di Filosofia. Mi sembra che questo aneddoto possa in qualche modo rendere ragione di quella singolare combinazione tra la dimensione poetico-letteraria e quella filosoficache caratterizza i suoi lavori .
A proposito di Derrida, in uno dei suoi saggi, distinguendo tra goût e dégoût, parla della «indigeribilità» di alcuni eventi che, come fantasmi, ritornano dal passato. Non le sembra che anche le recenti polemiche relative al «caso Günter Grass» si iscrivano in questa categoria della indigeribilità?
Innanzitutto penso che queste polemiche siano soltanto un gran polverone. Alcune persone hanno un'idea della confessione piuttosto particolare: pretendono che gli altri confessino cose che loro stessi non direbbero. D'altra parte, per quanto ne sappiamo, Günter Grass, che allora era un diciassettenne, non sembra aver commesso nulla di veramente grave. Mi sembra poi che il problema del passato che ritorna sia legato più alla tradizione ebraica che non a quella cristiana, dal momento che i cristiani credono nel perdono, mentre gli ebrei non possono perdonare i nazisti (e di certo non li biasimo per questo). Non credo, comunque, a una «colpa di gruppo», mentre ammetto che ognuno individualmente possa aver compiuto azioni che desidera dimenticare, reprimendone il ricordo. Questi «fantasmi» del passato, dunque, possono essere interpretati adottando il punto di vista della psicologia individuale, non di quella collettiva. Inoltre, non credo assolutamente nel «senso del padre» in base al quale i figli dovrebbero sentirsi colpevoli delle azioni dei padri, come pretendiamo - a volte - che facciano ancora i tedeschi

Il percorso di White
Conosciuto soprattutto per la pubblicazione, nel 1973, di «Metahistory. The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe», professore emerito di History of Consciousness presso l'Università di California, Santa Cruz, e docente di Comparative Literature all'Università di Stanford, Hayden White è autore di numerosi saggi, raccolti in volumi, tra cui «Tropics of Discourse: Essays in Cultural Criticism», 1978; «The Content of the Form: Narrative Discourse and Historical Representation», 1987; «Figural Realism: Studies in the Mimesis Effect», 1999. È appena uscito da Carocci «Forme della storia. Dalla realtà alla narrazione» (pp. 224, euro 18.50, a cura di Edoardo Tortarolo), un testo in cui torna l'interrogativo se la storia sia una scienza o piuttosto un genere letterario.

il manifesto 5.11.06
Scatti ravvicinati dall'infinitamente piccolo
Presentata ieri al festival della scienza di Genova la mostra «Blow up. Immagini dal nanomondo». Curata dalla ricercatrice Elisa Molinari e dalla fotografa Lucia Covi, una rassegna di foto di una realtà che sfugge alla luce ottica e che è stato possibile catturare solo grazie alla nuova generazione di microscopi
di Luca Tancredi Barone


