l'Unità 9.10.06
La sinistra Ds: «Resta il nostro no»
Pd, la minoranza non si muove: da Orvieto niente di nuovo. Caldarola: il mio no diverso dal loro
di Andrea Carugati
NODI IRRISOLTI Su un punto correntone e «malpancisti riformisti» concordano senza esitazioni: a Orvieto si è deciso di andare avanti sul partito democratico senza che i nodi sul tappeto venissero sciolti. E, in qualche caso, come quello della collocazione europea della nuova forza, «neppure affrontati», dice Cesare Salvi. Ecco perché, nonostante gli sforzi di Fassino e i ponti lanciati da D’Alema nel suo intervento, il variegato fronte del No resta sulle sue posizioni. E si prepara al congresso con la voglia di combatterlo fino in fondo, e con tanto di prove di dialogo tra Salvi e i dissenzienti della maggioranza: «È necessaria l’aggregazione di tutti quelli che non si rassegnano alla scomparsa di un partito socialista e di sinistra- dice Salvi-. C’è un dissenso che va ben oltre la sinistra interna, dunque è giusto superare la logica delle vecchie correnti. Se ci sarà un congresso di scioglimento, come pare, una unica mozione di chi non è d’accordo mi pare inevitabile». Aggiunge: «È giusto che i tanti contrari che ancora si espongono con cautela vengano allo scoperto». Peppino Caldarola non è certamente tra i cauti nell’esprimere le ragioni del suo dissenso, ma tira dritto per la sua strada di una mozione socialista ma dallo spiccato carattere riformista e occidentale: «Il mio socialismo è diverso da quello di Salvi e Mussi, io guardo a Blair, a una socialdemocrazia amica dell’America e di Israele, disponibile anche all’uso della forza nelle controversie internazionali. I nostri sono due no diversi, dunque vedo molto difficile una convergenza sui contenuti, ma se ne può discutere». E tuttavia un punto in comune c’è, e riguarda il giudizio negativo su Orvieto: per Caldarola «un seminario che è uscito dal seminato, assumendo il rango di un congresso»; per Salvi un appuntamento che «conferma tutti i limiti che avevamo sottolineato e anche la bontà della decisione di non andare».
Oltre al tema della collocazione internazionale, le critiche battono sulla forma-partito: per Salvi un «assemblaggio a freddo tra due partiti», per Caldarola il rischio che la proposta Vassallo si traduca in «un plebiscitarismo» che vede in campo «solo il rapporto diretto tra leader e popolo che viene chiamato a successivi referendum, trascurando l’indispensabile carattere di massa di una forza progressista». Caldarola passa ai raggi x le differenze tra i discorsi di Prodi e D’Alema a Orvieto: sul carattere di massa del partito, ad esempio, sul come affrontare il nodo del Pse, anche sullo «scadenziario» delle tappe per la nascita del Pd. Poi concede: «Massimo ha lanciato un ponte, ha cercato di rassicurare, ma all’interno di un percorso che anche lui vede come prestabilito. Eppure gli interrogativi di partenza non vengono sciolti: se passa la formula Prodi-Vassallo io non aderisco».
Netta anche la posizione di Carlo Leoni: «Da Orvieto non vengono le risposte attese da larga parte degli iscritti della Quercia, ad esempio sulla collocazione internazionale del nuovo partito e sul tema della laicità». Dunque, il «congresso dei ds è sempre più urgente e necessario». Già, perché adesso la battaglia dei fronti del no, con la data delle assise identificata, ha un terreno preciso. Che è tutto interno alla Quercia. «Al di là di test e sondaggi oggi nessuno sa se gli iscritti ai Ds sono effettivamente d’accordo a fare il partito democratico- dice Leoni-. Non prendiamo atto che il Pd ci sarà: combatteremo affinché i ds non si sciolgano». «È una discussione che voglio fare fino in fondo», rincara Fulvia Bandoli, che spiega: «Dopo Orvieto conservo tutte le perplessità che avevo prima: e trovo imprudente rimandare il tema della collocazione europea. Si è deciso di partire per un viaggio senza sapere dove ci condurrà e con una certa improvvisazione su aspetti molto importanti». Quanto al ponte lanciato da D’Alema, Leoni e Bandoli concordano: «Parole importanti, ma non è una questione di cortesia: servono risposte politiche nel merito».
l'Unità 9.10.06
Solo un’etica senza Dio ci salverà
di Maurizio Mori
Da qualche anno, anche nel nostro paese diversi centri culturali (in primis la chiesa cattolica romana) insistono nel sottolineare che è in atto una «rivincita di Dio». Molti guardano con favore a questo fenomeno, auspicandone la rapida crescita vedendo in esso il miglior antidoto al crollo della moralità ed allo sfacelo che sarebbe in corso: insomma, l'unica possibilità per una rinascita morale e sociale.
In questa situazione storica, il volume di Eugenio Lecaldano Un’etica senza Dio (Laterza) è sicuramente inattuale, dal momento che sostiene la tesi esattamente opposta: contrariamente a quanto ripetuto dai molti che quasi ogni giorno vanno ripetendo fino alla nausea che «senza religione non c'è morale», Lecaldano afferma che solo l'ateismo (inteso in senso largo da includere l'agnosticismo) riesce a fondare una autentica moralità, e che la morale religiosa è inadeguata e pericolosa. Infatti, alimenta valori negativi e socialmente nocivi quali l'eterodirezione, una concezione ristretta della libertà personale, il fanatismo e l'intolleranza, l'uso della forza (della legge) per affermare la propria morale, ecc. Quello di Lecaldano non un instant-book per una stagione, ma un libro caratterizzato dall'inattualità che è tipica dei libri classici destinati a suscitare l'attenzione per lunghi periodi.
La tesi di fondo è sostenuta nella prima parte, in cui l'autore sottopone ad una puntuale critica i vari argomenti a sostegno della morale religiosa e presenta in positivo i lineamenti di un'etica senza dio. Scritto con uno stile piano, pacato e misurato, mai noioso e con pagine appassionate ed anche briose, senza le citazioni dotte che intimoriscono il lettore e senza divagazioni su questioni marginali, il libro è caratterizzato da una straordinaria capacità di stare sui problemi e di cogliere l'essenziale attraverso un mix particolarmente efficace di argomentazione teorica sviluppata in proprio e di riferimenti ad autori del passato - riferimenti che trovano un immediato riscontro nella raccolta di testi classici riportata nella seconda parte, che completa la argomentazione, offrendo ulteriore testimonianza e conferma della forza delle tesi sostenute nella prima.
