venerdì 6 settembre 2019



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il manifesto 6.9.19
Le maggioranze farlocche di Romano Prodi
Legge elettorale. La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale
di Massimo Villone

In una lettera al direttore del Corriere della sera (del 4 settembre) Romano Prodi si lancia in un endorsement senza se e senza ma del maggioritario, in specie se ispirato al doppio turno come in Francia, o all’uninominale di collegio come in Gran Bretagna. Sullo stesso giornale D’Alema suggerisce cautela nella corsa verso un sistema proporzionale, essendo preferibile un maggioritario che favorisca un ritorno al bipolarismo. Su Italiaoggi (5 settembre) Claudio Velardi concorda con Prodi e con D’Alema. Decisamente, un déjà vu.
La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale.
Ad esempio, nelle regioni minori solo i primi due partiti otterrebbero seggi in Senato. Un ritorno al proporzionale appare a molti una condizione necessaria. Se ne avverte una eco nel programma di governo (al punto 10), laddove si parla di avviare un percorso di riforma della legge elettorale, assicurando il «pluralismo politico e territoriale». Ma non c’è un esplicito richiamo al proporzionale, e forse qui le opinioni citate hanno giocato un ruolo.
Nemmeno sfugge che oggi qualsiasi impianto maggioritario darebbe al centrodestra un vantaggio incolmabile.
La crisi di agosto ha visto tra le ragioni di fondo la valutazione che il momento fosse favorevole per assaltare Palazzo Chigi.
In questa prospettiva Matteo Salvini ha corso un azzardo, ha scommesso, e ha perduto.
A tutto questo i sostenitori del maggioritario rispondono che bisogna ripristinare il bipolarismo. È ovvio che in un sistema tripolare o multipolare un maggioritario che garantisca il totem della stabilità e della governabilità è fatalmente troppo distorsivo della rappresentatività, e probabilmente incostituzionale.
Per Prodi ciò non rileva, perché «una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile». Non potremmo dissentire di più. Una assemblea elettiva assolve la sua funzione solo se è ampiamente rappresentativa. Diversamente, è una inutile superfetazione istituzionale.
Chi vuole il maggioritario o ritiene irrilevante qualsiasi misura di distorsione della rappresentatività, o pensa a una strategia di alleanze che portando a una competizione tra due coalizioni riduca al minimo la correzione maggioritaria che garantisce la vittoria. A sinistra o nel centrosinistra si pensa a una alleanza pre-elettorale tra Pd e M5Stelle, e forse ancora altri. Ma è una prospettiva plausibile?
Trovare una compatibilità su temi quali le trivelle, la scuola, i beni culturali, il lavoro o persino le grandi opere può essere alla fine non facile, ma possibile.
Ma che dire del diverso modo di concepire la democrazia? Vincolo di mandato, eletti-portavoce, referendum propositivo, taglio dei parlamentari, votazioni su Rousseau segnano un depotenziamento della democrazia rappresentativa che fa allo stato parte del dna del Movimento, e trova qualche eco anche nel programma di governo.
Una strategia duratura di solide alleanze può bene trovare qui ostacoli difficilmente superabili.
Ma poi, siamo sicuri che le chiavi di lettura di un tempo siano ancora valide? In Francia, il doppio turno ha dato a Macron una maggioranza, ma non ha impedito – anzi, indebolendo la rappresentatività del parlamento ha probabilmente concorso a determinare – la rivolta dei gilet gialli.
In Gran Bretagna, emblema della stabilità e della governabilità assicurata dal maggioritario, Boris Johnson ha preso ceffoni dai Commons, e altri probabilmente ne avrà. La stessa unità del regno scricchiola pericolosamente.
Sono prove che maggioranze farlocche create con artifici elettorali non chiudono le faglie politiche, economiche e sociali, e che il fulcro della democrazia è in un parlamento che dia pienamente voce al paese, e non nei palazzi del governo.
