domenica 12 novembre 2006

l'Unità 12.11.06
GENNARO MIGLIORE
Il capogruppo del Prc alla Camera spiega il no del ministro Ferrero come «dissenso circoscritto», ma chiede più collegialità nella maggioranza
«Noi stiamo al programma, altri creano turbolenze...»
di Vladimiro Frulletti


Il no di Ferrero? Un dissenso circoscritto. Rifondazione non ha nessuna intenzione di indebolire Prodi e soprattutto il programma dell’Unione. Le turbolenze maggiori, semmai, arrivano dal «costituendo» Partito Democratico». Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera del Prc, non ci sta a vedere il suo partito sul banco degli imputati. E non lo nasconde.
Onorevole che cosa state facendo a Prodi, è arrabbiatissimo.
«Non stiamo facendo niente di più che richiamare il programma. Ma soprattutto in questo momento all’interno del Parlamento stiamo costruendo le condizioni per fare una cosa che a osservare i giornali sembra straordinaria».
Straordinaria?
«Si perché stiamo mantenendo ferma la barra dell’unità di tutta la coalizione pur nel necessario cambiamento di alcuni punti della Finanziaria. Stiamo contribuendo a far riuscire nel migliore dei modi questa esperienza di governo».
È normale che un ministro voti contro il suo governo?
«È stata la segnalazione di un dissenso circoscritto che riguardava un metodo adottato dal governo. È accaduto anche sul Mose. Può succedere all’interno di una dialettica democratica. Il punto è che questo non mette in discussione l’impianto generale. Noi non abbiamo mai accettato l’idea che esista una tolda riformista che comanda sull’attuazione del programma. Siamo, al contrario, tutti interessati alla costruzione di una coalizione che si chiama Unione e che ha un programma che la legittima».
Sarà anche un dissenso circoscritto, ma il no di Ferrero è arrivato su una questione dirimente: il Tfr.
«Sul Mose il dissenso è stato anche più largo e quindi dovrebbe preoccupare anche di più»
Il Mose è una questione particolare, l’anticipo del Tfr significa pensioni, nodo fondamentale.
«Abbiamo segnalato, anche col voto di Ferrero, che sulla materia della previdenza bisogna avere un atteggiamento pienamente condiviso all’interno dell’Unione. Lo aveva chiesto qualche tempo fa anche il segretario della Cgil Epifani. Cioè sta a cuore a molti, e dovrebbe essere la prima preoccupazione anche di Prodi, che sulla materia previdenziale, come su altre ma quella previdenziale per noi è capitale, vi sia una discussione nella coalizione».
Non crede che questi vostre decisioni indeboliscano Prodi e quindi favoriscano indirettamente chi spera nell’aiuto di “altri”, magari proprio al posto della sinistra dell’Unione?
«Non mi persuade l’idea che aiutare significhi accettare un metodo o contenuti che non si condividono. A Villa Pamphili dallo stesso Prodi abbiamo ascoltato la precisazione che non esisteva una fase due, che quindi si stava costruendo la realizzazione del programma e che su questo ci sarebbe stata l’unità della coalizione. Mi sembra che le tensioni e gli strappi semmai arrivino più dall’interno del costituendo partito democratico. Non siamo noi a favorire le fibrillazioni, ma serve una strategia condivisa».
E non c’è?
«Alla Camera la stiamo facendo eppure siamo sottoposti a centinaia di voti che in ogni momento potrebbero far cambiare la maggioranza su un singolo elemento. Invece abbiamo tenuto e siamo uniti. Perché allora non possiamo riuscirci a livello di direzione politica di fondo della coalizione dove c’è tempo e possibilità di discutere. Esempi positivi ci sono».
Quali?
«Sulla materia elettorale abbiamo condiviso il richiamo di Prodi a una gestione condivisa delle riforme».
Ma non dovevate essere le “guardie” di Prodi?
«Non ci sentiamo le guardie di Prodi, semmai siamo quel soggetto politico che in questo momento, pensando di costruire uno spazio nuovo per la sinistra, pensa che debba essere ascoltato in primo luogo chi ha contribuito a cacciare Berlusconi. Per questo mi sento più interno alla manifestazione del 4 novembre, del nuovo protagonismo sociale, piuttosto che di geometrie politiche. Non mi sento sentinella di nessuno, mi sento impegnato a costruire le ragioni perché si possa ascoltare le ragioni di chi ha voglia di cambiare la società».
Alla luce anche delle proteste dell’università e della ricerca, secondo lei la Finanziaria va in quella direzione?
«C’è una elementare condizione per evitare che non diventino proteste sterili, basta ascoltarle. L’idea che si debba risolvere tutto dall’alto non mi convince e se c’è un malessere che rappresenta interesse generali e non corporativi, penso che debba essere assolutamente ascoltato».

l'Unità 12.11.06
La sinistra Ds: noi socialisti vogliamo vincere il congresso
Mussi: il Correntone non c’è più. Si presenta l’anima anti Pd
Salvi: «Quando un partito va male si cambiano i dirigenti...»
di Ninni Andriolo


Mussi: «Andremo al congresso uniti, e ci andremo per vincerlo. Non chiamateci scissionisti e non accuseremo nessuno di tradimento»

