sabato 26 novembre 2005

Corriere della Sera, 26.11.05
Il monito del Pontefice all’inaugurazione dell’anno accademico. «Correnti della filosofia moderna riducono la conoscenza a ciò che è dimostrabile»
Il Papa: «La scienza deve aprirsi a Dio»
Ratzinger all’Università cattolica: «Coniugare fede e ragione»
Luigi Accattoli


ROMA—Le università cattoliche debbono «fare scienza nell’orizzonte di una razionalità vera, diversa da quella oggi ampiamente dominante, secondo una ragione aperta al trascendente, a Dio», perché non si può ridurre l’orizzonte della conoscenza umana al «dimostrabile mediante l’esperimento », come vorrebbero «correnti importanti della filosofia moderna»: lo ha affermato ieri il Papa, aprendo l’anno accademico dell’Università cattolica del Sacro Cuore.
È stato uno dei discorsi di maggiore respiro tra quanti ne abbia tenuti fino a oggi il Papa teologo, paragonabile a quello con cui il 18 aprile, da cardinale decano, puntò il dito contro la «dittatura del relativismo » e all’altro con cui, il 2 ottobre, aprì il Sinodo dei vescovi, affermando che «non è tolleranza ma mistificazione» la pretesa della società secolare di «espellere Dio dalla vita pubblica».
Benedetto XVI, rispondendo al saluto del rettore Lorenzo Ornaghi e del cardinale Dionigi Tettamanzi, è partito dal compito proprio di un’università cattolica, che consisterebbe nell’elaborare «sempre nuovi percorsi di ricerca in un confronto stimolante tra fede e ragione che mira a recuperare la sintesi armonica raggiunta da Tommaso d’Aquino e dagli altri grandi del pensiero cristiano, una sintesi contestata purtroppo da correnti importanti della filosofia moderna ».
Secondo Papa Ratzinger, «la conseguenza di tale contestazione è stata che come criterio di razionalità è venuto affermandosi in modo sempre più esclusivo quello della dimostrabilità mediante l’esperimento: le questioni fondamentali dell’uomo, come vivere e come morire, appaiono così escluse dall’ambito della razionalità e sono lasciate alla sfera della soggettività».
Per Benedetto XVI le conseguenze sono di grande portata: «Scompare, alla fine, la questione che ha dato origine all’università, la questione del vero e del bene, per essere sostituita dalla questione della fattibilità». Ritornare a porre quelle questioni «nel 2000», insistendo, contro corrente, a «coniugare fede e scienza» è «un’avventura entusiasmante perché, muovendosi all’interno di questo orizzonte di senso, si scopre l’intrinseca unità che collega i diversi rami del sapere, perché tutto è collegato». Si tratta di un’argomentazione che il cardinale Ratzinger aveva già abbozzato in una conferenza tenuta a Berlino nel 2000 e in un’altra letta a Roma nel maggio del 2004 su invito del presidente del Senato Marcello Pera. In tali occasioni aveva qualificatocome «secondo illuminismo» la tendenza filosofico-scientifica che riduce la sfera del razionale alle «esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche».
Benedetto XVI ha pure accennato alla questione della contraccezione, affermando di avere particolarmente «a cuore» l’Istituto scientifico internazionale Paolo VI di «ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile» che opera all’interno dell’Università cattolica. Unistituto, ha detto, «nato per rispondere all’appello lanciato dal Papa Paolo VI nell’enciclica Humanae Vitae e che si propone di dare una base scientifica sicura sia alla regolazione naturale della fertilità umana che all’impegno di superare in modo naturale l’eventuale infertilità».
Il Papa ha pure ringraziato con parole commosse il personale del Gemelli (il policlinico dell’Università cattolica) per le cure prestate a Giovanni Paolo II: «In quei giorni verso il Gemelli era rivolto da ogni parte del mondo il pensiero dei cattolici, e non solo. Dalle sue stanze di ospedale il Papa ha impartito a tutti un insegnamento impareggiabile sul senso cristiano della vita e della sofferenza, testimoniando in prima persona la verità del messaggio cristiano».

Repubblica 26.11.05
Il caso
Disaccordo sul Partito democratico
Roma, dirigenti Ds verso Rifondazione

ROMA - La prospettiva del Partito democratico non piace e sei dirigenti ds romani. Appartenenti al correntone, lasciano il partito. Alessandro Bongarzone, Elena Canali, Alessandro Cardulli, Mario De Carolis, Paolo Petri e Enrico Belardinucci hanno infatti deciso di seguire l´esempio di Pino Galeota e navigano verso Rifondazione comunista. La decisione potrebbe essere annunciata già lunedì prossimo, quando i dissidenti diessini avranno un confronto pubblico al teatro Colosseo con Fausto Bertinotti e Pietro Folena. I dirigenti ds hanno comunicato la loro decisione con un lettera in cui si legge: «È stata una scelta di sinistra presa singolarmente, con motivazioni che derivano dalle nostre diverse storie politiche. Ci accomuna una valutazione fortemente critica sulle scelte compiute dal partito in questi anni, fino alla decisione di aprire un percorso per dar vita ad un non meglio identificato partito democratico». Scelta che i dissidenti contestano, perché «in particolare a Roma e nel Lazio comporta l´unificazione dei gruppi consiliari di Ds e Margherita a partire dal comune di Roma. Scompare così dal Campidoglio un pezzo di storia politica, sociale, culturale, della nostra città».