Prodi chiede che si prendano «le decisioni necessarie a far sì che l’Italia possa riprendere il suo ruolo in Europa e nel mondo». Dubitiamo assai che abbiamo perso quel ruolo a causa di una legge elettorale non abbastanza maggioritaria, e che basti correggere l’errore per riguadagnarlo.

Corriere 6.9.19
Una strana Euforiaattorno ai governo
di Aldo Cazzullo


L’Europa contro l’animale ferito. Angela e Ursula contro Matteo Salvini. L’avventura del nuovo governo sarà meno spensierata delle espressioni viste ieri ai ministri — gli sguardi increduli, i sorrisi «tipo popolana appena uscita dalla sala parto» avrebbe scritto Paolo Villaggio. Attorno al Conte 2 si respira un’atmosfera sollevata, quasi compiaciuta, da salottino dove ci si congratula l’un l’altro: commenti positivi da Bruxelles e da Berlino, felicitazioni dei commissari europei uscenti ed entranti, un mail bombing durato tutto il giorno con cui ogni sorta di istituzione, comitato, fondazione italiana e mondiale si è rallegrata per la nuova era che si apre. La legislatura continua, i parlamentari restano al loro posto, i barbari non arrivano più. Un’atmosfera che ricorda il 2011 e l’insediamento del governo Monti; la fine è nota.
Stavolta la partita è tutta da giocare. E non solo perché i ceti produttivi del Nord la seguono con scetticismo. Il campo di gioco è l’Europa. La vera rottura nella vecchia maggioranza non è stata sulla Tav ma sulla commissione guidata da Ursula von der Leyen, con i grillini che hanno votato a favore e i leghisti contro.
Mentre i 5 Stelle passavano dai Gilet Gialli a Macron, Salvini scegliendo i falsi amici di Visegrad sbagliava tutto quello che poteva sbagliare. Eppure il suo consenso è lì, quasi intatto.
Pensare che l’Europa sia pronta a concedere all’Italia qualsiasi cosa, anche fare altri debiti, sarebbe ingenuo. E non solo perché fare altri debiti — magari per finanziare l’estensione del reddito di cittadinanza — non è certo nell’interesse nazionale. Pure nel 2011 la Merkel, Sarkozy, Obama e i mercati guardavano con favore all’avvento di un nuovo governo in Italia. Eppure non fu una passeggiata.
Rispetto ad allora il contesto è mutato. Non c’è una bufera finanziaria in corso. La Germania sembra essersi convinta che l’Europa non uscirà dalla crisi senza la politica espansiva che l’America ha scelto da tempo. In mezzo ci sono stati gli anni di Draghi, con la Lagarde che annuncia di volersi muovere sulla stessa rotta. Però l’economia italiana è ferma. Il Paese cresce poco e male, nonostante la resistenza dei suoi imprenditori e dei suoi lavoratori. L’insicurezza legata alla globalizzazione, il risentimento per la perdita di sovranità, l’insofferenza per le migrazioni incontrollate non sono state sanate miracolosamente dall’autogol di Salvini, dalla faticosa trattativa tra Pd e 5 Stelle, dal plebiscito di Rousseau e dalla fiducia che il nuovo governo riceverà all’inizio della prossima settimana, per il sollievo di deputati e senatori.
«Giuseppi» Conte ha già saputo guadagnarsi un credito personale in Europa. Non c’è dubbio che le istituzioni internazionali lo seguiranno con favore. Ma questo non basta. L’approvazione di Berlino e di Bruxelles può diventare un’arma di propaganda per la destra di Salvini e di Giorgia Meloni. Già in passato governi virtuosi, animati da una sincera vena riformista, si sono rivelati motori del populismo.
