Repubblica 13.6.19
di Emanuele Severino
Heidegger mi leggeva
A 90 anni il filosofo italiano racconta il suo legame a distanza con l’autore di "Essere e tempo": "Uniti dal linguaggio"
“Nel corso della vita ho sostenuto il manifestarsi dell’eternità di tutte le cose: è l’unica risposta possibile al nihilismo
di Antonio Gnoli
Martin Heidegger, il filosofo più osannato in Italia, non amava la filosofia italiana. Distante dalle radici greche, la giudicava irrilevante. Unica eccezione, a quanto pare, il pensiero di Emanuele Severino che nel 1950 pubblicò la sua tesi di laurea: Heidegger e la metafisica .
Sia quel testo, che il lungo saggio Ritornare a Parmenide del 1964 sono stati ritrovati, con degli appunti, negli scaffali della biblioteca di Heidegger. Quale fu il loro rapporto? Se ne discute da oggi al 15 giugno, presso l’Università Cattolica di Brescia in un convegno internazionale (curato da Ines Testoni e Giulio Goggi).
Professor Severino, come arrivò a occuparsi di Heidegger?
«Tramite il mio maestro Gustavo Bontadini. Alla Cattolica di Milano si studiava seriamente Heidegger. E a me sembrava che il suo pensiero aprisse nuovi orizzonti alla metafisica classica».
È stato Cornelio Fabro, allora potente professore della Cattolica, a inviare i suoi due scritti a Heidegger?
«È una leggenda che li avesse ricevuti da Fabro. So che si conoscevano e so che nei rari incontri, avvenuti soprattutto a Roma, Fabro gli parlava della filosofia italiana. Da una lettera che mi scrisse il nipote di Heidegger, il reverendo Heinrich Heidegger, si capisce che il filosofo tedesco era piuttosto tiepido nei confronti di Fabro».
Un atteggiamento che estendeva a tutta la filosofia italiana?
«Non credo ci fosse disinteresse, oltretutto con lui lavoravano anche alcuni allievi italiani. Più semplicemente penso che se ne interessasse a suo modo.
Concentrandosi sui problemi filosofici più che sulle scuole di provenienza».
Heidegger fu ospite per alcuni giorni a Roma nel 1936 in occasione di un convegno durante il quale tenne una conferenza su Hölderlin.
Era presente anche Giovanni Gentile. Ma il loro incontro sfumò in un nulla di fatto. Pensa che le loro filosofie fossero incompatibili?
«Negli anni in cui scrivevo la mia tesi pensavo che la sua filosofia, come quella di Gentile, fosse la base per la metafisica classica. Quindi che non fossero così incompatibili. La verità è che ognuno dei due era troppo legato al proprio linguaggio perché potessero davvero comprendersi.
Gentile e Heidegger erano troppo concentrati sul loro pensiero per poter prendere in considerazione l’idea che qualcuno spiegasse la filosofia dell’altro».
Benedetto Croce fu tra i critici più severi della filosofia di Heidegger.
Ritiene che fosse una critica ingenerosa e comunque discutibile?
«Ma è discutibile anche il modo in cui Heidegger tratta il neohegelismo europeo, quindi anche Croce. Tra gli italiani Croce e Gentile da una parte e Heidegger dall’altra di amicizia ce ne fu ben poca».
Alla fine come pensa che i suoi due scritti siano arrivati a Heidegger?
«Von Hermann, allievo di Heidegger e curatore delle sue opere, fu testimone diretto di un certo interesse del maestro per il mio pensiero. E il nipote di Heidegger, Heinrich, sentì in più di un’occasione pronunciare il mio nome dallo zio.
Ma resta irrisolto il modo in cui ricevette i miei due scritti».
Francesco Alfieri, allievo e assistente di von Hermann, sostiene che il vero tramite tra Heidegger e lei sia stato Gadamer.
«Gadamer adorava l’Italia, conosceva perfettamente la nostra lingua ed è plausibile che avesse parlato, tra le altre cose, anche di me. Da una ricerca di Alfieri risulterebbe che nei primissimi anni Novanta Gadamer scrisse su Civiltà delle macchine un articolo sui miei scritti».
C’è una questione politica che nella lettura del pensiero heideggeriano ha preso il sopravvento. Le sembra inaggirabile la vecchia questione del suo antisemitismo?