È un volume che si legge d'un fiato, come un romanzo, perché si avverte che le tesi presentate sono il frutto di una lunga e meditata riflessione che unisce profondità di pensiero ad un atteggiamento candido e disincantato - come quello del bambino che di fronte alla pomposità dei cortigiani dice con semplicità: «il re è nudo!». Il volume non pretende di aprire un orizzonte del tutto nuovo, né tantomeno di influenzare le masse o sostenere linee politiche: vuole solamente offrire argomenti a coloro che intendono fermarsi a riflettere dando un contributo originale all'elaborazione di una prospettiva che sta sempre più affermandosi nel pensiero contemporaneo - ossia che i laici sono «portatori di ulteriori diritti, per esempio quello di riconoscere agli atei la possibilità di esprimere il loro punto di vista etico e farlo valere concretamente, uscendo dalla condizione subalterna in cui sono attualmente confinati dai saldi fedeli di Dio». L'aspetto originale avanzato da Lecaldano sta nella proposta di un'etica naturalista in cui i precetti fondamentali nascono dai meccanismi psicologici insiti nell'animale-uomo, e nel ricordare che la tesi di fondo sostenuta ha ormai una lunga e consolidata tradizione filosofica - un aspetto che oggi in Italia viene taciuto o occultato. Il volume ha tutte le caratteristiche necessarie dei libri destinati a rimanere: speriamo che la cultura italiana non perda l'opportunità di una approfondita riflessione su una questione che ha risvolti importanti anche sul piano sociale.
l'Unità 9.10.06
PABLO RACCONTA PABLO (ECHAURREN-PICASSO)
Un libro che nasce insieme a una mostra per il decennale della galleria palermitana Drago Artecontemporanea. Chiusa la mostra (che è stata allestita in giugno), rimane il libro: Terremoto Picasso è il titolo che Pablo Echaurren ha dato alle quattordici tavole - tra la pittura ed il fumetto, com’è nello stile dell’artista - che ripercorrono ed illustrano la vita e l’opera di uno dei più grandi geni del Novecento. Rosso e mattone i colori che dominano la storia, che comincia con un rimando alla teoria della relatività di Einstein per arrivare alla rottura della visione dell’arte e del mondo operata da Picasso, in uno stile che, man mano che la storia procede, si fa simbiotico con l’oggetto della narrazione.
Pablo Echaurren, scrive Walter Pedullà nell’introduzione al libro, «crede alla celebre battura di Picasso: “io prima trovo e poi cerco”. Lo fa con tenace fantasia in virtù di quel montaggio che è un canone fondamentale dell’avanguardia e che è inseparabile dal fumetto».
l'Unità 9.10.06
L’universo è morto. Evviva il multiverso
di Pietro Greco
Al fondo c’è la stringa. Una corda che vibra, producendo diverse armoniche. E la sua musica, una sinfonia cosmica in undici dimensioni, dà corpo e forma a elettroni e fotoni, quark e neutrini: a tutto quanto esiste nell’universo. Anzi, nel multiverso: l’insieme degli infiniti universi paralleli, compatibili - e forse necessari - alla sopravvivenza della «teoria di stringa» o «delle M-brane»: l’unica che sembra oggi in grado di realizzare il sogno di Albert Einstein e unificare in un unico quadro teorico l’intera fisica.
Che, da almeno ottant’anni, poggia su due grandi teorie. Una, la relatività generale, descrive il comportamento dell’universo a grande scala. L’altra, la meccanica quantistica, descrive il comportamento dell’universo a livello microscopico. La situazione è imbarazzante. Perché entrambe sono teorie molto precise. Ed entrambe ambiscono a definirsi generali e, quindi, «ultime». Eppure la relatività generale e la meccanica dei quanti risultano, tra loro, incompatibili. In otto decenni e più ogni tentativo di riconciliarle è naufragato. Cosa significa, tutto questo? Che forse la realtà sfugge a ogni possibilità di essere descritta in modo unitario? Che dobbiamo rassegnarci a visioni frammentate del mondo?
La gran parte dei fisici teorici non è disposta a rinunciare a una visione unitaria e coerente dell’universo. Anzi del cosmo: il «tutto armoniosamente ordinato» degli antichi Greci. Ed è per questo che, malgrado le frustrazioni di uno sforzo titanico tanto prolungato quanto finora vano, è ancora alla ricerca della teoria unica, della «teoria del tutto».
I «fisici delle stringhe» sono convinti di avere finalmente imbroccato la strada giusta. Grazie a due svolte decisive realizzate, rispettivamente, nel 1968 e nel 1995. La prima a opera di un italiano, Gabriele Veneziano, e di una sua brillante idea. Poniamo che la realtà ultima del mondo, sosteneva (e sostiene) il fisico teorico torinese in forza al Cern di Ginevra, non sia costituita da particelle puntiformi, ma da stringhe, da piccole corde, insomma da qualcosa di molto simile a lacci di scarpe infinitamente piccoli, che si estendono nello spazio a una dimensione. Applichiamo a queste stringhe le leggi della meccanica quantistica e vediamo cosa succede.
Beh, non senza meraviglia di Gabriele Veneziano, quelle stringhe iniziano a vibrare. A suonare, come corde di violino. E a ogni modo di vibrazione, a ogni nota di quelle corde di violino, corrisponde una particella o una forza della natura. La musica delle stringhe è la forza creatrice del mondo. E questa sinfonia è così rilassante da realizzare, finalmente, l’attesa riconciliazione tra relatività generale e meccanica quantistica. Tra micro e macro.
Tutto risolto, dunque? Niente affatto. Per almeno due motivi. I fisici teorici riescono a descrivere solo con equazioni approssimate l’universo delle stringhe. E, inoltre, nel corso degli anni sbocciano una, due, … cinque diverse teorie di stringa: troppe per poter salutare la «teoria ultima».
La nuova svolta avviene nel 1995, quando l’americano Ed Witten, in forze a quell’Istituto di Studi Avanzati di Princeton ove Albert Einstein spese oltre venti anni a cercare la «teoria del tutto», dimostra che le cinque teorie di stringa e un’altra teoria, quella della gravità quantistica, sono espressioni diverse di una medesima e più fondamentale teoria soggiacente: la teoria che egli battezza M-6. L’universo di M-6 ha undici dimensioni, dieci spaziali e una temporale, e in esso vibrano non solo corde unidimensionali, ma anche membrane o «brane» a due, a tre e a più dimensioni. L’universo elegante di M-6, per usare una fortunata definizione di Brian Greene, è una sinfonia suonata da un’orchestra a infinite dimensioni.
