giovedì 5 settembre 2019

il manifesto 5.9.19
Hong Kong, l’annuncio di Carrie Lam: «Ritiro la legge sull’estradizione»
Hong Kong. Scelta tardiva ma che risponde alla prima richiesta dei manifestanti. Solo che da giugno le proteste sono diventate ben altra cosa e le richieste sono ormai molte di più
Il messaggio in televisione di Carrie Lam a Hong Kong
di Simone Pieranni


Con un messaggio televisivo la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha annunciato il ritiro del disegno di legge sulle estradizioni. Si tratta del provvedimento all’origine delle proteste che da inizio giugno hanno caratterizzato l’ex colonia britannica.
È una decisione tardiva ma che finisce per aprire nuovi scenari nella città, considerando che il ritiro della legge era la prima richiesta dei manifestanti. Il problema, oltre al tempismo, è che nel tempo le proteste hanno assunto nuove forme finendo per presentare al governo nuove richieste. CARRIE LAM NEL SUO MESSAGGIO ha parlato anche degli altri quattro punti che al momento rendono molto distanti le parti. Per quanto riguarda la richiesta di un’indagine trasparente e imparziale sulle violenze della polizia durante le manifestazioni la governatrice ha detto che verrà avviata un’inchiesta da parte degli organi preposti a controllare il lavoro della polizia.
Per quanto riguarda la richiesta di una completa amnistia in grado di consentire la liberaazione gli arrestati, la risposta di Lam è stata l’unica netta e senza appello: no.
Sulla richiesta di non catalogare le manifestazioni come «sommosse», Lam ha precisato che il giudizio politico su quanto successo non influenzerà il lavoro della magistratura, mentre sulla richiesta di suffragio universale la governatrice ha confermato che è previsto dalla costituzione, specificando però che richiede un dialogo in altre condizioni ambientali.
Al termine del suo messaggio si possono fare alcune valutazioni, tenendo conto che in questo scenario non ci sono solo Carrie Lam e i manifestanti ma anche Pechino.
LA DECISIONE DI RITIRARE il disegno di legge può essere vista, innanzitutto, come una astuta mossa strategica: di fatto Lam toglie dalle parole d’ordine dei manifestanti il punto all’origine della protesta.
Può essere che molti si possano ritenere soddisfatti, rompendo così il fronte unitario delle proteste. Analogamente questa decisione potrebbe anche andare bene a Pechino: la Cina a questo punto potrebbe giustificare decisioni più pesanti, come la proclamazione dello stato d’emergenza, nel caso le manifestazioni continuassero nel loro virulento attacco alle autorità cittadine e a quelle cinesi.
LO SCOPO DELLA MOSSA di Lam, dunque, potrebbe essere quello di dividere i manifestanti.
Naturalmente c’è anche un altro scenario: Lam sembra ormai molto più di un’anatra zoppa, ha di sicuro perso la fiducia di Pechino e potrebbe aver preso la decisione senza avere un via libera ufficiale dalla Cina. È un’ipotesi piuttosto improbabile ma non impossibile. In questo caso Pechino potrebbe smentirla e costringerla alle dimissioni, decidendo così di procedere nel modo più duro. La stessa Lam nell’audio pubblicato da Reuters due giorni fa assicurava un gruppo di businessmen che Pechino non avrebbe intenzione di schierare l’esercito, ma a questo punto tutto cambia.
Altra suggestione: il primo ottobre si celebrano i 70 anni della Repubblica popolare e può essere che la Cina abbia chiesto a Lam di stringere sui tempi, per verificare le condizioni di celebrazioni «sobrie ma solenni» come le ha definite la stessa governatrice.
IL QUADRO DIVENTA ancora più complesso se andiamo ad analizzare le reazioni che potrebbe suscitare l’annuncio di Lam tra i manifestanti. Il movimento si è sempre dichiarato senza capi e orizzontale eppure alcune organizzazioni sembrano più protagoniste di altre, come ad esempio quella di Joshua Wong giovane leader che pare essere piuttosto incauto nel gestire la propria notorietà (si è fatto fotografare con esponenti americani, un fatto che non gioca a favore del resto delle proteste).
DATE QUESTE PREMESSE, benché Lam abbia preso una decisione tardiva, sarebbe interesse di chi protesta riconoscere rappresentanti in grado di cogliere la palla al balzo e gestire un livello di dialogo che ora come ora appare possibile, benché non sia scontato.
La fiducia in Lam è tragicamente ai minimi storici e in pochi ritengono ci si possa fidare delle sue parole (come confermano le reazioni in gran parte negativi dei manifestanti sui loro canali di comunicazione), ma ora sembra arrivato il momento della politica. E della capacità di unire alle richieste già note, anche una chiara visione «sociale» di come tutti questi giovani immaginano il futuro di Hong Kong.

Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
L’illusione della cura
Psichiatria . È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?
di Gilberto Corbellini


La psichiatria è la specialità medica con le più flebili basi scientifiche. Gli psichiatri usano quasi solo l’esperienza clinica e nessuna scienza per provare a d aiutare persone che pagano pesanti sofferenze psicologiche alla lotta per l’esistenza. Due libri diversamente interessanti discutono il problema di fondo della psichiatria: perché non si trova un modello biologico della malattia mentale, e quali sono state o sono le conseguenze per i malati della mancanza di modelli eziologici delle malattie mentali? Stante che tale mancanza è dovuta alla complessità del cervello, nondimeno consente ai cosiddetti terapeuti di millantare un accesso alla mente malata usando teorie e pratiche pseudoscientifiche, del tipo di quelle psicodinamiche.
Ann Harrington racconta in modo avvincente e chiaro una storia della psichiatria negli ultimi centocinquant’anni dalla quale emerge una sorta di dialettica tra gli approcci biologici e quelli psicodinamici alla malattia mentale. Alla fine dell’Ottocento, la ricerca di un modello anatomofisiologico della malattia mentale si era ispirata alla paralisi progressiva (neurosifilide), dove il deragliamento mentale era causato da un’infezione batterica. Ne derivò l’idea che si dovesse aggredire il cervello e la diffusione di terapie somatiche come malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, per arrivare al tragico traguardo della lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate” c’era la pericolosa illusione di aver trovato le sedi o le cause dei disturbi psichiatrici. I neuropsichiatri si svegliarono dal sonno della ragione quando, nel nuovo clima morale che condannava gli abusi dei medici perpetrati in nome delle ideologie eugeniche, anche contro i malati di mente, arrivarono gli psicofarmaci. Questi resero accessibili alla comunicazione cervelli fino a quel momento controllabili solo da camicie di forza fisiche. La nuova ecologia umanitaria, consentita anche dal successo della psicoanalisi negli Stati Uniti, lasciava il campo ai modelli psicodinamici, sempre privi di basi scientifiche, ma che grazie alle nuove «camicie di forza chimiche» (così le anime belle chiamavano gli psicofarmaci) conducevano a una gestione politica della psichiatria: il DSM era la nuova costituzione e cosa fosse scientifico o meno lo si metteva ai voti (così l’omosessualità fu espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le credenze pseudoscientifiche delle dottrine psicodinamiche portarono a cercare le cause delle malattie mentali fuori dal cervello, trasformando i malati, i loro parenti e la società in capri espiatori. Le manifestazioni più deteriori di tali settarie credenze furono i movimenti antipsichiatrici, che negavano l’esistenza della malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta, racconta Harrington, veniva riproposta una psichiatria fondata sulla biologia, e che cercava di offrire ai pazienti e ai loro parenti un punto di vista laico. Emergevano modelli biochimici della malattia mentale, che comunque lasciavano a desiderare e il DSM cominciava girare a vuoto. La situazione rimane incerta. La Harrington sostiene che la storia della psichiatria consiglia agli psichiatri di «fare della modestia una virtù», evitando di medicalizzare condizioni non serie per concentrarsi solo sulle malattie più gravi. Improbabile che seguiranno il suggerimento.
Alla storica statunitense è sfuggito il caso di Thomas Insel, giunto nel 2002 agli NIH proprio per mettere la psichiatria su più solide basi biologiche e clinico-metodologiche, e che nel 2015 se ne andava a Google, e quindi nel 2017 fondava la start up Mindstrong con l’obiettivo di usare l’Intelligenza Artificiale per costruire una «psichiatrica di precisione». È l’unica concreta speranza. già oggi. Gli algoritmi sono già molto più efficaci degli psichiatri per monitorare la condizione clinica dei pazienti. E in taluni casi sono equivalenti anche come psicoterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la psichiatria manchi tragicamente di marker biologici della malattia mentale, ma pare un po’ troppo ossessionata da Descartes, al cui dualismo mente/corpo attribuisce il ritardo scientifico dello studio delle malattie mentali. Sarebbe comodo. La sua idea è che le malattie mentali siano causate da infiammazioni, cioè da reazioni immunitarie contro infezioni per cui citochine e macrofagi aggredirebbero anche la rete nervosa che sostiene le precarie architetture cognitive ed emotive del cervello. In prospettiva, potremmo aspettarci di curare depressione e schizofrenia con antinfiammatori. L’idea non è così originale.
Negli anni Venti andava di moda una teoria igienica o batteriologica della malattia mentale di cui fu leader il medico Henry Cotton, che trattava chirurgicamente i disturbi mentali asportando a persone sane organi che erano ricettacoli di infezioni, come il colon, i denti, l’appendicite, etc. Una vicenda triste, ripresa anche nella serie The Knick. Gli anti-infiammatori sono meno rischiosi. L’ipotesi che sistema nervoso e sistema immunitario dialoghino funzionalmente risale a metà anni venti (ma Bullmore sembra ignorarlo), quando si riuscì a condizionare pavlovianamente la risposta immunitaria, in modo non specifico. Ora si immagina che sia sistema immunitario a condizionare il comportamento e causarne le degenerazioni patologiche. Bullmore ritiene evolutivamente plausibile l’idea, in quanto ad esempio se una risposta immunitaria contro un agente infettivo causasse anche la depressione, la conseguenza sarebbe che l’individuo non andrebbe in giro a infettare gli altri. Suggestivo, ma poco credibile. Le infezioni dei nostri antenati dediti a caccia e raccolta erano assai poco contagiose.

Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Filosofia politica
Com’è pericoloso il referendum popolare!
di Sebastiano Maffettone


Albert Weale, professore emerito di political theory e public policy presso l’University College London, ha scritto un libro polemico su un tema che sta molto a cuore sia agli italiani che agli inglesi. Si tratta, manco a dirlo, del populismo, trattato qui alla maniera di un mito del nostro tempo, come del resto si evince dal titolo che suona ironicamente The Will of the People e dal sottotitolo invece esplicito The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulgativo, la scrittura è piana, c’è un evidente tentativo di semplificazione, ma il tono argomentativo è sempre sostenuto. La tesi principale è che non bisognerebbe confondere un governo democratico con un governo populista. Là dove nel primo caso, virtuoso, il popolo controlla e seleziona la classe politica, mentre nel secondo, pericoloso, si pretende che il popolo governi direttamente. È anche ovvio che nella pratica la distinzione è sottile, e che la confusione in materia regni sovrana. Ma è cosa grave, sostiene Weale, che i filosofi politici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capitoli, i primi dei quali hanno l’intento di smontare il mito del populismo e gli ultimi invece diretti a rifondare lo spirito democratico in nome di un’etica della responsabilità. L’idea di una «volontà popolare» -sostiene l’autore- in quanto tale è vaga e imprecisa, mentre più chiara è la lettura che ne danno i populisti. Per questi ultimi, la democrazia rappresentativa tradizionalmente intesa non può funzionare perché le élites si sono impossessate del potere. Naturalmente, il corollario di questa tesi è -sempre per i populisti- che se il popolo si rimpossessasse del potere perduto, tutto tornerebbe in ordine. Questa è la sostanza del mito populista, ammantato tra l’altro di un profumo romantico e nostalgico, che Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consiste nella vaghezza del termine «popolo», sotto cui si cela un pluralismo di individui e opinioni non riducibile a unità. Il popolo come entità immaginaria si crea infatti per esclusione, discriminando i migranti, gli stranieri, i diversi, quelli di un’altra razza. Per i populisti, il pluralismo delle opinioni può, come sappiamo, essere risolto applicando sistematicamente il principio di maggioranza. Qui Weale può mostrare le ambiguità nascoste sotto questo principio, e l’impossibilità di applicarlo al di fuori di una precisa regola costituzionale. D’altronde proteggere le minoranze costituisce parte integrante della democrazia liberale. E Weale è abile a mettere in evidenza, -con un tour de force logico- come essere outnumbered (cioè minoritari) non equivalga a avere torto. Sulla scorta di tale argomento, il libro rivela anche i pericoli insisti nell’idea e nella pratica dei referendum. In conclusione, pluralismo contro populismo e liberal-democrazia versus democrazia diretta. E’ persino ovvio che la tempesta Brexit abbia influenzato questo tipo di conclusione. Ma come non pensare in maniera simile anche a casa nostra?