Scienza e immagini. Non a caso due parole femminili. Come donne sono il direttore del laboratorio di nanotecnologie S3 (Cnr-Infm) di Modena Elisa Molinari e la fotografa milanese Lucia Covi, che con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, hanno curato la mostra Blow up. Immagini dal nanomondo, a Genova all'interno del festival della scienza, e il cui catalogo (corredato da una bella introduzione del premio Nobel Roald Hoffmann) è stato presentato ieri a Palazzo Ducale.
Una mostra che è servita, come ha detto scherzando la giornalista Sylvie Coyaud mentre introduceva le due protagoniste, letteralmente a «migliorare la propria immagine». Verso il mondo e verso gli altri scienziati.
Come nel film di Antonioni, a catturare lo spettatore è la realtà ingrandita. Solo che stavolta non sono vere «fotografie», perché il mondo alla scala del manometro (il milionesimo di millimetro), quello in cui si muovono atomi e molecole, è invisibile alla luce ottica. È il regno della meccanica quantistica, dove le regole del mondo macroscopico che conosciamo non valgono più. È il mondo dove si manifestano fenomeni nuovi e speciali, che possono aprire strade inedite e promettenti per la ricerca. Per esplorarlo ci vogliono, come spiega la fisica Elisa Molinari, degli strumenti, disponibili solo da pochi anni, che sfruttano proprietà diverse da quelle della luce: sono i microscopi a effetto tunnel, i microscopi elettronici, i microscopi a forza atomica, che consentono di sondare anche la materia biologica. Per «vedere», questi strumenti utilizzano fasci di particelle o punte che interagiscono in vario modo con la materia. Ne vengono fuori delle mappe che visualizzino quantità diverse: le proprietà magnetiche della materia, una mappa delle loro proprietà di attrito o delle vere e proprie mappe topografiche.
«Noi ricercatori siamo sempre stati affascinati da quello che vedevamo - spiega Elisa Molinari - di qui la naturale voglia di condividerlo». Ma la motivazione più importante che ha spinto Molinari a cercare la collaborazione di una fotografa professionista è quella che le nanoscienze «proprio perché le immagini sono così difficilmente disponibili al grande pubblico, hanno certo un appeal molto forte, ma sui media di solito vengono raccontate e visualizzate più come la fantascienza terrorizzante degli anni Quaranta - con capsule di sottomarini che risalgono le nostre vene, o sciami di robot incontrollabili - che come quello che davvero facciamo. Ecco perché - conclude Molinari - sentivamo la necessità di ricomporre i frammenti di questo panorama spezzato».
Maestra di questo approccio artistico alle immagini scientifiche è la fotografa del Mit Felice Frenkel, che era al festival due anni fa, e che per Lucia Covi è una vera e propria maestra. «A differenza sua, però - dice Covi, che ha vissuto per mesi nei laboratori S3 - io non ho usato la mia macchina fotografica. Le immagini me le hanno fornite gli scienziati. Erano i risultati delle loro ricerche, ma anche immagini di fasi intermedie di lavorazione. All'inizio ero perplessa e intimidita: oltretutto non avevo mai lavorato con degli scienziati. Ma poi per me è stato bellissimo».
Molte immagini sembrano ricordare paesaggi naturali, tanto da avere un soprannome: la «tana di Bin laden» (uno scavo nanometrico), una piramide nanolavorata, una sequenza di «budini» (che sono nanotrappole per elettroni), di cui Covi sottolinea l'originale «inquadratura», le immagini delle punte in oro o argento usate per «leggere» i nanomateriali, del tutto simili a stalagmiti, una «mammella» (un'altra prova di nanolavorazione con ioni focalizzati), le strisce di Dna srotolato o i nanofili che ricordano alcuni quadri di Pollock. «Alcune immagini sembrano metafore di paesaggi naturali», dice ancora Covi. «Talvolta ho scelto volutamente colori innaturali perché questi paesaggi sono allo stesso tempo consueti, ma anche molto inquietanti, con una luce estraniante che secondo me era bello sottolineare. Altre volte mi sono emozionata quando gli scienziati, che impiegano noiosamente sempre le stesse scale di colori, mi hanno detto che ero riuscita a mettere meglio in risalto quello che loro stessi cercavano».
L'interazione con gli scienziati è stata più semplice del previsto. «Loro sono fantastici - dice Covi -. Capire qual era il soggetto dell'immagine aggiunge fascino, e per me era importante comprenderlo. Così mi hanno spiegato tutto con molta pazienza. Abbiamo fatto un po' fatica a trovare un linguaggio comune: io parlavo di inquadrature, di bassa risoluzione, di sbavature e fonti di luce. Ma per loro era già incredibile essere riusciti a ottenere queste immagini».
La collaborazione tra ricercatori e una fotografa ha fatto riflettere gli scienziati: «Una delle ricadute di questo lavoro - sostine Molinari - è l'aver imparato a fare più attenzione alle immagini anche nel nostro lavoro di ricerca. C'è molto di artefatto in una bella immagine. Molti frodi scientifiche si basano sulle immagini, e le riviste scientifiche iniziano a chiedersi come fare ad aggiungere le descrizioni dei passaggi attraverso i quali sono state ottenute. Molte operazioni sono legittime, ma il loro impatto sulle immagini è enorme. Vogliamo insegnare ai nostri studenti quanto è importante esserne consapevoli».

l'Unità 5.11.06
Anna Freud e Andreas Lou salomè
Un incontro all'università Roma Tre


Lettere inedite di Anna Freud e Andreas Lou Salomè. Il loro epistolario sarà al centro dell’incontro di domani (ore 18) nell’Aula Ignazio Ambrogio (Quarto piano) della Facoltà di Scienze della Formazione (via del Castro Pretorio 20). La professoressa Francesca Brezzi, delegata del Rettore per le Pari Opportunità, e il Master in Formatori esperti in pari opportunità - Women’s studies e identità di genere, in occasione del 150° anniversario della nascita di Freud, hanno organizzato in collaborazione con l’Associazione Alfabeti Comuni il progetto dal titolo Come se tornassi a casa da un padre e una sorella - accoglienza e sorellanza. Traduzione dal tedesco e lettura teatralizzata di parte dell’epistolario inedito di Anna Freud e Andreas Lou Salomè (1919-1937), rinvenuto casualmente e pubblicato a Vienna nel 2004, del quale non esiste una versione in lingua italiana. Il progetto e la regia sono a cura di Maria Inversi. Presiede: Mariella Gramaglia, assessore per le Pari Opportunità Comune di Roma; Laura Bocci, traduttrice, “Sintesi epistolario e differenze di linguaggio tra Anna e Lou”; Margarete Durst, Università Tor Vergata, “Andreas Lou Salomé”; Francesca Molfino, psicoanalista, “Anna Freud”; Clara Galante e Maria Inversi, lettura teatralizzata dall’epistolario 1917 - 1937; Ida Domijnianni, Università Roma Tre, “Stupidaggini clandestine”. Conclude: Francesca Brezzi, Università Roma Tre. Per informazioni: 06 54577338.