«È appunto una questione invecchiata. Le critiche di Heidegger agli ebrei sono le stesse che egli rivolge al cristianesimo, alla metafisica occidentale, alla tecnica.
Non sono l’"avversario", ma appartengono alla grande dimensione dalla quale Heidegger intende prendere le distanze: la generale dimenticanza dell’Essere».
Che giudizio complessivo dà dei "Quaderni neri", in cui la questione dell’antisemitismo è tornata fuori prepotentemente?
«Sono decifrabili solo se si conoscono i Contributi alla filosofia che Heidegger compose quasi subito dopo Essere e tempo . I Quaderni neri erano un suo strumento di lavoro.
Non mi pare che aggiungano qualcosa di decisivo al suo pensiero.
Il loro antisemitismo è un equivoco in cui sono incappati certi critici».
Per alcuni pensatori lei ricorre all’immagine del sottosuolo. Quasi a voler dar loro una forza speculativa straordinaria.
Heidegger è un pensatore del sottosuolo?
«Nonostante la sua grandezza direi di no. I pensatori di questo sottosuolo sono coloro che conferiscono la massima coerenza e potenza alla follia che avvolge l’uomo da quando abita la terra. Pensatori del sottosuolo furono soprattutto Gentile, Nietzsche, Leopardi».
Perché non Heidegger?
«La sua "follia" fu incoerente. E tutt’altro che estrema. Alla fine si accontentò della speranza che "solo un Dio ci può salvare"».
Follia intesa in che senso?
«Non come un’esperienza psichiatrica. Ma come il tratto dell’Occidente, per cui è ovvia la convinzione che le cose nascono dal nulla e tornino nel nulla».
Tutto il suo lavoro si oppone dunque a questa follia?
«I miei scritti indicano la "non-follia", allo stesso modo che un semplice gesto della mano indica l’immenso sistema montuoso. La "non-follia" è perciò il manifestarsi dell’eternità di tutte le cose, di tutti gli stati e gli istanti del mondo e della nostra coscienza. È la risposta al nichilismo».
Il Fatto 13.6.19
Gramsci dietro una pila di libri. E nacque la cultura socialista
Il 1° maggio 1919 nasceva il giornale che avrebbe radunato intellettuali, operai e proletari intorno all’idea dei consigli di fabbrica come base della democrazia
Il giornale viene ora riproposto in un’edizione anastatica di 250 esemplari dalla Viglongo
di Massimo Novelli
“Questo foglio esce per rispondere a un bisogno profondamente sentito dai gruppi socialisti di una palestra di discussioni, studi e ricerche intorno ai problemi della vita nazionale e internazionale”. Così comincia “Battute di preludio”, l’editoriale non firmato, ma redatto o ispirato da Antonio Gramsci, del primo numero del giornale L’Ordine Nuovo. La Rassegna settimanale di cultura socialista, come era specificato sotto la testata, uscì cento anni fa a Torino, il primo maggio del 1919. Poco prima, il 23 marzo, a Milano Benito Mussolini aveva dato vita ai Fasci di combattimento.
L’Ordine Nuovo era nato per iniziativa di un gruppo di giovani della sezione socialista composto, oltre che da Gramsci, da Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti.
Quei giovani e quel giornale ebbero presto un ruolo rilevante nella sinistra, visto che furono tra i protagonisti del movimento dei consigli operai e dell’occupazione delle fabbriche, e quindi della fondazione a Livorno, nel gennaio del 1921, del Partito Comunista d’Italia. Piero Gobetti, che sarebbe diventato un collaboratore del settimanale, lo avrebbe definito su La Rivoluzione Liberale del 2 aprile 1922 “il solo documento di giornalismo rivoluzionario e marxista che sia apparso (con qualche serietà ideale) in Italia”. Il primo numero del giornale, di cui Gramsci era l’anima, viene ora riproposto in un’edizione anastatica di 250 esemplari, assieme al numero unico di La Città Futura, altro foglio gramsciano, dalla Viglongo. È una ristampa che vuole essere anche un omaggio ad Andrea Viglongo (1900-1986), il fondatore dell’omonima casa editrice torinese e uno dei redattori di L’Ordine Nuovo.
