martedì 10 ottobre 2006

Ansa 8.10.06
Psichiatria:450 Mln Malati Al Mondo e Solo 1% Fondi Per Cure

ANSA) - ROMA, 8 ott - Sono circa 450 milioni le persone che, nel mondo, soffrono di disturbi psichiatrici . Eppure, molti paesi spendono meno dell'1% del proprio budget sanitario per la salute mentale. E' il dato che, piu' di altri, fotografa la situazione dei malati psichiatrici alla vigilia della Giornata mondiale della salute mentale, voluta dall'Onu, che si celebrera' il 10 ottobre.
Una Giornata per riflettere, affermano le associazioni di pazienti e famiglie, che denunciano un 'colpevole disinteresse' da parte della societa': ''Le famiglie con un malato mentale in casa - afferma l'Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica (Arap) - sono state abbandonate dalle istituzioni''. Cosi', denuncia l'Arap, il piu' delle volte le famiglie si trovano nella impossibilita' di curare fasi di malattia grave per mancanza di strutture adeguate. Ed ancora: ''Non vi e' alcuna risposta per i malati non consenzienti alla cura; si registra una grave insufficienza di strutture per la riabilitazione ed ogni giorno i malati fanno i conti con la negazione del diritto al lavoro e alla casa''.
Molto c'e' da fare, dunque, anche a fronte di numeri che indicano come la malattia mentale sia in preoccupante crescita: Le sole assenze sul posto di lavoro, ad esempio, rappresentano un grande problema, anche economico, nei paesi sviluppati. Tra il 1993 e il 1999, secondo le stime piu' recenti, si sono infatti quadruplicate le giornate di malattia per motivi psicologici. Tra questi pazienti, inoltre, la mortalita' e' altissima, facendo registrare circa un milione di suicidi l'anno. Nonostante cio', nei paesi sviluppati tra il 44% e il 70% dei malati non viene curato e nei paesi del sud del mondo la percentuale sale al 90%. Ed ancora: Il 25% dei paesi non ha una legislazione che si occupi di questi problemi, e quasi uno su 3 non ha alcun programma di salute mentale.
Dati allarmanti anche in Europa, dove una persona su 4 vive nel corso della propria vita un episodio significativo di malattia mentale; Circa 3 milioni di adulti soffrono nel corso della vita di schizofrenia e nel 33% dei casi questa ha inizio durante l'adolescenza.
Sulla base dell'ultima versione aggiornata dell'Atlante della salute mentale pubblicato dall'Oms, inoltre, mentre l'analisi condotta su 192 Paesi mostra un leggero aumento del numero totale di psichiatri nel mondo (da 3,96 a 4,15 ogni 100 mila persone nel 2005), la distribuzione locale e' molto diversa: si passa da un valore di 9,8 in Europa a 0,04 in Africa. Ed e' ancora troppo piccola la 'porzione' del bilancio sanitario che molti paesi dedicano alla salute mentale: Un quinto dei Paesi considerati nello studio spende meno dell'1% del suo budget sanitario per questa emergenza. Questo, nonostante l'Oms abbia stimato che piu' del 13% di tutte le spese sanitarie sia dovuto alle malattie neuro-psichiatriche.
Il fatto, affermano le associazioni, e' che la salute mentale non e' considerata fra le priorita' di salute pubblica: ''Le autorita' e le strutture competenti - e' il loro appello-denuncia - devono cominciare a prendere in maggiore considerazione il problema''.(ANSA).

Liberazione 10.10.06
La Finanziaria modifica in peggio
le norme sul diritto d’autore
“Pizzo” sulle rassegne stampa, così gli editori cercano di lucrare anche sul non-profit


Un gruppo missionario che raccoglie sul web articoli sulla guerra in Darfur. Un comitato di quartiere che vuole documentare uno scempio ambientale archiviando articoli della stampa locale. Un’associazione di persone colpite da una malattia rara che vuole mettere a disposizione di tutti una rassegna stampa sui progressi scientifici del settore. Un’associazione pacifista che vuole denunciare, con prove giornalistiche alla mano, crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.

Tutti questi soggetti potrebbero presto essere costretti a pagare una “tassa sul macinato” alle associazioni degli editori per continuare a svolgere le loro attività. La sorpresa arriva proprio dalla finanziaria dipinta come uno strumento di tutela dei soggetti deboli, e che in realtà è servita anche a tutelare le lobby dell’editoria modificando per l’ennesima volta le norme sul diritto d’autore in senso peggiorativo, limitando il diritto dei cittadini alla realizzazione di rassegne stampa, e penalizzando le forme di uso libero e gratuito dell’informazione giornalistica a fini culturali.

Il centrosinistra sembra avere particolarmente a cuore questa normativa, dal momento che già nel 2000 la legge 248 ha ritoccato il diritto d’autore e stabilito la galera per chi copia software ottenendo un generico “profitto”, quindi anche per chi fa una copia personale risparmiando per il mancato acquisto. Fino ad allora le manette scattavano solamente per un conclamato fine di lucro, se la copia era fatta per guadagnare soldi a danno degli aventi diritto.

Non è facile trovare la disposizione che introduce il pizzo degli editori sulle rassegne stampa: per scovarla non basta leggere l’intero testo della finanziaria, ma va esaminato l’articolo 32 del capo IX del decreto legge 262 del 3 ottobre 2006, collegato alla finanziaria ed entrato già in vigore il 3 ottobre scorso. Chi riesce ad arrivare alla fine di questo labirinto giuridico scopre che il decreto modifica la legge sul diritto d’autore all’articolo 65, stabilendo che «i soggetti che realizzano, con qualsiasi mezzo, la riproduzione totale o parziale di articoli di riviste o giornali, devono corrispondere un compenso agli editori per le opere da cui i suddetti articoli sono tratti. La misura di tale compenso e le modalità di riscossione sono determinate sulla base di accordi tra i soggetti di cui al periodo precedente e le associazioni di categoria interessate. Sono escluse dalla corresponsione del compenso le amministrazioni pubbliche».

In sintesi: se vuoi fare una rassegna stampa online o cartacea, devi pagare. Anche se la tua attività è senza fini di lucro, umanitaria o caratterizzata da una valenza culturale o sociale, devi versare comunque dei soldi. Soldi che per giunta verranno intascati dagli editori, e di certo non dai giornalisti che hanno scritto quegli articoli, pagati una tantum per la cessione dei loro diritti d’autore alle testate per cui lavorano.

Per capire la violenza di questo giro di vite in tutta la sua portata basta leggere la precedente formulazione dell’articolo 65, che condizionava le rassegne stampa alla sola citazione della fonte: «gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato».

Questa vecchia formulazione secondo alcuni dava troppa libertà ai cittadini senza dare un centesimo alle aziende editoriali che vogliono lucrare perfino sulle attività non-profit. Ma i tre grandi colossi editoriali italiani che applaudono alla nuova legge (Rcs, Mondadori/Fininvest e il gruppo Caracciolo/L’Espresso) ignorano che la citazione di un articolo su un blog o un sito web è in realtà una pubblicità gratuita per chi lo ha stampato, e che i cittadini sostengono già di tasca propria le imprese editoriali con i finanziamenti a pioggia della legge sull’editoria che premiano gli editori e gli stampatori di riviste associati a improbabili partiti e movimenti creati ad arte per scucire quattrini, come ha documentato un’ottima inchiesta di Report.

Da più di dieci anni l’attività del sito www. peacelink. it ruota attorno alla possibilità di pubblicare articoli (oggi quasi 18mila), alcuni originali, altri tradotti da volontari, molti ripresi da varie fonti autorevoli, sempre e comunque menzionate e riportate per esteso. Testi che, sul nostro sito, hanno acquistato un valore aggiunto proprio perché organizzati, tematizzati, catalogati e collegati tra loro grazie al lavoro di un gruppo costituito totalmente da volontari, dal presidente in giù. Molto di questo materiale è scomparso dai siti web delle testate che lo hanno pubblicato, e questo aggiunge al nostro lavoro di bibliotecari anche un importante ruolo di memoria storica delle lotte italiane e internazionali per la pace e il rispetto dei diritti umani.

Che cosa accadrà al nostro lavoro gratuito e volontario moltiplicando le nostre migliaia di articoli per il pizzo che gli editori si apprestano a riscuotere senza alcun beneficio per i giornalisti? Quali saranno i costi da sostenere per un sito come il nostro? Quale sarà in futuro il clima e il tenore democratico di un paese in cui le realtà di informazione alternativa saranno costrette a convivere con la spada di damocle di una possibile denuncia se vorranno esercitare il diritto di citare, analizzare, catalogare o contestare articoli di fonti esterne senza dover pagare una tassa ingiusta?

Quale sarà il destino di tutte le iniziative che cercano di affrontare la complessità e la ridondanza dell’informazione attraverso un paziente lavoro di tematizzazione, catalogazione e raccolta del meglio che l’informazione tradizionale è in grado di produrre? In che modo una tassa sull’esposizione di materiale pubblico inciderà sul diritto a «cercare, ricevere e diffondere informazioni, attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere» stabilito a chiare lettere dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?

Le risposte a tutte queste domande dovranno arrivare da un governo che si dichiara pubblicamente amico dei deboli e di nascosto produce cavilli giuridici a favore degli editori, il governo amico del volontariato che vuole estorcere soldi perfino alle associazioni non-profit, il governo amico della cultura che mette freni alla libera circolazione dei saperi, il governo vicino ai cittadini che in realtà vuol premiare aziende già ben foraggiate e avvinghiate a due mani alle generose mammelle dello stato.