Corriere della Sera 5.11.06
A 60 anni dalla guerra si riuniscono in Germania i Lebensborn, uomini e donne nati dall'incrocio di «veri ariani» secondo il programma di Himmler
Biondi, occhi azzurri: esce allo scoperto la «razza perfetta»
di Paolo Valentino


BERLINO — Per anni hanno nascosto la vergogna, il terribile segreto che rendeva insostenibile la loro vita. Soffrendo in silenzio. Spesso incapaci anche soltanto di pensare, men che meno tentare una strada per riconciliarsi col loro passato. Ora, superata la soglia dei sessant'anni, molti di loro si accorgono che il tempo stringe, che sia giunto il momento di far pace con se stessi e la propria biografia negata. E allora pongono domande, indagano, cercando di ricomporre i frammenti delle radici tranciate. Ieri, sessanta di loro si sono ritrovati insieme in pubblico per la prima volta.
I capelli biondi sono più radi o cominciano a perdere i riflessi dorati. Ma i loro occhi restano azzurri. Così li voleva Heinrich Himmler, il capo delle SS, ossessionato dall'idea di creare la razza eletta. In dieci anni, tra il 1935 e il 1945, 10 mila bambini tedeschi e altrettanti norvegesi dalle caratteristiche rigorosamente «ariane» vennero fatti nascere, nel quadro di un programma nazista segreto chiamato Lebensborn. Voluto personalmente da Himmler, il progetto consisteva in una rete di edifici, una decina in tutta la Germania e più tardi altri 9 nella Norvegia occupata, dove «donne di buon sangue» anche non sposate potevano mettere al mondo i figli avuti da relazioni con soldati e ufficiali delle SS. Fu la parte meno conosciuta della politica razziale nazista: mentre milioni di ebrei venivano sterminati e migliaia di piccoli portatori di handicap venivano soppressi nelle cliniche dell'eutanasia, migliaia di bambini, che rispondevano ai requisiti ariani, venivano tolti alle madri naturali e dati in adozione a famiglie di membri delle SS perché li crescessero. Anche i genitori adottivi dovevano provare le loro qualità razziali e l'assenza di malattie ereditarie in famiglia.
Uno dei Lebensbornheim, chiamato Harz, si trovava a Wernigerode, nel Land orientale della Sassonia- Anhalt, dove ieri mattina il piccolo drappello dei Lebensborn si è dato appuntamento. I sessanta fanno parte di un'associazione, «Lebensspuren», tracce di vita, fondata un anno fa. Non era mai successo che parte della riunione fosse aperta al pubblico. «Finalmente, questo tragico tema viene alla luce. Se n'è scritto e parlato troppo poco nei libri di storia e sui media», dice Dagmar Jung, 64 anni, che solo a trenta seppe la verità. Ma ci volle del tempo perché il padre adottivo le desse indicazioni, utili a scoprire l'identità della sua vera madre. Dagmar è fortunata, perché ha potuto costruire un rapporto con lei. Del padre invece, dopo altri lunghi anni di ricerca, scoprì con grande delusione che avevano vissuto nella stessa città per molti anni, ma che era morto nel 1963. «Ora — spiega Jung — voglio dare coraggio agli altri: non ha importanza quale sia la loro età, vale la pena scoprire da dove vengono». Impresa non facile. Per la difficoltà di ricostruire i percorsi, visto che i nazisti distruggevano quasi sempre i documenti d'anagrafe dei nati nel programma. Ma soprattutto per pudore e paura. «Mio zio, il fratello di mio padre adottivo, mi diceva sempre bastarda SS. Ricordo di aver sempre percepito che c'era qualcosa di sbagliato con me, mi sentivo colpevole, ma nessuno mi ha mai spiegato che ero una Lebensborn », racconta Gisela Heidenreich, nata dalla fugace relazione della madre con un comandante delle unità d'élite.
Il programma subì un'accelerazione dopo l'invasione tedesca della Norvegia e della Danimarca, nel 1940. Le unità delle SS venivano incoraggiate a cercarsi donne scandinave con caratteristiche ariane, per metterle incinte. Dopo la guerra, i figli della colpa rimasero nelle famiglie tedesche di adozione. Ma quando molti di loro cercarono di contattare i genitori naturali, si videro respinti ed emarginati. Solo nel 2002 il governo norvegese ha offerto loro un'indennità. In Germania il problema non è tanto finanziario, quanto psicologico e umano. «Lebensspuren» è il primo tentativo di creare una rete di supporto morale ed emotivo.