Ed Witten, che questa settimana sarà a Napoli per partecipare al convegno che si apre oggi al Centro Convegni Partenope dell’Università Federico II e per tenere giovedì prossimo una conferenza pubblica all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è considerato non solo uno dei più grandi fisici teorici viventi. Ma viene collocato da Life nel novero dei sei americani più influenti della nostra epoca.
È dunque la sua melodia in M-6 la teoria finale? No. O almeno, non ancora. M-6 indica che forse i fisici hanno imbroccato la strada giusta verso la teoria in grado di fornirci una visione unitaria e coerente del mondo. Ma si tratta di una strada lunga e ancora tutta da percorrere. Non solo e non tanto perché la teoria, per quanto elegante e complessa, deve essere ancora rifinita. Ma anche e soprattutto perché M-6 non è stata ancora empiricamente verificata. Per questo alcuni sostengono che quello descritto da M-6 più che un universo fisico è un universo metafisico. E nella teoria di superstringa vedono più che una nuova fisica, una nuova metafisica.
In realtà la teoria che deve così tanto a Ed Witten potrebbe, in tempi relativamente brevi, trovare solidi appigli empirici. A patto che i nuovi acceleratori trovino, nei prossimi mesi, le cosiddette particelle «supersimmetriche» o che altri tipi di rivelatori riescano a individuare i componenti della materia oscura che, insieme all’energia oscura, sembra riempire la gran parte del nostro universo osservabile.
Il fatto è che la «teoria di stringa», ormai lo riconosce lo stesso Witten, non solo è compatibile ma sembra addirittura prevedere anche l’esistenza di un multiverso: un insieme rapidamente crescente di infiniti universi paralleli a quello in cui viviamo. Con tutti i paradossi, fisici e concettuali, che si trascina dietro il concetto di infinito (nell’universo accanto ci sarebbe una nostra copia identica che mena la nostra stessa esistenza salvo un dettaglio, e nell’universo vicino c’è un’altra copia ...).
Questa non è fisica, ma metafisica - sia pure altamente matematizzata - sostengono gli scettici. A Napoli in questi giorni avremo un’occasione irripetibile per verificare di persona come uno dei più grandi fisici teorici viventi difende la sua teoria e quella sua visione pitagorica del mondo. Anzi del multimondo.
CONCILIARE la fisica dell’infinitamente grande e quella dell’infinitamente piccolo porta alla conclusione che non esiste uno, ma tanti universi paralleli. A Napoli il fisico teorico Ed Witten cerca di spiegare perché
A NAPOLI SI PARLA DI «STRINGHE»
Si apre oggi presso il Centro Convegni Partenope dell’Università Federico II, il convegno «Costituents, Fundamental Forces and Symmetries of the Universe», organizzato dall’omonimo network europeo, insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e al Dipartimento di Scienze Fisiche, che durerà fino a giovedì 13 ottobre. La discussione parte dalla «teoria della stringa». Una teoria dalla struttura matematica bella e complessa (si serve anche delle superfici introdotte dal geometra napoletano Pasquale Del Pezzo), ma molto controversa.
Al convegno interverranno fisici, provenienti dalle più importanti istituzioni del mondo. Tra loro, Edward Witten dell’Institute for Advanced Studies di Princeton. Il convegno farà il punto sui tentativi di comporre in un’unica visione le due teorie fondamentali dello scorso secolo, la relatività generale di Einstein, adatta a descrivere stelle galassie, ammassi di galassie, e la meccanica quantistica, adatta a descrivere atomi, nuclei, particelle subnucleari. Le domande sono: qual è la struttura dello spazio-tempo, sia quella delle quattro dimensioni spaziotemporali che percepiamo, sia delle dimensioni extra a noi nascoste? Ha più senso parlare di un unico universo o non piuttosto di un multiverso, di cui il nostro realizzerebbe una delle moltissime possibilità ammesse dalla teoria? E proprio a queste domande tenterà di rispondere Ed Witten, con una conferenza divulgativa. L’appuntamento è per venerdì 14 a palazzo di Cassano, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
La Stampa 9.10.06
E Camilleri frusta i Ds: serve un referendum
di Jacopo Iacoboni
(...) Andrea Camilleri, per esempio, è uomo nient’affatto viziato da ostilità preconcette nei confronti dei Ds. E tuttavia: «Perché questi dirigenti non fanno una consultazione vera, delle primarie reali? Quella che si delinea è solo una cosa gestita da gerarchie superiori che si mettono d’accordo. Eppure quando Prodi ha invitato a fare le primarie le risposte dei cittadini di sinistra sono sempre arrivate. Dunque mi chiedo, cosa temono D’Alema e Fassino? Ho paura che temano una pura perdita di potere...». Camilleri avrebbe persino un’idea che taglia la testa al toro: «Si faccia un puro e semplice referendum tra chi è a favore e chi contro il nuovo partito. Poi se vincono i sì si proceda alla costituente».
La Stampa 9.10.06
La follia dell’ultimo manicomio
Quattrocento pazienti e un mare di debiti
di Marco Sodano
SERRA d’AIELLO (Cosenza) Chiamiamoli pure Luigi, Ciccio, Giuseppe, Franco, Antonio. Trecento e passa nomi, altrettanti disperati. Per gli interessati fa lo stesso: reclusi in una prigione dalle porte aperte - non saprebbero dove andare - non hanno esigenze di privacy. Ingabbiati nei loro cattivi pensieri cercano altro: «Tu ssì Giuseppe, u nipote mio? Ssu’ ventiquattr’anni che stu ‘ccà, che mi hanno chiuso qui, um’mi sì cchiù venut’atruvà», non sei più venuto a farmi visita. «Mò ne tengo sessantasei, di anni. Ssì uguale a Giuseppe, e l’amico tuo uguale a Giovanni, i nipoti miei».
Chiamiamolo Franco: il viso un groviglio di rughe, braccia gambe collo annodati dalla malattia, più che camminare incespica, «me lo dai un euro?». Come no, e la moneta accende un barbaglio di lucidità in fondo agli occhi a fessura. Pochi passi, eccola trasformata in un bicchiere al baruccio del paese. Serra d’Aiello, provincia di Cosenza: piazza deserta, due signore sulle sedie d’ordinanza, silenzio rotto da parole urlate al vento. Più che grida di dolore maledizioni, invocazioni d’aiuto, risate sgangherate. Le urla vengono dall’Istituto Papa Giovanni. Tre casermoni Anni Sessanta arroccati sull’appennino calabrese, 420 posti letto, un padiglione incompiuto, un altro sventrato per una ristrutturazione rimasta a metà. Tutt’intorno terre a perdita d’occhio, come nella storia del Gatto con gli stivali e del marchese di Carabàs: di chi è quest’uliveto? «D’u Papa Giovanni». E le piante da frutta? «Sempre d’u Papa Giovanni», e così il frantoio, le casette, e tutto il resto. Tutto del Papa Giovanni, che a sua volta è della Diocesi di Cosenza.