Di fronte a tutto questo, al di là di ogni schieramento politico e ideologico, diciamo che il buon senso, la civiltà e l’amore per la cultura e la diffusione dei saperi che dovrebbero muovere ogni essere umano, a cominciare dai politici, ci impediscono di tacere e ci obbligano ad una netta presa di posizione.

Per questa ragione un gruppo di volontari dell’associazione PeaceLink ha realizzato un appello (pubblicato all'indirizzo: http: //www. peacelink. it/rassegnestampa) per dare alle persone di buona volontà la possibilità di conoscere quanto sta accadendo e prendere posizione in merito decidendo se schierarsi a difesa di un ingiusto profitto o dalla parte del diritto alla libera circolazione delle informazioni.

In questo appello si chiede al governo di fare un passo indietro rispetto a questo frettoloso decreto legge. Ripristinare il diritto alla rassegna stampa tax-free è solo il primo, doveroso passaggio per ridiscutere in seguito tutte le questioni che attengono la revisione della legge sul copyright, e le tematiche connesse, durante il prossimo Forum sulla Internet Governance.

La cultura è una cosa seria, non lasciamola in mano ai contabili dei gruppi editoriali.

Associazione PeaceLink

Liberazione 10.10.06
Abolire l’ergastolo,
la ragione profonda è nei principi supremi della Costituzione
di Domenico Gallo


Con il nuovo clima politico istauratosi con la vittoria politica del centro-sinistra alle ultime elezioni, e grazie ai lavori della commissione per la riforma del codice penale presieduta da Giuliano Pisapia è divenuto attuale un progetto perseguito in più legislature, ma mai portato a termine: l’abolizione dell’ergastolo. Questo progetto è stato più volte fermato dalle gravi emergenze che hanno funestato la nostra vita pubblica ed è stato persino bloccato attraverso un referendum, improvvidamente proposto e svoltosi nel 1981 in piena stagione terroristica. Per evitare che il dibattito su una scelta di ordinamento penale che ha un così grande valore simbolico (e quindi politico) si areni nelle secche della banalità occorre comprendere le ragioni profonde che sono alla radice dell’esigenza di cancellare dal nostro ordinamento la pena perpetua. Al riguardo occorre tenere presente che l’ergastolo non è una pena assimilabile alla reclusione, ma è una pena da essa qualitativamente diversa, assai più assimilabile alla pena di morte che non a quella della privazione temporanea della libertà personale. La ragione profonda per la sua abolizione risiede nei principi supremi della Costituzione. Se l’ergastolo verrà abolito ciò avverrà perché sarà messo a frutto uno dei doni più preziosi del nostro ordinamento costituzionale: il principio personalista.

Si è molto dibattuto in dottrina e nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale dei significati e del valore profondo di quel precetto costituzionale contenuto nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Se la Corte costituzionale, con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974, con la quale ha respinto la questione di incostituzionalità dell’ergastolo, si è arrampicata sugli specchi di una tormentata concezione polifunzionale della pena, essa, tuttavia, non è sfuggita al paradosso (lucidamente segnalato da Luigi Ferrajoli) di una pena perpetua dichiarata costituzionalmente legittima nella misura in cui è, in realtà, non perpetua (poiché l’ergastolano può essere ammesso al beneficio delle libertà condizionale).

Il dibattito sull’abolizione dell’ergastolo, tuttavia, non può fermarsi al principio rieducativo della pena, se non si comprende la ragione per cui quel principio è stato posto. In realtà esso rappresenta un mero corollario di un principio più alto, il principio personalista, che informa di sé tutto l’edificio costituzionale ed ha trovato compiuta espressione soprattutto negli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Alla radice di questo principio c’è il famoso ordine del giorno Dossetti (9 settembre 1946) presentato nei primi giorni di attività della 1ª Sottocommissione.

«La Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.), e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che perciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato».

Sulla base di questo ordine del giorno è stato elaborato l’articolo 2 della Costituzione, la cui formula: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» significa che la persona umana, nella sua concreta individualità sociale, è un valore storico-naturale, un valore originario, che l’ordinamento deve riconoscere e rispettare in ogni circostanza. Per questo i suoi diritti fondamentali sono “inviolabili”, non possono essere cancellati o manomessi dall’ordinamento, neppure con il procedimento di revisione costituzionale, né possono essere sacrificati sull’altare della ragione di Stato o per fini generali di politica criminale.

L’ergastolo, in quanto pena “eliminativa”, è in contraddizione con l’idea stessa della persona come fine, e quindi con l’essenza del principio personalista, radice profonda, gloria e vanto del nostro ordinamento costituzionale

Liberazione 10.10.06
L’alternativa che si costruisce da oggi
Ecco la Sinistra Europea
La direzione del Prc discute del nuovo soggetto. E della Finanziaria. «Ci sono tanti limiti ma sappiamo, e lo dimostra l’isterìa della Confindustria, che conta soprattutto la direzione di marcia: ed è quella giusta»
di Stefano Bocconetti


Una relazione sulla Sinistra europea, sulla costruzione del nuovo soggetto dell’alternativa in Italia. A che punto si è, i progetti, le modalità di costruzione. E poi, una comunicazione sulla Finanziaria. Cosa si è conquistato, cosa c’è da conquistare, cosa da difendere. Due introduzioni per la direzione del Prc, ieri mattina nella sala Cavour, in via Nazionale. Due introduzioni ma un solo dibattito. Che in tutti gli interventi - ma proprio tutti - ha tenuto insieme i due temi. Certo, la vulgata, la “vulgata mediatica” - «in un paese dove la stampa fa schifo», dirà senza tanti giri di parole Ramon Mantovani - racconta che la Sinistra europea nasce come risposta al varo - difficile, a tratti caricaturale ma a quanto sembra inevitabile - del partito democratico. Non è così. Franco Giordano, concludendo la direzione - ma non la discussione che riprenderà nel comitato politico nazionale di fine settimana - e interloquendo con diversi dirigenti che avevano chiesto e pronosticato una «competizione più esplicita» col raggruppamento riformista, quasi scandendo le parole, dirà che il progetto della Sinistra europea nasce da una «dimensione autonoma». Nasce dall’esperienza di questi anni dei movimenti, da Genova in poi. Nasce dall’incontro con altre culture anticapitaliste. Nasce dal bisogno di una “sinistra d’alternativa” che esca dal minoritarismo, per giocarsi in pieno la partita dell’egemonia a sinistra (come suggerirà Gennaro Migliore). Nasce, per dirla stavolta con Walter De Cesaris, che è stato il primo relatore, dall’analisi di questa difficile fase di transizione. Lui la definisce così: «Una fase in cui la destra è stata superata ma non sconfitta». Dove, insomma, rispetto a qualche anno fa, magari si sono aperti spiragli. Ma la possibilità di una rivincita reazionaria è ancora lì, dietro l’angolo.

Tradotto significa che la Sinistra europea nasce dentro un difficilissimo scontro («corpo a corpo», l’ha chiamato De Cesaris). Di cui la Finanziaria è una spia. Di più: dentro uno scontro che non è solo italiano. Perché - come dirà Graziella Mascia - i problemi che rivela la nostra Finanziaria - quello della precarietà, del tipo di welfare che si vuole disegnare - sono esattamente gli stessi che si trova ad affrontare la sinistra d’alternativa nel vecchio continente.

Si parte da qui, allora. Con una domanda iniziale: come è andato il “braccio di ferro” qui da noi? Insomma, che finanziaria è? Maurizio Zipponi, nella sua comunicazione, ha tracciato un quadro non ancora definitivo. Chiaro, però, nel suo «valore politico»: il documento di politica economica avvia, forse timidamente ma comunque avvia, una politica di redistribuzione. Soprattutto attraverso il ridisegno delle aliquote. Lui non enfatizza i risultati ma -, da «vecchio sindacalista», dice proprio così - sa che che quel conta «è la tendenza». Del resto, che la direzione di marcia sia la posta in gioco lo racconta soprattutto l’opposizione, feroce, della Confindustria. Il segnale, insomma, forse anche al di là delle cifre - che pure ci sono, insufficienti ma ci sono - «è che per la prima volta in assoluto una finanziaria avvia un processo di redistribuzione del reddito», dirà di nuovo Giordano. E lo ripeterà anche davanti alle telecamere delle Jene che lo catturano in una pausa dei lavori. E tutto ciò la Confindustria e le destre non possono tollerarlo.

Certo, a molti - a cominciare da Russo Spena che ha raccontato i malumori di tutte le assemblee a cui ha partecipato - non sfugge la sensazione che la Finanziaria sia percepita in altro modo. C’è insomma un po’ di confusione, anche fra la fila della sinistra. Magari, come dirà Milziade Caprili, anche «perché c’è un irrisolto problema di comunicazione», sul quale comunque bisogna intendersi: «Non sono i giornali che capiscono male ma è il governo che spesso non si spiega». Certo, per qualcun altro - soprattutto Salvatore Cannavò ma anche Claudio Grassi, esponenti delle minoranze: il primo di Sinistra Critica, il secondo de l’Ernesto - è una brutta finanziaria, che «sparge veleno». Che avrà - per dirla con Cannavò - un «impatto reale devastante». Al punto che se non sarà modificata, e molto, per lui non avrebbe più senso la presenza di Rifondazione al governo.

Temi, “sofferenze”, che raccontano di una battaglia tutt’altro che conclusa. Giordano dirà cose impegnative nelle conclusioni. Primo: che la finanziaria va migliorata. Andranno alleggeriti i tagli agli enti locali, «perché i sindaci hanno in gran parte ragione; ma non ha ragione Cofferati che chiede di redistribuire i sacrifici anche sulle categorie escluse da questa finanziaria»), andrà abolito il ticket sul pronto soccorso. Secondo: che le modifiche andranno prima concordate nell’Unione. «Perché se si facesse strada la “coalizione di volentorosi”, come si sono significativamente definiti i moderati dei due schieramenti, e ci fossero emendamenti concordati fra un pezzo della maggioranza e un pezzo della minoranze, a quel punto l’Unione non esisterebbe più».