The Will of the People:
A Modern Myth
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71

Il Sole 24 Ore Domenica 1.9.19
Storia delle esposizioni. Un libro ripercorre i retroscena della rassegna che si tenne a Milano nel 1951 a cura di Roberto Longhi. E propone immagini inedite dell’allestimento
La mostrissima di Caravaggio
di Marco Carminati


Nessuna delle numerose mostre su Caravaggio, che si sono susseguite negli ultimi settant’anni nel mondo, è mai riuscita ad eguagliare quella che si tenne a Palazzo Reale di Milano tra aprile e giugno del 1951. Una rassegna divenuta leggendaria per lo spessore critico (la curò Roberto Longhi, il più grande esegeta di Caravaggio), per la quantità delle opere esposte (oggi impensabile visti i vincoli dei prestiti) e per l’imponente successo di pubblico, non previsto dagli stessi organizzatori. Ma soprattutto perché quell’esposizione avviò la travolgente fortuna moderna dell’artista.
Ma che cosa ci rimane oggi di quell’evento epocale? Qualcuno dei 400mila visitatori che videro la rassegna è ancora felicemente in vita, e dall’alto dei suoi ottanta/novant’anni può forse conservare un nitido ricordo della manifestazione. Poi ci rimane un resoconto scritto di Gian Alberto Dell’Acqua (1952) e soprattutto il catalogo della rassegna, pubblicato da Sansoni in due edizioni leggermente diverse, che tuttavia riporta le schede dei quadri in ordine alfabetico, dunque non permette in alcun modo di ricostruire la disposizione delle opere nelle sale.
A questo proposito esiste qualche rara fotografia d’allestimento scattata da Fedele Toscani, il padre di Oliviero. Ma ora, con il fortunato ritrovamento nell’Archivio Alinari di Firenze di 70 lastre fotografiche scattate da Vincenzo Aragozzini nella mostra milanese, viene offerta la possibilità di documentare in modo assai più vasto e chiaro l’allestimento che Roberto Longhi ideò per far conoscere agli italiani e al mondo la grandezza di Caravaggio. Va detto che delle 70 lastre recuperate, solo 10 allargano di fatto l’obiettivo sulle sale allestite. Ma il recupero del prezioso materiale ha spronato Patrizio Aiello a ricostruire l’intera storia della mitica esposizione, ripercorrendo le vicende, i retroscena e gli ambienti di quell’evento effimero a quasi settant’anni di distanza. Ne è sortito un libro austero nella veste esterna (forse troppo) ma internamente smagliante per ricchezza di informazioni, riflessioni e immagini. Un libro dal quale conviene farsi guidare.
Il testo evoca, come prima cosa, l’euforico clima in cui germinò l’evento: una Milano piena di fiducia e in ripresa dopo i disastri della guerra. L’invito a pensare a una mostra su Caravaggio venne infatti dal sindaco della città, Antonio Greppi, che nel 1949 istituì un comitato promotore chiamando a raccolta Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Rodolfo Pallucchini, Matteo Marangoni, Mario Salmi e Lionello Venturi, mentre nel comitato esecutivo vennero nominati, tra gli altri, Fernanda Wittgens, Costantino Baroni e Gian Alberto Dell’Acqua. Per l’allestimento si indicò inizialmente il nome di Franco Albini. A scegliere la sede di Palazzo Reale non fu Longhi come vuole la vulgata ma il comitato, che lo fece per ribadire che quel Palazzo «ex Reale» (la cui destinazione d’uso era allora ancora incerta) dovesse diventare sede preposta agli eventi espositivi.