IL CORRENTONE NON C’È PIÙ annuncia Fabio Mussi. La sala dell'Auditorium è la stessa di tante assemblee diessine convocate da Fassino. Qui, nel pieno della bufera Unipol, il gruppo dirigente della Quercia riunì “la base” per organizzare la controffensiva e «dife-
ndere l’onore del partito». Le sinistre Ds ripartono dall'Eur - e dai 3000 che affollano la Fiera di Roma - per lanciare la sfida. Perché, avverte Cesare Salvi, «se dovesse nascere il Partito democratico, il prossimo potrebbe essere l'ultimo congresso dei Ds…». L'obiettivo non è «rendere testimonianza», rosicchiare qualche punto in percentuale, ricavare uno spazio dentro il futuro Pd, ma «vincere» le prossime assise diessine. Perché «si apre una fase nuova, con compagne e compagni che vengono da strade diverse…». Quel «correntone non c'è più» pronunciato da Mussi all'inizio del suo intervento, quindi, è proclama politico e impegno per allargare il campo al di là dei confini di Pesaro e Roma. A dispetto dei sondaggi, che danno l'80% degli iscritti Ds favorevoli al Pd, Mussi, Salvi e Bandoli sono convinti che nella base e nella stessa maggioranza fassiniana si registrino molti dubbi sulla prospettiva. E le prime file dell'assemblea di ieri rafforzano la convinzione che è possibile «giocare la partita». Seduti a pochi metri dal palco ascoltano attenti Brutti e Caldarola, orientati a sottoscrivere una mozione che punti sulla federazione Ds-Margherita. In presidenza c'è anche Valdo Spini. Esponenti, fino a ieri, della maggioranza che oggi imboccano strade che non prescindano da un aggancio esplicito con il socialismo europeo. E la platea - molti i trenta-quarantenni e molti i più giovani, insieme a una pattuglia di dirigenti Cgil, tra loro Paolo Nerozzi - si infiamma ascoltando le parole di un quasi novantenne, Giovanni Pieraccini, un vecchio socialista, già ministro del primo governo Moro. Così come applaude - con lo Springsteen che canta «abbiamo fatto una promessa..» - anche le note dell'Internazionale. Una versione jazz registrata nel '76 da Mazzon e Schiano, scovata da Vincenzo Vita. «Una grande assemblea, volontà di battaglia, ma anche responsabilità», commenta l'ex coordinatore del Correntone. In realtà, ieri, Mussi ha ribadito il suo punto di vista e la sua linea, ma non ha chiuso porte e finestre. Non ha illustrato, cioè, una mozione già bella e confezionata. «Presentiamo un manifesto - chiarisce -. Uno spunto di riflessione che si rivolge a tutta la sinistra italiana». In sala, come osservatori, anche Armando Cossutta e il Prc Migliore. Ma anche Gerardo Bianco. «Con la sinistra Ds siamo speculari», spiega l'esponente popolare. «Bisogna guardare a una sinistra che sia di valori e di governo - incalza Mussi - e che vada oltre le sue divisioni storiche». La strada per il congresso è ancora lunga e possono maturare, quindi, fatti nuovi. La sinistra Ds, tra l'altro, considera i continui richiami di Rutelli al «Pd che non entrerà mai nel Pse» la spia della sostanziale propensione del leader Dl a rallentare il percorso del Partito democratico. «Perché dobbiamo affannarci per far diventare Rutelli un po’ più socialista e lui si deve affannare per farci diventare un po’ più democristiani?», chiede Mussi. Intorno alla federazione Ds-Dl, l'obiettivo di un settore, pur minoritario, dell'attuale maggioranza, potrebbero convergere posizioni attualmente divaricate? Ieri c'era chi sosteneva che nella segreteria Ds si sarebbe aperto il dibattito sulla «transizione federativa» al Pd. Vero? Falso? La minoranza, intanto, pianta paletti ma non scopre tutte le carte utili al gioco. E, ad esempio, non è stato messo in campo alcun nome di candidati da opporre a Fassino. Potrebbe essere lo stesso ministro per l'Università a scendere in lizza, come sussurrano in molti, anche se il ruolo che svolge Mussi nel governo Prodi potrebbe consigliare scelte diverse. In tal caso è possibile «una sorpresa». Quella di una donna? L'iniziativa dell'Eur - va sottolineato - è stata conclusa da Pasqualina Napoletano, vice presidente del Pse. Le norme che impronteranno il congresso, tra l'altro, sono ancora da definire. «Vorremo che si svolga con regole occidentali - avverte Mussi -. No al voto segreto, al mercato delle tessere, al boom delle vocazioni in vista delle assemblee». Ma non saremo noi ad abbandonare la Quercia, annuncia il ministro. «Noi siamo nei Ds e nessuno osi chiamarci scissionisti, diamo Stalin seppellito per sempre». E, ancora, «andremo uniti, per imporre un cambiamento di rotta». Niente anatemi, però, contro chi perora «legittimamente» la causa del Partito democratico. «Altrettanto legittimamente però - chiarisce Fulvia Bandoli - sosteniamo la causa di un grande centro capace di governare con noi, ma non alleandoci nello stesso partito». In ogni caso, ripete Mussi, «nessuno sentirà da noi invettive, insulti o accuse di tradimento», anche se dovesse imboccare «una strada sbagliata». Cesare Salvi, però, prende di petto Fassino, ma anche D'Alema, apprezzato poco prima da Mussi per la svolta impressa alla politica estera italiana. «Quando un partito va male alle elezioni si cambiano linea politica e dirigenti - attacca Salvi, tra gli applausi - Da noi invece quegli stessi dirigenti vogliono mandare a casa il proprio partito. Come diceva Bertold Brecht, se il popolo non è d'accordo con il partito sciogliamo il popolo». Parole stigmatizzate da Maurizio Migliavacca, presente all'assemblea assieme ad Alfredo Reichlin. «Merita più rispetto il gruppo dirigente dei Ds», replica il coordinatore della Quercia. «Il Pd - avverte - non significa rinuncia alle idee della sinistra». «Qual è la proposta alternativa delle minoranze dei Ds? - chiede Migliavacca -. Non mi sembra che vadano oltre un aggiustamento dell'esistente».

l'Unità 12.11.06
Bertinotti: «Ascoltiamo la Montalcini»
Il governo assicura: «Troveremo i soldi»
di Roberto Monteforte


«La soluzione si trova. Questo è certo». Continua a rassicurare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta dopo la ferma denuncia del premio Nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini. Dovrebbero stare tranquilli rettori, ricercatori, scienziati ed anche i parlamentari del centrosinistra, diessini in testa, che da tempo, da prima che la Montalcini minacciasse di far mancare il suo voto alla Finanziaria, hanno ricordato «programma dell’Ulivo alla mano», come l’impegno per la ricerca e in particolare per quella pubblica, sia strategico per il futuro del paese.
È quello che più volte ha ribadito anche il ministro per l’Università e la Ricerca, Fabio Mussi che non nasconde come tra i problemi della ricerca «made in Italy» vi sia pure quello dello scarso apporto dei privati. «Molti imprenditori italiani - sottolinea - sono più sensibili ad una banca o ad una squadra di calcio che agli investimenti in ricerca e innovazione». Il ministro, in piena sintonia con la Montalcini, continua a chiedere significative «rettifiche» alla Finanziaria. «Penso - ha spiegato - che due cose devono essere corrette, il taglio del 20% dei consumi intermedi degli enti di ricerca e il taglio previsto dall'art.53 per tutti i ministeri che ricade sugli enti pubblici di ricerca per 207 milioni».
Si vedrà quale sarà l’emendamento «salvaricerca» annunciato da Enrico Letta. Lo stretto collaboratore del presidente del Consiglio al momento non si sbilancia sui contenuti. Lo fa il sottosegretario all’Economia, Nicola Sartor. «Ci sarà un’integrazione delle risorse per il settore» annuncia. «Le risorse per i progetti di ricerca - chiarisce - non sono mai state messe in discussione. In ogni caso stiamo studiando la possibilità di introdurre un’integrazione». Forse non basta. Nell’operazione rassicurazione verso la Montalcini e i «preoccupati» interviene anche il capogruppo dell’Ulivo, Dario Franceschini: «Il governo sta cercando di risolvere il problema, sta valutando come reperire nuove risorse per la ricerca».
Ma vuole vederci chiaro il responsabile ricerca della Quercia, Walter Tocci. «La finanziaria infatti dimostra che il nostro governo non ha ancora compreso come il problema dell’università e della ricerca non possa essere considerato come una questione settoriale, ma che è invece l’unica via di salvezza del paese». «Nell’attuale finanziaria - osserva - non ci sono soldi alla ricerca pubblica perché prevale un atteggiamento di sfiducia verso di essa. Non è un caso infatti che i bilanci di atenei ed enti abbiano subito tagli e le poche risorse aggiuntive siano state allocate solo nei bandi di ricerca e negli incentivi alle imprese e per più di un miliardo di euro. Il messaggio è purtroppo molto chiaro: non vi diamo soldi direttamente, se volete i finanziamenti andate a prenderli dalle imprese o dai bandi». Per Tocci quella che può sembrare una linea ragionevole, invece, «è un modo per rendere ancora più piccola la ricerca italiana nella competizione internazionale», visto che «la vera anomalia italiana consiste nella debolezza della ricerca privata che è molto più bassa di quella pubblica». La sua critica è di fondo. «Certamente deve essere una priorità aiutare l'industria a fare ricerca, ma non può essere che proprio il punto debole del sistema diventi uno dei pochi canali di finanziamento della ricerca pubblica. È autolesionismo».
La sortita della Montalcini ha mosso le acque. Gliene danno atto in tanti, compreso il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che dice: «Le preoccupazioni della senatrice vanno ascoltate con grandissima attenzione». Il premio Nobel ringrazia, conferma «la forte stima e fiducia per il nostro attuale Governo» e mette in chiaro: «Tagliare i fondi per la ricerca vuol dire affondare il Paese».

l'Unità 12.11.06
Parla l’etologo olandese Frans de Waal: lo studio di scimpanzé e bonobo alla base della sua teoria sul «continuum» tra biologia umana e civiltà
Uomini e scimmie, e se anche la morale fosse frutto della selezione biologica?
di Cristiana Pulcinelli