In questi anni i 5 Stelle sono molto cambiati. Casaleggio non c’è più. La metamorfosi di Grillo è impressionante. Di Maio e Di Battista escono ridimensionati. Eppure proprio per questo lo spirito ribelle e antisistema che ha segnato le ultime tornate elettorali può riprendere a spirare più vigoroso di prima. Il banco di prova è imminente: la legge di Bilancio. Se il governo non manterrà le generose promesse di assistenzialismo al Sud, raccoglierà dissenso e rabbia. Ma se per mantenere quelle promesse aumenterà la pressione fiscale al Nord, la reazione sarà anche peggiore.
Conte si muove su un sentiero stretto. Finora ha dimostrato notevoli capacità di mediazione. Ha saputo accattivarsi la simpatia della Merkel e di Trump, che tra loro si detestano. Lunedì però non si presenterà al Parlamento e al Paese come un mediatore, ma come un leader. Già l’altro ieri, elencando la squadra (non eccelsa) dei ministri, ha esordito dicendo: «Sarò affiancato da…». Un uomo di cui nessuno sino al giugno scorso conosceva il volto o la voce si è caricato sulle spalle una responsabilità molto grande. Il Pd non l’ha affiancato con i suoi leader, ma con le seconde e terze file. Aver negato i «pieni poteri» a Salvini non è un obiettivo di poco conto. Ma se il governo non rimetterà in moto il Paese, avrà soltanto guadagnato tempo. Allora non basteranno le congratulazioni dell’Europa, un tweet di Trump e forse neanche una nuova legge proporzionale per allontanare la tempesta.


Repubblica 6.919
Il figlio di Beppe Grillo accusato di violenza sessuale in Sardegna


Ciro, 19 anni, insieme a tre amici indagato dalla procura di Tempio Pausania dopo un presunto stupro di gruppo nella villa di Porto Cervo del comico. La denuncia di una modella scandinava ai carabinieri di Milano: sull'episodio versioni contrapposte
Il figlio di Beppe Grillo, Ciro di 19 anni, e tre amici sono indagati per una presunta violenza sessuale di gruppo, che sarebbe avvenuta nella villa del comico a Porto Cervo, dopo la denuncia di una modella di origini scandinave incontrata in una discoteca in Costa Smeralda.
La vicenda è riportata dai quotidiani "Il Secolo XIX" e "La Stampa". Secondo ciò che racconta lei, modella di origini scandinave, vent'anni ancora da compiere, si sarebbe trattato di uno stupro, forse avvenuto al termine di una notte di eccessi alcolici
Nella versione dei quattro giovani - tutti figli di imprenditori, medici e professionisti della Genova bene - il rapporto è stato consenziente. I quattro giovani ieri sono stati interrogati per ore dal magistrato Laura Bassani, pubblico ministero della Procura di Tempio Pausania, titolare del fascicolo.
Nel frattempo dai carabinieri di Milano sono stati acquisiti tutti i cellulari e un video, la cui interpretazione però non sarebbe univoca, Per la vittima dimostrerebbe la violenza, per gli avvocati difensori il contrario, e cioè che la ragazza era consenziente. I giovani si sono difesi negando ogni addebito. E i legali hanno messo in luce alcune debolezze del racconto fornito dalla ragazza alle forze dell'ordine.
Tre su tutte: il ritardo della denuncia, presentata dalla modella al suo ritorno a Milano, una decina di giorni dopo i fatti; la continuazione della vacanza per un'altra settimana e la pubblicazione di foto del viaggio sui social network, anche dopo che si sarebbe consumata la presunta violenza sessuale.

