Valentino Parlato
«Da Armando mi aspetto poco E Bertinotti fa solo l’aggiustatore»
Lorenzo Salvia
ROMA - I soldi, certo. «Gli stipendi di luglio e agosto li abbiamo pagati solo tre giorni fa. Se entro dicembre non arrivano 500 abbonamenti rischiamo di chiudere davvero» borbotta Valentino Parlato, una Marlboro rossa dietro l'altra, mentre la stanza si riempie del suono («suono, non rumore») della sua Olivetti linea 98. Per questo al manifesto si studia il rilancio: «Cambieremo formato, - dice Mariuccia Ciotta, uno dei due direttori - aumenteremo le doppie pagine tematiche, dedicate ad argomenti come il lavoro e la tecnologia, stiamo pensando ad una storia del cinema in dvd...». Ma dietro la crisi del «quotidiano comunista» c'è anche altro. Qualcosa di più profondo, di più importante. Qualcosa di sinistra.
Cosa, Parlato?
«Quando il nostro giornale è nato, quasi 35 anni fa, si sentiva ancora la spinta del '68, la rottura con lo stalinismo. La sinistra aveva una sua identità, criticarla era più facile e costruttivo».
Oggi invece?
«Uno degli ultimi articoli di Luigi Pintor si intitolava "La sinistra non c'è più". Da allora sono passati due anni e le cose sono peggiorate. La sinistra è un oggetto sfuggente: noi siamo testimoni e prova di questa crisi di identità».
Perché crisi di identità?
«Perché Ds e Margherita sono minimalisti. Fassino dice che la legge Biagi va mantenuta, Prodi dirà che da Berlusconi ha ereditato un disastro e quindi prometterà lacrime e sangue per poi cambiare qualcosina. Piano piano, però. Cossutta vuole rinunciare a falce e martello».
Ecco, Cossutta. Cos’è il suo, un tradimento?
«È una parola che non mi piace, mi limito a dire che l’età fa brutti scherzi»
Fu proprio lui a radiare il manifesto dal Partito comunista. Si aspetta un’autocritica?
«No e anche se dovesse arrivare sarebbe inutile, una minestrina riscaldata».
Minimalista anche lui, quindi. Bertinotti?
«Lui si limita a fare l'aggiustatore: ha paura di ripetere lo stesso numero del 1998 quando fece cadere Prodi e questo lo rende troppo prudente».
E invece cosa bisogna fare, la rivoluzione?
Ride. «Non fare la rivoluzione, ma non perdere lo spirito rivoluzionario».
Cosa vuol dire, oggi, essere rivoluzionari?
«Non accettare senza fiatare il fatto che il mondo occidentale ci offra la miglior vita possibile. Provare a cambiare i valori della società: oggi uno è buono se è ricco, non se è preparato e se lavora».
Accadeva anche prima.
«Sì, ma ora anche la sinistra lo ha accettato, scegliendo la strada della riduzione del danno. Ed è per questo che, una volta battuto Berlusconi e tornata l'Italia un Paese normale, finalmente si riprenderà a discutere: viste le premesse saremo contro il partito democratico, o come si chiamerà, e critici con Rifondazione».
Rischiate di rimanere soli a sinistra.
«Il rischio c'è e ci siamo abituati. Ma proprio per questo il futuro del manifesto ci racconterà anche un pezzo di futuro della sinistra. Possiamo essere la cellula che fa capire se il cancro vince o regredisce».
Il cancro?
«Sì, il cancro: non capire che l'antagonista è sempre cosa fertile. Anche i sovrani assoluti avevano il buffone di corte che gli dava addosso. Mentre oramai tutti quelli che comandano vogliono un popolo di pecore: è proprio questo che li porta al suicidio, da Stalin a Mussolini».
Anche la sinistra di oggi?
«Certo. Nel governo Prodi del 1996 siamo stati messi ai margini, sul marciapiede come quando passa la carrozza del Re. E stavolta andrà ancora peggio perché il prossimo governo della sinistra sarà ancora più di centro di quello del 1996. Allora Rutelli non c'era».
Scusi Parlato, anche Libération in Francia se la passa male. Un anno fa era stata salvata dai 20 milioni di euro investiti dal banchiere de Rothschild. Voi accettereste?
«Un riccastro che ci salva? Solo se ci desse quei danari senza mai mettere bocca nel nostro lavoro. Ma questo non è un riccastro, è Babbo Natale».