Questo è lo scenario, in cui si vuole costruire la Sinistra europea. Come? Molti, raccontano di un’immagine del nascente nuovo soggetto politico che non è proprio quello desiderata. C’è il rischio insomma che la probabile implosione del partito democratico porti a far convergere nella Sinistra europea «pezzi» di ceto politico. Come evitarlo? De Cesaris indica una serie di scelte: mettere assieme le associazioni nazionali e quelle locali, con pari dignità, dare vita ad «un soggetto confederale, policentrico», costruire ovunque, nelle città, le Case della Sinistra europea. In un costante dialettico rapporto coi movimenti, come le mille vertenze aperte in Italia. E Rifondazione che fine farà? La direzione ha ribadito quel che già era stato deciso. Rifondazione continuerà ad esistere. Anzi, a marzo andrà alla conferenza di organizzazione («che aspettiamo da troppo tempo», dirà ancora Mantovani). Certo, c’è chi, come Alfonso Gianni dice che è arrivato il momento di togliere il trattino alla definizione «Rifondazione-Sinistra europea». Ha citato una vecchia querelle, quella sui trattini, per dire - o almeno così è sembrato - che lui auspica il superamento di Rifondazione dentro la Sinistra europea. Ma non sarà così. Dirà ancora Giordano: «Siamo convinti che serva alla Sinistra europea un progetto come quello di Rifondazione comunista. Una Rifondazione che certo innova il suo corredo politico, teorico, ma che resta soggetto politico». Nessuno chiederà agli altri, singoli o associazioni di rinunciare alle proprie storie, alle proprie identità, insomma. Ma nessuno dovrà chiederlo a Rifondazione. Che nel nuovo soggetto porterà il peso della sua elaborazione: sul tema della non violenza, la sua riflessione sul secolo scorso. Su come superare la dicotomia fra uguaglianza e libertà.

Finisce così. Con qualche dubbio (da quello di Cannavò: «S’è perso il treno per costruire la sinistra europea, nel biennio 2001-2003, oggi vedo un’eccesso di moderazione», a quelli di Pegolo che vede troppo alti i rischi di dispersione del patrimonio di Rifondazione) ma tante proposte concrete. Se ne riparla al Cpn, sabato.

il manifesto 10.10.06
consolazioni
Clienti disperati cercasi per idee a buon mercato
In una sorta di manuale scritto da Peter B. Raabe e titolato «Teoria e pratica della consulenza filosofica» l'interlocutore diventa «cliente» e il procedimento discorsivo imita il fare terapeutico Segno emblematico di illusioni adatte alla mercificazione, la «consulenza filosofica» è al centro di un libro scritto da Pier Aldo Rovatti con l'intento di correggere le derive del «professionismo»
di Marco Bascetta


Tra convegni, pubblicazioni, interviste e interventi sulla stampa quotidiana, la «consulenza filosofica», promossa da illustri cattedratici, trasfusa in master e specializzazioni, sembra avviarsi, anche in Italia, a un'espansione senza resistenze. Nella convinzione, del tutto indimostrata, ma ideologicamente saldissima, di incontrare il favore del mercato e una crescente domanda. Si immaginano così aziende interessate all'intervento del filosofo per motivare i propri dipendenti, singoli delusi dalle psicoterapie rivolgersi alla «consolazione della filosofia» e, magari, committenze pubbliche che affianchino, per esempio nelle carceri, al prete e all'assistente sociale, il consulente filosofico. Per quanto improbabili, questi scenari vengono sconsideratamente venduti sul mercato della formazione e delle illusioni occupazionali. Non varrebbe nemmeno la pena di tornare sull'argomento se la «consulenza filosofica» non rappresentasse un segno emblematico del nostro tempo e, più precisamente, della sua mercificazione.
Obiettivi scambiati per pericoli
È in questo contesto, e con l'intento di correggere tempestivamente le possibili derive del «professionismo filosofico» che Pier Aldo Rovatti dedica un agile, intelligente volumetto La filosofia può curare? (Cortina, pp. 99, Euro 9) alla «pratica» della filosofia e cioè a quel possibile uso del pensiero critico che non è solo approfondimento e trasmissione delle conoscenze, ma costruzione del sé e resistenza contro i poteri disciplinari e i dispositivi dello sfruttamento. Strana operazione, quella di Rovatti, tanto che al termine della lettura e proprio in virtù delle sue argomentazioni, si è portati ad escludere che la filosofia come «consulenza» pratica, con un qualche valore critico, possa mai esistere.
Infatti proprio quelli che Rovatti indica come i pericoli e le derive della «consulenza filosofica» sono precisamente gli obiettivi che i sostenitori della «professione» si propongono. Basta andarsi a sfogliare qualcuno dei trattati-manuali che cominciano a circolare nel panorama editoriale italiano. In primo luogo Rovatti, che segue l'impianto foucaultiano della «cura di sé», insiste su una decisa presa di distanza dalla «dimensione autoritaria e coercitiva della cultura terapeutica» che oggi si presenta più frequentemente come ragionevole e ragionato «invito all'autolimitazione», come riconquista di un equilibrio «sano» e dunque pacificato. Fatto sta che i teorici della «consulenza filosofica» non mostrano alcuna inclinazione a distinguersi, quanto al «gioco di potere», dagli psicoterapeuti. E Foucault, come Rovatti stesso rileva, è un autore del tutto ignorato dai cultori della professione. Sarà un caso? Se dunque l'autore ha in mente una foucaultiana «politica della soggettività» dovrebbe percepire come fumo negli occhi quella idea di «professione», di «lavoro produttivo» di «funzionalità», che sta al centro del progetto della «consulenza filosofica» e agli antipodi del pensiero critico e della sua pratica politica. «La politica della filosofia - scrive Rovatti - comporta infatti una respirazione-contro, non semplici spazi per riflettere meglio ma per indirizzare il pensiero proprio contro quella cultura aziendale che ti chiede, perfino con l'offa della filosofia, di essere più riflessivo, cioè più produttivo». È una formulazione pienamente condivisibile. Ma per quale ragione le aziende, corteggiate dai consulenti filosofici e continuamente invocate nelle pubblicità dei relativi master, dovrebbero mettersi simili serpi in seno? La filosofia, come esercizio critico e come pratica di resistenza è del tutto incompatibile con l'idea di «professione», di «consulente», di terapeuta, di specialista retribuito. La si potrà vedere all'opera nei seminari autogestiti delle università occupate, nelle riviste, nei numerosi dibattiti in centri sociali e collettivi politici, perfino nelle scuole e nelle università nelle quali la rassegnazione, la noia, la routine e la riforma Zecchino-Berlinguer non abbiano finito di devastare le menti, piuttosto che nello studio di un consulente, con il busto di Socrate sulla scrivania e la parcella nel cassetto.
In una sorta di manuale, appena uscito per le edizioni Apogeo, scritto da Peter B. Raabe e titolato Teoria e pratica della consulenza filosofica (pp. 330, Euro 18) l'interlocutore del filosofo è definito «cliente» e la procedura discorsiva segmentata per fasi predefinite che scimiottano per filo e per segno il procedimento terapeutico. Il resoconto dei casi concreti, al termine del volume, rivela una farraginosa evoluzione, condita di qualche dotta citazione, della «posta del cuore». Ecco dunque il folto menu di «arte della vita» che la «consulenza filosofica» sottopone al cliente: «la consulenza matrimoniale, il lutto, il lavoro pastorale, la consulenza accademica e l'attenuazione dei problemi, la consulenza sulla carriera e il management consulting, lo sviluppo dell'autostima, questioni e problemi di autoidentità, problemi religiosi o spirituali, questioni esistenziali o relative al senso della vita, problemi di acculturazione, problemi specifici di certi periodi della vita o della mezza età, questioni sociali e politiche, problemi interpersonali, familiari, intergenerazionali sia di gruppo sia individualmente, sensi di colpa, depressione, rabbia e così via, associati ai problemi che abbiamo elencato, o derivanti da questi».
Di tutto, dunque, ma dominato, nell'elencazione stessa delle possibili «prestazioni filosofiche», più dalle tonalità dell'adattamento, dell'equilibrio, della ricomposizione, che da quelle della critica e del conflitto. In questi panni ci si vede più Francesco Alberoni che Michel Foucault. Siamo in una dimensione del tutto antitetica alla «politica della soggettività», a quell'esperienza critico-pratica del pensiero, rivendicata da Rovatti contro l'autorecinzione accademica della filosofia. La spiegazione dei caratteri che dominano la teoria e la pratica della consulenza filosofica, nonché l'interesse delle «aziende» universitarie per questa nuova merce formativa, risiede nella sua genealogia, nelle circostanze e nel tempo storico in cui compare sulla scena.
La consulenza filosofica nasce nella Repubblica federale tedesca nel 1981 ad opera di Gerd B. Achenbach e trova fertile terreno nel mondo anglosassone. Due sono i fattori che ne determinano la nascita. Il primo, evidente, è la disoccupazione intellettuale di massa, vissuta come patologia sociale piuttosto che come crisi di sistema. Il secondo è l'affermarsi della produzione immateriale, l'immissione delle facoltà intellettuali, delle sensibilità individuali, delle esperienze e delle capacità relazionali nel dispositivo della produzione e dell'accumulazione del profitto. O meglio, la percezione distorta, acritica quando non apologetica, di questi fenomeni. È appunto negli anni '80, durante la cosìddetta «svolta linguistica» dell'economia, che si affermano concetti (meglio ideologie) come «capitale umano» o «professionalità», formula applicata alle occupazioni più improbabili, come principio di disciplinamento produttivo «universale» in quanto non limitato ad alcun contenuto specifico, come invece accadeva per le vecchie concrete professioni. Condizioni, queste, assolutamente proprie della postmodernità e all'interno delle quali è del tutto privo di senso evocare Socrate, Epicuro, Seneca e altri mostri sacri della filosofia antica (curiosamente non si citano mai i sofisti che, se non altro per la loro inclinazione mercenaria, sarebbero più strettamente imparentati con i nostri consulenti). Il consulente filosofico si sviluppa, seppur con minore fortuna, probabilmente per la sua discutibile utilità, insieme con addetti alle pubbliche relazioni e pubblicitari, psicologi aziendali e «creativi» d'ogni genere, consulenti finanziari e animatori dei villaggi-vacanze, conduttori di Talk show ed «esperti di immagine».
Una pratica fuori mercato
Insomma, fino allora i filosofi avevano interpretato il mondo, ora si trattava di metterli al lavoro, ben guardandosi dal cambiarlo. E, tuttavia, nonostante questo fiorire di «professionalità» immateriali, il mondo non pullula di filosofi che campino delle loro consulenze. Sarà perché è l'agente di borsa ad avere maggior dimestichezza con la metafisica applicata e sono Beppe Grillo o Adriano Celentano a incarnare la filosofia morale del presente, sarà perché la filosofia (ormai di ogni stilista, di ogni strategia di marketing, di ogni discoteca o agenzia di viaggi si dice che abbia la sua «filosofia») a tutto serve tranne che a fare «il filosofo», come che sia il consulente non decolla.
Una minima percezione del tempo in cui viviamo dovrebbe sconsigliare l'invenzione di un nuovo specialismo nel generale tramonto degli specialismi. Ed è sconsolante vedere prestigiose università e illustri accademici vendere agli studenti siffatte fandonie. Allora ben venga la strada indicata da Rovatti, ma con la consapevolezza che l'esercizio del pensiero critico, la cura di sé e degli altri, non è una professione, ma la pratica che tutte le scardina, non sta nel mercato ma lo eccede. E se non rende niente, pazienza. L'astuzia della ragione trova sempre il modo di sbarcare il lunario.