I nostri parenti più vicini nel mondo animale sono due: gli scimpanzé e i bonobo. Confrontando il Dna, si è visto infatti che l’uomo si è separato dall’antenato comune di queste tre specie solo 5,5 milioni di anni fa. Degli scimpanzé sappiamo molte cose: che sono intelligenti, violenti, a volte crudeli, che formano rigide gerarchie all’interno del branco dominato dai maschi. I bonobo invece sono ancora poco conosciuti. La loro scoperta risale al 1929: fino ad allora nessuno aveva capito che erano una specie diversa dagli scimpanzé. Effettivamente, un occhio inesperto potrebbe confonderli. Ma a guardarli meglio, i bonobo si distinguono per la loro figura aggraziata: le gambe più lunghe, il collo meno tozzo, la presenza di capelli (ordinatamente divisi da una scriminatura centrale) sulla testa relativamente piccola, le orecchie anch’esse piccole. Le femmine poi, a differenza di quelle dello scimpanzé, hanno i seni leggermente prominenti. Ma la vera differenza risiede nel loro comportamento: i bonobo sono pacifici, cooperativi, non c’è dominanza maschile nei loro gruppi e c’è invece una grande quantità di sesso, praticato liberamente, sia con l’altro sesso che con il proprio. «Gli hippy del mondo dei primati», li ha definiti Frans de Waal, l’etologo e zoologo olandese che ha passato moltissimo tempo a studiare le scimmie antropomorfe.
Di Frans de Waal è appena uscito in Italia il nuovo libro (La scimmia che siamo, Garzanti, pp.364, euro 22,50). Nel libro De Waal non solo racconta bellissime e commoventi storie su scimpanzé e bonobo, ma cerca di esplorare le analogie che ci sono tra il comportamento dei primati e il nostro «senza chiudere gli occhi davanti al buono, al brutto e al cattivo». Lo scopo ultimo però sembra ancora un altro: smontare l’idea che la nostra natura profonda sia violenta e amorale, solo sommariamente coperta da una «patina di civiltà». Una tesi che ha avuto sostenitori illustri nel passato. Ad esempio il filosofo Thomas Hobbes, secondo cui l’uomo è un lupo per l’uomo (homo homini lupus) perché il suo istinto lo porta alla sopraffazione, ma decide di vivere insieme ai suoi simili «solo per un patto che è artificiale». Oggi, questa idea è entrata nel senso comune, tanto che, di fronte a genocidi e stragi, parliamo di un comportamento «bestiale». De Waal non è d’accordo: la natura dell’essere umano per lui è piuttosto come Giano bifronte. Violenta e assetata di potere come uno scimpanzé, ma capace di empatia e di solidarietà come un bonobo. Quello che abbiamo in comune con i nostri cugini pelosi è un lungo cammino evolutivo. Abbiamo sviluppato insieme a loro l’interesse per il sesso e il potere, ma anche la capacità di soffrire con gli altri: «la nostra moralità è un prodotto dello stesso processo selettivo che ha forgiato il nostro lato competitivo e aggressivo».
Professor de Waal, osservando le scimmie antropomorfe, è arrivato ad affrontare un discorso prettamente filosofico. Come è accaduto?
«Non sono un filosofo, ma non si può parlare della natura umana senza tenere in considerazione quello che è stato scritto per più di duemila anni. Le concezioni odierne sulla natura umana hanno radici nella cultura e nella religione. Ad esempio, la posizione di alcuni biologi secondo cui l’uomo è fondamentalmente “cattivo”, sono già presenti nel concetto di peccato originale: noi siamo nati con il peccato e dobbiamo faticare parecchio per diventare migliori».
Per secoli si è oscillato tra due concezioni: da un lato l’idea che i nostri istinti siano violenti e aggressivi e che solo la ragione ci conduca a firmare un patto sociale, dall’altra l’idea che la natura sia buona e che l’uomo sia corrotto dalla civiltà. Con chi è d’accordo?
«Non mi convince Hobbes, ma non credo neppure al “buon selvaggio” di Rousseau. Del resto è dimostrato che non siamo gli unici animali a provocare sofferenze per divertimento. In generale non credo ai dualismi: natura-cultura, biologia-civiltà, mente-cervello, moralità-istinto. La mia idea è che biologia umana e civiltà siano un continuum. Difficile da accettare? Forse perché le chiese occidentali hanno sempre cercato di sfruttare il dualismo come giustificazione per la loro esistenza: “Siete nati cattivi e noi vi aiuteremo a diventare migliori”. Ma se diciamo che il senso morale è l’estensione dell’istinto umano, questa giustificazione viene a mancare».
Lei ha sottolineato una strana corrispondenza tra il clima politico e le teorie biologiche di un’epoca. Ad esempio, quando dominavano Reagan e Thatcher, andava per la maggiore la teoria del »gene egoista». C’è una spiegazione?
«Credo che dipenda da un background comune. Quando Darwin parlava di selezione naturale, nel Regno Unito nasceva il capitalismo. Non era Darwin a prestare la sua idea ai capitalisti, ma qualcosa era nell’aria. Oggi, ad esempio, c’è grande interesse nello studio dell’origine e dell’evoluzione del senso morale. Sa perché? Perché ci sono stati grandi scandali in Europa e negli Stati Uniti prodotti da persone che giocavano al gioco del capital gain con mezzi illeciti».

il manifesto 12.11.06
Quanto è cristiana l'Italia?
Filippo Gentiloni


Si moltiplicano le cifre, ma ci si chiede quanto siano significative. Comunque sono contraddittorie. In netto aumento i divorzi e le separazioni, nonché i matrimoni civili e le coppie di fatto, senza matrimonio né religioso né civile. Un dato estremamente significativo, anche perché i dati sui matrimoni riguardano da vicino anche quelli sulle nascite. Vita cristiana, dunque, decisamente in crisi. Ma a questi dati sui matrimoni la gerarchia cattolica può contrapporne altri di segno opposto. La percentuale - altissima - dei battesimi, ad esempio. E anche quella - alta - degli studenti che accettano la religione cattolica a scuola, anche se questi numeri sono in calo con la crescita dell'età degli alunni. E i matrimoni in chiesa sono ancora molti, soprattutto al sud. Che dire di questa situazione? E quale sembra essere l'atteggiamento - la strategia - della gerarchia cattolica? Due i possibili percorsi, come sono emersi anche dal recente convegno ecclesiale di Verona. Non molti evidenziano la crisi, soprattutto dei giovani. Qualche parrocchia, qualche gruppo e comunità: accettano la scristianizzazione, più o meno marcata. Anche l'Italia terra di missione come, d'altronde, più o meno tutti i paesi a maggioranza cristiana (e cattolica). E' inutile - sostengono - mantenere una religiosità ipocrita e convenzionale. Ma si tratta di piccole minoranze. La stragrande maggioranza della gerarchia preferisce un'altra strada: nonostante i segnali negativi, il popolo italiano è ancora sostanzialmente e profondamente cattolico, e così deve essere considerato. E' la strada scelta, come è apparso anche a Verona, dal cardinale Ruini e dallo stesso papa. Perciò l'importanza dei riconoscimenti e anche degli aiuti da parte dello stato: aiuto alle parrocchie, istituzioni cattoliche, soprattutto scuole. Aiuto che può e deve essere anche - soprattutto - economico. La predicazione affidata non tanto ai pulpiti sacri quanto ai mass media, in primo luogo alla televisione. Un percorso che sembra mettere in secondo piano gli aspetti più tipicamente evangelici del messaggio cristiano, per favorire piuttosto una forma di religione «civile». Una religione «per tutti», un'etica del buon senso: cristianesimo civile, civiltà cristiana.
Quale sarà il futuro? Difficile dirlo. Da una parte, quella dei pessimisti, si ricorda il risultato dei referendum su divorzio e aborto. Dall'altra ci si appella al risultato, più recente, del referendum sulla procreazione assistita. Sembra probabile, comunque, una sempre maggiore spaccatura all'interno del cristianesimo: destra e sinistra sempre più separate, nonostante i tentativi «centristi» della gerarchia.

il manifesto 12.11.06
Dopo l'indulto, mano alle riforme
Carceri Non abbiamo bisogno di nuove prigioni, ma di restituire vera legalità al nostro sistema penale
Patrizio Gonnella*