Repubblica 26.11.05
Si è aperto un dibattito dopo il "Libro nero"
Chi accusa la psicoanalisi
gli psichiatri francesi sono circa tredicimila
Il famoso caso di M.lle Anna O. nel 1882
Massimo Ammaniti

Ancora un assalto al Palazzo d´Inverno della Psicoanalisi, a cui i giornali italiani hanno dato grande rilievo. È uscito in Francia un volume corposo di più di 800 pagine Le livre noir de la psychanalyse che avrebbe l´intenzione di liquidare definitivamente il movimento psicoanalitico, ritenuto una leggenda o addirittura una mitologia storica costruita sull´inganno e sulla sistematica contraffazione. Sfogliando il voluminoso atto d´accusa si scopre che il collegio giudicante è quanto mai numeroso, circa 35 autori, costituito da un gruppo eterogeneo e improvvisato di filosofi, storici, epistemologi, psichiatri e psicologi che si sono ritrovati insieme uniti dall´odio verso Freud ed i suoi successori. Nell´introduzione della curatrice si comprende il perché di tanto risentimento, in Francia, come anche in Argentina, la psicoanalisi ha ancora un ruolo dominante, infatti dei 13.000 psichiatri francesi circa il 70 per cento utilizzano la psicoanalisi o terapie di derivazione psicoanalitica.
Ma quali sono i capi d´accusa? Le imputazioni sono le più diverse, da quelle sui comportamenti personali di alcuni psicoanalisti (Freud, Lacan, Bettelheim) ai risultati e all´efficacia dei trattamenti clinici a piani più propriamente teorici. Prendiamo ad esempio il capitolo La vérité sur le cas de Mlle Anna O. il famoso caso di Freud curato nel 1882 e riportato nel libro Studi sull´isteria. Secondo Freud la sua paziente, il cui vero nome era Bertha Pappenheim, avrebbe raggiunto con la fine della terapia «un equilibrio psichico totale», mentre successivamente sarebbe andata incontro a una ricaduta che avrebbe comportato un ricovero psichiatrico. Non è nulla di nuovo, infatti lo stesso biografo di Freud, Ernst Jones, ne aveva parlato nella sua opera e d´altra parte non stupisce che un paziente possa avere una ricaduta dopo la fine della terapia, soprattutto se si considera che si era agli albori della terapia psicoanalitica, quando in campo psichiatrico si ricorreva ai bagni gelati e ai mezzi di contenzione per sedare i pazienti.
Anche le altre accuse non aggiungono nulla di nuovo, a volte si tratta di insinuazioni come quelle rivolte a Bruno Bettelheim accusato di aver avuto comportamenti violenti verso i suoi pazienti autistici. Le contestazioni di ordine teorico, come quella al modello teorico di Freud nel campo dei sogni, sono ben note ed ampiamente condivise.
Se la sopravvivenza della psicoanalisi dovesse essere minacciata da queste accuse gli psicoanalisti potrebbero continuare ad essere tranquilli, mentre forse altre critiche del passato, ad esempio quelle del filosofo della scienza Adolf Grunbaum, erano più consistenti perché richiedevano evidenze e prove per riconoscere la scientificità della psicoanalisi.
Che il libro rifletta uno scontro interno al mondo psichiatrico francese è confermato dal fatto che vengono trattati argomenti indirizzati alla psicoanalisi d´oltrealpe e non viene citato Eric Kandel, Premio Nobel per la fisiologia, che ha scritto a questo proposito un libro rilevante come Psychiatry, Psychoanalysis and the new Biology of Mind di prossima uscita in Italia. Kandel riconosce che molti degli interrogativi della psicoanalisi, come ad esempio il valore della memoria, delle rappresentazioni mentali e del desiderio, sono divenuti rilevanti per la ricerca neurobiologica che sembra ormai aver esaurito la fase di studio del neurone e si confronta con il funzionamento umano nella sua globalità. E il problema della psicoanalisi oggi, e questo è il parere di Kandel ma anche di un numero consistente di psicoanalisti, è quello di indirizzarsi verso la filosofia della scienza avvicinandosi all´area della letteratura e dell´arte oppure accettare la sfida che viene dalla neurobiologia e dagli studi cognitivi. In quest´ultimo caso bisogna fare i conti con i vincoli e le procedure della ricerca scientifica che richiede la raccolta sistematica delle osservazioni, la dimostrazione e la replicabilità delle evidenze.
Vi sono prove ad esempio che i trattamenti psicologici non solo modificano la psiche e i sintomi psichiatrici, ma anche i circuiti cerebrali come, ad esempio, nel trattamento delle fobie.
Si tratta di nuove vie intraprese anche da alcuni gruppi di derivazione psicoanalitica, anche perché la difesa del Palazzo d´Inverno sigillerebbe l´eredità freudiana che non potrebbe confrontarsi con le nuove frontiere della ricerca, sfida, questa, ripetutamente auspicata da Freud.

Repubblica 25.11.05
Esce "La casa di Psiche", un saggio di Umberto Galimberti
Il filosofo e la sofferenza
Si tratta di terapia? Queste nuove pratiche richiedono uno slancio nuovo del pensiero I pensatori scendono in campo in nome di antiche vocazioni garantite dal nome di Socrate - Non ci si può più appigliare alla ciambella del vecchio umanismo - Dobbiamo prendere atto del nostro analfabetismo in materia di "anima"
Pier Aldo Rovatti