Corriere della Sera 28.11.05
Psicologi e preghiere, la clinica per preti pedofili
Brasile, nel centro aperto in segreto da italiani. «Curiamo i fratelli, senza scandali»
LO SCANDALO Dieci giorni fa scoppia in Brasile lo scandalo dei preti pedofili. È il settimanale Istoè (Così è) a pubblicare il diario del prete pedofilo padre Tarcisio Tadeu Spricigo, che avrebbe anche compilato le dieci regole per restare impunitiBARRETOS (Brasile) - Luis, Jaime, Felipe e gli altri pranzano in dieci minuti, scambiando poche parole. Sulla tavola riso e fagioli, carne, manghi e banane del giardino. Fa caldo a Barretos, come tutti i giorni dell’anno. Padre Mario si alza e tutti fanno il segno della croce, sparecchiano, Felipe corre in cucina a lavare i piatti, è il suo turno, poi tutti salgono in camera. Iniziano le attività del pomeriggio, lettura, preghiera, computer, qualche lavoretto. Qualcuno ha appuntamento con Nilda, la psichiatra. Luis e gli altri hanno tra i 30 e i 40 anni, vestono maglietta e jeans, sono di pelle olivastra. Accenti del Sud, ma anche del lontano Nordest. L’accordo per passare una giornata con loro è stato chiaro: niente nomi veri, niente dettagli sul motivo della permanenza qui, in una casa parrocchiale qualunque, in una cittadina qualunque del Brasile. Questo posto è come se non esistesse, non ha un nome, le sue attività non sono mai apparse nei documenti ecclesiastici. Ma i vescovi brasiliani con qualche gatta da pelare lo conoscono, o ne hanno sentito parlare, hanno il numero di telefono sull’agendina. Esiste da qualche anno, è gestito da sacerdoti italiani.
Sempre secondo le rivelazioni del settimanale brasiliano il Papa, Benedetto XVI, avrebbe inviato ai primi di settembre una commissione in Brasile per indagare sulle denunce di abusi sessuali compiute ai danni soprattutto di bambini poveri
La loro caparbia discrezione si allenta a fatica, ma con grande cortesia. «Nemmeno noi sappiamo bene come chiamarlo - spiega padre Angelo Fornari, cremonese -. Diciamo centro di accompagnamento di sacerdoti in difficoltà? Ma anche piccola clinica di provincia va bene...». Suona malissimo, invece, clinica dei preti con devianze sessuali, peggio ancora pedofili. Ma è una parte importante di questa storia. In quello che è tuttora il più grande Paese cattolico del mondo, i casi di abusi sui minori si ripetono. Squarci che rivelano una realtà tenuta quasi sempre sotto silenzio. Proprio come è discretissima l’esistenza di centri specializzati come questo.
Barretos, a 400 chilometri da San Paolo, è un Brasile poco brasiliano, non ci sono spiagge, favelas e al posto del samba risuonano le ballate sertanejas , il country dei cowboy che parlano portoghese. Attorno alla cittadina solo distese di canna da zucchero e aranceti. I sacerdoti della Congregazione di Gesù Sacerdote sono arrivati 40 anni fa: in Italia si chiamano padri Venturini, dal nome del fondatore, un sacerdote trentino che istituì il gruppo nel 1926. In Brasile hanno portato la missione per cui sono nati, preti che aiutano altri preti, quando le vocazioni barcollano sotto il peso delle debolezze umane, o i comportamenti sono fuori dalle regole. A Barretos siamo giunti seguendo le indicazioni di alcuni esperti sui problemi della pedofilia nella Chiesa brasiliana, ma anche di famiglie colpite dalla tragedia. Queste ultime urlano spesso contro le gerarchie del clero: nascondono i preti, dicono, li sottraggono alla giustizia, li fanno sparire nelle «cliniche»...
I sacerdoti italiani negano con forza. «Non ci sono latitanti qui», dice padre Angelo, il superiore della Congregazione. Ma allo stesso tempo sostiene che la questione esula dagli obiettivi del centro. «Riceviamo le segnalazioni dai vescovi, richieste per accogliere sacerdoti con problemi seri. Non conosciamo e non vogliamo conoscere la loro posizione con la giustizia. La Chiesa copre? Non vuole far scandalo, questo sì. È giusto che il recupero della persona venga prima di ogni altra cosa. Crede che il carcere serva a qualcosa?». Padre Angelo cita il caso di un uomo, un laico, la cui moglie ha scoperto dopo 20 anni di matrimonio che violentava regolarmente le figlie. «Siamo venuti a saperlo, non abbiamo chiamato la polizia, ma uno psicologo».