il manifesto 10.10.06
Un dispensario di ricette per i master dell'anima
Platone e Foucault per aspiranti «tagliatori di teste» o come toccasana per manager depressi. Le dispense di marketing aziendale scoprono la filosofia
di Roberto Ciccarelli


Da quando i manager hanno dimostrato di avere un'anima, e non ci sono motivi per escluderlo, qualcuno sostiene che in Italia anche la filosofia ha cambiato ragione sociale. Prendiamone uno che lavora sodo, il suo nome è Marco Pressi. Chi ha visto il film di Eugenio Cappuccio Volevo solo dormirle addosso conoscerà la sua vicenda. Formatore aziendale di grande simpatia interpretato da Giorgio Pasotti, il suo lavoro è quello di motivare il personale di una multinazionale francese installata a Milano. Per le sue qualità umane viene scelto dai vertici per fare il «tagliatore di teste»: deve fare fuori un terzo del personale a causa di una ristrutturazione, in cambio di riconoscimenti tali da mettergli il mondo in tasca. In altre parole: chi in un'azienda è titolare riconosciuto di qualità umane, e lavora per farle crescere anche nei suoi colleghi, non può non usarle contro di loro. Da formatore a killer il passo è tanto breve da riportare alla mente una celebre battuta con la quale lo scrittore anglo-ungherese Tibor Fischer riassumeva il senso della filosofia socratica, nella versione di Platone: «avere ragione in un dialogo socratico significa avere una pistola in pugno». Immaginiamo allora che Marco Pressi abbia frequentato un master in consulenza filosofica. Ragazzo sveglio con una laurea di filosofia ha colto al volo la nuova moda della formazione post-universitaria italiana. Cresciuta negli ultimi anni, grazie ad associazioni, collane editoriali specializzate e master postlaurea (a Pisa e a Venezia quelli più importanti), la consulenza filosofica mira a fornire un contributo «al potenziale riflessivo della leadership aziendale»; a creare un sapere per gestire i conflitti interpersonali e il disagio esistenziale; a inventare una terapia per «raggiungere scopi che autenticamente favoriranno il rigoglio della nostra vita» (come si legge sul sito del master dell'università di Pisa). Marco Pressi ha dimenticato così il timore esistenziale che coglie i giovani filosofi (o letterati, scienziati della comunicazione o della politica, insomma i vecchi «umanisti» sfornati dall'università) quando capiscono di avere rimediato il bidone di una laurea che difficilmente consentirà di insegnare a scuola, come di proseguire la carriera universitaria. E ha conosciuto il tremore di chi, all'ombra del potere aziendale, professa la filosofia come comunicazione e marketing sociale. E' la storia che racconta Pier Aldo Rovatti nel pamphlet La filosofia può curare? (Raffaello Cortina editore, pp. 99, euro 9): la consulenza filosofica è una pratica di controllo più soft dell'invasiva psicologia aziendale e consente al giovane filosofo di trovare una «professionalità» basata sulla facilitazione dei rapporti umani e sullo scioglimento dei nodi psicologici, ma anche su una nuova identità: essere uno snodo importante del controllo aziendale sui dipendenti. Scrutatore della psiche, consigliere dell'anima, pastore dell'etica comportamentale e dell'autostima per i colletti bianchi intristiti dalla vita, il filosofo sembra avere trovato una «spendibilità» in una società che già alla fine degli anni Ottanta ha celebrato, per l'ennesima volta, la «morte della filosofia». Pur favorevole allo sviluppo della consulenza filosofica in Italia, peraltro sostenuta anche da Umberto Galimberti che ne è il vate verboso, Rovatti avverte un pericolo. Non sarà forse che, da antidoto contro i veleni della ragione, la filosofia è diventata il bromuro che allenta ogni resistenza al potere? Il tagliatore di teste Marco Pressi ha studiato bene Michel Foucault (che, scrive Rovatti, non è tra i top of the pops della consulenza filosofica). Sa che chi propone una terapia al disagio psichico, o una consulenza filosofica per digerire meglio un licenziamento ingiusto, sta dalla parte del potere. L'unico che può rivendicare la ragionevolezza delle proprie azioni e che agli altri ammannisce la consolazione di un'occasione perduta. Ma allora che farne di questa filosofia? Moneta scaduta che il filologo rivenderà tra un millennio a qualche collezionista cartesiano, oppure politica che espone chi la rivendica a rischi tali per cui non c'è medico, né cura, né farmaco. Né garanzia di salvezza. E' questo il costo della riflessione su di sé. Lo diceva Nietzsche. Un altro autore che nessun consulente filosofico vi consiglierà quando, dopo averlo ascoltato, penserete che forse il prozac è meglio di Platone.