Sta prendendo piede, anche in Italia, il fenomeno della «consulenza filosofica». Associazioni di formazione dei cosiddetti consulenti, collane editoriali dedicate alla pratica filosofica, master universitari, ma anche già una prima applicazione con apertura di studi di consulenza rivolti alle istituzioni e al mondo del lavoro e naturalmente al colloquio individuale. Questo fenomeno, per dir così, dei filosofi che scendono in campo nel nome di antichissime vocazioni (Socrate, un capostipite) ma accogliendo attualissimi disagi e dunque una domanda ben piantata nel presente, è già fin d' ora una piccola giungla, rigogliosa e alquanto infida, abitata da intenti seri ma anche da velleità palesi, in via di organizzazione ma ovviamente disordinata, che sta certo sollevando un coacervo di problemi ma anche polarizzando notevole interesse da parte di quei giovani che vi intravedono qualcosa come uno sbocco. E o non è una terapia? Si sovrappone, si contrappone, o solo si affianca alle attività di psicologi e psicoterapeuti? Chi la autorizza e la garantisce? Ce n' è abbastanza per motivare un' attenzione meno distratta cominciando magari a distinguere il grano dal loglio, senza prendere troppo in fretta partito ma senza neppure lanciare anatemi. Vi si gioca, forse, il ruolo della filosofia nella società contemporanea. Il fenomeno è ancora modesto, però promette di crescere. (E già arriva la notizia di una denuncia da parte dell' Ordine degli psicologi per esercizio abusivo della loro professionalità). Credo che Umberto Galimberti, che pubblica adesso da Feltrinelli un libro di peso, per impegno e pagine, dal titolo La casa di psiche, e dal sottotitolo "Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica" (pagg. 460, euro 19,50), converrà con me che questo scenario della consulenza filosofica, che ho appena tratteggiato, è il fondale muto della sua messa a punto. Il libro di Galimberti è tante cose insieme, come dirò in seguito, cioè non è solo questo, ma è poi essenzialmente una risposta al brulicare di domande che ci arrivano dall' interno della nascente pratica filosofica. Non è un mistero che lui stesso abbia fatto da levatrice a tale nascita (per esempio, dirigendo la collana della casa editrice Apogeo di Milano, che ha pubblicato Achenbach, Lahav e il più impegnato degli italiani nel settore, Neri Pollastri). Ho parlato di un fondale muto perché Galimberti vi dedica una nota in tutto, mostrando così di volersi tenere fuori dalle vicende particolari di questo scenario empirico. Quello che, invece, vuol fare è fornire uno strumento di base, un' articolata chiarificazione filosofica che serva a far compiere un salto di qualità e a riempire con un orizzonte solido le esigenze che affiorano un po' dovunque. Cominciando con una riflessione sul presente - un presente ormai attraversato da parte a parte dalla tecnica - da cui risulta che il disagio attuale non può confondersi con una delle tante domande di senso che si sono succedute storicamente, perché siamo di fronte a una perdita radicale di senso rispetto alla quale le risposte tradizionali non bastano più. Occorre, allora, un nuovo slancio di pensiero che sappia misurarsi con la «sofferenza», proveniente da tale insensatezza generalizzata, senza appigliarsi alla ciambella del vecchio umanismo con il suo secolare corredo di valori. In breve: alla perdita di padronanza e di controllo, e all' eclissi di ogni finalità progettabile, non possiamo più rispondere con il desiderio di tornare padroni, controllori, depositari di una finalità generale. Dobbiamo prendere atto del nostro «analfabetismo» in fatto di psiche, cioè di anima nel senso ampio e galimbertiano del termine, e curvare il nostro pensiero su questa constatazione (che era già al centro del suo precedente libro Psiche e techne), cessare di «delirare» nostalgicamente, sostenere fino in fondo il principio di realtà della nostra realtà. Se capisco bene il titolo - che è un titolo molto bello - si tratta di abitare la casa di psiche, sloggiando da essa tanti inquilini che vi si sono addormentati con le loro obsolete masserizie: curatori ormai fuori tempo e cure che al massimo sono dei placebo. La casa resta vuota e un po' desolata? Preferiamo, forse, che sia piena di falsità e illusioni? A partire da tutte le illusioni «scientifiche» che si accompagnano all' idea di curare la psiche. Non è più possibile, secondo Galimberti, continuare a «medicalizzare» la psiche trattandola come un oggetto familiare. Non è un oggetto e non è per niente familiare, e qui effettivamente la filosofia ci aiuta e sembra avere molto da dirci. Galimberti non può certo essere accusato di non sapere di cosa parla quando si rivolge alla psicoanalisi. Deve moltissimo a Freud, ha un debito esplicito con Jung, e in questo libro dichiara anche l' importanza che Lacan ha per lui: tuttavia, non è il pensiero che vi circola (e di cui occorre far tesoro) ma proprio la psicoanalisi come progetto di medicina dell' anima che risulta troppo stretto, troppo impaniato nei propri presupposti, e dunque, per Galimberti, perdente e fuori tempo. Nessuna «cura» per l' angoscia che deriva dal nostro essere mortali. Solo la filosofia sembra poter insegnarci ad abitarla. Ma anche rispetto alla filosofia occorrerebbe un gesto di radicale decostruzione: anche qui bisogna svuotare con dolorosi traslochi l' esigenza teorica che si è accumulata. Certo, tornare agli antichi, alla loro saggezza e alla loro virtù del giusto mezzo, alle loro idee di natura e di mondo, insomma a prima del grande tornante del discorso cristiano in cui saremmo ancora imbottigliati, ed è a questo punto che Galimberti elegge Nietzsche a propria guida filosofica e ci propone di seguirlo fino all' ipotesi di un' «etica del viandante» con cui il libro si conclude. Nietzsche che ci aiuta ad abitare la insensatezza in cui ci troviamo oggi, in un mondo ormai diventato il compiuto mondo della tecnica, e da cui, appunto, possiamo guardare indietro, a quella «saggezza» degli antichi che ci è indispensabile. Credo che sia chiaro il messaggio-risposta che Galimberti invia al brusio di domande del fondale muto delle pratiche filosofiche che oggi stanno proliferando. La necessità, in altre parole, di una chiarificazione filosofica preliminare. Il monito a equipaggiarsi con un bagaglio non leggero, anche se i discorsi da fare saranno poi attraversati dalla leggerezza. E poi che non basta prendere congedo dalla psicoanalisi, di cui in ogni caso occorre valorizzare tutto il patrimonio di pensiero: perché si tratta di raddoppiare questo gesto critico con una presa di posizione filosofica dura e precisa, che smascheri tutti i mercanti di idee e tutti gli spacciatori di verità, pesanti e non. Ne segue, anche, che La casa di psiche, più che una semplice tappa in un percorso filosofico, si presenta come il felice sforzo di Galimberti di produrre una specie di summa del suo pensiero: un libro che raccoglie un lavoro di decenni offrendo al lettore una mappa teorica orientata in cui Freud e Jung, Binswanger e Jaspers vengono riattraversati analiticamente e poi composti in una costellazione in cui figura anche Lacan ma figurano soprattutto i principali operatori filosofici di Galimberti, da Nietzsche alla filosofia antica, e non sono assenti alcuni rimandi significativi allo scenario contemporaneo, da Gehlen a Genther Anders. Emerge, in modo unitario e insieme puntualmente documentato, l' identità filosofica dell' autore, e il libro risulta così uno strumento prezioso per tutti, o almeno per tutti coloro che hanno a cuore il problema di «come pensare», proponendo un esercizio genealogico di costruzione di un itinerario che ciascuno può tentare di ripercorrere ed eventualmente di far suo. Nel senso più ampio e profondo del termine, la pratica filosofica - che ha sempre bisogno di esempi comprensibili e di guide ospitali - è proprio questa.