La novità del settimanale, che in seguito divenne quotidiano, fu quella di porsi come un vero giornale completo, dalla politica allo sport, dalla cultura alla cronaca. Rammentava Viglongo che si voleva fare un giornale “che bastasse alla lettura del lettore più esigente”. E si prefiggeva, in particolare, di dare alla classe operaia una preparazione culturale moderna. “Si respirò una cultura internazionale”, ha detto lo storico Angelo d’Orsi, “inserendosi quella piccola impresa in un quadro europeo, e non solo, di discussione e rivitalizzazione critica del marxismo, nel quale si collocò, di lì a poco, per citare una istituzione destinata a grande fama, la cosiddetta Scuola di Francoforte”.
Da quel maggio del 1919, nel giro di tre anni, si sarebbero consumati l’occupazione delle fabbriche, il “biennio rosso”, lo squadrismo fascista, fino alla marcia su Roma e alla presa del potere da parte di Mussolini. In modo simile all’idea di rivoluzione di Gobetti, il giornale diretto da Gramsci, che vi compariva come segretario di redazione, scrive sempre D’Orsi, rientrava nel “progetto complesso capace di costruire grandi unità di masse ed élite, di operai e intellettuali, di proletari dell’industria e proletari della terra”, con al centro l’idea dei consigli di fabbrica come base di una democrazia operaia.
La sede torinese, al numero 3 di via dell’Arcivescovado, era nei pressi di un convento; nei primi anni Trenta avrebbe ospitato l’allora appena nata casa editrice Einaudi. Nelle memorie consegnate a Maurizio e a Marcella Ferrara, Togliatti avrebbe ricordato che la redazione era “composta da due grandi cameroni, in cui lavoravano tutti i redattori e i cronisti, uno stanzino per la stenografia e una dove stava Gramsci. Una stanza assurda era questa, piccolissima, con una scrivania messa di traverso e dappertutto libri e giornali”. La sua testa “si vedeva appena, entrando, dietro ai cumuli di giornali e di carte”.
Il sogno di Gramsci, come quello di Gobetti aggredito più volte dagli squadristi, e morto giovanissimo in esilio a Parigi, si frantumò con il fascismo. E Gramsci sarebbe stato emarginato in carcere dagli stessi compagni comunisti, legati a Stalin. Qualche settimana fa in un albergo torinese, in via dell’Arcivescovado, si è tenuto un comizio di CasaPound. A nessuno è venuto in mente che in quella strada, a pochi metri di distanza, nel 1922 i fascisti assaltarono e distrussero la sede dell’Ordine Nuovo.
Il Fatto 13.6.19
Il grande rogo della cultura
Si sta diffondendo l’idea che nell’epoca di Google Books e Amazon le biblioteche e i musei siano superflui: un alibi per ridurre spese di manutenzione: come dimostra Notre Dame, basta un incidente a causare danni giganteschi
di Salvatore Settis
In tutto il mondo, la conservazione e alimentazione della memoria culturale è sempre meno importante nelle priorità politiche e negli investimenti pubblici. Musei, monumenti, archivi e biblioteche vengono contrapposti al vibrare sempre mutevole delle nuove tecnologie; e si diffonde la convinzione che la progettazione del futuro debba farsi a prezzo di una progressiva marginalizzazione del passato, inteso come un peso passivo e non come una forza attiva, una riserva di energia culturale e morale a cui attingere.
Ne è sintomo recente un articolo uscito pochi mesi fa su Forbes, secondo cui le biblioteche pubbliche sono inutili nell’era di Amazon e Google Books. L’autore, l’economista Panos Mourdoukoutas di Long Island University, invita a chiudere le biblioteche per risparmiare i soldi dei contribuenti. Un’ondata di proteste ha costretto Forbes a cancellare dal proprio sito questo articolo a 72 ore dalla pubblicazione, ma il sintomo resta. E questa tesi non è poi così diversa da quella di chi sostiene (anche in Italia) che a tenere in piedi musei e monumenti debbano essere i privati, e che biblioteche e archivi vadano definanziati perché non producono reddito.
La crisi del patrimonio culturale, o meglio della sua funzione, non nasce ieri. Nel 1968, anno di rivolte contro ogni passatismo, un esponente della pop art, Ed Ruscha, la espresse dipingendo il Los Angeles County Museum deserto e in preda alle fiamme. Un disastro metaforico e simbolico, che fu però quasi la profezia di un fatto reale, il terribile incendio della Los Angeles Public Library (29 aprile 1986) che distrusse mezzo milione di volumi.