La «clinica» dei preti è una casetta a due piani, a due passi dalla chiesa di Nossa Senhora do Rosario. Nessuno a Barretos ne conosce le attività, solo la normale vita parrocchiale. Gli ospiti vengono accolti solo dopo un periodo di prova e un test. Padre Mario Revolti, 70 anni, trentino, è il responsabile-psicologo. La permanenza non supera mai i 6-7 mesi.
Negli ultimi tre anni sono passati da qui una ottantina di sacerdoti, mai più di 5 o 6 alla volta, e i risultati sono buoni. Una minoranza ha deciso di abbandonare il sacerdozio, gli altri si sono in qualche modo reinseriti nella Chiesa, magari cambiando città. Difficile strappare dettagli, ma padre Mario ammette che varie decine avevano «scompensi nella vita sessuale». Comuni anche i problemi legati al denaro: debiti, gioco, cleptomania. Il settimanale brasiliano Istoè ha pubblicato qualche giorno fa un articolo nel quale si sostiene che una commissione del Vaticano è in giro per il Brasile, a causa dell’allarme pedofilia. I preti di Barretos dicono di non avere contatti con gli emissari di Roma. Il loro lavoro è totalmente sganciato dalle gerarchie. Segreto assoluto anche in un’altra struttura nata negli ultimi tempi a San Paolo, l’Istituto Terapeutico Acolher (accogliere, in portoghese). Responsabile è un religioso con un curriculum di rispetto, padre Edenio Valle, teologo, psicologo e già vicerettore della locale Università Cattolica. Acolher è in una palazzina nel centro della metropoli, e a differenza di Barretos i sacerdoti non vivono qui, ma vengono solo per la terapia. Gli psicologi che ci lavorano non sono autorizzati a parlare.
Padre Edenio accetta invece un colloquio al telefono. Ammette di aver ricevuto richiesta di assistenza per almeno 500 casi, oggi ne segue una ottantina. Il sistema è analogo a quello di Barretos, i vescovi con problemi nella diocesi entrano in contatto con lui. Se il sacerdote è disposto a curarsi, si trova un posto dove può vivere a San Paolo e inizia la terapia. Anche padre Edenio nega di «nascondere» preti, ma ammette di non avere il controllo delle singole situazioni. I casi di pedofilia sono parecchi, dice, ma i casi criminali, «quelli su cui i giornali fanno tanto scandalo», non sono più di una decina in tutto il Brasile.
Rocco Cotroneo
Le Scienze 26.11.05
La violenza domestica sulle donne
Pubblicato uno studio dell'OMS condotto a livello globale
Uno studio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), pubblicato il 17 novembre, rivela l'enorme impatto che la violenza domestica ha sulla salute e il benessere delle donne di tutto il mondo, e quanto la violenza dovuta al partner venga ancora in gran parte tenuta nascosta.
Da tempo si sapeva che la violenza del partner costituisce un importante fattore di rischio per molti problemi di salute, ma le prove erano fornite soprattutto da studi effettuati negli Stati Uniti e in Canada. La ricerca dell'OMS, condotta in collaborazione con la London School of Hygiene and Tropical Medicine, il Program for Appropriate Technology in Health (PATH) e diverse organizzazioni non governative nei vari paesi coinvolti, estende questi dati a livello globale e dimostra che la violenza opera in maniera simile tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo.
I ricercatori hanno effettuato interviste con 24.000 donne in età riproduttiva, provenienti da 15 località in 10 paesi (Bangladesh, Brasile, Etiopia, Giappone, Namibia, Perù, Samoa, Serbia-Montenegro, Tanzania e Thailandia). I risultati rivelano che, a seconda del paese, una porzione dal 15 al 71 per cento delle donne ha subìto abusi fisici o sessuali da parte dei propri partner. Questo tipo di violenza domestica è la forma più comune di maltrattamento subìto dalle donne, di gran lunga più frequente rispetto alle aggressioni di estranei o di semplici conoscenti.