papisti all'attacco
L'Unita 27.11.05
Chiesa e Stato
Il cardinale Camillo Ruini all'attacco
di Maria Zegarelli

CHIESA E STATO Il cardinale Camillo Ruini torna all’attacco su procreazione assistita, convivenze e ruolo dei ginecologi nei consultori e nei centri specializzati
per la fecondazione. Nello stesso giorno un altro duro attacco allo Stato laico arriva dal presidente del Senato, Marcello Pera che, parlando a Palermo in un convegno organizzato dalla Cei, ha sostenuto che «eliminare la religione dalla politica, facendo in modo che quest’ultima sia pura e laica, è impossibile. La religione entra nella sfera pubblica e nei nostri Parlamenti, dietro ciascuna delle nostre leggi c’è la scelta di valori che hanno carattere religioso come l’equità e la giustizia». La seconda carica dello Stato guarda alla campagna elettorale che si giocherà all’ultimo voto e lancia segnali. A Roma, intanto, il cardinale vicario, parlando nella giornata di chiusura del congresso internazionale «Scienza ed etica per una procreazione responsabile», ha di nuovo condannato procreazione assistita e coppie di fatto.
Ruini ha evocato «gli inquietanti scenari sulla produzione di esseri umani da usare come cavie o sulla clonazione» aperti dalle possibilità tecnologiche che vanno ben al di là «del legittimo aiuto della procreazione umana». Condanna dunque al «dominio sui processi generativi», appello «agli uomini di scienza responsabili della cosa pubblica, alla necessità di non disgiungere mai una riflessione sull’uomo e sulla sua dignità dalle delicate scelte che si stanno compiendo nel campo della ricerca scientifica». E se la mappatura del genoma umano è ormai in via di «ultimazione e certamente rappresenta una grande acquisizione con conseguenze di estremo interesse per il futuro dell’uomo», proprio ora, si sta «smarrendo la mappa dell’esistere umano», si stanno perdendo le coordinate «della dignità e del destino della vita umana». La prova di questo smarrimento sarebbe la «diffusa tendenza a depotenziare il valore dell’istituto del matrimonio, assimilando ad esso altri tipi di unioni e convivenze, con il risultato che il matrimonio non viene più percepito come espressione e garanzia della natura stessa dell’amore umano, ma come frutto di convenzioni e accordi facilmente modificabili».
Cita papa Benedetto XVI per tornare a ribadire che alla fragilità interna a molte coppie si somma «la tendenza diffusa nella società e nella cultura, a contestare il carattere unico e la missione propria della famiglia fondata sul matrimonio». Un mix pericoloso, questo, e un «pericoloso virus quello dell’autoreferenzialità, dell’esaltazione delle esigenze, dei bisogni o dei diritti individuali». Circostanze che stanno portando l’uomo «contemporaneo verso una deriva pericolosa».
Barbara Pollastrini, coordinatrice Donne della segreteria Ds, si chiede perché «voler alzare steccati e creare contrapposizioni inesistenti? Assegnare responsabilità e diritti alle milioni di coppie di fatto non significa, come è ovvio, mettere in discussione la famiglia». E ribadisce il sostegno alla legge sui Pacs, «una proposta saggia e equilibrata» . Per Enrico Boselli, presidente dello Sdi, «è ricorrente nel cardinale Ruini la volontà di trasformare i valori della morale cattolica in leggi dello Stato». Critiche anche dai Radicali e da Rc. Fausto Bertinotti interpreta così: «I comportamenti della Cei e del cardinale Ruini vanno pensati non come strappi occasionali ma come il tentativo di far fronte alla paura e all’incertezza per una mancanza di risposte che investe anche la Chiesa di fronte a un mondo precario e incerto. Quello che è da evitare sono risposte vetuste di anticlericalismo». Pierluigi Castagnetti della Margherita dice va bene il matrimonio, ma «è necessario pensare a forme di tutela delle nuove convivenze». «Un incoraggiamento, uno sprone e uno stimolo», le parole del cardinale, per Riccardo Pedrizzi di An. Secondo Franco Frattini, Fi, è «molto pericoloso confondere il concetto di convivenza con il concetto di matrimonio».

papisti all'attacco /2
La Stampa 27.11.05
Fede e politica
Incontinenza religiosa
Barbara Spinelli