Un libro recente (Susan Orlean, The Library Book, 2019) offre le coordinate di quest’evento: primo, non si è mai capito chi ne fosse responsabile; secondo, la scarsa prevenzione era stata denunciata da tempo (dal Los Angeles Times); terzo, il calo di finanziamenti pubblici era legato a conflitti di competenza fra le istituzioni. Le stesse identiche coordinate ricorrono, mutatis mutandis, in altre e più vicine catastrofi, che traducono l’incendio-metafora in desolanti fatti di cronaca. Per esempio, il fuoco che distrusse il Museo Nazionale di Rio de Janeiro (3 settembre 2018), partito da un singolo condizionatore d’aria, si diffuse rapidamente perché gli impianti di sicurezza erano disattivati o inesistenti per mancanza di fondi (il museo spendeva in prevenzione poco più di 1.000 euro l’anno). La carenza di finanziamenti nasceva dallo spostamento della Capitale da Rio a Brasilia e dalla conseguente devoluzione di competenze dallo Stato federale alle amministrazioni locali e all’università, con incerta suddivisione delle responsabilità, calo del bilancio e allentamento di ogni sorveglianza e prevenzione.
L’incendio di Notre Dame a Parigi è a prima vista un caso diversissimo, dato che la Francia investe nel patrimonio culturale molto più non solo del Brasile ma dell’Italia. Eppure qualcosa in comune c’è: la difficoltà di accertare responsabilità precise, l’insufficiente prevenzione, i conflitti di competenza. L’abile risposta mediatica di Macron, che ha chiamato a raccolta i capitali privati per ricostruire Notre Dame in quattro e quattr’otto, “più bella di prima”, evidenzia il mito della velocità che sovrasta la necessaria lentezza di un restauro serio; ma anche la tendenziale abdicazione al ruolo delle istituzioni pubbliche nella custodia del patrimonio culturale. Era un privilegio, è diventato un peso.
Il potere distruttivo del fuoco si presta all’uso metaforico degli eventi di Rio e di Parigi come condensazione simbolica di uno strisciante ripudio della memoria storica. In Italia tale processo è favorito dalla doppia perdita di potere del governo nazionale: verso “l’alto” (l’Unione europea) e verso “il basso” (le autonomie regionali). La devoluzione di essenziali funzioni culturali (dalla scuola alla tutela del paesaggio) alle Regioni è tema attualissimo come cavallo di battaglia della Lega: ma non va dimenticato che, se è oggi possibile rivendicare l’autonomia regionale in questi ambiti, è in conseguenza della riforma costituzionale promossa nel 2001 dal centrosinistra. Forme di autonomia furono chieste dalla Toscana già nel 2003, dalla Lombardia e dal Veneto nel 2007, cioè da regioni governate da una coalizione politica diversa da quella del governo nazionale del momento. Il precedente è, oggi come ieri, l’autonomia della Sicilia nell’ambito dei beni culturali e del paesaggio, concessa nel 1975, con irresponsabile incoerenza, pochi mesi dopo l’istituzione del ministero dei Beni culturali. E le devoluzioni che sono dietro l’angolo non hanno nulla a che vedere con i diritti dei cittadini e la funzionalità delle istituzioni, ma puntano solo alla spartizione del potere.
Si sfarina e si disperde per tal via il patrimonio civile della Costituzione (art. 9), secondo cui “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Della Nazione: inteso dunque come inscindibile unità, e non terra di conquista per “governatori” di qualsivoglia partito e relative clientele. La memoria culturale, viva sostanza della storia e dell’identità del Paese, anima della cultura e dell’idea stessa di cittadinanza, rischia così di diventare – contro l’evidente segno unitario dell’art. 9 – materia frammentata di micro-conflittualità localistiche. Eppure l’articolo 9 della Costituzione fu proposto in Costituente da Concetto Marchesi e Aldo Moro precisamente come un argine alla temuta “raffica regionalistica” (così negli atti della Costituente, 30 aprile 1947). Le prospettate devoluzioni non sono che il cavallo di Troia di una brutale lottizzazione che, all’insegna della deregulation, minaccia la stessa unità nazionale. Una sorta di secessione strisciante di marca leghista. Possiamo solo sperare che questo progetto anti-costituzionale trovi nelle istituzioni, dal Quirinale al Parlamento alla Consulta, i necessari controveleni.