il manifesto 6.9.19
Il tribunale revoca il divieto. Ritorno a Riace per Lucano
Restiamo umani. L’ex sindaco ha potuto rivedere il padre malato a casa. Un esilio durato undici mesi
di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti


Alle 16.40 del 5 settembre Mimmo Lucano ritorna nella casa di famiglia in cima alla salita che sovrasta il municipio di Riace. Dopo 300 infiniti giorni termina così il lungo e surreale esilio che una giustizia ingiusta gli aveva comminato il 16 ottobre scorso. Apparentemente più mite rispetto ai precedenti arresti domiciliari, in realtà, il confino era una misura decisamente politica che andava a intaccare alla radice il «modello Riace», allontanando coattivamente il suo artefice dal borgo multietnico. Era un’altra stagione politica, era nato il governo giallobruno e Salvini gliela aveva giurata a Lucano sin dal suo insediamento al Viminale: «Sei uno zero» gli aveva detto in pubblico. Ma ora che lo scenario nazionale è cambiato, quegli stessi giudici che avevano più volte respinto l’istanza di revoca del divieto di dimora, diventano di colpo più mansueti.
LUCANO rientra così a Riace e può accorrere al capezzale del papà malato di leucemia. Una piccola folla si è assiepata di fronte casa sin dal primo pomeriggio, una volta resa pubblica la notizia. I suoi amici, i suoi fedelissimi, la gente di Riace riabbraccia il suo sindaco. «Ora torno, fatemi andare a casa un attimo» ha gridato alle 16.25 al suo arrivo. Aveva fretta di tornare ad abbracciare il padre. «Ma davvero ti hanno liberato o è solo un permesso? Puoi rimanere qui sempre» gli ha chiesto l’anziano appena lo ha visto, quasi incredulo. Costretto a letto dopo l’ultimo ricovero all’ospedale di Catanzaro, ma lucidissimo, Roberto Lucano aspettava con ansia l’arrivo di quel figlio – «il più ribelle» specifica – che era abituato a vedere ogni giorno e che per 11 mesi ha potuto solo incontrare per qualche ora e sempre lontano da casa. «Sono qua papà, ora vedi come ti riprendi» ha continuato a ripetergli Lucano, commosso. Dopo la visita al padre durata quattro ore è uscito dall’abitazione. «Oggi mi sento come uno che ha appena riacquistato la libertà, proverò a riattivare sul posto il modello di accoglienza», ha detto al manifesto, «Quello che voglio fare stanotte – ha proseguito – è riabbracciare uno a uno gli immigrati che sono rimasti».
QUANDO la notizia lo ha raggiunto, Lucano era a Caulonia, a una manciata di chilometri da Riace. È lì, a pochi minuti di auto dal paese, in un appartamento disadorno, privo di riscaldamento che ha trascorso i mesi di esilio ed è lì che uno dei suoi avvocati gli ha ordinato di attenderlo, probabilmente per accelerare la procedura di notifica. Un passaggio tecnico per rendere esecutiva la decisione del tribunale. Corroborata anche da una petizione firmata da 90mila persone che chiedevano al presidente della Repubblica un intervento umanitario «in favore di un figlio che ha il diritto di assistere il padre morente, quindi l’immediata revoca del divieto di dimora». Lui in un’intervista a questo giornale aveva chiesto giustizia, non pietà. E un po’ di giustizia, in attesa della sentenza del processo, l’ha ottenuta. Perché non si è trattato di una deroga temporanea per motivi affettivi, ma di un vero e proprio provvedimento di revoca della misura.
L’EX SINDACO era stato esiliato dal suo comune nell’ottobre 2018, pochi giorni dopo essere finito agli arresti domiciliari con l’accusa di aver favorito l’immigrazione clandestina e commesso delle irregolarità nell’assegnazione del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti. Un vasto movimento di sostegno si era formato intorno alla figura di Lucano ed al modello di accoglienza praticato a Riace. Il primo cittadino del borgo jonico aveva rivendicato la propria condotta, affermando il carattere puramente politico e la limpidezza delle scelte attuate da amministratore pubblico. A convertire la misura dei domiciliari in allontanamento forzato dalla propria abitazione riacese era stato il tribunale del Riesame di Reggio Calabria. L’11 giugno scorso prendeva inizio il processo che vede imputati Lucano ed altri 25 operatori impegnati per anni a Riace nell’accoglienza e nell’amministrazione comunale.