Il manicomio che non c’è
I manicomi non esistono più, se basta cambiare la targhetta in «istituto di riabilitazione». Ma niente come il «Papa Giovanni» somiglia a un manicomio. «Uomini e donne lasciati a terra come cartocci, letti senza lenzuola, porte e finestre sgangherate» ebbe a raccontare l’allora arcivescovo di Cosenza Giuseppe Agostino dopo una visita a sorpresa nell’aprile 2004. «Mi sono vergognato di essere uomo, cristiano, vescovo e calabrese», scrisse in una lettera pubblica Agostino definendo il (suo) istituto «una bestemmia sociale». Gli uomini e le donne lasciati a terra come cartocci sono sempre lì, sempre lì i letti senza lenzuola, le porte sgangherate: ancora lì dovrebbe essere di conseguenza la vergogna per la bestemmia sociale.
Ancora lì è, per esempio, Giuseppe (chiamiamolo così). Non arriva a 45 anni: sul punto è confuso, al posto di quella di nascita ha fissa in testa un’altra data. «Sono entrato qui nel ‘71», e doveva per forza di cose essere un ragazzo agitato da una qualunque delle declinazioni della malattia mentale: schizofrenia, depressione, alzheimer, sindromi assortite, ritardi, deficit... il Papa Giovanni non si fa mancare niente. Giuseppe indossa un’assurda maglietta con un cuore mezzo rosa e mezzo a stelle e strisce «I love America», l’America non l’ha vista mai. E invece: «A volte c’è da mangiare, a volte un po’ meno. Manca il pane, fino a qualche giorno fa mancavano le scarpe». Anche lui, alla fine, ottiene una monetina e saltella alla macchinetta del caffè, nell’atrio: la trasforma in una cioccolata calda, si siede accanto a un compare di sventura che, rincagnato sulla panchina, guarda fisso nel vuoto. Non c’è verso di strappargli una parola, un saluto, un cenno che dimostri: si è accorto di te.
Il delirio burocratico
Roba da matti, dentro e soprattutto fuori dal cancello. Da una decina d’anni il Papa Giovanni rotola su se stesso preda di un delirio burocratico che puzza di saccheggio politico: la Diocesi dovrebbe cederlo alla Regione, che è pronta a pagare il pacchetto 15 milioni. La Regione dovrebbe poi affidarlo a una società privata che lo gestirebbe in convenzione. I privati fanno la coda, perché la convenzione è un fiume di denaro che non si secca mai. Nonostante i conti siano una voragine senza fondo: trecento dipendenti che sopravvivono al 40% dello stipendio (in media, 1.200 euro al mese). Molti hanno fatto causa all’istituto: aspettano chi 20 chi 40 mensilità arretrate. Il debito complessivo si aggira intorno ai 40 milioni. Perfino «il panettiere avanza 150 mila euro» e anche per questo a volte il pane manca. «Per dar da mangiare agli ospiti andiamo al banco alimentare», spiegano gli operatori, che si affidano come Don Bosco alla Provvidenza. Anche oggi gli «ospiti» hanno ricevuto la cena, intanto la gara per la convenzione è stata bloccata per l’ennesima volta. Nonostante la coda di pretendenti: prima c’era un gruppo milanese specializzato in gestione di strutture sanitarie, poi s’è fatto avanti un imprenditore di Cosenza, ora sono in gara tre società.
Sul più bello l’affare si inceppa, soprattutto perché lassù qualcuno ha capito che il «Papa Giovanni» è una monetona sonante che vale soprattutto se - anziché spenderla - la si promette a destra e a sinistra. Raccattando promesse di fedeltà politica, crocette sulle schede elettorali, appoggi in questo e quell’affare. Nel frattempo, a mandare avanti la baracca, ci pensano i dipendenti: quest’anno si sono tassati per portare gli ospiti che stanno meglio al mare. Lo stesso fanno per le feste di Natale e Pasqua, un po’ per carità cristiana. un po’ perché dopo tanti anni agli «ospiti» vogliono bene, un po’ perché il Papa Giovanni, «con tutti i soldi che ci deve, chi lo molla?» Roba da matti.
Il valzer dei crediti
I sindacati accusano la Curia di aver spogliato il Papa Giovanni nel corso degli anni, e certo qualche affare sul bordo della follia è stato fatto. Nel dicembre 2003 monsignor Alfredo Luberto «nella sua qualità di legale rappresentante della Fondazione di religione e di culto istituto Papa Giovanni XXIII» ha ceduto i crediti vantati nei confronti delle aziende sanitarie di tutto il Sud a un imprenditore di Crotone. Non un grande affare: tre milioni 769 mila euro di crediti sono passati di mano per 500 mila euro, pagabili in due rate da 250 mila. C’è tanto di atto notarile. Sarà pur vero che le aziende pubbliche fanno penare i pagamenti, ma un imprenditore avveduto sa che in banca non è difficile farsi anticipare «pagherò» del genere al 50%: qui siamo uno a sette, con buona pace degli stipendi arretrati, del pane che arriva a singhiozzo e perfino del fornaio che aspetta i suoi 150 mila euro.
Chiamiamoli Luigi, Ciccio, Giuseppe, Franco, Antonio e avanti così. Per loro non fa differenza, per chi sta fuori neppure: la vergogna non brucia meno se nascondiamo un essere umano dietro un’identità di cortesia, così come un istituto di riabilitazione non fa meno paura di un manicomio se gli ospiti sono «gettati a terra come cartocci», nei letti niente lenzuola, le porte restano sgangherate e chi dovrebbe assistere i malati non riceve lo stipendio da anni. Roba da matti.
La Stampa 9.10.06
Ungheria '56. Per Togliatti e il Pci nessun dubbio: «L’Urss ha schiacciato il fascismo»
di Enzo Bettiza
Sarà in libreria da domani il nuovo saggio di Enzo Bettiza, a cinquant’anni dai fatti d’Ungheria: 1956 - Budapest: i giorni della rivoluzione (Mondadori, pagg. 216, euro 16,50). Ne anticipiamo alcune pagine.