L'ultimo rapporto di Antigone è una fotografia di interni carcerari. Di galere ne abbiamo fotografate 208, con le loro mura scrostate, i bagni alla turca, le docce fredde, le celle interrate. Carceri diverse l'una dall'altra, luoghi dove la violenza è sistematica (fortunatamente pochi), luoghi dove la violenza è tollerata (molti), luoghi dove la violenza è impedita (pochi anch'essi). Carceri dove lavora un'umanità varia, composta da operatori penitenziari di estrazione culturale molto differente. C'è chi crede in una cultura giuridica democratica e ha una visione illuminata della pena; c'è chi è ormai caduto in una condizione di burn out professionale; c'è chi timbra burocraticamente il cartellino; c'è chi sostiene che la Costituzione sia carta straccia.
E poi ci sono i detenuti. Dopo l'indulto sono scesi a 38mila. Ne sono usciti 24mila e più negli ultimi tre mesi. Il tutto nella diffusa indignazione di coloro (media, magistrati, politici) che ingiustamente, smentendo se stessi e le proprie posizioni precedenti, nonché inventando allarmi sociali, hanno gettato fango sul provvedimento di clemenza. Per colpa loro è oggi difficile parlare di amnistia. L'amnistia è invece un atto necessario per evitare di impegnare la magistratura in procedimenti che non avranno alcun esito.
Dopo l'indulto, come ha detto il presidente Napolitano all'indomani della sua approvazione, ci vogliono riforme strutturali. È questa un'occasione unica e imperdibile per mettere mano a un progetto di riforma complessiva del sistema. Va scritto un nuovo codice penale che riduca le fattispecie di reato, riduca le pene, diversifichi le sanzioni. Vanno abrogate la legge ex-Cirielli sulla recidiva, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini (Fini è sempre presente quando si tratta di restringere le libertà) sull'immigrazione. Va istituita la figura del garante delle persone private della libertà, va introdotto il crimine di tortura nel nostro ordinamento penale, vanno tolti dal carcere i bambini con le loro madri. Vanno applicate le leggi esistenti in materia di sanità e lavoro. Vanno ristrutturate le carceri assicurando condizioni di vita dignitose. Non abbiamo bisogno di nuove carceri. Abbiamo bisogno di restituire legalità al sistema, di ricostruire una cultura giuridica che veda nella pena non più la via primaria per la vendetta sociale. Se non ora, quando?
* Presidente di Antigone

Antigone presenta in tutta Italia il IV Rapporto sulle condizioni di detenzione: «Dentro ogni carcere. Antigone nei 208 istituti di pena italiani», a cura di Laura Astarita, Paola Bonatelli, Susanna Marietti, edito da Carocci e di cui stralciamo le schede pubblicate a fondo pagina. Ecco le principali iniziative lunedì 13 novembre: Roma, Libreria Montecitorio, ore 17.30; Catanzaro, sala Cons. provinciale, ore 16; Bologna, v. S.Carlo 42, ore 9.30; Milano, Centro S.Fedele, ore 17; Palermo, Ricordi Media Store, ore 16.30; Padova, Scienze politiche aula B2, ore 16. A Verona sarà il 14, a Torino e Nuoro il 17, a Pescara il 29 novembre

Napoli-Poggioreale. Condizioni disastrose
Capienza regolamentare 1.387; detenuti presenti 2.357 (1.069 liberati con l'indulto). Il carcere è del 1908 e presenta condizioni generali di scarsa vivibilità: nelle celle convivono fino a 18 persone, mancano spazi per la socialità, all'esterno vi è un passeggio in cemento e manca l'area verde. In alcuni reparti le celle sono in condizioni fatiscenti. I reparti sono 12, fra cui transessuali, tossicodipendenti e protetti, Alta Sicurezza, isolamento, infermeria psichiatrica, giovani adulti. Vi è un centro clinico, le condizioni dell'assistenza sanitaria sono critiche. Da pochi anni si usa il metadone, ma solo per pochissimi detenuti. La richiesta di visita medica può essere fatta, ogni giorno, solo da un detenuto per cella. I detenuti sono in cella quasi tutto il giorno: gli orari dell'«aria» sono 10-11 e 13-14 e le attività praticamente nulle. I lavori sono quelli domestici e lavora in pratica 1 detenuto su 15. Sono presenti i tre livelli di scuola, le superiori non stabilmente. I detenuti lamentano costi medio-alti e scarsa qualità per cucina e sopravvitto. Negli ultimi anni si sono spesso verificati episodi di autolesionismo e dal 2001 vi sono stati 4 suicidi. Ci sono state interrogazioni parlamentari su presunte violenze in carcere compiute a danno dei detenuti da personale della polizia penitenziaria. Il clima all'interno del carcere è di tensione e la disciplina molto rigida, come ha più volte segnalato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti nei suoi rapporti sull'Italia.

il manifesto 12.11.06
Sinistre unite, congresso aperto
La minoranza della Quercia si compatta nel no al Partito democratico. Mussi: correntone in archivio, in primavera ce la giochiamo. Salvi: Fassino e D'Alema hanno fallito
Andrea Fabozzi


Roma C'era una volta il correntone. Cambia volto l'area che dentro i Ds si oppone alla liquidazione della Quercia nel Partito democratico (Pd) di Romano Prodi. Fabio Mussi che lo ha guidato attraverso cinque anni e due congressi è titolato a dare la notizia: «Il correntone non c'è più». Per i quadri diessini e i militanti (più i primi che i secondi) convenuti da tutta Italia alla Fiera di Roma per il lancio della nuova componente è però una buona notizia. Il fronte del no si allarga. Firmano insieme un manifesto «per il socialismo del futuro» correnti che fino all'ultimo congresso erano divise: i «socialisti» di Cesare Salvi, gli ambientalisti di Fulvia Bandoli e i laburisti di Valdo Spini. Mussi guarda al congresso di primavera che nelle intenzioni del leader del partito Fassino dovrebbe sancire la confluenza dei Ds nel Pd: «A questo punto il quadro cambia, per la segreteria le cose si complicano. Ora la minoranza è una sola e unita, nella maggioranza invece le mozioni sono diventate due».
A guardarlo da qui - nello stesso teatro dove esattamente dieci anni fa andava in scena un altro tipo di orgoglio socialista, quello di De Michelis, Cicchitto, Intini e gli altri sopravvissuti alla marea di Tangentopoli, tutt'altra storia eppure anche quella dentro le giravolte della transizione italiana, e anche all'ora a palazzo Chigi c'era Romano Prodi - a guardarlo da questa riuscita «prima» per la nuova sinistra dei Ds, il Partito democratico è messo molto male. Certo è una prospettiva di parte. E certo Francesco Rutelli ci ha messo del suo dichiarando giusto alla vigilia che il Pd «non aderirà mai, mettetevelo in testa, all'Internazionale socialista e al Partito socialista europeo». Cesare Salvi ha buon gioco ad attaccare il gruppo dirigente diessino: «D'Alema e Fassino hanno sentito o no? Chiedere agli iscritti di votare per la nascita del Pd rimandando a dopo la scelta sulla collocazione europea è un imbroglio. Nel '96 i Ds presero il 21,1%, oggi sono a un modesto 17%.Quando un partito va male si cambiano linea politica e dirigenti. Da noi invece quegli stessi dirigenti vogliono mandare a casa il partito».
Quello della collocazione internazionale è il problema più evidente del Pd, che imbarazza non solo Prodi costretto a ipotizzare nuove formazioni europee ma anche i socialisti continentali come Martin Schultz e il presidente dell'europarlamento Josep Borrell (non per nulla bandiere del Pse pendevano numerose dalle balconate del teatro della Fiera). Ma è solo una cartina di tornasole delle difficoltà più profonde della fusione tra Ds e Margherita. Mussi: «Non capisco perché dobbiamo affannarci nel tentativo di far diventare Rutelli un po' più socialista». Missione impossibile. Eppure degna di essere tentata secondo il coordinatore della segreteria dei Ds Maurizio Migliavacca in veste di osservatore alla manifestazione di ieri: a suo giudizio in Europa è possibile «un processo nuovo» che «facendo riferimento alla più grande componente riformista», cioè quella socialista, «riorganizzi il campo del centrosinistra europeo». Scenari complessi. Intanto Migliavacca è andato via cupo: «Dalle minoranze non è venuta nessuna proposta alternativa».
C'è già aria di congresso. Mussi solletica la platea: «Lo faremo per vincerlo». E aggiunge: «Non chiamateci scissionisti». La minoranza si prepara a occupare un posto al sole: quello di chi non vuole lo scioglimento del partito e guarda gli altri prendere la via della porta. Ma alla fine peseranno i numeri. Per questo Mussi chiede «regole occidentali» per il congresso e «tessere trasparenti». Ma non è un mistero che contemporaneamente si stia preparando una fondazione per rilanciare l'iniziativa politica parallelamente al partito. In platea oltre ad Alfredo Reichlin al quale Mussi si rivolge per dire che l'eredità di Gramsci e Berlinguer non può finire nel Pd, anche Armando Cossutta ormai definitivamente fuori dal Pdci e Gennaro Migliore, capogruppo alla camera del Prc e dunque osservatore interessato al destino della sinistra Ds. Con gli occhi anche lui al congresso, Valdo Spini - la new entry laburista che arriva direttamente dalla maggioranza fassiniana portando in dote un'icona socialista, il quasi novantenne Giovanni Pieraccini, partigiano e ministro del primo centrosinistra di Moro - è il più esplicito nell'invito a Gavino Angius e agli altri diessini di maggioranza che hanno firmato un documento molto critico con il Pd. «Le vostre obiezioni e le vostre raccomandazioni le condividiamo - dice Spini - ma non c'è speranza che vengano tenute in conto dalla maggioranza. Allora dovremmo confrontarci e magari convergere».
Al momento tra Angius - ieri assente, ma del gruppo c'erano Massimo Brutti e Giuseppe Caldarola - e la sinistra il dialogo stenta. Ma potrebbe cambiare tutto con la discesa in campo di Walter Veltroni. Il sindaco di Roma è pronto a rilanciare la prospettiva ulivista. Di fronte alle difficoltà del Pd, lanciato verso un fallimento che finirebbe col coinvolgere Romano Prodi, a riprendere la centralità della scena sarebbe a quel punto l'alleanza in luogo del partito unico. Sembra che a Massimo D'Alema la prospettiva spiaccia molto meno che a Piero Fassino.