La Stampa 13.6.19
Nuto Revelli, il geometra partigiano che ha dato voce al popolo dei vinti
di Mario Baudino
https://www.lastampa.it/2019/06/13/cultura/nuto-revelli-il-geometra-partigiano-che-ha-dato-voce-al-popolo-dei-vinti-ZPiHoJlonklDlxQ2LWOW3J/premium.html
La Stampa 13.6.19
“La nostra Resistenza: gente comune con pregi e difetti, non un esercito di santi”
Carissimo Sandro,
ho letto con vivo interesse il tuo bellissimo articolo «Mito e storia della Resistenza» e mi rallegro di questa tua molto opportuna messa a punto.
Tu sai che mi sono rituffato nel partigianato per tentare di mettere giù la mia esperienza di quel tempo: un lavoro difficile, impegnativo, sproporzionato alle mie capacità. Ritrovare il partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato. Comprendi, caro Sandro, perché sono così entusiasta del tuo articolo? Perché la penso come te (anche se le mie idee sono ben più confuse delle tue).
In questo benedetto «Decennale» delle commemorazioni, dei discorsi, delle celebrazioni ufficiali, articoli come il tuo riportano un po’ di ordine e chiariscono le idee nel nostro ambiente. Credimi, è molto: chiarire le idee ai partigiani, prima che agli altri.
A volte, leggendo libri partigiani, quasi mi lasciavo cogliere da un senso di smarrimento: madonna santa, ma che partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di «mangiare» non parlavano mai, che ammazzavano i tedeschi a centinaia, e sparavano sempre fino all’ultima cartuccia. Possibile che soltanto per noi, partigianelli G.L. del Cuneese, esistessero un’infinità di piccoli problemi - le scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie? Che il nostro fosse soltanto un «piccolo» partigianato?
Da quando però ho ripreso a girare e rigirare i miei mucchi di scartoffie - scartoffie di allora - mi sono accorto che il nostro «piccolo» partigianato è quello vero, proprio perché dice che i tedeschi li ammazzavano soltanto a decine e non a centinaia, non parlavamo mai di strategia ma soltanto di tattica e sovente i problemi logistici erano più impegnativi dei problemi militari. Non piantavamo le bandiere sulle torri, né trovavamo il tempo per le «ore politiche»: alcuni di noi scappavano in combattimento, altri si facevano scannare piuttosto di mollare. Politicamente chi ne capiva di più e chi di meno: chi era salito in montagna per rischiare la pelle, chi per salvarla.
Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa - mille tipi con mille idee - da gente diversa che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune, con pregi e difetti, non un esercito di santi. […]
Ciao, caro Sandro, molte cordialità
aff.mo Nuto
il manifesto 13.6.19
Il nostro Berlinguer, prima e dopo la radiazione
Berlinguer. Non era chiuso, invece era ironico; ma lo scoprii dopo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava, era «sincero». Perciò era popolare, il contrario di populista
di Luciana Castellina
Quell’11 giugno dell’84 in cui Enrico Berlinguer si accasciò per un improvviso malore sul palco dove, a Padova, aveva appena tenuto un comizio, ero a Trieste per una iniziativa organizzata dalla federazione del Pci, non ricordo su che tema. A parlare c’era anche Aldo Tortorella e al termine, come è consuetudine, siamo andati a cena con i compagni.
È mentre stavamo mangiando che arriva al ristorante una telefonata per Aldo, membro, allora, della segreteria del Pci. La inconsueta chiamata ha una ragione: lo hanno informato che Berlinguer è stato ricoverato. Gravissimo.
È davvero troppo tardi per correre a Padova, partiamo all’alba del giorno successivo, accorati arriviamo all’ospedale e ci è concesso di vederlo da lontano. Fuori si erano addensati i compagni, tutti in un lugubre silenzio.
Il resto della vicenda la conoscete. A me che, fortuitamente, ho potuto vederlo in quel letto di ospedale quell’immagine è rimasta incardinata: ogni volta che viene nominato quel nome è a quella che ritorno.
Con sgomento e dolore. E mi ha commosso, ora, il ricordo che ne ha tracciato sua figlia Bianca, non le tante memorie agiografiche che hanno celebrato il 35mo anniversario della sua morte improvvisa.
Dolore e sgomento veri, sebbene fosse stato proprio lui – forse non proprio volente – a buttarmi dalla finestra, ché questa è stata per me la radiazione dal partito in cui avevo già militato per 22 anni.
