sabato 7 settembre 2019

Corriere 7.9.19
Zimbabwe L’ex padre-padrone rimasto al potere per 37 anni
La morte di Mugabe l’eroe che si scoprì dittatore
di Michele Farina


Addio a Robert Mugabe, l’anti Mandela. A 95 anni è morto l’ex padre-padrone dello Zimbabwe, al potere per 37 anni. Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Ma il suo popolo è in coda per il pane.
Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato padre-padrone. Simbolo di liberazione. E poi tiranno.
A mandarlo a casa (24 stanze, maggiordomi e immunità diplomatica) nel 2017 è stato il «suo» esercito con il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa che mantiene fede al soprannome di Coccodrillo: «Lo Zimbabwe è in lutto fino a quando il nostro eroe nazionale non sarà sepolto», piange l’attuale presidente, che si era visto superato nella corsa alla leadership dalla moglie di Mugabe, Grace. Il familismo del «Compagno Bob» era un modo per restare in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare».
In Zimbabwe c’è un popolo in coda. Per le medicine, il pane, l’acqua. Molti si metteranno in fila anche per l’ultimo saluto all’unico leader che hanno conosciuto. Ma pochi verseranno lacrime, mentre Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Nella capitale Harare metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto l’acqua una volta alla settimana. Inflazione verso il 200%, blackout di 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe non ha migliorato la vita di 13 milioni di persone.
C’è chi lo rimpiange. E’ morto in una clinica di Singapore, dove si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se ne andò nel 2013. Lo slalom parallelo dei due grandi vecchi è uno specchio dell’Africa.
Mugabe figlio di un carpentiere, nell’ex Rhodesia del Nord governata dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando ha 10 anni. Lui va a scuola dai missionari cattolici. Borsa di studio e la prima di sette lauree a Fort Hare, Sudafrica, dove qualche anno prima era passato Mandela.
Insegna in Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la prima moglie Sally (che morirà di tumore nel 1992, quando lui ha già due figli dall’ex dattilografa poi ribattezzata Gucci Grace). Nel 1960 torna in patria, entra nella formazione guidata da Joshua Nkomo. L’opposizione al regime di Ian Smith si divide per linee etniche, Mugabe con gli shona, Nkomo con gli Ndebele (18%). Gli arresti del 1964 li riuniscono: Bob in cella per 11 anni, dopo aver chiamato «cowboys» i governanti. Muore a 3 anni il primo figlio, e gli proibiscono di andare al funerale. Accadrà anche a Mandela. Dietro le sbarre, entrambi macinano dolore e immaginano il futuro. Mugabe esce nel 1975, è uno dei capi della guerriglia che porta all’indipendenza nel 1980. Da primo ministro si presenta come conciliatore. Ma gli scontri con i seguaci di Nkomo faranno 20 mila morti. Nel 1987 si fa nominare presidente. Presto gli farà ombra la stella di Nelson. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. Mugabe, che voleva fare dei suoi concittadini dei «gentlemen» insegnandogli il cricket, per recuperare le simpatie dei neri perseguita gli agricoltori bianchi. Mandela, dopo un solo mandato, se ne va dileggiando il Compagno Bob («Ritirati, vent’anni al potere sono abbastanza»). La confisca delle fattorie contribuisce al disastro economico. Dopo la disuguaglianza (i bianchi con il 2% avevano il 50% delle terre), arriva la fame.
La repressione degli oppositori tra 2008 e 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Morgan Tsvangirai delude. Il Paese a terra, lui in sella. Verrà detronizzato dai suoi, affinché niente cambi davvero. A guardare oltre il Limpopo, in Sudafrica, disoccupazione e xenofobia galoppante, anche Mandela non sarebbe felice. The long walk to freedom , il lungo cammino verso la libertà, sembra non finire mai.

il manifesto 7.9.19
Editoria, braccio di ferro a tre sulla delega. Fnsi: «Si volti pagina»
Il sindacato dei giornalisti: «Basta tagli e bavagli. Ci aspettiamo ora una nuova stagione». Di Maio tifa Vito Crimi, Conte cerca un posto per Chieppa, il Pd preme per Verini
di Eleonora Martini