Nel ’49 la macchina organizzativa si mise in moto e si stilarono i primi elenchi di opere di Caravaggio e dei caravaggeschi da chiedere in prestito (ottanta al primo conteggio, poi arriveranno al doppio). Nelle intenzioni la mostra si sarebbe dovuta tenere tra aprile e ottobre del 1950, ma sorse subito un grande impedimento: la proclamazione dell’Anno Santo. Si capì al volo che le grandi tele di Caravaggio collocate nelle chiese di Roma, richieste tutte in prestito per la mostra, non avrebbero mai lasciato i loro altari durante il Giubileo. Meglio posticipare l’evento di un anno.
Con più tempo a disposizione, l’elenco dei prestiti lievitò e con esso i costi (a coprire i quali diede una mano nientemeno che il giovane sottosegretario Giulio Andreotti). Le trattative per i prestiti (condotte quasi sempre dalla granitica Fernanda Wittgens) si rivelarono in alcuni casi estenuanti. La Francia non voleva cedere la Morte della Vergine del Louvre, e per tentare di ottenerla si mise di mezzo persino il nunzio apostolico a Parigi, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. Ma la Francia non cedette. Altra assenza clamorosa fu la Deposizione Vaticana. Stavolta fu monsignor Giovanni Battista Montini (il futuro papa Paolo VI) a negare il prestito, anche se offrì in cambio un arazzo dell’Ottocento riproducente il quadro di Caravaggio. Longhi rispose risentito: «No, grazie».
A rendere ulteriormente complessa la macchina organizzativa ci si misero anche le forti rivalità tra i componenti del comitato. Come è noto, Longhi e Venturi non solo si detestavano cordialmente ma divergevano nettamente sull’interpretazione e sulla cronologia di Caravaggio. E neppure tra Argan e Longhi correva buon sangue. Insomma, queste rivalità intestine incisero(come incisero i prestiti negati) sul tracciato della mostra, sulla disposizione dei quadri nelle sale e persino sull’allestimento. Franco Albini venne infatti sostituito con lo Studio BBPR, che a sua volta venne sostituito con un terzo allestitore assai meno noto, il soprintendente Luigi Crema.
Comunque, quasi miracolosamente, tutto si compose in occasione del taglio del nastro il 21 aprile 1951, alla presenza del presidente delle Repubblica Giovanni Gronchi. Si notò l’assenza del presidente del consiglio Alcide De Gasperi bloccato a Roma per presenziare ai funerali di Ivanoe Bonomi (ma per lui e la famiglia si allestì un secondo vernissage il 26 aprile). Gronchi, De Gasperi e gli altri 400 mila visitatori che li seguirono (tra cui spiccò il giovane Giovanni Testori) poterono ammirare la mostra sistemata nelle 20 sale al piano nobile del Palazzo: 6 sale dedicate a 44 capolavori di Caravaggio, 11 sale ai maestri caravaggeschi e 3 sale i precedenti di Caravaggio, ai documenti e alle copie. Completava l’offerta un disimpegno d’ingresso con piccolo book shop, e un elegante bar. Bene, adesso, con il libro di Patrizio Aiello alla mano possiamo metterci in coda anche noi.
CARAVAGGIO 1951
Patrizio Aiello
Officina Libraria, MIlano, pagg. 224.
€ 20. Con prefazione di Giovanni Agosti e postfazione di Jacopo Stoppa