Repubblica 10.10.06
I quattro volti della sinistra
di Ulrich Beck


Chi aveva sperato che dopo il crollo del muro di Berlino la fantasia politica della sinistra, liberata dal dogmatismo marxista, avrebbe preso il potere è rimasto profondamente deluso. Se i partiti politici europei continuano a comportarsi come chi vive di rendita non è certo che i paesi europei continueranno ad essere Stati moderni, benestanti e progrediti. Sono indignato dalla totale mancanza di analisi della situazione dell´Europa nel mondo e dall´assenza di nuove idee che esplorino il politico al di là del nazionale e dell´internazionale. Dov´è la sinistra? Tace. Cosa dicono i sindacati? Sono muti. Cosa propongono gli intellettuali? Il numero selezionato non risponde. Per non essere frainteso: se qualcosa si può raccogliere a piene mani, sono le pigre contraddizioni dell´albero della "giusta" conoscenza. Per tutti i problemi che muovono il mondo – dalla tutela ambientale, attraverso gli intrecci economici e i movimenti migratori fino alle questioni dell´assicurazione regionale e globale della pace – il pensiero nazionale ha perduto la sua competenza politica. Tutto ciò che dà impulso al nazionalismo in Europa - la disoccupazione di massa, i flussi di profughi, le guerre, il terrorismo - ha un carattere ironicamente internazionale.
E allora, what´s "left"? Come tante altre cose, anche l´essere di sinistra della sinistra si è in un modo o nell´altro sbriciolato, pluralizzato. Se da un lato si distingue tra "protezionista" e "aperto al mondo" e, dall´altro, tra "nazionale" e "transnazionale", si possono distinguere quattro tipi di "sinistra": la sinistra protezionista, la sinistra neoliberale ("terza via"), la sinistra-cittadella, la sinistra cosmopolita.
In tutti gli schieramenti politici le strategie ortodosse di conservazione dell´esistente sono sulla difensiva. Ovunque si rivendica la "flessibilità" – ciò che in ultima analisi significa che un "datore di lavoro" deve poter licenziare più facilmente i suoi "lavoratori". "Flessibilità" vuol dire anche ripartizione tra gli individui dei rischi dello Stato e dell´economia. I lavori disponibili diventano a breve termine, facilmente revocabili, ossia "rinnovabili". "Flessibilità", infine, significa: "Rallegrati, le tue conoscenze e le tue capacità sono invecchiate e nessuno è in grado di dirti cosa devi imparare per essere utilizzato in futuro".
Contro questa economia politica dell´insicurezza si schiera e si batte la sinistra protezionista. Il suo filtro magico, il suo antidoto è il rifiuto collettivo della realtà. Questi riemergenti fautori di un protezionismo dello Stato sociale caro alla sinistra nazionale non vogliono, semplicemente, prendere atto che la crisi dei sistemi sociali è di tipo non congiunturale. Non c´è dubbio che si tratti di una constatazione amara. Ma ficcare la testa nella sabbia di fronte alla nuova situazione economica e politica mondiale non è mai stato di sinistra. E non aiuta nessuno – al contrario: acuisce i problemi di tutti. Sta per finire un´epoca iniziata con le leggi sociali di Bismarck e che da ultimo in Europa aveva suscitato l´illusione di poter realizzare il grande compito di garantire alla maggioranza delle persone una vita in libertà e in sicurezza. Questa soluzione della "questione sociale" è ora diventata a sua volta un problema sociale. Chi, di fronte ai prevedibili cambiamenti nella composizione per età della popolazione, al decrescente volume del lavoro retribuito nel capitalismo digitale, alla sempre maggiore domanda di lavoro retribuito dichiara intoccabili la quantità e il livello delle prestazioni del welfare, mette in pericolo l´insieme. Il nazionalismo con il paraocchi della sinistra protezionista (al quale inclinano anche i comunisti e gli ambientalisti) facilita la conversione al fronte delle destre xenofobe. Infatti, nella difesa del "nazionalismo del welfare" le ideologie di destra e di sinistra si danno la mano.
La sinistra neoliberale accetta e prende sul serio la sfida della globalizzazione che viene per così dire rifiutata preventivamente dalla sinistra nazional-protezionistica. Qui si cerca un nuovo legame tra lo Stato nazionale e il mercato mondiale, che è stato espresso in particolare dal New Labour, nella forma del programma politico della "terza via". La sinistra neoliberale ricava il suo profilo proprio nell´opposizione alla sinistra protezionista. Da un lato essa vuole dare accesso alle "nuove realtà" in una politica riformatrice di sinistra. Dall´altro, però, essa – che per questo aspetto non è molto dissimile dalla sinistra protezionista – rimane legata al pensiero-container e alla concezione della politica nazionali. Chi vuole cambiare qualcosa a partire da queste premesse indiscusse deve necessariamente essere "ingiusto", ridimensionare le aspirazioni, respingere le pretese, incoraggiare l´iniziativa autonoma, battersi e impegnarsi per un´altra logica, un´altra morale della politica sociale. Per questa "necessità patriottica" del dover essere ingiusti i riformatori neoliberali dello Stato sociale possono chiedere a buon diritto comprensione e approvazione. Tuttavia, essi sono destinati all´insuccesso, perché il campo d´azione degli Stati è limitato al dilemma: o pagare la crescente povertà con maggiore disoccupazione (come nella maggior parte dei paesi europei) o accettare la povertà clamorosa in cambio di una disoccupazione un po´ meno alta (come negli Stati Uniti).
La sinistra-cittadella (difficile da distinguere da una destra-cittadella) mostra i denti nell´innalzare confini contro gli stranieri. L´Unione europea difende i confini nazionali con mezzi europei. Gli Stati economicamente più potenti perseguono una politica ispirata a una doppia morale dell´economia di mercato, in quanto esigono il rispetto dei principi del libero mercato per tutti gli altri paesi, mentre proteggono i loro mercati interni dalle "aggressioni straniere". E questo non vale soltanto per la concorrenza economica, ma anche e soprattutto per l´immigrazione. Anziché vedere in una politica mirata dell´immigrazione un vantaggio strategico per l´Europa che sta invecchiando drammaticamente, si valuta per intero l´immigrazione in modo negativo e le si risponde con l´edificazione della "fortezza Europa" – con il grande consenso di tutti i partiti e i governi "europei".
La sinistra cosmopolita è, secondo molti, una sinistra idealista senza apparato di partito, senza chance di potere. Tuttavia, sussiste una nascosta affinità elettiva tra la questione del potere e la questione della giustizia. Forse, si può addirittura affermare che la questione della giustizia è diventata sostanzialmente una questione di potere – questo vale nel quadro nazionale ma anche nel rapporto al contempo locale e mondiale tra le culture e tra le religioni. Rinunciare all´utopia significa rinunciare al potere. La dichiarata mancanza di utopia è un assegno in bianco all´autorinuncia della politica alla politica. Solo chi riesce a entusiasmare ottiene consenso e potere. La riscoperta della questione della giustizia è in fin dei conti più realista del cosiddetto realismo dei pragmatisti privi di grandi visioni. Essa però presuppone un altro concetto della politica, ossia un concetto non nazionale. La domanda chiave, cioè come si possano arginare politicamente i rischi sfrenati dei flussi di capitali diffusi in tutto il mondo, si pone a tutti i governi e a tutti i partiti politici. Perché, allora, non fare entrambe le cose: risparmiare inflessibilmente e sviluppare ed esplorare una nuova politica transnazionale per creare così il presupposto dell´organizzazione dei mercati mondiali e la soluzione dei problemi nazionali fondamentali? La risposta alla globalizzazione consiste in una migliore coordinazione internazionale della politica nazionale, in più forti controlli sovranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nell´eliminazione del dumping fiscale, in una stretta collaborazione tra le organizzazioni transnazionali e nel loro rafforzamento, nel senso di una maggiore mobilità politica e legittimazione democratica. Sono vie, anzi le uniche vie, per restituire alla politica efficacia a livello nazionale. Ecco la strada più lunga: il realismo cosmopolita. Un dare e ricevere multilaterale, nel quale alla fine ognuno può risolvere meglio i suoi problemi nazionali.
Il vuoto di legittimazione dei gruppi industriali transnazionali è palese, ed essi temono la fragilità dei loro mercati che ne deriva. Non pagare tasse e cancellare o trasferire altrove posti di lavoro alla lunga non dovrebbe bastare per creare nuova fiducia e stabilizzare i mercati. Perché allora non perseguire la strategia politica combinata: da un lato abbassare il costo del lavoro e, dall´altro, sollevare pubblicamente la questione di quale contributo offrano alla democrazia in Europa le imprese che danno sempre meno lavoro e realizzano profitti sempre più alti? Perché non riconoscere la pluralità dell´autonomia precaria e renderla calcolabile per gli individui con una politica sociale di sicurezza fondamentale (assistenza sanitaria e previdenziale indipendente dal reddito, finanziata da tutti)? È questo il compito erculeo di fronte al quale una sinistra cosmopolita può sviluppare il suo profilo e la sua autoconsapevolezza, dando buona prova di sé.
Il rinnovamento dei contenuti della politica è la via maestra per il rinnovamento del potere della politica. Dunque, non c´è soltanto un cosmopolitismo idealistico, ma anche un cosmopolitismo capace di elaborare strategie per il potere. Anche l´assolutamente cinico Machiavelli nel perseguire le sue strategie di ottimizzazione del potere dovette convertirsi all´idealismo.
Molti si trincerano, si arroccano e recitano i rosari del postmoderno – «fine della politica», «fine della storia», «insensato», «troppo tardi» -, mentre attorno a loro il politico irrompe di nuovo. Ma questa nuova irruzione avviene proprio all´insegna di un nuovo concetto del politico, che bisogna saper riconoscere, cogliere, sperimentare. Una politica economica "moderna" dovrebbe quindi rispolverare anche nella cooperazione transnazionale di fronte all´economia mondiale l´abicì della politica, cioè il principio che la ricchezza genera l´esigenza di diritti e di giustizia e perciò responsabilizza i potenti. La politica predominante, che tende a radicalizzare le disuguaglianze e a smantellare il diritto, corre senza freni e inevitabilmente verso il muro della mancanza di consenso. Questo intendeva l´ex primo ministro spagnolo Felipe Gonzales, quando diceva: "Noi (socialdemocratici) governiamo ovunque in Europa, ma non siamo al potere". È passato un bel po´ di tempo.
(traduzione di Carlo Sandrelli)

Repubblica 10.10.06
La minoranza ds getta le basi della mozione congressuale. Invito del Prc: dialogate con noi
Anche il "correntone" a Orvieto per dire no al Partito democratico
Contro-seminario a novembre. Fassino: lavoro per l´unità
Bertinotti: non so se l´operazione riuscirà, mi ricorda il sogno di Cgil-Cisl-Uil
di Giovanna Casadio