QUANDO il contrasto tra esigenze e opinioni diverse viene vissuto come sconfitta, quando smette di esser visto come un elemento che feconda le democrazie e si comincia a giudicarlo mortifero, quando lo si vuol sradicare per non averlo saputo governare, fa apparizione nella storia europea quello che Karl Popper ha chiamato - dandogli un colore negativo - mito della cornice. L'incontro con chi la pensa in modo differente dal mio o ha bisogni diversi dai miei diventa impossibile e minaccioso, se tra me e l'altro non pre-esiste una cornice comune di valori che hanno il proprio fondamento non solo nelle leggi, nelle costituzioni, nella politica, ma essenzialmente nella cultura e nella religione. Ma la cornice deve fondarsi su valori non prevaricatori da parte di una maggioranza o una religione. Il rispetto dell'altro non è negoziabile e tuttavia va sempre ridiscusso e riorganizzato, se si vuole che il nemico della società aperta (il cannibale descritto da Popper) sia persuaso. Chi mitizza la cornice vede in essa qualcosa di eternamente statico, fondato esclusivamente sul vocabolario ultimo di Dio (o meglio: sull'idea che ci si fa del vocabolario ultimo di Dio). Per costoro, cultura e religione prevalgono su costituzioni e leggi, come cemento destinato a tenere assieme gli individui, gli Stati, e quell'insieme di nazioni che hanno deciso di fondare un'unità superiore come accade nell'Unione europea.
Va da sé che cultura e religione sono, in simili casi, quelle di chi auspica la cornice intesa come prevaricazione: in Occidente sono la cultura e la religione cristiane, considerate uniche vere garanti delle unità nazionali e sovranazionali. Va da sé che i garanti in questione si sentono chiamati a far politica al posto dei politici classici, e non solo si sentono chiamati ma giustificati: senza la loro continua interferenza, il politico d'oggi non saprebbe che dire, come decidere. È così che le correnti dell'ortodossia radicale cristiana (gli evangelicali da cui sono scaturiti i theo-con) hanno preso il potere negli Stati Uniti, stringendo un'alleanza con Bush e lanciandosi con lui in una guerra mondiale tra culture. Lo stesso accade ultimamente in alcuni paesi dell'Unione europea, specie in Italia e Polonia. In ambedue i casi siamo di fronte a una variante dei fondamentalismi musulmani e anche ebraici. Una variante meno violenta ma che alla lunga può avere effetti nefasti, sulle religiosità individuali e sulla Chiesa stessa. Una variante che s'esprime in forme d'incontinenza patologica, a giudicare dalla sistematicità con cui la religione viene mescolata alla cosa pubblica.
I promotori della cornice prevaricatrice sono in Italia parti importanti del clero, a cominciare dalla Conferenza episcopale e dal suo presidente Ruini. In Polonia è la maggioranza politica guidata dai fratelli Kaczynski a esigere che l'Unione europea accetti l'incontinenza cattolica polacca come comune e uniforme tavola delle leggi. Al patriottismo costituzionale, che l'Europa voleva darsi e che avrebbe fatto fallimento a seguito dei referendum in Francia e Olanda, occorrerebbe ora sostituire un patriottismo cristiano, di carattere culturale. Forse vale la pena ricordare che il patriottismo costituzionale non è un'invenzione delle sinistra e di Habermas. Fu coniato dal filosofo Dolf Sternberger - antinazista, conservatore - in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine del 23-5-1979.
In Italia va sempre più crescendo, quest'interferenza di parte del clero nella politica e nelle deliberazioni dei partiti, di governo e d'opposizione. È un immischiarsi ormai quasi quotidiano: nelle leggi e nei referendum sulla fecondazione assistita come sulla devoluzione, nelle procedure che regolano l'interruzione della gravidanza come nelle riforme costituzionali, nelle unioni di fatto come nell'uso giudiziario delle intercettazioni telefoniche e perfino nella scelta di chi dirige la Banca d'Italia. Il giurista Gustavo Zagrebelsky ha descritto con preoccupazione quest'attacco ai fondamenti laici della costituzione italiana, dovuta a due fattori concomitanti: l'indebolirsi della separazione fra politica e religione che il Concilio Vaticano II aveva sancito, e lo svuotarsi del preambolo sulla laicità della costituzione. È per questa via, secondo Zagrebelsky, che alcuni in Vaticano vorrebbero trasformare il cattolicesimo in religione civile, come in America. Costoro si sentono giustificati a intervenire nella politica perché giudicano la politica priva di idee integratrici forti (la Repubblica, 25-11-2005).
La scarsa legittimazione del potere politico e il venir meno di un partito cattolico è all'origine di quest'intromissione di parti consistenti del clero nella politica italiana: un'intromissione che avviene all'insegna della dismisura, che è ormai interferenza diretta perché non più mediata dalla Dc, e che al tempo stesso è profondamente selettiva. Il potere ha bisogno di sentirsi legittimato da autorità religiose perché in fondo si ritiene delegittimato: questo è vero non solo per Berlusconi ma anche per gli eredi del Pci (i Ds), per Rifondazione di Bertinotti, e per quei cattolici che pur essendo minoritari nei due schieramenti aspirano all'egemonia culturale. Ma anche i rappresentanti della Cei credono di avere bisogno della politica, per conquistarsi una legittimazione. L'esasperata ansia di rendere la Chiesa politicamente visibile rivela una condizione di sfinimento, di non-autosufficienza. La Chiesa come la vede Ruini non si sente abbastanza profetica, e per questo si