L’AVEVO incontrato nel ’47, ancor prima di iscrivermi al Pci, nella sede del Fronte della gioventù, così si chiamava l’organizzazione antifascista che raccoglieva giovani comunisti e socialisti e dove appresi i primi rudimenti della militanza politica. Alla prima riunione a Roma nella sede che sorgeva nel parco del Celio, mi chiese, ricordo, di spostare una panca per far posto a chi arrivava. Si trattò solo della prima indicazione, perché poi Enrico Berlinguer divenne il mio segretario nella Fgci appena ricostituita. Dove sono rimasta a lungo, direttore, dopo Sandro Curzi, del suo settimanale, Nuova Generazione.
LA FGCI ABITAVA allora a Botteghe Oscure, al primo piano, quello dimesso con i soffitti bassi, subito sotto quello nobile del segretario del partito, ancora Togliatti. La stanza di Berlinguer restava quasi sempre chiusa. Nel senso che lui mai si univa ai nostri schiamazzi negli altri locali. Come si sa Enrico era austero. E severo. Si andava a parlare con lui solo se era proprio indispensabile e con timore. Forse – abbiamo sempre pensato – è così perché già da giovanissimo aveva dovuto subire la scorta, che per un ragazzo è reclusione.
Austera era però anche tutta la Fgci, 400.000 iscritti, solo, e a lungo, il 2 per cento di studenti, il resto mezzadri e aspiranti operai: si deve arrivare alla fine degli anni ’50 perché le fabbriche, sia pure in modo molto discriminatorio, si aprissero alla nuova generazione. Dopo la sconfitta del 18 aprile 1948 l’Italia si era spaccata in due società non comunicanti: quella dei comunisti (e per un pezzo dei socialisti) e quella degli altri. La nostra era austera perché era poverissima. E poi il tema della morale e del coraggio era dominante: da qui venne la tanto discussa indicazione di Enrico di considerare nostra eroina santa Maria Goretti, uccisa perché si era ribellata a uno stupro.
IN REALTÀ Enrico non era scontroso e chiuso, era anzi ironico; ma questo lo scoprii solo in seguito. Allora avevamo troppa soggezione per capirlo. Quando faceva un comizio non strillava, ragionava. Al suo immenso funerale una donna vicino a me ebbe a dire: «Nei suoi discorsi non ci sono mai fronzoli, si vede che è sincero». Per questo era popolare, il contrario di populista.
QUALCHE TENTATIVO di dialogo con «l’altro mondo», quello dei giovani della Dc che nei primi anni ’50 erano parecchio di sinistra (tanto è vero che molti di loro finirono poi per uscirne e approdare al Pci) venne fatto. Fu proprio Enrico che mi incaricò del primo approccio ufficiale, perché io dirigevo gli studenti comunisti e nelle università, per via delle organizzazioni rappresentative, un rapporto, sia pure conflittuale, era già maturato. Mi chiese di andare a parlare con il loro segretario, Malfatti (poi ministro e perfino presidente della Commissione europea), per chiedergli se fosse stato disposto ad andare come osservatore al congresso della Federazione Mondiale della gioventù che si sarebbe tenuto a Varsavia.
LO CHIAMAI, ma non sapevamo dove incontrarci: che io andassi nella sede Dc di piazza del Gesù impensabile, altrettanto che lui traversasse la strada per approdare a Botteghe Oscure. Finimmo così per parlarci nella sua automobile, parcheggiata a piazza del Quirinale, interrotti dai venditori di fiori, tanto che alla fine, per avere pace, Malfatti mi comprò una rosa.
Alla nostra proposta rispose di non poter essere lui ad andare ma che avrebbe inviato un suo giovane di fiducia, uno di Bergamo: Lucio Magri.
Che conobbi così, a Milano, dove gli portai il passaporto col visto polacco, poco prima della partenza del treno, che io non potei prendere perché, per l’ennesima volta, la Questura, in nome dei miei primi reati politici, mi aveva negato il documento.
POI TANTE COSE, e quindi la radiazione. Che cercò di evitare, con proposte concilianti, ma tutte rigidamente chiuse nel quadro di quanto il dissenso poteva esser considerato legittimo dal Pci di allora. Noi del Manifesto, come sapete, rifiutammo.