Sarà il 1956 l’anno del vero Togliatti. Sarà l’Ungheria a costringere l’uomo dai molti volti a rivelare quello autentico, nel fondo immutabile, del plenipotenziario kominternista che alle dipendenze di Stalin aveva attraversato incolume gli anni più terribili della tregenda bolscevica. Vediamo un attimo chi era, com’era o, meglio ancora, come appariva colui che già Trockij, prima di Stalin, aveva definito «il grande avvocato della Terza Internazionale». Se non si scava più a fondo nella sua indole, se non se ne scandaglia il retroterra storico nonché individuale, si rischia di capire ben poco dell’uomo colto e inquietante che aveva esumato dalla teologia medioevale il concetto della «doppia verità». La misura clericale di quella doppiezza, intimamente legata alla formazione esistenziale del personaggio bifronte che era insieme «Ercoli» e Togliatti, va tenuta presente ogni qualvolta si tenti di penetrare nelle penombre del suo passato e nei convolvoli del suo labirinto mentale. Si trattava di una doppiezza diventata natura, respiro, pensiero, retropensiero, reticolo dottrinario, pulsione politica, culto cinico e mesto della storia: era essa la chiave che ci permette di cogliere la profonda dicotomia psicoideologica che rendeva così sfaccettato, bivalente, così diverso il leader del Pci da un Thorez pietrificato nel dogma o un Carrillo disciolto nel suo chisciottesco radicalismo revisionistico.
Togliatti non era mai una cosa sola. A seconda della scacchiera nazionale o internazionale su cui agiva, egli poteva presentarsi di volta in volta come revisionista o come dogmatico, e spesso poteva essere nello stesso momento una cosa e l’altra: accorto temporeggiatore gramsciano nelle sabbie mobili della politica romana, ma leninista risoluto nelle questioni concernenti la stabilità e la coesione dei poteri comunisti nell’Europa centrorientale. Una sorta di schizofrenia pacata e strumentale faceva parte del suo metabolismo psicoideologico e della sua pessimistica visione del mondo. Questo duplice personaggio, capo del maggiore partito filosovietico d’Occidente, dopo la disfatta elettorale del 1948 doveva apparire moderatamente insidioso ma non più pericoloso per la vulnerabile democrazia italiana. Al tempo stesso, doveva rivelarsi deludente per quei riformatori delle «democrazie popolari» che, isolati e frustrati com’erano, prendevano spesso lucciole per lanterne. Basterà ricordare in proposito le sviste dei revisionisti polacchi e soprattutto ungheresi, fra i quali non erano pochi i cosiddetti comunisti nazionali; essi, illudendosi, hanno sempre cercato un sostegno e un punto di riferimento nel «partito nuovo» di Togliatti, che a torto immaginavano il più sensibile ai loro aneliti di libertà e di autonomia da Mosca. (...)
Nulla, in fondo, se lo avesse voluto, avrebbe potuto impedirgli di aderire senza riserve, con piena lealtà e convinzione, alla democrazia occidentale in Italia. Niente e nessuno, se non lui medesimo, avrebbero potuto impedirgli di socialdemocratizzare gradualmente il «partito nuovo» dandogli strutture e contenuti ideologici davvero nuovi. Se inoltre nel 1956 si fosse schierato dalla parte degli operai di Poznan e degli intellettuali di Budapest, se avesse appoggiato i moti popolari di quelle nazioni in rivolta, se avesse colto l’occasione per seguire la pista antitotalitaria aperta da Nenni (ex Premio Stalin) e indicata perfino dal vecchio comunista Di Vittorio, forse la liberazione di mezza Europa sarebbe avvenuta con qualche anno di anticipo sul 1989. Lo «scudo della Nato», che più tardi sarà evocato positivamente da Berlinguer, offriva fin da allora a Togliatti una protezione sufficiente per consentirgli di bonificare il comunismo italiano. Se l’irreversibilità era concepita come una predestinazione metafisica dei regimi comunisti, non si può asserire la stessa cosa per le opposizioni comuniste nelle società occidentali. Si è visto, nel travaglio degli Anni Ottanta, che esse erano in grado di mutare il loro codice genetico sia pure lentamente e con difficoltà. Ma già negli Anni Cinquanta il radicamento elettorale del Pci in Occidente, il prestigio di cui lo stesso Togliatti godeva in molti ambienti politici e culturali occidentali, erano tali da potergli permettere la rottura del vizioso e deleterio «vincolo di ferro con l’Urss». Sarebbe bastato forse, nel momento in cui i sovietici esitavano tra l’invasione e il compromesso, fare un passo, un solo passo deciso, a favore del governo Nagy, per assicurare agli ungheresi una sovranità neutrale, non ostile alla Russia, di tipo austriaco o finlandese. Una simile mossa avrebbe contemporaneamente conferito un timbro di verità, di adesione sincera, anziché strumentale, alle conclamate scelte costituzionali e parlamentari del Pci: avrebbe, in altre parole, «degramscizzato» e legittimato compiutamente il contributo democratico dei comunisti alla normalizzazione della vita politica italiana. Il blocco anomalo del «fattore K» (fattosi quanto mai esponenziale durante l’agonia ungherese) sarebbe con ogni probabilità cessato. L’età dell’umiliante conventio ad excludendum sarebbe forse finita. Un socialismo di tipo occidentale avrebbe trovato più ampio spazio nel Paese, una normale alternanza dei governi avrebbe fatto dimenticare l’incubo sterile dell’alternativa di regime. (...)
Non a caso dunque, nelle dirimenti giornate del ‘56, la voce dei «carristi» delle Botteghe Oscure doveva fare da lugubre eco in Italia al fragore dei carri armati di Ungheria. Pietro Ingrao, direttore dell’«Unità», vergava bollettini di guerra col titolo Da una parte della barricata, sollecitando la solidarietà verso «i compagni ungheresi vittime del bestiale terrore nazifascista». Giorgio Amendola inveiva contro i «fascisti di Horthy» fra gli applausi dei lavoratori di Genova e di Torino. I fratelli Pajetta, sempre in prima linea, inneggiavano all’Armata Rossa in Parlamento e nei comizi. Non tacevano neppure insigni dinosauri del partito, come il latinista Concetto Marchesi, che sprezzava il popolo ungherese «sceso in piazza a rivendicare la libertà fra gli applausi della borghesia capitalistica e le celebrazioni delle messe propiziatorie». Perfino Umberto Terracini, storico presidente della Costituente, noto per la sua opposizione al patto Ribbentrop-Molotov del 1939, descriveva la crisi magiara nei termini di «un fallimento di metodo ma non di sostanza» e, quindi, auspicava l’intervento sovietico «a scudo dei combattenti per la costruzione del socialismo». Breve: tutti i diciannove membri della direzione del Pci pensavano che si doveva estirpare radicalmente e al più presto il contagioso tumore di Budapest.