il manifesto 12.11.06
Lo spazio aperto nell'orizzonte dell'imprevisto
Il Principe e noi «Machiavelli: immaginazione e contingenza», da un seminario a Urbino un libro collettaneo
Adriano Vinale


Volendo riprendere la metafora usata nell'introduzione al libro collettaneo curato da Filippo Del Lucchese, Luca Sartorello e Stefano Visentin Machiavelli: immaginazione e contingenza, Ets, pp. 260, euro 18), si può veramente pensare a Machiavelli come a un autore che «si mangia a strati fino ad arrivare al cuore, alla parte più buona». Il che lascia intendere che la schizofrenica storia interpretativa del Fiorentino sia finalmente, con noi, con il nostro tempo, giunta alla sua maturazione. Ma la domanda-corollario è, parafrasando il titolo del libro di Althusser: perché Machiavelli e proprio noi? Certo è che di Machiavelli stiamo riattivando la concettualità, per disporre di strumenti di ermeneutica del presente. Una controprova, triviale al massimo grado, sta in due libri in commercio: Machiavelli per i manager e Il «Principe» dei neocons. Un'altra, di segno inverso, è appunto nel seminario urbinate che tra il 2003 e il 2004 ha coinvolto gli autori del libro (oltre ai curatori, Fabio Frosini, Vittorio Morfino, Fabio Raimondi e Venanzio Raspa). Ma qual è la verità (machiavelliana) che esprime la (nostra) realtà? Qual è il vuoto che va colmato? Lo ricorda uno degli autori: «Il vuoto non è mancanza, non è assenza di qualcosa che dovrebbe essere presente ma si è assentato, bensì lo spazio in cui le cose possono in-contrarsi». La domanda cui questo libro tenta allora di dare una risposta, che sia al contempo una posizione, riguarda lo statuto dell'evento politico.
Una questione ritornante nell'intero volume, è senza dubbio intorno alla definizione di verità effettuale. In Machiavelli, oltre Machiavelli. La domanda la pongono in forma diretta gli interventi di Raimondi - che ragiona sulla costituzione del paradigma-Firenze nelle Istorie - e di Raspa - che lavora analiticamente sul capitolo XV del Principe -: come si scrive la storia? Lo sfondo teorico è il rapporto di Machiavelli con la storia di Roma e di Firenze, ma coinvolge immediatamente il rapporto tra storia e politica. La storia la scrive solo chi la fa. Meglio, la si ri-scrive ogni volta che la si fa. Solo a queste condizioni si può ancora parlare di verità. Possiamo esemplificare con l'immagine di Benjamin, autore che però non compare mai nel libro: «Nella Rivoluzione di Luglio è accaduto un episodio in cui la coscienza storica si è fatta valere. Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili». Non c'è verità senza posizione, non c'è storia che non sospenda per intero il corso normale del tempo storico, che non lo destituisca in un'irresistibile urgenza di presente. Se ogni verità emerge in questo vuoto d'essere, non è certo perché esiste il vuoto, ma perché si manda a vuoto l'essere con l'azione rivoluzionaria.
Ed è qui che sorge il problema cruciale. Perché è chiaro che l'azione politica produce uno scarto. In fondo è questa la prima lezione di Machiavelli. Il suo principe riconosce la strutturale affettività dell'agire umano e inscrive la propria azione in questa contingenza. Produce così una forzatura (lo ricorda Frosini nella sua lettura del Principe) che apre un intervallo d'essere, come segnala Sartorello nel suo contributo sull'umanesimo civile nel '400 italiano. Il principe machiavelliano è un principio di azione politica strutturalmente rivoluzionaria perché forza l'essere e lo apre all'emergenza del presente. Anche Badiou (altro autore con cui un confronto sarebbe forse utile) lo ha scritto riprendendo la storia della Comune di Parigi: «Un evento ha, come conseguenza massimamente vera della sua intensità (massima) d'esistenza, l'esistenza di un inesistente». Il problema diventa allora come produrre un'azione comune nella disseminazione affettiva che costituisce l'orizzonte storico materiale. Perché è chiaro che affetti differenti hanno tempi differenti - su questo insiste Morfino nel suo saggio su Machiavelli e Spinoza. La soluzione che sembra emergere dalla maggior parte degli interventi è quella di concepire il principe come dispositivo politico della moltitudine, come catalizzatore della sua disunione originaria in immaginazione collettiva. Ma questa funzione profetica - come suggerisce Visentin nel suo lavoro sul repubblicanesimo olandese - assolve a un compito ideologico. Bisogna allora intendersi sullo statuto ontologico dell'affettività. Se questo significa che l'azione politica va fondata su di un pieno d'essere, non ci sono obiezioni. Ma il piano affettivo definito ontologicamente si rende disponibile anche all'aggressione del potere sociale. Il desiderio è intercettabile e modulabile, traducibile in bisogno, questo hanno insegnato Marx e Foucault. È perciò che non si può dimenticare lo scarto che ogni azione politica (rivoluzionaria) produce e deve produrre nel continuum della storia. Riscrivendola, deviandola, portando a esistenza l'inesistente, materializzando lo spettro, mandando a vuoto l'organizzazione presente per guadagnare presenza. Facendo accadere l'in-immaginabile.
È questo il problema epocale, per cui Machiavelli e proprio noi. Lo indica Del Lucchese, interrogandosi sul rapporto tra crisi e potenza. Per Machiavelli la forza politica di una città - ma potremmo dire della democrazia in generale -, è a proporzione diretta con la sua capacità di sostenerne e integrarne i conflitti endemici. La crisi, dunque, è quel vuoto di struttura da cui solo può germinare azione politica. Ed è proprio questo vuoto l'obiettivo dell'azione politica. Per Machiavelli quest'azione è il potere costituente che il principe intercetta e rappresenta. Oggi si tratta piuttosto di un potere destituente della moltitudine, ammesso che sia questa la figura da assumere. Capacità di dis-organizzare il regime vigente di produzione (materiale e simbolica). Forza di critica e crisi dello statuto liberale delle democrazie moderne. Potere in-consistente, all'altezza dell'evenemenzialità e contingenza di ciò che accade. Insomma, la lezione magistrale di Machiavelli è che l'azione politica autentica è solo quella assolutamente imprevedibile e improgrammabile, senza possibile strategia di soggettivazione stabile (che sia il partito o la classe). Accade solo l'impensabile, l'impossibile. Come stare a questa altezza politica? Questa è una domanda che ancora ci riguarda.