"Lo studio dell'OMS - commenta Mary Robinson, ex commissario per i diritti umani presso le Nazioni Unite - dimostra che la violenza domestica è presente in ogni luogo, anche se i tassi variano in modo significativo da nazione a nazione. I governi e le comunità dovrebbero mobilitare tutte le proprie energie per combattere gli abusi nei confronti delle donne".
Gli autori dello studio hanno individuato associazioni inequivocabili e significative fra le violenze subite dal partner e un vasto numero di problemi di salute, comprendenti lesioni, disturbi emotivi, pensieri e tentativi di suicidio, e sintomi fisici di malattie.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.
L’Espresso, n.44, 2005
Aborto anno nero
Chiara Valentini
Un campanello d'allarme inaspettato suona in questi giorni in Italia. Per la prima volta dal lontano 1983, l'anno del picco con 234 mila casi, gli aborti nel nosrro paese non solo hanno smesso di calare, ma sono aumentati di ben 4.500 unità. Ce lo dice, con la chiarezza incontrovertibile delle cifre, la relazione annuale del minisrero della Salute, che raccoglie i dati completi e derragliati dell'lsriruto superiore di Sanità per il 2003 e quelli generali del 2004. Siamo infatti passati dai 132 mila 170 aborti del 2003 ai 136 mila 700 del 2004, con un incremento del 3,4 per cento. Il dato continua a essere piuttosto basso rispetto alle media europea. E la relazione del minisrro cerca di rassicurarci, sostenendo che la crescita non dipende dalle italiane, ma dalle straniere, come dimostra il fatto che gli aumenti si registrano nelle regioni del Centro-Nord, dove gli immigrati sono sempre più numerosi. A parte il fatto che per ora i dati analitici sul 2004 non ci sono, non è certo una buona notizia che la parte più debole e sprovveduta delle abiranti del nostro paese trovi un sistema sanitario che fatica ad aiutarle. D'alrta parte proprio l'attuale ministro della Salute Francesco Storace, da governatore del Lazio, aveva fatto chiudere 21 reparti di interruzione di gravidanza, provocando il sovraffollamento negli ospedali e liste d'attesa di almeno tre settimane, troppe per chi non sa muoversi nel mare della burocrazia.
“Le immigrate, che rischiano le gravidanze indesiderare in misura tripla rispetto alle italiane, hanno invece un gran bisogno di essere assistite e consigliare, anche perché nel primo anno dal trasferimento vivono uno choc da spaesamento che le rende estremante vulnerabili”, dice Valeria Dubini, ginecologa all'ospedale Misericordia e Dolce di Prato, dove l’anno scorso il 49 per cento delle Ivg sono state fatte da straniere. Non c'è solo l'aumento certificato dalle cifre ufficiali. Il nostro sistema abbastanza complesso di richieste, la scarsità di mediatori culturali e il poco coordinamento fra consultori e ospedali spiegano perché stia tornando alla ribalta una pratica che sembrava debellata, l’aborto clandestino. Proprio a Prato sono stati scoperti più volte ambulatori di Ivg in nero per le cinesi. E un po' dappertutto in Italia i medici raccontano di nigeriane, di rumene o di sudamericane che arrivano in ospedale con sintomi di avvelenamento per improbabili decotti, o con emorragie da pastiglie che provocano le contrazioni, o con i postumi di raschiamenti devastanti, fatti con poche centinaia di euro. “Pochi giorni fa è venuta da noi una giovane donna russa molto spaventata, una badante. Abbiamo cercato di spiegarle che era vicino al limite massimo e bisognava intervenire subito. Lei probabilmente non ha capito. Pensava solo a correre a casa perché temeva i rimproveri, ed tornata quando ormai era troppo tardi. Ancora mi sto chiedendo con angoscia che cosa le sarà successo” dice Elisabetta Canipano, ginecologa al servizio Ivg dell'ospedale Grassi di Ostia ed esponente dell'associazione Vita di donna (www.vitadidonna.it).