Jacobin 1.9.19
Lo psicodramma della Brexit
di Dawn Foster


La regina chiuderà il Parlamento, su richiesta di Boris Johnson, impedendo ai parlamentari di fermare un'uscita dall'Ue non concordata. La sinistra può raccontare una storia più grande della semplice alternativa tra Leave e Remain
È da quando Boris Johnson si è insediato a Downing Street che girano voci sul progetto dei conservatori di adottare la misura che permette di sospendere i lavori del parlamento britannico, chiudendolo di fatto per più di un mese, per evitare che i parlamentari impediscano un’eventuale forzatura di Johnson verso una Brexit non concordata. I rumors hanno preso consistenza quando una banda di varie persone tra cui Jacob Rees-Mogg è andata a trovare la regina in uno dei suoi numerosi castelli, a Balmoral, per chiederle di procedere con lo stop.
Immediatamente dopo l’annuncio, sulla politica britannica si è scatenato il caos. Addirittura un gruppo anti-Brexit chiamato “Best for Britain” ha rilasciato una dichiarazione molto strana che ricordava alla regina d’Inghilterra la storia del regicidio: «Non ha senso che la Regina sostenga questa manovra profondamente antidemocratica, incostituzionale e interessata da parte del governo. Quando le è stato chiesto aiuto avrebbe fatto bene a ricordare che la storia non guarda con benevolenza ai reali che contribuiscono alla sospensione della democrazia». Non c’è dubbio che il Regno Unito abbia perso la testa già dal 2016, subito dopo il referendum, ma fino a ieri non si era ancora arrivati al punto di sentire dei centristi che minacciano di tagliarla alla monarca, la testa.
Perché i conservatori stanno facendo tutto questo? Nei giorni scorsi i partiti dell’opposizione avevano parlato di possibili soluzioni comuni da adottare per sfuggire al rischio sempre più concreto di una Brexit non concordata. E la prospettiva di formare una coalizione anti-Brexit si era fatta credibile dopo che i liberaldemocratici e i cosiddetti hardcore Remainers avevano capito che il loro continuo accusare Jeremy Corbyn di essere un Brexiter non aveva alcuna presa sul pubblico e conveniva cambiare strategia. Adesso, la sospensione del parlamento blocca ogni tentativo dell’opposizione di impedire che la Gran Bretagna si catapulti fuori dall’Europa senza nessun accordo, con tutto l’incubo logistico che ne deriva.
Ai sensi della legge sui lavori parlamentari, chiamata Fixed Term Parliament Act e adottata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici nel 2011, solo il governo può sciogliere il parlamento per andare a elezioni, ma la sospensione rimane una prerogativa reale. Ora, nonostante la loro pretesa di essere l’unico partito a combattere davvero contro la Brexit (posizione che ogni altro partito di opposizione considererebbe una sciocchezza), i LibDem dovrebbero ammettere di aver avuto un ruolo determinante nel provocare questa situazione. Infatti hanno accettato nel 2010 di far passare questa legge in cambio di un pizzico di potere, per entrare in coalizione con i tories.
Negli ultimi giorni i conservatori hanno attinto pesantemente al manuale della campagna per il Leave orchestrata dal miliardario Aaron Banks e dall’attuale capo del nuovo Brexit Party Richard Tice. I tories stanno chiaramente cercando di trattenere i voti che hanno preso ai rivali del Brexit Party scimmiottando le loro stesse tattiche, e si preparano a ripetere lo show alle prossime, e probabilmente incombenti, elezioni politiche.
Per la sinistra, questo significa anche che le elezioni si giocheranno esclusivamente attorno al tema Brexit, con gli elettori del Leave che verranno istruiti sul “tradimento” della “casta” dei politici di Westminster, indifferenti ai desideri della piccola maggioranza che ha votato per uscire dall’Unione europea. Questa è la grande scommessa dei conservatori. I laburisti, nel frattempo, dovranno accrescere i loro punti di forza: produrre un manifesto che non si soffermi troppo sulla Brexit e sul passato, ma proponga invece la visione di un futuro diverso, di un’economia diversa, di una vita diversa per gli elettori, i loro figli, le loro comunità.
Attualmente le voci più forti continuano a essere quelle degli elettori marginali ossessionati dalla Brexit, che dividono l’intero paese sulla linea dell’opposizione tra il Leave e il Remain e considerano questo psicodramma una guerra culturale. La maggior parte dei britannici, invece, non sono così estremi come vorrebbe la visione della Brexit che hanno mass media e classe politica. Sono, piuttosto, sinceramente preoccupati delle loro vite, dei luoghi che abitano e del futuro del paese. I conservatori condurranno una campagna straordinariamente negativa, incentrata esclusivamente sulla Brexit; i laburisti e la sinistra possono raccontare una storia più grande e catturare elettori da entrambi i lati del guado.
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian, ha scritto Lean Out. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.



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