Non dovranno aspettare molto; già la domenica del 4 novembre Togliatti potrà brindare, «con un bicchiere di vino rosso in più», all’inizio della seconda e definitiva repressione russa. Il primo ciclo di calunnie si chiudeva al rombo del cannone. Qualche giorno dopo scriverà un articolo che sembrava sgorgargli dal cuore più che dalla mente: «E’ mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo».
La Stampa 9.10.06
A ovest del Nilo esiteva un regno potente che controllava le acque e le vie carovaniere
Il faraone delle oasi. Dal deserto libico spunta un rivale dei re egizi
di Maurizio Assalto
Si faceva chiamare «re dell'alto e del basso Egitto», proprio come i faraoni, e come quelli «figlio di Ra», il grande dio del sole, e in aggiunta «figlio di Shu», il dio dell'aria luminosa che si stende fra terra e cielo. Ma non amministrava il suo regno da Tebe, né da Menfi, né da alcuno dei centri politico-cerimoniali lungo il Nilo. E però non era un millantatore: era un autentico (forse un po' vanesio) faraone che regnava sulle oasi e sulla sabbia senza fine del deserto libico, a venti giorni di marcia dalla fertile valle dei suoi omologhi egiziani. Un faraone-bis, uno stravagante clone occidentale.
Di questo personaggio inimmaginato, e del suo ipotizzabile reame, sono emerse le tracce, ora, per la prima volta. Ed è una novità che, senza abusare di un vieto luogo comune («i libri di storia da riscrivere»...), certo mette a fuoco un quadro geopolitico molto più complesso di quanto non si credesse, oltre a rendere un'immagine meno solenne dei sovrani egiziani e della loro reale egemonia. I faraoni erano tradizionalmente raffigurati nell'atto di schiacciare i loro nemici-confinanti: schiacciavano a Est (i beduini asiatici), a Sud (i neri nubiani), a Ovest (i libici). Ebbene, tutto, o quasi, da dimenticare. Almeno a Occidente, sappiamo adesso che dovevano venire a patti con un potente vicino.
Il cartiglio reale
La scoperta si deve a un archeologo italiano, Paolo Gallo dell'Università di Torino, che ha presentato un primo rapporto lo scorso giugno a Parigi, davanti ai suoi antichi maestri della Sorbona, e ai primi di settembre a un summit egittologico mondiale che si è tenuto a Montepulciano. Quarantacinque anni, allievo di Jean Leclant, Gallo ha in corso due scavi, nell'isola di Nelson davanti a Alessandria e nell'oasi di el-Bahrein, 140 km a Sud-Est della più celebre oasi di Siwa, dove sorgeva il santuario dell'oracolo di Amon visitato da Alessandro il Grande. Ed è qui che comincia la storia, tre anni fa. El-Bahrein è un toponimo arabo che significa «due laghi». Oggi è una zona disabitata, ma nell'antichità ospitava un villaggio di cui si vedono ancora chiare le tracce, abbandonato in epoca bizantina quando le rotte commerciali presero altre direzioni. Gallo, specializzato in scavi d'urgenza, era stato richiamato da un cartiglio reale che affiorava dalla sabbia, indicando che là sotto doveva esserci dell'altro. Bisognava intervenire in fretta perché c'erano stati attacchi di tombaroli. «Sapevamo di lavorare su un edificio monumentale importante», ricorda l'archeologo. «Quel che non ci aspettavamo, in un luogo così sperduto, era di trovare un tempio faraonico ricoperto di geroglifici e rilievi policromi. L'unico altro esempio era quello di Siwa».
Dieci tonnellate di calcare
La prima campagna di scavi impegnò una quarantina di persone: quattro-cinque italiani, più gli operai e la scorta armata, perché in questo lembo d'Egitto vicino ai (teorici) confini con la Libia imperversano i contrabbandieri. Due mesi di lavoro, 6 mila litri di benzina consumati, 18 mila litri d'acqua. La missione (finanziata dal Ministero degli Esteri e da sponsor privati, tra cui la Fondazione Crt e quella del San Paolo, oltre che dal mecenatismo di un industriale torinese appassionato di deserti, Massimo Foggini) aveva piantato le tende intorno a una collina che ospitava la necropoli di età tardo-faraonica, già saccheggiata. In una camera sepolcrale, svuotata dalle ossa, era stata sistemata la cucina, in un'altra il generatore. Man mano che erano recuperati dalla sabbia, i grandi blocchi calcarei del tempio venivano trasportati a Marsa Matruh, un piccolo centro sulla costa mediterranea. Alla fine, dopo il terzo anno di scavi, erano dieci tonnellate di materiale da ripulire e restaurare. Si accertò che anche a el-Bahrein la divinità principale era Amon, il dio tebano diventato popolarissimo nel Nuovo Regno, e da un'iscrizione si scoprì il nome antico del villaggio, Ighespep (un oscuro toponimo libico che gli egiziani si erano limitati a trasporre nella loro scrittura). L'edificio era in rovina già in epoca romana, ma gli archeologi hanno potuto ricostruirne la pianta. «Un tempietto, per la verità», riconosce Gallo. «Venti metri per dieci: siamo in periferia, non dimentichiamolo... Ma a Siwa il tempio dell'oracolo ha le stesse dimensioni, con la differenza che quello di el-Bahrein è epigraficamente superiore, senza gli errori che nell'altro infarciscono il testo geroglifico: le risorse umane e finanziarie che in questo luogo devono essere state mobilitate rivelano un interesse particolare». Come se si trattasse di una capitale.