L'aborto clandestino non è solo una questione di immigrate. La relazione del ministro della Salute si limita stimare questi aborti attorno alla modesta cifra di 20 mila. Ma aggiunge anche che per il 90 per cento riguardano le donne del Sud. E questo dimostra che qualcosa non torna. Nel Mezzogiorno infatti la presenza delle immigrate è molto bassa quindi le “loro" interruzioni di gra vidanza al Centro-Nord evidentemente non sono entrate nel calcolo. Se poi cerchiamo di capire chi sono queste italiane che si rifugiano nella clandestinità vediamo che, accanto alle donne meno istruite e sposate con molti figli, una discreta percentuale è rappresentata dalle giovanissime. Specie in provincia non vogliono far sapere in giro di essere rimaste incinte e con mille, 2 mila euro risolvono il problema in un ambulatorio o anche in una clinica compiacente, dove la loro Ivg verrà fatta passare per aborto spontaneo. In aumento intanto sono le gravidanze del sabato sera,
frutto dei rapponi occasionali da dopo discoteca, come spiega la ginecologa Paola Piattelli, che riceve le ragazze in un ambulatorio romano dell'Aied, “Spesso vengono da noi perché non vogliono dire in famiglia quel che è successo e hanno bisogno di aiuto”, dice Piattelli. Secondo la legge perché una minorenne possa abortire ci vuole l'assenso dei genitori. Se non c'è, spetta al giudice tutelare esprimersi, rispettando però la volontà della ragazza.
Nel clima di difesa a oltranza della vita che ha guadagnato spazio con il referendum sulla procreazione assistita, c'è chi ha paura di finire nei guai e tira alle lunghe. Probabilmente sono pochi. Non lo sono invece i ginecologi che perfino in certi consultori rispediscono a mani vuote le minorenni che arrivano disperate chiedendo la pillola del giorno dopo. Anche se si tratta di un anticoncezionale e non di un abortivo, viene opposta l'obiezione di coscienza. Questi alfieri della moralità, a cui poco importa se quella ragazza dovrà poi ricorrere a un aborto, sono l'avanguardia dell'esercito degli obiettori, che poco a poco sta erodendo dall'interno la struttura bene o male ancora funzionante della nostra interruzione volontaria di gravidanza. Nel 2003 i ginecologi che avevano obiettato erano quasi il 58 per cento, con punte del 68 in Lombardia, del 77 in Lazio, dell'80,5 in Veneto. Per non parlare degli anestesisti (quasi il 46 per cento) e del personale paramedico, cioè infermiere e portantini, che poco hanno a che fare con l'intervento e che pure rifiutano contatti con “quelle dell'aborto” nel 38 per cento dei casi. Pensata per dare la possibilità a chi ha riserve di carattere religioso o morale di non andare contro alla propria coscienza, l'obiezione è diventata in molti casi una comoda scappatoia per evitare interventi che non danno fama ne proventi, ma possono solo danneggiare la carriera. Sono infatti obiettori la maggioranza dei primari di ginecologia, e a volte sono obiettori del genere di Leandro Aietti dell'ospedale di Melzo, che definisce la RU486 “un pesticida per ammazzare i bambini”. O come Luigi Frigerio primario a Bergamo, che ha fatto piazzare il Centro di aiuto alla vita nel bel mezzo del suo reparto. Una nostra collaboratrice ha provato a telefonare al centralino dell'Ospedale di Vicenza (Asl 6), dicendo di essere una ragazza di 21 anni e volere il reparto ginecologia per informarsi sull'interruzione volontaria di gravidanza. La voce della centralinista le ha risposto senza un attimo di esitazione: “Può senz'altro rivolgersi al Centro di aiuto alla vita”. “Veramente ho chiesto di parlare con un medico del servizio pubblico, non con un movimento religioso”. “Ma no, chiami quelle persone, le do anche il numero verde, si troverà contenta..”.
Il dialogo è solo una delle tante testimonianze della corsa a ostacoli che specie in alcune regioni italiane aspetta le donne che vogliono abortire. In un ospedale di Palermo succede che alle donne in attesa delI'Ivg venga mostrata dal ginecologo l'ecografia del feto.
“Ecco, questo è il cuore del bambino a cui lei vuole togliere la vita”, si sentono dire. A Napoli la tecnica preferita, specie con le più sprovvedute, consiste nel respingerle, dicendo che sono fuori tempo massimo. “Arrivano da noi disperate. Quando le riaccompagnamo al reparto ammettono a denti stretti che si erano sbagliati e che l'intervento si può ancora fare”, racconta Stefania Cantatore, una delle promotrici del Comitato per l'applicazione della 194 che da anni, a Napoli e dintorni, si batte perché la legge sia rispettata. Bisogna ammettere che nei suoi 27 annidi vita (èin vigore dal 1978) l'interruzione volontaria di gravidanza, pur avendo funzionato decentemente, non ha mai avuto pieno diritto di cittadinanza in molti dei nostri ospedali, considerata spesso, per usare le parole di una famosa canzone di Guccini, “una piccola storia ignobile”, da tener separata da tutte le altre attività sanitarie. Ma da quando nell'ala più integrista del Polo è passata l'idea che, se al momento era impossibile cancellare la legge sull'aborto, si poteva perlomeno rendere più difficile abortire, le vessazioni quotidiane non hanno avuto sosta.