erge a Chiesa del potere quasi senza accorgersi che nello stesso momento in cui ha l'impressione di ergersi, si degrada. È una Chiesa che non riesce a evangelizzare, che cerca le stampelle nei palazzi politici e che si trasforma in lobby, assetata di esenzioni fiscali e privilegi come altre lobby. È una Chiesa che riduce la religione all'etica, ma che nelle stesse battaglie morali si mostra oscuramente selettiva. La lobby ha i suoi rappresentanti nella Conferenza episcopale e in uomini come Lorenzo Ornaghi, già allievo-consigliere dell'ideologo leghista Gianfranco Miglio, oggi consigliere di Benedetto XVI e rettore della Cattolica (un articolo illuminante è apparso ieri su questo giornale, firmato da Giacomo Galeazzi), e l'etica è da essa usata in funzione di quel che si prefigge come lobby. Pronta a battersi su embrioni o aborto, il suo silenzio è totale sulla morale del politico: sulla corruzione, la mafia, il crimine che si mescola al potere, la Conferenza episcopale è muta, abissalmente. Le parole violente di Giovanni Paolo II contro la mafia - il Convertitevi! lanciato nella valle dei templi ad Agrigento dodici anni fa - è da anni introvabile nel sito internet del Vaticano.
Questa debolezza del cristianesimo che si nasconde dietro l'affermazione di un potere politico non unisce la Chiesa ma la lacera, oltre a minare la religiosità delle coscienze. Le iniziative ecumeniche di Assisi sono messe in forse dalla decisione di togliere l'autonomia alla basilica. Esperienze non ortodosse faticano a esistere. Ed è significativo l'allarme accorato, forte, con cui uomini della Chiesa reagiscono alla sua trasformazione in lobby. È il caso di Monsignor Casale, arcivescovo emerito di Foggia. In un'intervista al Corriere del 25 novembre, Casale insorge contro la benedizione impartita dal vescovo Fisichella a Casini: «Torna con insistenza una concezione della cristianità che il Concilio ci aveva fatto superare, l'idea della Chiesa difesa da uno Stato che ne tutela i valori. Ma noi dovremo esser difesi solo dalla parola di Dio».
La Conferenza episcopale che promuove partiti, candidati: secondo Casale, molti tra coloro che guidano la Chiesa «fanno un'opera di supplenza che sta diventando eccessiva e pericolosa», e che provocherà possenti reazioni anticlericali. Tanto più che l'interventismo è, appunto, selettivo: la Chiesa interviene su embrioni «ma non si occupa dei bambini che muoiono di fame o non hanno né casa né scuola, della giustizia sociale, della pace». Così come è concepita da parte dei propri vertici, la Chiesa «si ritira nelle trincee dell'Occidente» e si fa fondamentalista, pur di fuggire i nuovi compiti connessi alla propria debolezza. È una linea di condotta pericolosa: per la religione, la Chiesa, la politica. E lo è anche per l'Europa, perché il mito della cornice prevaricatrice tende a escludere chi la pensa e crede in modo diverso, e rischia di sfociare in guerre tra culture. Guerre tra culture e religioni che l'Europa ha conosciuto in passato, e cui nel secolo scorso ha tentato di rispondere con una Comunità che per definizione è incompatibile con una cultura religiosa omogenea. L'Europa ha certo radici cristiane ma il suo patriottismo difficilmente potrà essere altro che costituzionale, essendo plurale.
Ha detto giustamente lo storico delle religioni Jeffrey Stout, nel suo bel libro su Democrazia e Tradizione, che il problema non è di sapere se le Chiese possono o non possono esprimere con forza le loro opinioni su temi delicati come aborto, fecondazione artificiale, divorzio. La libertà d'opinione e di religione consente a ciascuno di dire la propria convinzione. Viviamo in società dove la politica è stata secolarizzata dal XVII secolo, ma questa secolarizzazione obiettiva non si identifica in alcun modo con le dottrine secolariste che bandiscono la religione dalla conversazione cittadina. Il problema non nasce a causa dei temi di società su cui parte delle gerarchie ecclesiastiche intervengono sistematicamente, e non concerne neppure il loro diritto a parlare. Il problema sono gli interlocutori e gli alleati che tali gerarchie si scelgono: e gli interlocutori non sono le coscienze dei singoli, ma i poteri politici su cui si esercitano pressioni. Il problema è l'aspirazione a imporre una comune cornice basata sulla religione a società obiettivamente plurali, nelle nazioni e anche nell'Unione europea. È un'aspirazione che Stout considera del tutto irrealistica, solo ideologica, a meno di non optare per una coercizione che il cristianesimo ormai da secoli respinge (Jeffrey Stout, Democracy and Tradition, Princeton 2004).
Per una parte della Chiesa - e pensiamo qui al clero polacco - l'Unione europea è invisa proprio per questo: perché con la sua pluralità, con l'indispensabile secolarizzazione della sua politica, l'Europa è incompatibile con il mito di una cornice cristiana imposta a tutti. Il potere di lobby, le Conferenze episcopali locali lo esercitano meglio dentro gli Stati, restando per il resto, come in Polonia, uniche depositarie di un'autorità universalista. La difesa della cultura religiosa rischia di non differenziarsi molto, in simili casi, dalla difesa di un'etnia. Anche questa difficoltà di accettare l'Europa laica e plurale, da parte di alcuni frammenti del cattolicesimo, è un problema per la Chiesa tutta intera. Il pericolo che essa corre è l'affievolirsi delle fedi, l'emergere di un anticlericalismo vero, lo spreco di un patrimonio universalista impareggiabile, e lo stesso vocabolario ultimo delle Sacre Scritture