Di recente anche la corte di Cassazione ha disconosciuto la misura coercitiva del divieto di dimora, disposta dagli inquirenti del tribunale reggino. Il tormentato duello giudiziario sulla misura del «confinamento» tra legali difensori e procura si è protratto fino a ieri mattina, quando finalmente l’istanza di libertà è stata accolta.
Il processo, invece, riprenderà a fine mese dopo la pausa estiva. Siamo ancora nella fase istruttoria e lo stesso Lucano è stato già ascoltato in un’udienza fiume in cui ha chiarito ampiamente la sua posizione. Ora, intanto, si può godere il ritorno a casa.

il manifesto 6.9.19
Internazionale   
«La Cina può ancora essere un’alternativa al capitalismo»
Cina. Intervista all’intellettuale cinese Mobo Gao, professore all’università di Adelaide e autore di «Constructing China»
di Simone Pieranni


Originario dello Jiangxi e oggi professore di chinese studies in Australia presso l’università di Adelaide, Mobo Gao rappresenta una delle tante anime della cosiddetta «Nuova Sinistra» cinese, termine con il quale si identifica un filone di pensiero, molto variegato al proprio interno, che tenta, attraverso un approccio multidisciplinare, di rileggere la recente storia cinese contestualizzandola rispetto alle categorie occidentali. Un parte di questo filone di autori, inoltre, si è dedicato in modo specifico al tema della Rivoluzione culturale e al suo afflato trasformativo iniziale.
Se Wang Hui e altri si sono concentrati sul concetto di modernità, per rispondere a chi ritiene che la Cina sia diventata «moderna» solo con l’arrivo del capitalismo e delle riforme di Deng, Mobo Gao pone la sua attenzione su una lettura della storia cinese capace di rendere esplicito il cortocircuito creato dagli Asian studies di matrice americana e sviluppatisi per lo più nell’epoca della guerra fredda (capaci, naturalmente di influenzare anche altri paesi, nonché l’intero sistema mediatico).
Il suo recente Constructing China, Clashing Views of the People’s Republic (Pluto Press, pp. 288, 26,99 dollari, 2018) rappresenta un ottimo sunto del metodo di Mobo Gao (il suo libro precedente, pubblicato sempre da Pluto nel 2008 si intitola The Battle for China’s Past), concentrato a ridare la «conoscenza» negata alla Cina, secondo lui, dalla storiografia occidentale.  Contemporaneamente Mobo Gao offre straordinari spunti interpretativi anche della Cina attuale.
Partiamo da Hong Kong e quanto sta accadendo. La sua tesi è che sia Hong Kong sia Taiwan siano collegate al senso di identità e nazione cinese. Oggi dunque Hong Kong ci interroga ancora su «cosa è la Cina»?
Sì, penso che Deng Xiaoping sperasse che dopo 50 anni dall’handover non ci sarebbero più stati «due sistemi», perché la Cina sarebbe diventata qualcosa di molti simile, se non proprio uguale, a Hong Kong. Con l’arrivo alla presidenza di Xi Jinping però le cose sono cambiate e non poco. La sua campagna anticorruzione ha minacciato i capitalisti di entrambe le parti. In secondo luogo, collaborare di fatto con i capitalisti di Hong Kong ha significato non occuparsi delle classi inferiori con il risultato che molti cittadini dell’ex colonia britannica si sono sentiti trascurati. Bisogna capire se Xi vorrà fare qualcosa al riguardo.
In Constructing China, enfatizza il peso dei media e di molti studi occidentali nella demonizzazione della Rivoluzione culturale. A 70 anni dalla nascita della Repubblica popolare cinese, tuttavia, anche il giudizio del Pcc è negativo al riguardo (di recente è stato pubblicato un discorso di Xi Jinping nel quale l’attuale presidente ribadiva il giudizio del partito). Questo accade, perché, come lei stesso scrive, «quanto fatto da Deng dopo la morte di Mao dimostra quanto fosse reale la paura di Mao: la strada cinese al capitalismo era partita con lo smantellamento delle comuni»?