Proprio nella Lombardia di Roberto Formigoni e di Comunione e liberazione, d'altra parte, le obiezioni aumentano di giorno in giorno specie fra i più giovani, trasformando i pochi che ancora restano al loro posto in figure emarginate e sospette. “Sono riuscito per miracolo a trattenere due colleghi sul punto di obiettare, perché non reggevano più a fare aborti dalla mattina alla sera”, dice Maurizio Bini, ginecologo al Niguarda, uno dei grandi ospedali milanesi: dove fra l'altro le donne dell'Ivg vengono operate in sala pano, quasi una tacita punizione per la loro scelta.
Per far fronte alla fuga di massa, è nata la figura del ginecologo a contratto, che viene ingaggiato e pagato dagli ospedali solo per fare aborti. Uno di loro è Vincenzo Spinelli, che opera due volte alla settimana a Marino, sui Colli Albani, in un ospedale dove gli obiettori sono il 100 per cento: “Ti fanno sentire come uno che fa il lavoro sporco. Ma poi spesso arrivano colleghi a chiederti ‘quel’ favore, e tu devi accontentare anche loro”.
La mancanza di tempo rende il rapporto con le donne sempre più veloce e anonimo. “Da una nostra ricerca risulta che solo il 30 per cento delle donne che ha abortito ha ricevuto informazioni sulla contraccezione”, dice Michele Grandolfo, dell'Istituto superiore della sanità, l'uomo chiave di questo delicato settore. È il paradosso della contraccezione debole, in un paese come l'Italia dove si inneggia ogni giorno di più alla vita “ma dove non si distribuiscono profilattici e non si fa una sistematica informazione contraccettiva nelle scuole”, denuncia Mauro Buscaglia, primario non obiettore al San Carlo di Milano. C'è anche un altro paradosso. Siamo fra i pochissimi al mondo dove l'Ivg viene fatta quasi sempre in anestesia totale, “inutilmente costosa e a volte anche dannosa per la salute delle donne”, dice Michele Grandolfo. Come insegna anche la violenta opposizione alla RU 486, la pillola dell'aborto chimico, guai a cercar di rendere l'Ivg
meno traumatica e punitiva di quanto non sia di per sé. Guai a suggerire che in ogni caso è alle donne che spetta l'ultima parola.
(Hanno collaborato Monica Saldano e Fiamma Tinelli)
L’Espresso, n.44, 2005
La Toscana apre le porte alla RU486.
Pillola abortiva per chiunque la richieda. L’assessore al diritto alla Salute della toscana, Enrico Rossi, spiega come riuscirci.
Non si placa la battaglia fra chi vuole sperimentare la RU486 e chi la blocca, ultimo caso l'ospedale Niguarda di Milano, a cui è stato dato lo stop dall'assessore regionale alla Salute Alessandro Cè. Ma la Toscana, senza troppo rumore, ha imboccato una strada diversa dalla richiesta di sperimentazione.
E si prepara a essere la prima regione italiana con libertà di aborto farmacolagico, come spiega l'assessore al diritto alla Salute, il diessino Enrico Rossi.
Come avete fatto assessore Rossi?
Siamo partiti dalla considerazione abbastanza ovvia che è inutile voler sperimentare un farmaco di cui si sa tutto, perché è usato da anni da centinaia di migliaia di donne non solo in Europa, ma nell'America del Nord e in Australia. Già nel 2003 avevamo chiesto al nostro Consiglio sanitario regionale di poter introdurre in Toscana la RU486 e la risposta era stata positiva. Anche n comitato di bioetica era stato d'accordo. I principi erano stati discussi con legge 194, che tutti dicono di accettare, compresa la Chiesa. Non si può tornarci sopra in maniera subdola, come sta succedendo adesso.
Veramente la legge 194 non parla di aborto farmacologico.
È vero. Ma l'articolo 15 prevede la ricerca di tecniche più moderne e rispettose della salute della donna. Difficile dire che questo non sia il caso.