ROMA - Dopo Orvieto, c´è un´altra Orvieto. Il "Correntone" Ds assente al seminario ulivista, si dà appuntamento nello stesso luogo in cui il Partito democratico di Prodi, Fassino e Rutelli è decollato. Non è però l´inizio di una scissione (parola vietata nel vocabolario della minoranza della Quercia) piuttosto, precisano, «un´assemblea per discutere». Ma forse è qualcosa in più. Uscirà infatti da lì (appuntamento il 18 e 19 novembre) il contro-manifesto che costituirà poi la mozione anti Partito democratico al congresso dei Ds dell´estate 2007. E se Fassino e la maggioranza del partito decidessero di fondersi nel Pd, rinunciando magari all´appartenenza europea nel Pse? Allora manifesto e fondazione annessa potrebbe rappresentare la prima tappa verso «un´altra cosa» che dovrebbe coinvolgere - spiega Gianni Zagato, coordinatore dell´ area Mussi - sia la sinistra di Salvi, che l´aventiniana Bandoli. Giovedì il "Correntone" si riunisce e il leader Fabio Mussi ribadisce la propria contrarietà al Pd se resta quello che è, cioè «un grande comitato elettorale senza durata». Ma se ci fossero svolte, il giudizio potrebbe essere rivisto.
L´Orvieto alternativa comunque non fa paura al segretario Ds. «Scissione nel partito? Noi lavoreremo perché non ci sia, voglio portare tutti nel nuovo partito - assicura Fassino in tv a Porta a porta - A Orvieto non è nato il Pd, è iniziato un processo, ci siamo messi in cammino, abbiamo 15-16 mesi di lavoro». E ripete quanto detto nell´intervista a Repubblica, che la scommessa è un partito nuovo riformista con «centinaia di migliaia di "aderenti" se non piace la parola iscritti perché qualcuno teme che evochi chissà che». Frecciata a Parisi e agli ultraulivisti. Se i Ds hanno 600 mila iscritti, dice il segretario, il Pd dovrà essere assai più vasto. Le difficoltà sono tante, ammette, perché «è più facile fare una casa nuova che ristrutturare una vecchia», non può essere la semplice somma di Ds e Dl («Sarebbe troppo poco»), ma «se nasce a dispetto di Ds e Dl sarebbe velleitario». «Perché non c´è contraddizione tra essere un partito strutturato, forte e capace di aprirsi alla società». La proposta di Fassino è di un´assemblea costituente composta metà da delegati di partito e metà da rappresentanti indicati con le primarie. «Nelle parole di Fassino vedo un passo avanti-dice Willer Bordon, parisiano e presidente dell´assemblea Dl - Certo un è po´ eccentrico, visto che avrebbe potuto proporlo a Orvieto invece che in un´intervista. E D´Alema cosa ne pensa? Il Pd, comunque, è un carro armato in discesa». Il ds Angius, uno degli scettici del Pd, propone: «Il Pd? Chiamiamolo Partito dei democratici e dei socialisti». Iniziative pro Pd a Bologna, in Veneto. E i giovani Ds e Dl vogliono una norma salva "under 40" nel Pd.
Ai «compagni» del Correntone si rivolge Rifondazione che in direzione ieri ha accelerato verso il partito della Sinistra europea, il progetto voluto da Bertinotti. Il presidente della Camera sul Pd è scettico: «Può darsi che si faccia, ma può anche darsi che sia come l´unità sindacale degli anni 70, che sembrava nelle cose e alla fine non si è fatta». Il segretario Prc Giordano spiega che la Sinistra europea non nasce "in conseguenza di" né "in funzione" del Pd. Però c´è «una sfida profonda», rimarca Alfonso Gianni. Il Prc non si scioglierà, la "Se" dovrà essere «una confederazione» (uno spazio è offerto anche a Salvi, Mussi e gli altri), avrà il suo «congresso zero» nell´autunno 2007. Migliore e Russo Spena "provocano" i riformisti: voi avete il problema di come collocarvi in Europa, noi nasciamo in Europa.

Apcom 9.10.06
PD/ BERTINOTTI: SINISTRA RISPONDA CON NUOVO SOGGETTO POLITICO
"Non vedo cultura riformista, né in Italia, né in Europa".


Roma, 9 ott. (Apcom) - "Alla tendenza del Partito democratico non si può rispondere dicendo 'traditori, scissionisti', ma bisogna costruire un soggetto politico nuovo che, diversamente da questo riformismo che non ha risolto il problema di dove andare, sappia proporre un obiettivo futuro". Lo ha detto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, nel corso della registrazione di 'Otto e mezzo', trasmissione che andrà in onda questa sera su La7, parlando del processo politico che dovrebbe svilupparsi nella sinistra radicale di fronte alla nascita del Pd.
Diversamente da quanto affermato dal segretario dei Ds, Piero Fassino, in un'intervista di oggi su 'Repubblica', Bertinotti ha affermato: "Francamente non vedo una cultura riformista e non la vedo neanche in Europa. Il problema è che il riformismo è ancora in fase di ridefinizione. Quindi il partito democratico è probabile che si faccia per una sorta di movimento d'inerzia e svuotamente di ideologie politiche forti. Proprio quest'approccio potrebbe risolvere il problema dell'unità e di una costruzione di una forza riformista".
Tuttavia, secondo Bertinotti, questo "potrebbe anche non accadere". Il presidente della Camera, ha ricordato l'unità sindacale che "non si è fatta".

Apcom 10.10.06
PRC/ PD E SINISTRA EUROPEA: GIORDANO VA AVANTI, MA PARTITO DISCUTE

Gianni: serve più coraggio. Grassi: non escludiamo Pdci e Verdi

Roma, 9 ott. (Apcom) - "La rifondazione comunista, con la 'r' minuscola, si fa dentro la Sinistra europea (Se), non possiamo continuare per una vita con il trattino (l'allusione è a Prc-Se, nuova denominazione di Rifondazione, ndr). Serve una discussione più coraggiosa, che consentirebbe un recupero di forze, a cominciare dalla sinistra Ds". E' Alfonso Gianni, sottosegretario allo Sviluppo economico, per un decennio il collaboratore più stretto di Fausto Bertinotti, a mettere i piedi nel piatto e a chiedere alla riunione congiunta di direzione ed esecutivo del partito di fare i conti con quello che sta accadendo a con l'accelerazione del Partito democratico.
Non chiede lo scioglimento del partito, Gianni, ma indica un altro percorso rispetto alla linea ufficiale, illustrata oggi da Walter De Cesaris nella relazione introduttiva della riunione. Non a caso De Cesaris ha accusato di "deriva politicista" chi mette in connessione l'accelerazione del partito unitario dell'Ulivo con l'allargamento ricercato da Rifondazione con l'operazione della Sinistra europea. "E' come la federazione dei partitini proposta da altri", ha rincarato la dose De Cesaris, e siccome 'altri' sono i Comunisti italiani di Oliviero Diliberto, l'accusa dentro Rifondazione è di quelle che pesano. Tanto che poi, parlando con i giornalisti, il segretario del Prc Franco Giordano precisa che "quella di Alfonso è una posizione personale, che rispettiamo", punto e basta.
Sta di fatto che anche anche il presidente della Camera, intervenendo oggi alla registrazione di 'Otto e mezzo' su La7, ha sottolineato il rapporto tra il Pd e la sinistra: "Alla tendenza del Partito democratico non si può rispondere dicendo 'traditori, scissionisti', ma bisogna costruire un soggetto politico nuovo - ha spiegato Bertinotti - che, diversamente da questo riformismo che non ha risolto il problema di dove andare, sappia proporre un obiettivo futuro".
Sull'approdo della Sinistra europea restano però molte perplessità: se Claudio Grassi, della minoranza 'Essere comunisti', critica un percorso "che esclude a priori il grosso delle forze che stanno a sinistra del Pd", cioè Pdci e Verdi, Ramon Mantovani dice che il problema "non è il Partito democratico, ma il fatto che siamo un partito di governo, mentre Izquierda Unida in Spagna è stata fatta quando i comunisti erano all'opposizione. Dobbiamo trovare degli antidoti - avverte - a quella schifosa calamita che è il governo", anche per mettere un freno a "adesioni interessate". Per Mantovani non è vero che i movimenti si sono indeboliti, ma per affrontare il passaggio della Sinistra europea occorre "rafforzare il partito", anche attraverso la conferenza organizzativa che dovrebbe tenersi entro la fine del 2006, "promessa mai mantenuta per colpa di Fausto Bertinotti".
Dopo il mezzo passo indietro dei dirigenti della Fiom e di altri potenziali aderenti a Se, resta l'interrogativo sulla reale forza di attrazione della proposta partita da Rifondazione. Ma Giordano, nelle conclusioni, mette l'accento sulla necessità di "accentuare l'innovazione politica, la ricerca di un altro modello di società" e mette in guardia dal rischio di "raccogliere solo i delusi del Pd". Quanti e quali siano, questi delusi, peraltro, è assai prematuro a dirsi, ragione per cui per ora il Prc continuerà sulla sua strada: all'esterno, costruendo le 'Case della Sinistra europea' sul territorio per cercare di aggregare tutto ciò che nel Pd non ha mai pensato di entrare; all'interno, con un gruppo di lavoro che affiancherà la segreteria e che dovrebbe comprendere le minoranze interne, le meno convinte dal cammino della Sinistra europea.

l'Unità 10.10.06
Mussi: no non salgo su quel treno
«Resto socialista. E voglio unire la sinistra»
«Il Pd non mi affascina. Non voglio costituire un nuovo partito ma se i Ds dovessero sciogliersi siamo aperti a tutte le ipotesi»
di Ninni Andriolo