Repubblica 12.11.06
Bertinotti: "Nessuna crisi in vista"
Bersani difende il premier: "Le sue parole, uno sfogo d'amore"
Il centrosinistra difende le parole pronunciate dal presidente del Consiglio sulla finanziaria
Mastella: "Le fibrillazioni nella maggioranza sono naturali, si illude chi spera nella fine dell'Esecutivo"
di Carmelo Lopapa


ROMA - In fondo è stato solo uno «sfogo d´amore», per dirla col ministro Bersani. Non certo un segno di resa, perché «non c´è nessun fattore di crisi del governo», si è affrettato a precisare il presidente della Camera Bertinotti dopo il voto contrario del "suo" ministro Ferrero sul tfr che tanto allarme aveva destato nella maggioranza. Certo è che il j´accuse di Prodi sul «Paese impazzito che non pensa più al domani», oltre ad aver scatenato le reazioni polemiche del centrodestra, sembra aver colto di sorpresa anche gli alleati dell´Unione.
I ministri fanno quadrato, così pure la Margherita. Ma la Cdl non si illuda che il governo possa cadere, «perché alternative all´esecutivo Prodi non ce ne sono», ha avvertito il leader e ministro Udeur Mastella. Ancora più schietto il leader del Pdci Diliberto, per il quale le larghe intese restano uno spettro da cacciare via in fretta: «Se cade Prodi, si va a una soluzione peggiore, dunque è bene sostenere questo governo, anche se dall´interno lo facciamo con spirito critico».
Bertinotti che giorno dopo giorno tiene ormai il punto su ogni nodo spinoso del dibattito politico (dall´Iraq alla Finanziaria) ha circoscritto la portata del dissenso di Ferrero sulla previdenza. «Non c´è nessun fattore di crisi - ha spiegato - è stato solo il voto di un ministro, nel consiglio dei ministri c´è una persona e non un partito». E dunque, l´ipotesi avanzata dalla Cdl di una crisi legata al dissenso è stata definita «francamente infondata» dal presidente della Camera, «perché il governo ha una responsabilità collegiale». D´accordo anche il diretto interessato Ferrero: «Prodi ha ragione, non c´è nessun elemento di crisi». Ma se le polemiche sul voto contrario in seno al governo sembrano attenuarsi, a tenere banco sono le parole del premier. Niente più che «sfoghi d´amore, appelli a guardare il futuro» per il ministro per lo Sviluppo, Bersani. Il governo sta solo «togliendo qualche spina al futuro per metterla al presente, per aiutare le nuove generazioni». Secondo il diessino padre delle liberalizzazioni sono «ridicoli» i contrasti esplosi in questi giorni tra riformisti e radicali» all´interno del governo. Anche il suo collega di governo e di partito, Fabio Mussi, ha confessato di capire le parole di Prodi, perché il premier «sente il peso di un passaggio niente affatto semplice». È anche vero che «caratteristica di questo governo sarà sempre quella di convivere con le fibrillazioni» ha riconosciuto Mastella. «Ma quando la dialettica si trasforma in conflitto, allora è la fine. Si illude comunque chi pensa che il governo possa cadere, anche perché alternative a Prodi non ce ne sono». Il ministro Fioroni all´attacco dell´opposizione: «Stia zitto chi ci ha lasciato lo sfascio».
Dà ragione al premier Castagnetti: «Con l´impazzimento alludeva alla perdita del senso dell´unità». Molto più cauto il radicale Capezzone: «Il vero impazzimento sta nel fatto che i governi si ostinino a rinviare le riforme strutturali».

Repubblica 12.11.06
Il segretario di Rifondazione Comunista: "Sul Tfr è mancata collegialità. Non lo consentiremo sulla previdenza"
Giordano: "Noi non facciamo strappi ma saremo la sentinella delle pensioni"
La concertazione non basta Non basta la concertazione con i soli sindacati, come è avvenuto per il tfr. Prima la maggioranza deve trovare l'intesa al suo interno
bussola e collegialità Niente manovre da parte nostra ma la bussola del governo e lo spirito di coalizione non vanno smarriti, come qualche volta accade
di Umberto Rosso

ROMA - Un altro strappo di Rifondazione, onorevole Giordano?
«Nessuno strappo politico sul Tfr. Voglio essere chiaro: non ci sono critiche a Prodi nel «no» del ministro Ferrero al decreto legge. Il dissenso riguarda un punto specifico, e che da tempo avevamo sollevato: la possibilità che anche l´Inps possa far da gestore per le pensioni complementari».
E invece che cosa è successo?
«Che è arrivato in Consiglio dei ministri un testo non concordato con tutta la maggioranza. »
Vi siete sentiti tagliati fuori?
«Non dico questo. Ma penso che su alcuni temi, soprattutto quelli che debordano dal programma, serva un confronto approfondito per poter poi trovare delle mediazioni. Niente trame e manovre da parte nostra. Ma la bussola del governo e lo spirito di coalizione non vanno smarriti, come qualche volta invece accade. La collegialità è il collante dell´intera Unione».
Ecco che riaffiorano i malumori.
«Insisto, Prodi stia tranquillo. Ma se c´è collegialità cade la tentazione di qualcuno di costruire delle gerarchie nel programma».
E cioè?
«Qualcuno fa i provvedimenti e qualcun altro è chiamato solo ad accettarli. Tanto per fare un esempio, che sarebbe successo in Consiglio dei ministri se Ferrero si fosse presentato con un testo sull´emigrazione concertato con le organizzazioni dei migranti?».
Il ministro Damiano però aveva firmato da mesi un memorandum con i sindacati sul Tfr.
«Non basta la concertazione con i soli sindacati. In primo luogo è la maggioranza di governo che al proprio interno deve trovare una posizione condivisa, poi a quel punto sedersi al tavolo con i sindacati. Che, secondo me, a loro volta, dovrebbero prima del confronto con il governo trovare una piattaforma comune, promuovendo un largo confronto con i lavoratori. Non è esattamente ciò che sempre accade, ma mi piacerebbe fosse così. Ed è un´idea che vedo circolare».
Sta pensando alla battaglia di gennaio sulle pensioni, onorevole Giordano?
«Dopo la Finanziaria, è evidente che ci troveremo di fronte al grande nodo della previdenza. Io credo che il metodo giusto per affrontarlo sia quello che ho appena delineato. Con il programma come bussola, Rifondazione sarà la sentinella della unità e della collegialità del governo».
Prodi però è arrabbiato con gli italiani «impazziti» che non pensano al futuro. Ce l´ha anche con il ministro Ferrero e con il Prc? «Non vedo perché, visto anche che non siamo certo noi il partito che predica il rigore. Ma è vero che l´Unione non riesce a rivendicare le tante buone cose che ci sono in questa manovra».
Ferrero tuttavia è recidivo nei «no» a Prodi. Il Dpef, il Mose.
«E basta. Solo in tre occasioni, compreso il Tfr, il ministro della Solidarietà sociale ha votato in modo differente in Consiglio dei ministri. Sul Dpef un´astensione più che giustificata dai contenuti di quel documento, che poi infatti ha subito notevoli modifiche. E sul Mose c´è l´opposizione perfino del sindaco di Venezia Cacciari, che non mi pare un pericolo sovversivo. Insomma, nessuno si inventi un nostro dissenso politico contro Prodi».
Funziona anche la Finanziaria del governo?
«Dovremmo far emergere con forza gli aspetti positivi della manovra, finora non ne siamo stati capaci. E svelare le contraddizioni del centrodestra, le loro divisioni, far capire di quali e quanti aspetti impopolari Berlusconi vorrebbe infarcire la manovra, dalla sanità alla scuola, alle pensioni».
Sta dicendo che è meglio non chiedere il voto di fiducia?
«Un dibattito in Parlamento ci consentirà di portare allo scoperto tutte le mistificazioni dell´opposizione».