Sì, e molto altro. Certo la Rivoluzione culturale è stata distruttiva in molti modi. Ci sono state tante vittime tra i funzionari e gli intellettuali ed è davvero difficile per loro e per le loro famiglie assumere atteggiamenti più storici e più impersonali nei confronti della rivoluzione culturale; questo è comprensibile. Ma il fatto è che il capitalismo è un sistema mondiale che inghiotte tutti, compresi i membri del partito comunista cinese, perfino i suoi funzionari principali. Se leggiamo le opinioni di Zhao Ziyang (segretario del Pcc nel 1989 rimosso per le sue posizioni riformiste e di dialogo con gli studenti, ndr) espresse durante gli arresti domiciliari (e pubblicate in Prisoner of State, Simon & Schuster Ltd, 2010, ndr), possiamo accorgercene appieno. Questo è il motivo per cui il ragionamento che il socialismo non può avere successo in un paese è così ragionevole. Per quanto riguarda Xi il discorso è più complesso perché credo abbia ancora la convinzione che la vera logica del Pcc sia quella di ottenere qualcosa di meglio per il popolo. Xi a dire il vero ha anche detto che non dovremmo usare gli ultimi trent’anni della Repubblica popolare, per denigrare i primi trenta.
Oggi la Cina, seguendo il ragionamento del suo ultimo libro, sembra essere in grado, quanto meno più del passato, di dire «quello che è giusto» e «quello che è sbagliato». Ma quale immagine della Cina il Pcc è pronto a svelare al mondo?
Non vi è consenso al riguardo. La maggior parte dei leader del Pcc è senza idee e ideali di questi tempi. Stanno lì per fare carriera. Wang Qishan, Xi Jinping e forse Li Keqiang potrebbero avere alcune idee per rispondere alla domanda. L’articolazione più esplicita è dello stesso Xi: cercare il destino comune dell’umanità (renlei gongtong mingyun) trovando un terreno condiviso, mettendo da parte le differenze per la coesistenza e lo sviluppo pacifici, da cui nasce l’idea della Nuova via della seta. Si suppone che questo sia valido (consentendo differenze) sia a livello internazionale sia a livello di politica interna.
Qual è la differenza che si avvicina alla Cina tra ciò che lei chiama «Conoscenza» e «Atteggiamento»?
La produzione di conoscenza dell’umanità al momento è dominata dall’Occidente e dal capitalismo. L’élite intellettuale cinese in gran parte è inserita in questo sistema di produzione. L’atteggiamento nei confronti della Cina è particolarmente duro perché né la sinistra né la destra trovano la Cina accattivante. La sinistra ritiene la Cina troppo capitalista e la destra troppo comunista. Inoltre vi sono atteggiamenti razzisti nei confronti della Cina. La conoscenza rafforza l’atteggiamento e l’atteggiamento induce un certo tipo di produzione di conoscenza. Si nutrono a vicenda.
Durante il decennio di Hu Jintao c’era la sensazione che la Cina potesse cambiare, intendo, non in senso democratico, ma nel senso di una maggiore attenzione alla ridistribuzione e alle distorsioni dello sviluppo. Poi tutto è parso fermarsi. Perché?
C’è stato un cambiamento molto positivo: l’abolizione di qualsiasi tipo di tasse agricole. È stata la prima volta nell’intera storia della Cina da oltre duemila anni. Hu probabilmente voleva fare di più, ma era troppo debole. Non sappiamo quale fosse la politica che si celava dietro il muro rosso di Zhongnanhai (il quartier generale del Pcc, ndr), ma suppongo che il motivo principale sia da ritrovare nell’interesse acquisito di tanti settori, un interesse autoprotettivo che ha fatto sì che i desiderata politici rimanessero all’interno del complesso di Zhongnanhai in quel momento. Ho il sospetto che Xi abbia voluto creare tanti piccoli gruppi politici sotto la sua guida proprio per questo motivo. Penso che sia la sua soluzione per aggirare i vari ostacoli ministeriali per l’attuazione delle politiche. Quello che chiamo «interesse acquisito» è il mondo delle imprese statali, dei principini (una fazione all’interno del Pcc composta da figli e parenti di funzionari del Pcc ndr) e dei comprador.