violenza sulle donne
Il Mattino 26.11.05
L’incontro
Devi, dall’India storie di violenze al femminile
Donatella Trotta

Ha conosciuto il grande poeta indiano Tagore e ne ha assimilato il suo «messaggio di pace e amore per l’universo, non solo per l’India» frequentando da bambina la sua scuola, Shantiniketan, assieme al futuro premio Nobel per l’economia Amartya Sen, di qualche anno più giovane di lei. Ha incontrato e ammirato il Mahatma Gandhi, del quale ancora rimpiange il coraggio, la statura ormai perduti e il «sorriso luminoso», aperto agli ultimi della terra. Ed è cresciuta, durante e dopo la colonizzazione inglese, in un humus fertile di stimoli: «figlia d’arte» di una madre anticonvenzionale, scrittrice e assistente sociale, e di un padre poeta, che l’hanno assecondata nella sua passione per i libri «come finestre aperte sul mondo», lasciandola libera di seguire le sue inclinazioni verso la conoscenza, non soltanto letteraria. Alla vigilia dei suoi 80 anni (che compirà il prossimo 14 gennaio), non è un caso che l’indiana del Bengala orientale Mahasweta Devi sia in odore di premio Nobel per la letteratura, o per la pace: autrice di oltre venti raccolte di racconti, numerose piéces teatrali, libri per bambini e circa cento romanzi, Devi è anche stata docente e soprattutto continua ad essere giornalista e infaticabile viaggiatrice impegnata nell’attivismo politico e sociale in difesa di etnie, tribù nomadi declassificate, donne e bambini oppressi, emarginati, analfabeti, umiliati, ridotti alla subalternità dalla miseria e dall’ignoranza, nel suo Paese e non solo. «Penso che uno scrittore creativo debba avere una coscienza sociale, è un dovere morale verso la società. Che senso ha avere una casa grande, un’auto, una vita agiata se resta separata dagli altri? Ci sono troppo ingiustizie nel mondo della globalizzazione, soprattutto contro le donne, per non fare il possibile per eliminarle, documentandole con coraggio», ti dice pacata ma ferma Mahasweta Devi in un inglese veloce e ibridato come la sua scrittura, che in Italia le è valsa il premio Nonino per le poche opere finora tradotte su interessamento di Anna Nadotti e Italo Spinelli: i racconti de La cattura (Theoria, 1996, introvabile; ma La cattura è anche in India segreta, 18 racconti di donne pubblicati da La Tartaruga nel 1999) e La preda e altri racconti (Einaudi, 2004). Da oggi, la più celebre scrittrice indiana in lingua bengali è per la prima volta a Napoli, dove domani (alle ore 11) parteciperà a un incontro (con interventi di Angela Cortese, Ambra Pirri, Italo Spinelli, Paola Splendore e letture di Giorgia Stendardo) promosso nel Grand Hotel Oriente dall’assessorato alle Pari opportunità della Provincia di Napoli in occasione della pubblicazione del volume di Mahasweta Devi La trilogia del seno (Filema, pagg. 176, euro 12), che inaugura una nuova collana di storia, storie e studi di genere post-coloniali, «Altrimondi», curata da Ambra Pirri, autrice anche dell’ottima presentazione della raccolta nonché della traduzione dall’inglese dei tre racconti della Devi, alternati nel libro - quasi in un gioco di specchi tra letteratura e critica - ad altrettanti densi saggi della sua esegeta dal bengali, Gayatri Chakravorty Spivak, comparatista ed esponente di spicco della critica femminista post-coloniale. Le tre brevi ma incisive breast stories di Devi raccolte nel libro risultano spiazzanti, nei temi e nella forma, per il lettore occidentale, provocato dall’originalità di uno sguardo affilato, sarcastico e impietoso, capace di conferire una fisicità plurisensoriale a storie di altrettante donne (e del loro seno, simbolo potente) accomunate nella tragedia da una catena di violenze maschili (e di retaggio coloniale): l’indomita guerrigliera Draupadi, la grande madre «professionista» Jashoda e la lavoratrice nomade Gangor. Sono racconti scritti - si sente - di getto, perché dettati da un’urgenza interiore più che narrativa, antropologica e sociale: «I miei racconti nascono dalla cronaca vera, dagli orrori ai quali assisto, e che cerco di comunicare anche all’altra parte del mondo», conferma Devi. Che non si rassegna al trionfo della brutalità.

Bertinotti /1
Agi.it 27.11.05
Sofri: Bertinotti, subito la grazia

Liberta' subito per Adriano Sofri, si augura Fausto Bertinotti che torna a chiedere un provvedimento di grazia a favore dell'ex leader di Lotta Continua. "Per Sofri - afferma Bertinotti in un telegramma inviato ai familiari dopo la delicata operazione chirurgica - questi sono giorni di ulteriore sofferenza. Al dramma del carcere si e' ora aggiunto il ricovero di urgenza, cui ha contribuito non poco uno stato di detenzione che si protrae da anni". Per Bertinotti sarebbe auspicabile "che intervenisse un provvedimento di grazia. In attesa e nella speranza che questo provvedimento giunga quanto prima - ha sottolineato - noi auguriamo ad Adriano Sofri una pronta guarigione e di essere presto libero". (AGI)

Bertinotti /2
Apcom 27.11.05
Movimenti
Negri: Bertinotti si autoproclama leader. Ridicolo
"I partiti devono essere strumenti del movimento"

Roma, 27 nov. (Apcom) - "Ridicolo". Toni Negri irride a Fausto Bertinotti, "autoproclamatosi rappresentante dei movimenti, quando invece i movimenti chiedono ai partiti di essere loro strumenti d'azione". Intervistato da Lucia Annunziata a "Inmezzora", in onda su Raitre, Negri dice invece di "sentirsi parte integrante dei movimenti".