Ministro Mussi, il treno del Partito democratico è partito da Orvieto. Le hanno dato appuntamento alla prossima stazione, raccoglierà l’invito?
Ringrazio per gli appelli che mi sono stati rivolti, ma non avverto il fascino del Partito democratico e, quindi, non salirò su quel convoglio. La mia contrarietà a quel progetto non è una sorpresa.
Scissione in vista dai Ds, quindi?
Non siamo noi quelli che vogliono liquidare i Ds. Non ho mai nemmeno immaginato la scissione. Sono stato tra i piu'convinti della svolta nel 1989. Ho sentito molto la suggestione occhettiana dell'andare oltre. Qui non si va oltre. Si va indietro e fuori. I partiti democratici c'erano già nell'800, prima del movimento socialista. Qui si torna a due secoli fa e si deraglia.
Quindi?
Presenterò un'altra prospettiva politica al congresso Ds. Ma serve un congresso con regole occidentali autentiche. Perché non avvenga - come è accaduto negli anni scorsi - che certe organizzazioni passino da mille a diecimila iscritti in quindici giorni. Chiederò anche che il segretario venga eletto con voto diretto e segreto.
E quale sarà la piattaforma politica della sua mozione?
Il rafforzamento dell'alleanza democratica di centrosinistra. Ritengo che il rapporto con la Margherita sia assolutamente importante, ma non credo a un partito unico Ds-Dl. Io proporrò la riunificazione della sinistra italiana, con forti caratteri collegati al movimento socialista internazionale e a tutto il pensiero critico sugli assetti del mondo.
Se dovesse perdere farà un altro partito, magari con il Prc?
Non mettiamo il carro davanti ai buoi. In ogni caso c'è un'esperienza comune di governo che fa evolvere i caratteri di tutti. Non si tratta semplicemente di pensare le cose a bocce ferme.
Ma si parla già di una "Orvieto due" promossa dal Correntone per dare vita a una Fondazione e a un manifesto. Prove generali per un nuovo partito della sinistra?
Sono le cose che avevo già illustrato alla feste de l'Unità di Pesaro, A Orvieto, sabato scorso, è stato annunciato già un nuovo partito. Due mi sembrano esagerati. Se i Ds dovessero sciogliersi sono aperte tutte le ipotesi. Ma intanto restiamo all'oggi.
Nessun rammarico per non aver partecipato al seminario dell'Ulivo?
Nessun pentimento, il nostro gesto è stato meditato e serio. L'appuntamento era stato presentato come l'avvio del Partito democratico e la cosa straordinaria è che nei Ds, forza politica alla quale appartengo, non è mai stato votato alcun documento che parli di Partito democratico. Non c'è un solo atto passato al vaglio degli iscritti.
L'ultimo congresso impegnò la Quercia per la Federazione...
Certo e quando obiettammo che quella ipotesi poteva costituire l'anticamera del partito unico, ci si rispose sdegnosamente che il nostro era un processo alle intenzioni. All'ultimo congresso, in realtà, era stato votato un documento di maggioranza che indicava la strada di una Federazione che, però, non è stata mai fatta funzionare. Peraltro, una Federazione non ristretta a Ds e Margherita, visto che avrebbe dovuto comprendere Sdi e Repubblicani europei.
Sta di fatto che Ds e Dl si sono presentati sotto il simbolo dell'Ulivo anche alle ultime elezioni...
Anche io, dal 1996, ho contribuito a fare affermare quel simbolo elettorale. Faccio notare che l'Ulivo che si presentò nel maggioritario comprendeva, allora, tutto il centrosinistra tranne Rifondazione. E che, successivamente, la Federazione riformista era composta da Ds, Dl, Sdi e Repubblicani. Oggi, invece, l'ipotesi concreta sul tappeto è quella dell'unificazione tra Ds e Margherita. E' come la sinfonia degli addii, nella quale gli strumenti escono di scena uno dopo l'altro. Oggi sono rimasti in due a suonare. E il 44% del '96 si è ridotto al 31% di quest'anno.
L'unificazione tra Quercia e Dl non costituisce di per sé una novità dirompente?
Lungi da me sminuire la portata di tale operazione che, però, non posso condividere. Non dico e non dirò mai che si sta realizzando un tradimento, un'abiura o una fellonia. Ricordo, però, che l'ultima volta che votai una mozione congressuale di maggioranza, questa parlava di una grande sinistra in un grande Ulivo.
Chi tra i Ds ne sposa la causa, sostiene che il Partito democratico serve anche a mantenere vive le ragioni della sinistra...
Voglio ricordare che Rutelli afferma, legittimamente dal suo punto di vista, che c'è bisogno di una formazione di centrosinistra e non di sinistra-centro e che in campagna elettorale la Margherita ha dovuto combattere per evitare che l'Ulivo si presentasse come una formazione di sinistra. Ecco, io penso che in Italia non si possa governare se non con una coalizione di centrosinistra. Penso anche, però, che per l'oggi e per il domani sia necessaria una sinistra autonoma di ispirazione socialista.
Per Fassino l'80% di iscritti ed elettori Ds chiede il Partito democratico. Non è così?
I soliti sondaggi. Ormai il nostro nume ispiratore non è Antonio Gramsci, ma Ilvo Diamanti. Abbiamo preso diverse cantonate con i sondaggi, non vorrei che quella di Fassino fosse l'ennesima. Vorrei ricordare, in ogni caso, che se a dire no a quella prospettiva fosse soltanto il 20% del nostro popolo, questo basterebbe a portare l'Ulivo sotto il 30%.
Il documento sul partito approvato a Orvieto immagina componenti e minoranze. Non la riguarda?
Si offre la costituzione di correnti prima ancora della fondazione di un partito. In genere il processo è inverso. Altro che federazione tra partiti, siamo alla federazione tra correnti. Non credo che così si vada lontano.
Non crede che il progetto di Orvieto possa radicarsi nel tempo?
A Orvieto si è discusso di tante cose, tranne che dell'essenziale. Cioè di identità, di collocazione internazionale, di valori fondativi, di rappresentanza del lavoro e del complesso della società. E non è un caso, tra l'altro, che per ora si tenda ad accantonare la questione della collocazione internazionale. Insomma, il Partito democratico italiano rischia di diventare solo un grande contenitore elettorale.
Fassino, però, insiste sul rapporto tra Pd e Pse…
Vedo che si cerca una qualche soluzione linguistica. Il problema non è trovare un modo qualunque per non far sentire nessuno fuori casa quando è in trasferta. Il tema del collegamento internazionale è direttamente legato all'identità qui, a casa nostra.
Anche fuori dai nostri confini, però, il rinnovamento del campo socialista è all'ordine del giorno...
Lo so bene che a livello planetario il socialismo, oltre a essere una realtà, è anche un problema. In Europa si trova in diverse versioni: piu' centriste e moderate o piu' radicali, come quella di Zapatero. Io, ad esempio, non potrei condividere una versione blairiana. In Gran Bretagna tuttavia, spostato piu' a destra o piu' a sinistra, c'è sempre il Labour. Ci sono fluttuazioni, ma resta un campo del socialismo.
Un campo all'altezza di sfide inedite che riguardano la bioetica, la ricerca, il mercato, le libertà, l'ambiente, la pace, la globalizzazione?
Non ho mai pensato al socialismo come a una collezione di cacicavalli appesi, non ho mai considerato magiche parole come socialismo e socialdemocrazia. Avverto anch'io la necessità di una rifondazione socialista.
D'Alema immagina un nuovo partito che tenga dentro anche le componenti radicali. Parole che la lasciano indifferente?
Ho apprezzato queste cautele e questi interrogativi. D'Alema, oggi, è l'uomo che si rende piu' conto della problematicità del processo. Ma trovo velleitaria l'idea di tenere tutto. E' evidente che l'operazione del Pd ha un costo, perché non può essere universalmente condivisa. Mi preoccupa, tra l'altro, la discussione sul partito che stabilisce un rapporto diretto leader-elettori.
Orvieto ha bocciato quella ipotesi...
Quella ipotesi circola ampiamente. L'idea che un partito nasca sotto un gazebo equivale a quella dei bambini che nascono sotto i cavoli. La considero una versione di sinistra del populismo plebiscitario.

l'Unità 10.10.06
Pansa, Requiem per l’antifascismo
di Bruno Gravagnuolo


NELLA «GRANDE BUGIA», quinto libro del giornalista e scrittore dedicato a una «rilettura» della Resistenza, l’autore assembla le stroncature ai volumi precedenti e alcuni episodi storici nuovi. Ma anche alcune forzature: eccole