L’auspicio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di poter presto ringraziare il nuovo governo giallorosso «per un’adeguata attenzione alle questioni dell’informazione» deve aver fatto breccia. Perché ieri, nell’augurare buon lavoro «ai ministri Fioramonti, Spadafora e Franceschini», i deputati del MoVimento 5 Stelle in Commissione Cultura si sono detti certi che l’esecutivo Conte bis considererà «centrale» l’argomento sollevato dal capo dello Stato. Questione che inevitabilmente precipita sulla scelta del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri cui andrà la delega per l’Editoria. Che, hanno annunciato i deputati grillini, «sarà affidata a breve».
E in effetti a Palazzo Chigi si sta giocando in queste ore una delle partite più importanti tra le due componenti del governo. Perché in pochi altri casi come questo il nome di chi otterrà la delega all’Editoria di fatto coincide con la politica che verrà attuata nei prossimi anni per tutelare il pluralismo e la libertà di stampa nel nostro Paese (che è attualmente al 43esimo posto su 180 nella classifica mondiale di Reporters sans frontières) e per «rilanciare la funzione essenziale della mediazione giornalistica» tanto svilita dai grillini, come si augura il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna.
Ed è per questo che i parlamentari pentastellati hanno inviato un messaggio di sostegno al loro capo politico ancora impegnato in un braccio di ferro con il Pd per riempire le ultime caselle. Luigi Di Maio in particolare insiste con quello che è un cavallo di battaglia ideologico del Movimento, e all’Editoria vorrebbe confermare il suo uomo, Vito Crimi, il sottosegretario che nel giro di 14 mesi ha trasformato la lotta alla «casta dei giornalisti» (fondativa dell’identità grillina) in una guerra aperta alle testate prodotte da editori puri, quali sono le cooperative di cronisti e poligrafici (tra i quali molti giornali locali, l’Avvenire e il manifesto).
Di contro, il Partito democratico, cui spetterebbe la nomina dell’altro sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – avendo i 5 Stelle già “piazzato” Riccardo Fraccaro – preme affinché a varcare la soglia di Palazzo Chigi sia ora il deputato e giornalista Walter Verini, attuale commissario Pd in Umbria. Una figura apprezzata trasversalmente da tutta la maggioranza e che è senz’altro di garanzia del pluralismo e della libertà di stampa.
Sembra però che, nelle ultime ore, la competizione si sia allargata. E in lizza sia entrato anche l’attuale Segretario generale della Presidenza del Consiglio, Roberto Chieppa. Al momento gode di una grande probabilità di successo, in quanto “tecnico” molto vicino a Giuseppe Conte e che il premier vuole assolutamente al suo fianco, in qualunque veste.
Sulla faccenda è intervenuto ieri anche il sindacato dei giornalisti: «Per noi – ha detto il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso – non esistono governi più o meno amici, ma esecutivi da giudicare in base agli atti. Da questo punto di vista, gli atti e le prese di posizione di chi ha avuto la responsabilità dell’Editoria nel precedente governo sono stati orientati, purtroppo, a cancellare l’informazione professionale, a ridurre il pluralismo delle voci, a moltiplicare i tagli e i bavagli e a rendere l’occupazione sempre più precaria. Noi riteniamo che sia necessario cambiare completamente registro. Dal nuovo esecutivo – è la conclusione di Lorusso – ci aspettiamo una nuova stagione all’insegna del confronto e della massima attenzione al settore e al lavoro giornalistico».

il manifesto 7.9.19
Roger Waters: «Bisogna resistere al neofascismo che sta distruggendo la terra»
Venezia 76. L’ex Pink Floyd presenta fuori concorso «Us + Them». Il film-concerto è stato girato ad Amsterdam nel 2017 durante il tour mondiale dell’artista e sarà nelle sale italiane dal 7 al 9 ottobre
Roger Waters


Nel giorno del suo compleanno, Roger Waters giunge al Lido per presentare Roger Waters Us + Them da lui co-diretto con Sean Evans (sarà nelle sale dal 7 al 9 ottobre distribuito da Nexodigital). Il film-concerto è stato girato ad Amsterdam nel 2017 durante il tour mondiale dell’artista e oltre a brani tratti da album dei Pink Floyd come Dark Side of the Moon, Wish You Were Here, The Wall e Animals, propone pezzi tratti dal suo disco più recente, Is This The Life We Really Want? Waters ed Evans tornano a collaborare dopo The Wall (2015) che oltre alla musica dava spazio ad alcuni aspetti della vita personale dell’artista. Us + Them, invece, che riprende il titolo da uno dei pezzi storici da Dark Side of the Moon, scritta a quattro mani con David Gilmour, documenta le contaminazioni tra arte e politica negli show del cantautore, il quale ha dichiarato: «È un invito all’impegno. Nonostante questo film sia un concerto, il suo tentativo è di esprimere, con le parole e le immagini, il dolore che provo davanti alla sofferenza quotidiana di fratelli e sorelle homo sapiens in difficoltà».
C’È SPAZIO per qualche commento sulla situazione politica italiana: «So poco di Salvini ma sono contento che se ne sia andato, almeno temporaneamente. Viviamo in tempi difficili in cui l’establishment ci mette in lotta gli uni contro gli altri e vuole distruggere il pianeta. Se non ci uniamo e resistiamo ai rigurgiti neofascisti che stanno facendo collassare la Terra, presto non ne resterà più nulla». Waters, che durante un recente concerto a Brasilia, ha provato a far visita a Lula in carcere ha spiegato: «I magistrati non me lo hanno permesso. Il populismo neofascista di Bolsonaro fa credere alle persone umili di essere dalla loro parte e quindi alcuni lo votano senza rendersi conto dell’errore. Bolsonaro vuole distruggere il pianeta come Trump o Boris Johnson. I corrotti come lui vogliono mettere a tacere i contropoteri ma non bisogna farsi zittire».
E SUL DRAMMA dei migranti e la chiusura dei porti, sottolinea: «Seguo la situazione ma non sono competente e non mi sembra corretto esprimermi. Quello che so è che c’è gente in grande pericolo in cerca di una vita migliore. Sono disperati e noi europei abbiamo dei doveri nei loro confronti. Tutti gli homo sapiens vengono dall’Africa, siamo tutti fratelli e sorelle africani divisi dal nazionalismo che distrugge il pianeta, costruisce muri, crea conflitti». E aggiunge: «Spesso la musica pop è priva di significato ma molti cercano altro. Per questo in The Wall mi riferisco al Mondo nuovo di Huxley, perché abbiamo bisogno di capire, giovani e non, che anche le idee sono buone, belle e desiderabili, non solo gli oggetti». Infine, l’autore di Pigs ha commentato su chi siano i pigs, i maiali, di oggi dicendo: «È l’élite economica che riduce in schiavitù il 95% della popolazione mondiale e pasce sulle guerre. Noi dobbiamo perseguire la gioia e la gioia non è la guerra, la gioia è stare seduti sotto un albero a leggere un libro con il proprio bambino».