Repubblica 12.11.06
Mussi: no al Partito democratico. Salvi: dirigenti da cambiare. La replica di Migliavacca: Fassino merita rispetto
La sinistra Ds: "Al congresso sarà battaglia"

ROMA - Hanno scaldato i motori al suono dell´"Internazionale" in versione jazz, sostenuti dagli applausi di tremila iscritti arrivati alla Fiera di Roma da tutta Italia, dal Trentino alla Sicilia. Ma la partita, quella vera, la sinistra diessina si prepara a giocarla al congresso di primavera, quando proverà a far pesare il suo «no» al Partito democratico.
Intanto, un primo risultato Fabio Mussi e Cesare Salvi, Fulvia Bandoli, Valdo Spini e Claudio Fava lo hanno incassato già ieri pomeriggio. Proprio nel padiglione affollato oltre ogni attesa hanno archiviato una volta per tutte le varie correnti di minoranza per dare vita a un unico manifesto, preludio della futura mozione «A sinistra, per il socialismo» alternativa alla maggioranza di Fassino e D´Alema. Sarà pronta a gennaio. Proprio Mussi sarà con molta probabilità il candidato naturale per contendere la segreteria. Ha chiesto fin d´ora voto segreto e vigilanza sulla «consueta proliferazione delle tessere a ridosso del congresso». Obiettivo: superare il 20 per cento delle minoranze, sfiorare magari il 30 per cento, un terzo del partito, provando a mettere in difficoltà la leadership diessina che dà per scontato il non ritorno dal progetto del Pd.
In prima fila, ad ascoltare i big dell´ala sinistra, pezzi ormai critici della maggioranza interna. Massimo Brutti («Osservatore interessato, anche se non condivido il no categorico al progetto unitario») e l´ex dalemiano Caldarola. Nelle vesti di ambasciatori il coordinatore Migliavacca e il presidente della direzione Reichlin, andati via anzitempo. L´ex presidente del Pdci Armando Cossutta, più che interessato («Sono per una grande sinistra, quindi guardo con attenzione») e un cauto capogruppo del Prc Migliore ( «Rispetto il travaglio interno ai Ds»). «Il "Correntone" non c´è più, si apre una fase nuova - ha arringato Mussi, assai applaudito - Siamo nei Ds e andiamo uniti al congresso, non per rendere testimonianza ma per vincerlo. Nessuno osi chiamarci scissionisti. Diamo Stalin per seppellito per sempre». Cesare Salvi il più critico contro i leader: «Quando un partito va male alle elezioni si cambiano i dirigenti. Da noi, sebbene siamo passati dal 21 al 16, i dirigenti vogliono mandare a casa il partito». Quel gruppo dirigente, gli ha replicato Migliavacca, «merita rispetto perché ha vinto tutte le elezioni». Nel mirino di tutti, prevedibile, il secco no di Rutelli all´ingresso del Pd tra i socialisti europei, famiglia che nessuno a sinistra vuole abbandonare. Mussi «Non capisco perché dobbiamo affannarci per farlo diventare socialista quando lui vorrebbe farci democristiani».
(c.l.)

Liberazione 12.11.06
Il principale quotidiano italiano è diventato l’organo di un superpartito della borghesia-forte e svolge il suo mestiere con furia
e in modo organico: in tutte le pagine, in tutti i titoli. Sogna la grande coalizione ed è ossessionato da Rifondazione comunista
La metamorfosi del “Corriere della sera”
da giornale moderato a carrarmato
Rina Gagliardi


Verrebbe quasi voglia di lanciare un allarme, se la pratica non fosse abusata o usata per lo più a sproposito. Il tema, anzi il “caso”, è quello del “Corriere della Sera”, il più importante e il più autorevole dei quotidiani italiani: che cosa gli sta succedendo? Un tempo, storicamente, il “Corriere” era il più istituzionale e moderato dei giornali nazionali - lo leggevamo come il vero, grande “organo della borghesia”, sicuri comunque di non imbattersi quasi mai in furori ideologici, storture, sgrammaticature. Più tardi, esso fu capace anche di innovazioni rilevanti (a cominciare dai “profetici” articoli di Pier Paolo Pasolini), fino a diventare, nella sapiente direzione di Paolo Mieli, uno strumento quasi insostituibile per orientarsi nella politica italiana - e non solo. Tale rimane, anzi, tale rimarrebbe a tutt’oggi, se non fosse in corso, quotidianamente palpabile, un pericoloso processo di stravolgimento. Non si tratta soltanto dell’orientamento politico (dal quale eravamo, e siamo, naturalmente distanti), ma del carattere profondo del “Corriere” - forse del suo stile, del suo modo d’essere. Da paludato e perfino, talora, un po’ “anodino” e freddo, è diventato militante - caldo, quasi bollente. Da moderato si va facendo fazioso. E da osservatorio qualificato dei grandi fatti del mondo è precipitato quasi per intero nelle piccinerie della provincia italiana, specie in quelle dei palazzi e palazzotti. In breve: un grande giornale liberale e d’opinione si sta trasformando in un bollettino di partito. Anzi, di Superpartito. Quale? Il Superpartito che non c’è e che come tale forse non ci sarà mai. Il “Terzo Polo” tra gli sgangherati poli dati. Il Bipartisan allo stato puro. La nuova stagione di una nuova unità nazionale, capace di realizzare la famosa “modernizzazione” neoliberista che nè il centrodestra berlusconiano nè tanto meno l’Unione oggi al governo sono in grado di portare a compimento.

Chiariamo subito una questione. In sè e per sè, questo progetto, questa propensione, questa - chiamiamola pure col suo nome - linea politica nè ci sconvolgono nè ci scandalizzano. Esse hanno precisi riferimenti nel potere economico (la Confindustria di Montezemolo e\o la Bankitalia di Draghi), nella società italiana (i famosi “ceti medi produttivi” in cerca permanente di riscossa), nel ceto accademico degli economisti (Giavazzi, Ichino, Nicola Rossi, tutti pronti ad accettare, nel senso dell’accetta, i corpi sociali così detti “improduttivi”), nella politica (il lato destro dell’Unione e quello “moderato” dell’ex-Cdl, non esclusi i più alti livelli istituzionali). Vuol dire che, al minimo, non si tratta certo di idee improvvisate, o campate in aria. E che siamo sul terreno, pienamente legittimo, della battaglia politica (ed editoriale, visto che il “Corriere” deve comunque muoversi tra varii fuochi, e vincere non solo l’eterna guerra con la “Repubblica” ma l’agguerrita concorrenza, a destra, di fogliacci come “Libero” e “Giornale”). Ma perchè mai un tale programma assume le sembianze di un’ossessione quotidiana, che informa di sè l’intero “Corriere”, la gerarchia delle notizie, commenti ed editoriali, interviste e inchieste? Ecco dove sta il pericolo della regressione faziosa: quando tutto, ma proprio tutto, fin quasi alle notizie a una colonna, diventa funzionale ad una tesi precostituita, a dimostrarla e anzi ad irrobustirla. Quando, insomma, l’ideologia inghiotte e divora la voglia di informare. Volete un esempio, tratto, giust’appunto, dal “Corriere” di ieri, sabato 11 novembre 2006? Non è un quotidiano d’opinione, ma un bollettino di guerra su e contro Rifondazione comunista. Si comincia con l’editoriale sulla “rimozione di Nassirya”, nel quale Panebianco accusa il presidente della Camera di esser stato contro la missione militare in Iraq, di averla considerata una missione di guerra e non di pace, e soprattutto di non aver cambiato idea. Si prosegue con il titolo di apertura, dedicato allo “strappo” del Prc sul Tfr. E con il taglio centrale, nel quale si dà notizia di un libro scritto da Giorgio Napolitano: “Riforme con le intese più larghe”, ecco la casuale titolazione. Altri articoli di prima pagina dal sapore innocente: un ritrattone, nientemeno, che del senatore argentino Pallaro, che “sogna il Grande Centro”, e il manifesto in sette punti di Francesco Rutelli, che propone la privatizzazione di tutto, aria (per ora) esclusa. Non crediate che la costruzione finisca lì, in prima pagina: una news analysis, alle pp.2-3, ci narra della paura dei Ds sull’”asse che sta crescendo tra Prodi e sinistra radicale”; una pagina intera, la 6, è tutta a favore del Mose; la pagina 7 è appaltata al presidente della Margherita; alla 11, troviamo la cronaca delle dichiarazioni di Bertinotti (ancora definite “sorprendenti”), incorniciate, in alto, da una frase di Franco Giordano (la proposta di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan e dirottarle sul Medio Oriente), e chiosate da un’intervista di Monsignor Fisichella nonchè dalla nota di Massimo Franco (“La politica estera oppone Rifondazione al Quirinale”). Fermiamoci qui. Il ruolo politico del Prc, certo, da questa articolata cronaca della giornata politica, esce esaltato fino allo spasimo, fino al punto da sovrastare ogni altra soggettività - e non è certo la prima volta, da quando Prodi si è insediato a palazzo Chigi. Ora, di primo acchito (e da un’ottica puramente mediatico-propagandistica) operazioni come questa possono apparire, perfino, lusinghiere. Ma non ce ne sfugge, in realtà, il “venenum” profondo e la pericolosità. Per destabilizzare una maggioranza (che ha notoriamente già molti problemi per conto suo), per minarne la credibilità, per seminare nel senso comune (non solo borghese) l’idea che prima ci si libera di questo governo e meglio è, che cosa c’è di meglio che non rappresentarlo come uno strumento debole, diviso, confuso ma soprattutto“nelle mani” dei comunisti e della sinistra radicale? Qui c’è la forzatura ideologica. Qui scatta la “disinformatsja” sistematica. Qui il “Corriere” autoviolenta la sua lunga tradizione di equilibrio. E’ vero che il Prc pesa nelle scelte dell’Unione e cerca, come può, di condizionarle - potrebbe essere diversamente, trattandosi della seconda forza della coalizione, sia per voti e parlamentari conquistati, sia per lucidità politico-programmatica? Ma non è certo vero che siamo ad un passo dal governo dei soviet, come risulta dalla Legge Finanziaria, e da molte altre e non inessenziali scelte di politica sociale, di politica economica, di politica estera.