Resta il fatto che In Italia la RU486 non c'è, perché nessuna ditta la produce e nessuno la importa, forse temendo l'ostracismo della Chiesa cattolica.
C'è una delibera del 2002 che prevede di poter importare dall'estero farmaci che non sono registrati in Italia. Noi ne facciamo arrivare almeno una trentina, chiedendoli volta a volta per il singolo paziente. Ed è questa la strada che vogliamo seguire. Abbiamo già spedito una circolare alle 16 aziende della Toscana spiegando che la RU486 può "legittimamente essere importata dalla Francià", facendone richiesta per ogni singola donna agli uffici periferici del ministero della Salute corrispondente. Sei aziende sono già pronte a farlo, le altre seguiranno.
E se il ministero vi bloccherà i farmaci?
Non credo che le dogane vorranno essere accusate di mettere a rischio la salute delle donne. Scenderebbe in campo mezza Italia. Per quel che mi riguarda credo che la mia missione di assessore al diritto alla salute sia quella di diminuire la sofferenza, soprattutto quella inutile.
l’Unità, 20.11.2005
Aborto, contro la solitudine non servono i "missionari"
Luigi Manconi, Andrea Boraschi
«Trovo scandaloso il medico di famiglia che non si occupa di far prendere alla donna una decisione consapevole, ma lascia il certificato per l´aborto in portineria. Di mezzo c´è la vita di un bambino. Io parlo così: la vita di un bambino». A «parlare così» è Giuliano Amato, tra i primi laici, in Italia, a essersi espresso in termini critici sulle procedure di applicazione della legge 194. «Ma è mai possibile - aggiunge Amato - che non si possa dire che alcuni comportamenti emersi in seguito all'approvazione di una legge giusta sono sbagliati? Oppure dobbiamo sempre dirci: “Taci, il nemico ti ascolta”? Come se ogni vicenda della vita fosse un pezzo di guerra civile con i fascisti, da una parte, e gli antifascisti, dall´altra».
È giusto esigere che «le vicende della vita» non siano inquadrate in una logica di perenne conflitto ideologico; ed é altrettanto giusto che, su questioni di natura etica, la discussione pubblica proceda in maniera libera e quanto più aperta. E, allora, muoviamo proprio dai molti riconoscimenti che si possono rivolgere agli argomenti di Amato. La riduzione dell'aborto a pratica contraccettiva è cosa riprovevole: tanto quanto lo è quella figura di medico richiamata in apertura; e tanto quanto lo è la condizione di molte donne lasciate ad abortire in solitudine: a «sbrigare una pratica ospedaliera» più che a decidere della propria e dell'altrui vita. Ma, detto questo, esistono rimedi generali alla «banalizzazione dell'aborto»? Esistono politiche di sostegno alla maternità che possano incidere davvero sulla scelta di una donna?
La risposta alla prima domanda - sia detto senza alcun intento provocatorio - tende a essere negativa, almeno fino a quando la questione è declinata nei termini assunti dal dibattito di questi giorni. Perché la misura di consapevolezza, di riflessione e di dolore con la quale si affronta l'esperienza dell'aborto è irriducibilmente individuale e intima. E, dunque, lo stato non dovrebbe avere alcun titolo a indagarla. Si tratta di un atto di coscienza che, come tale, esprime in sommo grado la libertà dell'individuo, nelle sue motivazioni e pulsioni più nobili come in quelle più egoistiche e regressive; e in tutti i suoi inevitabili limiti e vincoli.
Non crediamo, in altre parole, che possa darsi un intervento «dissuasorio» da parte di medico, assistente sociale, psicologo, all'interno di una struttura pubblica, che non finisca per rifarsi a un contenuto «etico» (il richiamo alla sacralità della vita), estraneo alle regole che dovrebbero guidare la sanità pubblica. Men che meno, pertanto, riteniamo possibile che lo stato promuova l'intervento del volontariato nei consultori quando esso persegua finalità morali anzichè sanitarie. La decisione di aprire i consultori agli operatori del Movimento per la vita, un'associazione che interpreta l'aborto come un crimine contro l'umanità, svela un'impostazione ideologica, che si oppone a quella libertà di scelta e di coscienza, che si dice di non voler contestare; prevede l'istituzione di «presidi di moralità», fondati su una interpretazione confessionale del significato della vita; dichiara apertamente che il fenomeno dell'aborto va affrontato su un piano etico, anziché - prioritariamente - su quello delle politiche sociali.