Cosa pensa dell’uso di Xi Jinping di Mao?
Ha la convinzione che il Pcc dovrebbe e potrebbe servire meglio la Cina e il popolo cinese. Il suo insistere sul concetto di chuxin («l’aspirazione originaria») non è solo retorica ma un vero tentativo di ripristinare lo spirito e la legittimità del Partito comunista.
In Cina, anche a causa della Nuova via della seta, si è riacceso un dibattito sul concetto di Tianxia. Cosa ne pensa di questo? In che modo questo concetto può aiutare la Cina a proporre una governance globale?
Posso capire l’intenzione del dibattito ma non credo che sia un concetto utile in questo mondo. Il «destino comune attraverso lo sviluppo pacifico» penso sia un concetto più accettabile al di fuori della Cina. Tianxia implica un centro e una gerarchia. Questo non è un concetto che risulta accettabile nel mondo moderno.
In Italia è stato appena pubblicato «Il modello cinese» di Daniel A. Bell. Cosa pensa del libro innanzitutto? Non ritiene che il contrasto tra democrazia e meritocrazia sia limitante, perché è inserito in una logica capitalista, senza immaginare altre possibilità? E ancora: un modello cinese può essere in grado di differenziarsi dall’evoluzione del capitalismo occidentale?
Bell ha il merito di mostrare che le elezioni non dovrebbero essere l’unico criterio di legittimità con cui valutare un paese. Finora quella di Bell è l’unica voce disposta a combattere contro il discorso politico dominante in Occidente ed è stato preso sul serio. Si tratta di un risultato enorme. Ma ha dei limiti, in effetti. Poi sul fatto che esista o meno un modello cinese in grado di fornire un’alternativa non è una discussione che ha ancora portato a una risposta definitiva, che forse neanche può esserci. Dipenderà da due fattori principali: se la Cina sarà in grado di risolvere le sue contraddizioni e i suoi enigmi interni e fino a che punto l’Occidente vorrà strangolare la Cina prima che la Cina abbia successo.
È in corso da tempo ormai uno straordinario impegno tecnologico della Cina, a proposito di Big Data, Intelligenza Artificiale, crediti sociali. E sembra che la Cina sia sulla stessa strada dei paesi occidentali verso uno «stato di sorveglianza» all’interno di un mondo caratterizzato dal «capitalismo di sorveglianza». Cosa ne pensa di questo? E quanto è importante la storia cinese in questo scenario di controllo sociale (penso ad esempio al sistema baojia o all’organizzazione dei quartieri più recente)?
Sì, questo è preoccupante per le persone come noi che sono individualiste e autonome. Ma potrebbero non essere così minaccioso, almeno non ancora, per molti in Cina. Per loro se obbediscono alle regole e alle leggi non ci saranno problemi, non importa quanto siano sotto sorveglianza. Per alcuni questo è positivo per la sicurezza personale. Questo è l’atteggiamento adottato da molti in Cina nei confronti del cosiddetto esperimento di credito sociale. In Cina al momento è difficile far rispettare qualsiasi norma e regolamento, anche quelli con le migliori intenzioni. Nella Cina tradizionale invadere la libertà personale e la privacy non era in generale un problema sociale perché la tradizione ne sottolineava l’obbligo, le responsabilità reciproche e le relazioni reciproche. Ora la Cina è cambiata troppo perché le persone non si preoccupino dello spazio personale. Quindi ritengo che questo potrà essere un problema in futuro.



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