Il direttore del “Corriere” tutto questo lo sa molto bene - ma oggi appare più amico della sua linea politica che non della verità. In effetti,. all’obiettivo dell’abbattimento di Prodi, il “Corriere” ha dedicato i suoi ultimi cinquanta editoriali - l’uno dietro l’altro, implacabili come la neve in alta montagna d’inverno, inesorabili come la sveglia mattutina. E non. risparmia mezzi, come il sostegno attivo al referendum Guzzetta - quello che, secondo l’arguta definizione di Cesare Salvi, trasformerebbe il “porcellum” in un “superporcellum”, attraverso la brutale semplificazione biparittica che ne sarebbe la logica conseguenza. Un’Italia con due soli partiti di centro, uno guidato da Casini e l’altro da Rutelli, e tutti e due eterodiretti dal professor Monti. Una “coalition of willings” in permanenza a palazzo Chigi. Un Fini, magari, al Quirinale, e un paio di volenterosi “democrats” alle altre istituzioni. Chissà se in questo scenario da incubo il “Corriere” tornerebbe ad essere quel giornale rassicurante che tanto ci era caro..

Liberazione 12.11.06
Gara di cinismo nei partiti di destra e di centro, e anche nel governo, verso un provvedimento saggio e fondamentale per il funzionamento della Giustizia. Lo chiedono anche i giudici ma non è utile al potere
Chissenfrega dell’amnistia. E i garantisti? Scomparsi
Piero Sansonetti


Quest’estate il Parlamento ha approvato l’indulto - cioè lo sconto di pena per i detenuti e per i condannati al carcere - con una maggioranza molto larga, di oltre i due terzi (la legge chiede questa maggioranza, cioè un accordo che vada oltre gli schieramenti di destra e sinistra, per approvare provvedimenti di clemenza).

E’ stato difficile ottenere i due terzi dei voti alla Camera e al Senato. Ci si è riusciti perché si sono incontrate spinte diverse. Quella delle correnti politico-culturali più garantiste - sia nel campo liberale che in quello della sinistra - quella dei settori cattolici condizionati dalle pressioni che erano state esercitate da Giovanni Paolo II, e quella di pezzi - meno limpidi - del partito, diciamo così, di Tangentopoli, cioè degli amici di uomini politici o di “potenti” nei guai con la giustizia che cercavano una via personale d’uscita. Questa alleanza ha prodotto un provvedimento che io ritengo sacrosanto, che questo giornale (quasi da solo) ha appoggiato con molto impegno, sulla base di considerazioni politiche, di principio e umanitarie, pur sapendo bene che settori vastissimi - largamente maggioritari - di opinione pubblica, e anche di nostri lettori, erano assolutamente contrari. Mi è capitato nei mesi scorsi, spesso, di discutere animatamente con questi lettori, coi nostri compagni, con il risultato - di solito - di restare ciascuno sulle proprie posizioni.

Ma oggi il problema non è questo, cioè non riguarda i nostri dissensi (sull’idea di giustizia, di pena, di perdono, di vendetta, di risarcimento, eccetera), riguarda invece l’ineguagliabile spettacolo di cinismo offerto dalla maggior parte del mondo politico di fronte amnistia.

Cosa è successo? Semplicemente questo: in tutta la storia repubblicana, indulto e amnistia sono stati provvedimenti legati uno all’altro; si concede l’indulto e si concede l’amnistia. Qual è la differenza tra queste due misure? La prima estingue la pena, la seconda estingue il reato. Non cambiano molto le cose per quel che riguarda le condanne già passate in giudicato (processi chiusi, pena ridotta o cassata e stop). Cambiano le cose, invece, per i processi in corso e quelli ancora da cominciare. I processi che riguardano reati che saranno puniti con pene lievi, coperte dall’indulto, in assenza di amnistia dovranno comunque svolgersi, e avranno due possibili conclusioni: o l’assoluzione dell’imputato o la condanna a una pena non applicabile.

Il Consiglio superiore della Magistratura ha fatto notare questa incongruenza e su questa base ha sollecitato l’amnistia. Dicono i giudici: «Il 90 per cento dei processi che svolgeremo nei prossimi anni saranno inutili perché non possono erogare pene. Cancelliamo questi processi, alleggeriamo il nostro lavoro e le cose funzioneranno meglio».

Ora, è chiaro che si possono avanzare varie obiezioni alle argomentazioni dei giudici. Prima obiezione: i processi non servono solo ad erogare pene ma anche assoluzioni. Seconda obiezione: i processi, in caso di colpevolezza, non producono solo anni di carcere ma anche risarcimenti alle vittime. Terza obiezione: i giudici non dovrebbero chiedere leggi, ma applicarle. Quando i giudici si impicciano nel potere legislativo non è mai un bene, come non è un bene quando il potere politico cerca di condizionare i giudici.

Detto tutto questo, il problema esiste ed è chiarissimo. L’amnistia va varata perché il buonsenso dice che è utile. Chi si oppone all’amnistia lo fa esclusivamente per una ragione: ritiene che possa scalfire i consensi del proprio partito. E allora se ne frega della ragionevolezza, se ne frega dei principi, se ne frega anche dei proclami di garantismo dei quali era stato autore negli anni passati. Di fronte all’amnistia, a parte la sinistra radicale e i centristi dell’Udc, i garantisti sono scomparsi. Come è possibile? E sono scomparsi - sembrerebbe - anche i programmi di governo. L’Unione aveva sottoscritto l’impegno all’amnistia: perché ora il governo non se ne fa carico?

Naturalmente non è che sia tutto così semplice. Non si scrive un provvedimento di amnistia in cinque minuti, bisognerà calibrarlo bene e risolvere, ad esempio, il problema dei risarcimenti e altre questioni giuridiche complicate. Ma l’esistenza di questi problemi non è una buona ragione per infischiarsene dei propri principi e degli impegni assunti prima delle elezioni.