Bertinotti /3
Apcom 27.11.05
Laicità
Bertinotti al partito: evitare l'anticlericalismo
"Non siamo partito della modernizzazione, ma della liberazione"

Roma, 27 nov. (Apcom) - "La critica al neoclericalismo non deve approdare all'anticlericalismo". Nella relazione conclusiva al Cpn Fausto Bertinotti risponde così alle domande sollevate nel partito rispetto al suo atteggiamento nell'attuale dibattito tra fede e laicità. "Noi comunisti - sottolinea il segretario di Rifondazione - dobbiamo essere estranei a due chiavi interpretative del mondo: quella secondo cui l'etica pubblica non può avere un fondamento religioso e quella secondo cui l'etica pubblica debba essere fondata sul primato della scienza. Questi due punti di vista - precisa - devono esserci estranei".
"Non possiamo essere un partito della modernizzazione contro l'antico - sottolinea Bertinotti - ma dobbiamo essere un partito della liberazione e su questo fondare una idea anche etica per la costruzione di un'etica pubblica condivisa".
Non si tratta, dice Bertinotti, di "un atteggiamento di cautela nei confronti della Chiesa, ma di una idea di lavorare diversamente nei confronti di altre culture. Non siamo chiamati a risolvere nella politica la ricerca antropologica di cosa è l'uomo".

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Apcom 27.11.05
Prc
Il Cpn approva il documento di Bertinottti sulla sinistra in Italia

Roma, 27 nov. (Apcom) - Con 108 voti a favore, il Comitato politico nazionale di Rifondazione comunista ha approvato il documento del segretario Fausto Bertinotti il cui nucleo centrale è la costituzione di una sezione italiana della Sinistra europea. L'assemblea ha votato anche sui documenti presentati dalle quattro minoranze interne: l'area 'grassiana' di Essere Comunisti (43 voti), l'area trotzkista guidata da Marco Ferrando (9 voti), Sinistra Critica (12 voti), Falce e Martello (4 voti).
Nel corso della relazione conclusiva al Cpn, Bertinotti ha sferzato le minoranze interne, particolarmente l'area guidata da Claudio Grassi che si è detta vicina alle posizioni dei Comunisti italiani, i quali hanno abbandonato il tavolo dell'Unione sulla politica estera per dissensi sulla strategia di ritiro dall'Iraq. Tornando a definire "positivo" il confronto con l'Unione sul programma, il segretario del Prc ha letto in sala il testo approvato dal tavolo della coalizione sulla politica estera, che prevede un ritiro immediato delle truppe dall'Iraq concordato con le autorità di Baghdad (quest'ultimo punto ha scatenato le polemiche del Pdci e dei grassiani dentro Rifondazione). "Io un ordine del giorno del genere lo voterei", ha sottolineato Bertinotti, difendendo il testo rappresentativo di tutta la coalizione di centrosinistra e che sarà sottoposto all'esame dei leader dell'alleanza al seminario dell'Unione in Umbria ai primi di dicembre.
Più in generale, nel confronto programmatico con gli alleati, Bertinotti esclude "la modalità binaria del sì o del no". E cita vari esempi: "Se nella battaglia contro l'inceneritore ad Acerra fossimo usciti dalle Giunte locali, quale vantaggio avrebbe avuto la popolazione?". E ancora sul caso Bologna, dove, secondo il segretario, "evitando di ridurre tutto a una scelta tra sì e no, abbiamo evitato di fare un regalo ai nostriavversari ed esaltato i contenuti della questione legalità". Resta l'obiettivo del Prc di "spostare l'asse dell'Unione a sinistra, in rapporto con i movimenti", ma evitando "risposte povere rispetto alle domande della gente".
In sostanza, il Prc deve valorizzare i risultati ottenuti nel confronto programmatico con l'Unione, è il ragionamento di Bertinotti, in quanto in questa fase è prioritaria l'alleanza con il centrosinistra per "cacciare Berlusconi dal governo". "Un partito che non ha l'orgoglio di valorizzare questi risultati - dice il segretario alle minoranze - non è un partito".
Quanto alla possibilità di riuscire a "cambiare" modelli economici e l'atteggiamento degli alleati dell'Unione nei loro confronti, questa dipende "da due condizioni", conclude Bertinotti. "Una è lo scenario europeo: se la Germania e la Francia andassero verso il neocentrismo, il nostro esperimento in Italia sarebbe messo a grande rischio - sottolinea - la seconda condizione è la temperatura del conflitto sociale in Italia".
Infine, sulla sezione italiana della Sinistra europea, che serve a dare "un luogo pubblico di discussione e iniziativa" alle soggettività non iscritte al partito ma aderenti alla Sinistra europea anche in vista di future candidature alle Politiche, Bertinotti specifica che "per un lungo periodo la sezione italiana della Sinistra europea farà le sue scelte attraverso il metodo dell'unanimità perché nel primo periodo nessuno può pensare di imporsi sugli altri".

Bertinotti /5
Agi 26.11.05
Bertinotti: via la falce e martello? Non ci penso

(AGI) - Roma, 26 nov. - "Non ci penso". Fausto Bertinotti liquida cosi', ancora una volta, l'ipotesi di cancellare la falce e il martello dal simbolo di Rifondazione Comunista.
Il segretario del Prc, a margine dei lavori del comitato politico nazionale del partito, conferma la volonta' di costruire in tempi brevissimi ("due o tre mesi") la sinistra alternativa in Italia, ovvero la sezione italiana del Partito della Sinistra Europea, che vedra' insieme e con pari dignita', il Prc e altre forze della sinistra radicale. "Sul simbolo - precisa Bertinotti - non ci saranno novita', ma sulle liste si'. Sul simbolo no, perche' pensiamo che il simbolo che questa nuova soggettivita' politica dovra' utilizzare in questa fase sia quello di Rifondazione e di interlocutori a cui ci siamo rivolti danno questo elemento come acquisito. D'altronde nel nostro simbolo gia' c'e' il riferimento alla Sinistra Europea e gia' ci siamo presentati alle europee con questo simbolo.
Naturalmente, questa connotazione potra' essere ulteriormente rafforzata, ma resta il simbolo di Rifondazione Comunista".