Corriere 7.9.19
Zimbabwe L’ex padre-padrone rimasto al potere per 37 anni
La morte di Mugabe
l’eroe che si scoprì dittatore
di Michele Farina


addio a Robert Mugabe, l’anti Mandela. A 95 anni è morto l’ex padre-padrone dello Zimbabwe, al potere per 37 anni. Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Ma il suo popolo è in coda per il pane.
Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato padre-padrone. Simbolo di liberazione. E poi tiranno.
A mandarlo a casa (24 stanze, maggiordomi e immunità diplomatica) nel 2017 è stato il «suo» esercito con il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa che mantiene fede al soprannome di Coccodrillo: «Lo Zimbabwe è in lutto fino a quando il nostro eroe nazionale non sarà sepolto», piange l’attuale presidente, che si era visto superato nella corsa alla leadership dalla moglie di Mugabe, Grace. Il familismo del «Compagno Bob» era un modo per restare in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare».
In Zimbabwe c’è un popolo in coda. Per le medicine, il pane, l’acqua. Molti si metteranno in fila anche per l’ultimo saluto all’unico leader che hanno conosciuto. Ma pochi verseranno lacrime, mentre Mosca e Pechino salutano «un grande uomo». Nella capitale Harare metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto l’acqua una volta alla settimana. Inflazione verso il 200%, blackout di 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe non ha migliorato la vita di 13 milioni di persone.
C’è chi lo rimpiange. E’ morto in una clinica di Singapore, dove si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se ne andò nel 2013. Lo slalom parallelo dei due grandi vecchi è uno specchio dell’Africa.
Mugabe figlio di un carpentiere, nell’ex Rhodesia del Nord governata dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando ha 10 anni. Lui va a scuola dai missionari cattolici. Borsa di studio e la prima di sette lauree a Fort Hare, Sudafrica, dove qualche anno prima era passato Mandela.
Insegna in Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la prima moglie Sally (che morirà di tumore nel 1992, quando lui ha già due figli dall’ex dattilografa poi ribattezzata Gucci Grace). Nel 1960 torna in patria, entra nella formazione guidata da Joshua Nkomo. L’opposizione al regime di Ian Smith si divide per linee etniche, Mugabe con gli shona, Nkomo con gli Ndebele (18%). Gli arresti del 1964 li riuniscono: Bob in cella per 11 anni, dopo aver chiamato «cowboys» i governanti. Muore a 3 anni il primo figlio, e gli proibiscono di andare al funerale. Accadrà anche a Mandela. Dietro le sbarre, entrambi macinano dolore e immaginano il futuro. Mugabe esce nel 1975, è uno dei capi della guerriglia che porta all’indipendenza nel 1980. Da primo ministro si presenta come conciliatore. Ma gli scontri con i seguaci di Nkomo faranno 20 mila morti. Nel 1987 si fa nominare presidente. Presto gli farà ombra la stella di Nelson. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. Mugabe, che voleva fare dei suoi concittadini dei «gentlemen» insegnandogli il cricket, per recuperare le simpatie dei neri perseguita gli agricoltori bianchi. Mandela, dopo un solo mandato, se ne va dileggiando il Compagno Bob («Ritirati, vent’anni al potere sono abbastanza»). La confisca delle fattorie contribuisce al disastro economico. Dopo la disuguaglianza (i bianchi con il 2% avevano il 50% delle terre), arriva la fame.
La repressione degli oppositori tra 2008 e 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Morgan Tsvangirai delude. Il Paese a terra, lui in sella. Verrà detronizzato dai suoi, affinché niente cambi davvero. A guardare oltre il Limpopo, in Sudafrica, disoccupazione e xenofobia galoppante, anche Mandela non sarebbe felice. The long walk to freedom , il lungo cammino verso la libertà, sembra non finire mai.



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