Unamon figlio di Nachtit
In particolare, quel che colpiva era il programma decorativo: «Qualche cosa di molto strano. Tutta l'ala Est, rivolta verso l'Egitto, era ornata con un rilievo incentrato su Nectanebo I - il capostipite della XXX e ultima dinastia faraonica indipendente, re dal 378 al 360 a.C. - rappresentato con le consuete corone. Nell'ala Ovest, invece, rivolta verso la Libia, il protagonista cambia: è un sovrano non più egiziano, anche se veste e si atteggia all'egiziana». Sul capo, montata su un diadema, porta una piuma di struzzo: un attributo etnico delle tribù libiche, come pure libici sono i quattro riccioletti che fuoriescono dal fondo della parrucca. Il fatto stesso che sia raffigurato sulla parete di un tempio lo qualifica come un personaggio molto importante, e l'atto di offrire l'oasi a Amon è di quelli che si addicono a un faraone. Ma per arrivare a identificarlo ci sono voluti tre anni. Bisognava, prima, che le iscrizioni tornassero leggibili. Soltanto negli ultimi mesi, da un blocco di calcare con tre cartigli, è emerso il nome del misterioso personaggio: Unamon, figlio di Nachtit. Era già noto da un'iscrizione di Siwa, dove però si presentava in maniera più dimessa. I titoli che si attribuiva a el-Bahrein, appropriandosi la tradizione millenaria dei faraoni e fantasiosamente elaborandola, rivelano la grana grossa del provinciale sedotto dagli splendori reali nilotici: «Horo forte di braccio», «lo sbaragliatore», «il potente del deserto di Shu», «il grande capo dei deserti». E appunto (più chiaro di così...) «re dell'alto e del basso Egitto». A questo punto si è aperto uno scenario tutto nuovo. Per la prima volta, dai dati materiali è uscita una conferma del racconto di Erodoto, che a più riprese parla degli Ammoni (il popolo degli adoratori di Amon) stanziati intorno a Siwa, organizzati in un regno indipendente e governati da un proprio re: 70-80 anni dopo lo storico greco, e oltre un secolo e mezzo dopo i fatti narrati, in quella zona esisteva ancora un sovrano - non soltanto alcuni sparsi capitribù, come avevamo finora creduto - con un dominio molto più esteso di quanto si potesse pensare.
La valle dell’ombra
Questo faraone, sostiene Gallo, controllava tutto il sistema di oasi e oasine che punteggiano la sterminata distesa di sabbia a Est e a Ovest di el-Bahrein, curava che fossero mantenute efficienti e in ordine, e le piste tra l'una e l'altra si conservassero in buono stato. Ancora oggi i berberi che si spostano attraverso il deserto dal lembo occidentale dell'Egitto al Sud-Est dell'Algeria, parlando una lingua propria che è il siwi, considerano le oasi un insieme e lo chiamano uadi drah, valle dell'ombra: un fossile di identità culturale che affonda le radici nell'antichità. Unamon e i suoi predecessori e successori avevano in pugno l'acqua e le rotte carovaniere, ossia le risorse logistiche basilari per chi affrontava il deserto. Con lui, con loro, i faraoni del Nilo dovevano trovare un modus vivendi, scendere a compromessi: foss'anche quello inaudito di condividere le pareti di uno stesso tempio. Restano da determinare i confini del loro regno, e per questo bisognerà spostarsi a scavare in Libia. Gli archeologi si stanno già attrezzando.
Repubblica 9.10.06
Pd, la sinistra ds non si arrende
di Giovanna Casadio
ROMA - Mussi dice di essere andato a pesca, di non averci pensato a rispondere a Fassino e D´Alema che da Orvieto hanno invitato il "Correntone" e la sinistra di Salvi a non disertare le prossime tappe del Partito democratico. Il giorno dopo il conclave ulivista, la parola passa agli assenti. E le minoranze dei Ds sono sempre sul piede di guerra. «Parole importanti quelle di D´Alema, certo, ma devono seguire fatti politici», attacca Carlo Leoni a nome del "Correntone" . Di pentimento per l´assenza dalla due giorni di seminario in cui Quercia e Dl hanno dato il via libera al nuovo partito unitario dei riformisti, neppure a parlarne. «Dovevamo andare a fare cosa? Un intervento di dissenso, e poi?. I nodi restano irrisolti, i temi della laicità e della collocazione europea e internazionale ad esempio, Fassino faccia un congresso del partito al più presto: è sempre più urgente. Scissione comunque è una parola che non vogliamo neppure sentire». È addirittura sarcastico Salvi: «Il Partito democratico rischia di essere un mero assemblaggio Ds-Margherita. Mi ricorda quando nacque il Psu, il Partito socialista unificato. Noi ci sentiamo sempre più lontani. No, non sarebbe stato meglio esserci, magari ci finiva come a Valdo Spini che non è riuscito a intervenire. Per ora saremo nella Quercia come separati in casa, e quello che ha detto D´Alema è una difesa delle oligarchie dei partiti».
Giovedì il "Correntone" si riunisce. Mentre in settimana al Botteghino si decide quando fissare la direzione (forse il 17 ottobre) e poi il consiglio nazionale del partito. Il giorno dopo, Beppe Fioroni il ministro della Margherita sente il presidente del Senato Franco Marini per commentare. Il treno è partito, e ora «rimbocchiamoci le maniche», afferma Fioroni. «Cominciamo a lavorare subito per il Pd, facciamo riunioni Ds-Dl su istruzione, ricerca, bioetica anche con Mussi». Ulivisti soddisfatti, Prodi contento ma senza nascondersi le difficoltà e quindi il fatto che «ora tocca ai partiti». Una strada in salita vero i congressi simultanei entro l´estate 2007. «Abbiamo fatto un passo straordinario - commenta - però è chiaro che la fusione non può avvenire in un giorno solo». Il Professore precisa: «Non dovrà essere una decisione mia, bensì dei partiti». Nessuna irritazione per i paletti fissati da D´Alema: «E perché mai?». Se c´è una cosa che al premier è piaciuta, sottolinea il suo staff, è che nessuno dei partecipanti ha lavorato di fioretto ma tutti sono stati estremamente sinceri: una bella terapia di gruppo ulivista. «Se il successo si misura anche in quantità, c´è da dire che c´erano 600 persone», 128 sono stati gli interventi, tre tavoli di studio fino a notte tarda, tre documenti importanti, elenca Silvio Sircana.
Al lavoro subito Francesco Rutelli, il leader Dl, che alla riunione di Rinnovamento di Dini e ai Liberali-democratici del suo partito assicura: «Il Pd è indispensabile, si fa. Ma non c´è possibilità di conquistare il governo del paese se non con un´impostazione di centrosinistra, non di sinistra-centro che non conquisterebbe il governo del paese». E tutte le «anime della Margherita» confluiranno e saranno garantite nel Pd» e, aggiunge, nessuna di queste anime «è monolitica neppure i Popolari, ma ha un grado di diversità interna molto positiva». Insomma il vicepremier conta di portarcelo tutto il partito, compreso lo scettico De Mita. Nei Ds, Migliavacca si rivolge al "Correntone": «Il Pd deve essere un partito progressista, ampio, aperto e la sinistra critica ci si deve sentire a proprio agio, se no come fa a ambire al 40%». Il giorno dopo, è polemica sui mancati inviti. Il ministro Di Pietro considera grave avere escluso Idv, il suo partito, dal Partito democratico: «Diventa un problema politico».