E cinque! Accompagnato dal solito spiegamento promozionale adesso la corazzata Pansa è al completo. Corazzata Potemkin, o Invincibile Armata fatta di cinque navi ammiraglie, ciascuna delle quali di centinaia e centinaia di pagine, per un ammontare di quasi 2500 o giù di lì.
Dopo I figli dell’Aquila, Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio e Sconosciuto, è arrivata infatti per Sperling&Kupfer anche La Grande Bugia (pp. 469, euro 18,00) che nel titolo e nel sottotitolo («Le sinistre italiane e il sangue dei vinti») riespone all’indietro l’intero tormentone dell’ultimo Pansa (ultimo?).
Intanto, chi ha avuto la ventura di leggere dalla prima all’ultima quelle pagine, non può che essere colpito da un mistero. E cioè, come fanno quelli che le reclamizzano con enfasi - nella data imperiosamente imposta dall’editore alle redazioni - ad essersele sciroppate sempre tutte e per benino? Ogni volta! E come fanno le redazioni a scegliere e decidere il «taglio», e i recensori a distillare un giudizio meditato? Domanda ingenua, inutile. Pansa va, tira. E perciò va messo in pagina subito e all’unisono, a maggior gloria del «bavardage» mediatico e dell’editore. Perché conta il caso non la cosa. Basta anticipare all’ultimo minuto qualche pagina «urticante», accompagnata da scheda laudativa o intervistina. Come hanno fatto ad esempio Repubblica e Stampa, benché siano poi covi di azionisti e sacerdoti della «vulgata antifascista», quella appunto stramaledetta da Pansa nel suo libro, in effigie e nome per nome, secondo i moduli della «colonna infame» (castigo che l’autore infligge agli altri, dopo aver deplorato di averlo subito!). Entusiasta la stampa di destra, e a sinistra altri squilli di tromba. Con l’immancabile peana «terzista» di Ernesto Galli Della Loggia sul Corsera, sfalsato di qualche giorno, ma come scritto a prescindere («Resistenza mito da sfatare», «egemonia di sinistra», finalmente la verità! etc.) E la recensione benevola di Edmondo Berselli sull’Espresso che abilmente definisce l’ultimo libro pansiano «un esorcismo per riportare la nostra storia nel solco della verificabilità». Stemperando così tenui riserve in un giudizio encomiastico, che ripete le tesi dell’autore senza un briciolo di critica. Per planare con un salto storiografico da cavoli a merenda nell’esaltazione di De Gasperi e della Dc, come risposta vincente al dissidio fascismo/antifascismo. Insomma, altro che persecuzione e altro che gogna! A Pansa tra poco lo faranno santo da vivo, e senza processi di beatificazione e avvocati del diavolo.
E allora proviamo noi ad avanzare qualche dubbio, a usare qualche argomento, ben sapendo che l’optimus Scriptor e i suoi innumerevoli laudatores se la caveranno con la solita alzata di spalle corriva e facilona: pedanteria, ideologia, etc. Tanto per cominciare abbiamo appurato che Pansa non è un perseguitato, e che al contrario è molto gettonato. E questa è la prima Grande Bugia del libro, che con la scusa di alcune veementi stroncature alle sue tesi (De Luna, Luzzatto, Aniasi, Bocca, Anpi, Curzi) accredita l’idea di un antifascismo ottuso e menzognero lungo tutto il dopoguerra in Italia. Del quale lui Pansa, sarebbe lo smascheratore coraggioso. Ma c’è di più, tutta la «Grande Bugia» - titolo plateale e «fallaciano» pensato per fare ammuina - è una grande esibizione vittimaria e narcisistica. Un gigantesco zibaldone fatto di contrattacchi agli avversari. Farcito di qualche episodio nuovo tipo «sangue dei vinti» (ma meno sanguinolento) e due lunghe interviste, interessanti per altro (una al fratello di Pisanò e l’altra a un ricercatore reggiano di destra, Luca Tadolini). Ebbene in realtà la «Grande Bugia» che Pansa brandisce, è costruita a sua volta su alcune rimarchevoli bugie, che sono poi il vero filo conduttore di tutto il «pamphlettone». Vediamole in ordine sparso. Prima bugia: la sinistra e il Pci hanno negato la realtà della «guerra civile» nel 1943-45. Falso. Pansa confonde il piano politico della «rivoluzione antifascista» togliattiana, tesa a valorizzare il dato nazional-unitario e risorgimentale, con la concreta attività storiografica e memorialistica anche in area Pci. Di fatti la percezione dell’aspetto «guerra civile» - di là della sua effettiva portata e verità - c’è eccome nelle pagine dei «sinistri» Secchia, Longo, del «destro» Amendola e persino in quelle di Roberto Battaglia. Senza dire del citatissimo Fenoglio (criticato fino al 1953), di Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno) e di tutta la memorialistica azionista, con Valiani e Foa in testa (fino a Murialdi, Pavone, Del Boca), che hanno sempre valorizzato in chiave radicale la componente «guerra civile».
Seconda bugia: la censura in Italia delle vendette partigiane per colpa dell’egemonia di sinistra. Falso. Cominciò (giustamente) Enzo Biagi nel 1946, ma il tema fu al centro delle paginate di Oggi, Gente, delle dispense di Pisanò (e Pansa deve registrarlo). Della polemica di Montanelli, di quella di Guareschi. E poi di quella di Gianna Preda e Tedeschi sul Borghese (oltre naturalmente che di tutta la stampa di destra). Anche De Gasperi tuonò contro gli aspetti «fratricidi» della Resistenza, che del resto fino agli anni 70 non fu mai «religione civile» imposta dalla sinistra, e fu anzi spesso criminalizzata e ridotta a innocua cerimonia.
Terza bugia: il misconoscimento del consenso al fascismo per colpa della sinistra. Falso. Gramsci e Togliatti in parallelo hanno sempre invitato a guardare dentro il largo «blocco di potere fascista», che le analisi leniniste e staliniste non valevano a decifrare. Al ruolo della piccola borghesia, dei giovani, di settori del lavoro e di rurali, gerarchizati dal «regime reazionario di massa» all’ombra del compromesso capillare con grande industria, Chiesa e Corona. Non solo Togliatti e Gramsci invitavano a guardare dentro il fascismo, ma anche Amendola e tanti altri, prima di De Felice che dalla tradizione gramsciana e «taschiana» proviene. E anche gli storici della manualistica ai tempi del nostro liceo (anni 60) parlavano di isolamento degli antifascisti, specie negli anni trenta e con l’Impero (Rosario Villari).
Quarta bugia: la Resistenza spacciata come fatto unitario. Falso. Tutto il dopoguerra è costellato di polemiche sulla Resistenza come «occasione mancata», come inganno pseudo-unitario, come «Resistenza rossa» oppure «tricolore». E lungo l’intero arco culturale che va dai liberali, ai cattolici, passando per il Pci, agli azionisti e agli estremisti rossi figli del 1968.
Quinta bugia: la finta idea democratica del «doppio» Togliatti «costretto» a fare il democratico in vista dell’ora X. Falso. Al contrario di quel che scrive Pansa, Togliatti lancia per primo l’idea del riconoscimento di Badoglio e della Monarchia come alleati al governo, nella prospettiva di una via continuista e legalitaria dopo la cacciata dei nazifascisti. Ben prima di Yalta che è del maggio 1944. E lo fa a fine settembre 1943 da Mosca e contrastato dai Russi attendisti e dai compagni italiani. Ercoli intuisce cioè che il quadro in cui il Pci deve operare è quello nell’orizzonte geopolitico di allora. E fa di necessità virtù, rimeditando - a partire dalla sconfitta «massimalista» in Spagna - la via al potere. E identificandovisi pienamente, di là del conclamato ruolo dell’Urss che rese ambigua e non coerente l’identità ideologica della via nazionale al socialismo. Falsa perciò anche una delle tesi principali del libro di Pansa, di nuovo orecchiata senza riscontri d’archivio (tra Mosca e Salerno) dalle tesi di Zaslavski e Aga-Rossi: Togliatti imbeccato da Stalin. E all’inizio proclive alla presa del potere sul territorio con la forza e con l’eliminazione degli avversari. Non solo Togliatti contrastò duramente la violenza nel «triangolo rosso» fin dal settembre del 1946, ma fu proprio lui a denunciare la «doppiezza». Già nel ’44 vi alluse, e non attese il ’56, come crede Pansa.
Sesta bugia: il nascondimento protratto degli omicidi in Emilia e altrove (foibe o Porzus). Falso. Sono alcuni decenni e anche più che la storiografia di sinistra ne parla apertamente: Pavone, Dondi, Storchi, Crainz, Valdevit, Oliva, Pupo, Galeazzi, Bianchini e tantissimi altri. E non solo per un’editoria minore o locale. E quando Otello Montanari disse ai primi anni 90 - a proposito dell’omicidio di Don Pessina - «chi sa parli», con coraggio il Pds appoggiò quella denuncia (laddove, se la memoria non ci inganna, Pansa parve piuttosto preoccupato dell’uso «craxiano» del caso).
Queste dunque le principali «bugie» e forzature nella Grande Bugia di Pansa. Che per il resto non fa che ribadire la tesi di fondo dei suoi libri precedenti: antifascismo come feticcio ideologico. Che si ostina marmoreo a riproporsi come caposaldo delle istituzioni e non riconosce le ragioni degli altri (Salò, i fascisti). Una tesi martellata e ripetuta con la risorsa emotiva del mattatoio vendicativo alla moviola dopo il 25 aprile. Ma che rimuove zona per zona i contesti. Non fa confronti con le altre Resistenze. Cancella il dato primario di un’Italia ostaggio per venti mesi dei nazifascisti che imposero la guerra ai civili. Con stragi, deportazioni, lavoro coatto, torture, leva forzata (disattesa - dati di De Felice, dal 43% di renitenza e diserzioni al 13%). Ecco le cifre, non contestabili: 40 mila caduti, 15 mila vittime di stragi, 8 mila ebrei deportati e mai tornati. E il tutto all’insegna di una pedagogia funeraria e scenica imposta dall’immaginario vendicativo dei repubblichini e con meticolose istruzioni ai fotografi «embedded». Dalle file di impiccati al nord all’esposizione dei fucilati nei punti stradali chiave, alla macabra mostra davvero riassuntiva dei 15 assassinati a Piazzale Loreto che dovevano star lì - diceva il cartello - finché i partigiani non ci sarebbero stati più. Certo che è giusto indagare sui 9-10 mila fascisti o presunti tali uccisi dopo il 25 aprile, riaprire ferite, ripercorrere memorie divise. Senza pudori e reticenze. E l’argomento Anti-Pansa del cui prodest è sbagliato. Lo Scriptor ne fa un sol boccone! E nondimeno la storia è fatta di campi lunghi, di «grandangoli» e confronti. Che includano nella visuale in simultanea tutto lo scenario emotivo circostante, e non solo una parte a fini polemici o di giustizia risarcitoria. Altrimenti si fa torto a tutta l’Italia straziata e devastata di quel tempo e si torna ad alimentare revanche e risentimenti, proprio nel momento in cui si dichiara di voler svelenire la memoria. Ma è esattamente questo quel che accade con la «moviola» di Pansa, sempre in bilico tra denuncia, testimonianza, fiction dialogante (che si fa tornare i conti) e aggressività polemica. In un comodo intreccio multiforme che non rischiara ma offusca.
Da ultimo una considerazione generale. Pansa protesta vivacemente in nome della sua libera ricerca contro le accuse di voler portare acqua al mulino della destra anti-antifascista. E ha ragione in linea di principio. E però il suo modo di far storia attira la destra come la lampada le falene. E non per caso, usando il suo libro, Marcello Pera ha picconato apertis verbis la matrice antifascista della Costituzione. È un caso? No, non è un caso. Tanto è vero che Pansa si dichiara apertamente d’accordo con l’ex Presidente del Senato, raccontandoci lusingato del giorno in cui Pera esternò in tal senso, in un dibattito alla Biblioteca del Senato sul Sangue dei vinti. D’accordo, salvo la piccola cautela realistica nel riconoscere che «l’antifascismo è un collante molto forte per una parte dell’opinione pubblica». Sicché è Pansa stesso a svelarci che c’è un nesso interiore, tra la sua polemica «storiografica» e l’«idea meravigliosa» di Pera. E che quel nesso è etico-politico e ha nome e titolo preciso: Requiem per l’antifascismo. Come memoria fondativa della Repubblica. Basta dirselo, e Pansa ce lo dice.