E, allora, qual è il rischio? È che la donna - se l'assistenza é di ordine esclusivamente morale - rimanga davvero sola. E cosa ne sarebbe, pertanto, di quel passo della legge 194 dove si legge: «Il consultorio e la struttura sociosanitaria hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza, di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre»?
La risposta appare ovvia: lo stato non può rimanere estraneo a una questione tanto delicata. Deve, al contrario, mettere a disposizione risorse e strutture per garantire che l'intervento abortivo rientri nel quadro dell'assistenza pubblica. Ma - è questo il punto - nel dibattito di queste settimane molti vogliono tradurre quella responsabilità pubblica in una sorta di missione morale: la salvaguardia della vita del nascituro. Dunque, le proposte che vengono avanzate per «debellare la piaga dell'aborto», come per osteggiare l'impiego della Ru486, sono tutte essenzialmente d'ispirazione «missionaria». L'aiuto di cui, incredibilmente, quasi nessuno parla - quello fatto di politiche di sostegno alla maternità - invece non c'è e non viene perseguito. Forse perché mancano le risorse per estendere le politiche di welfare a questo settore; forse perché alcuni soggetti della politica e della cultura sono riusciti a dirottare la riflessione su un piano eminentemente etico, polarizzando una questione (il problema della vita e della morte, appunto) che sembra non consentire mediazioni e soluzioni parziali e condivise.
Ne deriva una domanda: è possibile pensare a una politica di prevenzione dell'aborto e di incentivo alla maternità che non sia, necessariamente, di ispirazione confessionale? Si può aiutare una donna che lo chieda, senza mettere in discussione le sue ragioni esistenziali? le uniche titolate a decidere, in ultima istanza, della sorte di un feto? O, più semplicemente, è possibile immaginare dei consultori dove una futura madre possa apprendere che, a fronte di un grave disagio che condizioni la sua scelta, esistono misure previste dallo stato a garanzia della sua persona e di suo figlio? Dove ci si possa informare su forme di sostegno economico e di assistenza sanitaria, su servizi e agevolazioni, su misure fiscali favorevoli e su una estesa rete di diritti e garanzie (ad esempio, rispetto all'attività lavorativa)? Tutto ciò è non solo giusto, ma anche possibile: e politiche di tale natura sono state sperimentate e applicate con successo, anche in Italia. Senza affidarsi al volontariato (risorsa preziosissima, ma destinata ad altri compiti, altrettanto importanti); e senza tirare in ballo categorie etiche che, con la capacità d'intervento pubblico su una simile questione, hanno poco a che fare. E rimandano, con ogni probabilità, a pensieri inconfessabili.
Quali quelli che Claudia Mancina, sul “Riformista” del 17 novembre, così riassume: «Forse (…) si vuol dire che lo scandalo dell'aborto deve essere pagato col dolore fisico, l'umiliazione, i disagi della degenza ospedaliera? Che il gesto di rifiutare una gravidanza deve avvenire nel sangue e possibilmente nel pericolo, per essere tollerato?».
Corriere della Sera 28.11.05
Legge 194
Aborto, interviene Pera: la civiltà tutela la vita non autorizza la morte
ROMA - Quel punto del discorso, a quanto pare, aveva un destinatario preciso. Ieri, convegno di Forza Italia a Catania. Intervento di Marcello Pera: «Si sente ripetere che la destra italiana è priva di cultura politica. Talvolta mi par di capire che anche tra noi qualcuno ci creda davvero e perciò, per dimostrarsi invece preparato e avanzato, colto e aperto al moderno, si mette piuttosto a scimmiottare i suoi avversari». Il presidente del Senato forse si riferiva al ministro Stefania Prestigiacomo e alle sue battaglie «progressiste» su fecondazione e sperimentazione della pillola RU486. Quindi Pera ha ribadito il suo pensiero sulla legge 194: «La vera civiltà non consiste nell’aver introdotto un diritto ad abortire, ma nell’aver posto un divieto alla piaga degli aborti clandestini. Un aborto può essere una tragica necessità o una drammatica scelta di una donna sola o di una coppia, ma non una conquista». Pera ha quindi invitato i suoi a cogliere «la rinascita della cultura di identità. Noi in politica siamo laici ma non laicisti, perciò, sia che siamo credenti o no, apprezziamo la tradizione cristiana nella quale siamo nati».