Repubblica 9.10.06
Milano. Boccioni. Pittore scultore futurista
Una mostra al Palazzo Reale
Il capoluogo lombardo che fu teatro della nascita del movimento celebra con una mostra esemplare uno dei protagonisti di quella importante stagione e una delle personalità più complesse e originali del suo tempo. L'esposizione, curata da Laura Mattioli Rossi, ripropone le più importanti pitture conservate a Milano, in collezioni pubbliche e private, le fusioni storiche in bronzo delle sue sculture (gli originali in gesso furono distrutti dopo la morte dell'artista) e Dinamismo di un cavallo in corsa + casamenti , opere utilmente messe a confronto con i lavori di celebri contemporanei dell'artista, come Rodin, Picasso, Medardo Rosso, Balla e Severini. A cominciare da Forme uniche della continuità nello spazio , bronzo acquistato dal Comune nel 1933 su indicazione di Giorgio Nicodemi, in concomitanza con la grande mostra dedicata a Boccioni nelle sale del Castello Sforzesco. In occasione della rassegna odierna, le Civiche Raccolte d'Arte hanno invece acquisito un prezioso fondo di lettere, fotografie e documenti presso la pittrice Adriana Bisi Fabbri.
Corriere della Sera 9.10.06
Dagli scavi dell'archeologo Paolo Matthiae un'interpretazione rivoluzionaria
Il padre di tutti gli dei: ultimo mistero risolto tra le rovine di Ebla
di Lorenzo Cremonesi
EBLA — Dal testo scritto allo scavo tra terra e pietre. Leggere le tavolette cuneiformi come fossero mappe in codice per individuare i templi religiosi di 4400 anni fa. E il fatto clamoroso è che la cosa funziona. Paolo Matthiae ha elaborato un nuovo modo per esplorare le rovine di Ebla: il grande amore che da 43 anni segna la sua esistenza di archeologo appassionato. Adesso dedica una gran parte del suo tempo alla rilettura delle famose tavolette con la scrittura cuneiforme da lui scoperte nel 1975. Quindi, sulla base delle rivelazioni in esse contenute, si concentra a scavare in alcune zone specifiche dei quasi 60 ettari sulla collinetta di terra rossastra che emerge per un paio di decine di metri dalla piana presso l'autostrada tra Hama e Aleppo.
«Mi sono convinto che in una elaborata società della parola scritta, quali erano i circa 20 mila abitanti di Ebla al tempo delle prime tavolette nel 2400 avanti Cristo, non potevano mancare anche gli archivi religiosi. Noi nel palazzo reale abbiamo individuato, raccolto e decifrato quelli civili, oltre 17 mila testimonianze uniche nella storia dell'umanità. Adesso si tratta di completare l'opera e trovare l'archivio del tempio centrale, anche perché centinaia di tavolette già in nostro possesso si riferiscono senza ombra di dubbio ai templi della città e alla sua religione», sostiene seduto nel piccolo studio-laboratorio ricavato in una fattoria con i muri di fango dove regolarmente trascorre tra i 3 e 4 mesi estivi all'anno per le campagne di scavo.
Matthiae cerca con attenzione tra gli indici dei volumi da lui curati con la traduzione delle tavolette. Vi ritrova il lungo filo rosso che lo guida dal 1964, quando iniziò a dedicarsi a Ebla per la Missione Archeologica Italiana organizzata dall'Università La Sapienza di Roma.
«Ecco. Prendiamo per esempio il cosiddetto Testo del Rituale della Sacralità, che nei nostri codici è stato catalogato con il numero 1823. Vi si spiegano tutti i passaggi molto elaborati che oltre quattro millenni fa legittimavano il re e la regina a governare su Ebla», racconta con un entusiasmo che per nulla tradisce i suoi 66 anni d'età. Quindi legge il testo a suo parere «rivelatore»: «Finché la regina non entra nel tempio di Kura, non entra nelle mura». Da un'altra tavoletta si deduce che c'erano allora due templi maggiori. Il minore, vicino a una delle porte di accesso alla città, non lontano dalle mura perimetrali di difesa.
E il principale, forse contiguo al palazzo reale. Aggiunge l'archeologo: «Il primo lo abbiamo già trovato. È la scoperta dell'ultimo anno. Ma la novità di questa estate è stata scoprire che su questo primo tempio principale ne erano stati costruiti in successione altri quattro sino al 1600 avanti Cristo, quando Ebla fu definitivamente rasa al suolo dagli Hittiti».
Arrivati con lui in gippone nel cuore dell'anfiteatro di Ebla stupisce osservare quanto poco sia stato esplorato. Il perimetro delle mura è ancora quasi tutto coperto dalla sabbia, cocci di argilla sono sparsi ovunque. Gli strati di quattro e forse cinque templi sovrapposti sono stati portati alla luce da giugno ad oggi. Quello più antico è anche il più imponente: largo 22 metri e lungo 30, aveva muri portanti spessi 6 metri e poteva essere alto sino a una ventina. «Abbiamo scavato solo il 10 per cento dell'intero sito. E il grosso del lavoro resta ancora da fare. L'archeologia procede sempre molto lentamente. Ma sono stato fortunato. A 35 anni quasi casualmente mi imbattei nella sala degli archivi. E da allora la mia vita è cambiata totalmente.
Come affermò nello stesso 1975 un celebre archeologo americano, Ignace Gelb, dell'Oriental Institute di Chicago: gli italiani a Ebla hanno scoperto una nuova lingua, una nuova storia, una nuova cultura. I riconoscimenti dall'estero arrivarono immediatamente. In Italia ci volle più tempo», dice senza nascondere un'ombra di risentimento verso i media e gli ambienti accademici italiani.
Sempre basandosi sulle tavolette in suo possesso, la missione sta per avviare nuovi scavi sulla parte alta della collina, poco lontano dalle zone esplorate nel 1975. Qui Matthiae cerca la conferma di un'altra sua ipotesi: «Sino ad ora si era pensato che la divinità principale di Ebla fosse Hadad, noto come il Dio della pioggia o della tempesta. Ma le tavolette più antiche si riferiscono continuamente ad un'altra figura, citata come Kura. Una sorta di Zeus primordiale, che come il Dio Baal dei famosi miti ugaritici è il padre ordinatore di tutte le cose in costante lotta con il serpente, l'entità della siccità e del caos. Se così fosse, potremmo dimostrare che la cultura sorta nel terzo e secondo millennio avanti Cristo nelle zone che corrispondono alla Siria attuale, specie nella regione di Aleppo, era molto più autoctona, originale e indipendente dalle contemporanee civiltà egiziana e assiro-babilonese di quanto non si fosse pensato sino ad oggi».