I dieci anni successivi Berlinguer non l’ho più visto. Furono anni di rottura totale, il Pci disse di noi cose terribili. E noi attaccammo frontalmente la scelta berlingueriana del compromesso storico.
E PERÒ nel 1980 ci ritrovammo: in un famoso comitato centrale tenuto, per via del tremendo terremoto della vicina Irpinia, a Salerno ( e per questo l’evento venne chiamato la «seconda svolta di Salerno», in ricordo di quella operata da Togliatti al suo arrivo in Italia nel ’44). Berlinguer abbandonò infatti l’ipotesi delle «larghe intese», dimostratasi così infruttuosa. E rilanciò la proposta di unità delle sinistre.
POCO DOPO ci fu la rottura ufficiale con il PcUs. Tardiva, purtroppo, perché a quel punto il vento degli anni ’70, che in occidente con le lotte operaie e studentesche, nel Terzo mondo con il fronte dei non allineati, e anche nell’Est Europa con le rivolte operaie in Polonia a Danzica e Stettino, aveva mutato i rapporti di forza che erano stati in favore della sinistra e si era spento. Tanto è vero che quella rottura fu interpretata da molti non come la proposta di un nuovo e diverso comunismo, ma come l’impossibilità di realizzarlo.
Non Berlinguer, che non era affatto arreso, e in qui primi anni ’80, a fronte dell’arrogante anticomunismo craxiano, radicalizzò la sua linea.
NON SENZA contrasti: la sua critica al degrado delle istituzioni nell’intervista a Scalfari, non fu la liquidazione della orgogliosa «diversità comunista» ( che era rifiuto dell’omologazione), ma un lungimirante attacco al potere; così come la proposta dell’austerità non fu una scelta «codina», ma un primo approccio alla tematica ecologica che muoveva allora primi passi. Si aprì anche al femminismo: ricordo la sua attenta partecipazione ad un convegno, a Milano, promosso dalla Libreria delle Donne.
Tra l’altro nell’83 nella famosa intervista a Mixer condotta da Gianni Minoli aveva definito Luigi Pintor come «il miglior giornalista italiano».
Soprattutto sostenne e mobilitò il Pci dall’81 all’83, a cominciare da quello siciliano con Pio La Torre – che venne poi assassinato – in grandi manifestazioni contro le derive della guerra fredda di cui era sempre interprete la Nato e quindi contro l’installazione a Comiso dei missili nucleari Pershing II e Cruise. Fu quella di Comiso una grande stagione del pacifismo europeo e italiano, unitaria, anche grazie a lui.
TUTTO QUESTO ci portò, a noi del Pdup (il Partito di unità proletaria), ad un inedita collaborazione col Pci. Che ebbe alla fine un esito importante, quando Enrico Berlinguer, un po’ a sorpresa, venne ad assistere all’apertura del nostro congresso, a Milano, marzo 1984. E, ascoltata la relazione di Lucio Magri, andò da lui e gli disse: «Ma perché non rientrate nel partito, adesso che le ragioni del dissenso sono state superate?». Con qualche travaglio ma con l’accordo della grande maggioranza del Pdup, accettammo la proposta.
ERAVAMO ai primi passi del processo quando a Padova la sua vita fu bruscamente interrotta. E tutto cambiò. Berlinguer quella richiesta di rientro l’aveva fatta perché, sebbene segretario del Pci, era rimasto isolato proprio sulla linea che a noi ci aveva invece ravvicinato. Eravamo certo un piccolo partito, ma dotato di un migliaio di quadri capaci e avremmo forse potuto influire sul dibattito che stava, sia pure mai ufficialmente, già dividendo il gruppo dirigente del Pci.
E che alla fine, Berlinguer ormai scomparso, portò alla malaugurata scelta di sciogliere il partito comunista.
il manifesto 13.6.19
Hong Kong, scontri e proteste anti-Cina La polizia: «Rivolta»
Manifestazioni sono in corso da giorni contro l’approvazione della legge che permette l’estradizione a Pechino dei «sospetti»
di Simone Pieranni
Come accade sempre più spesso in Asia, quando c’è di mezzo la Cina, le proteste rischiano di rappresentare sentimenti radicati nel tempo: quelle in scena da giorni a Hong Kong sono contro l’approvazione del provvedimento che consentirebbe per la prima volta l’estradizione di sospetti di reati verso la Cina continentale, ma sono innanzitutto proteste anti-cinesi.
Le persone in piazza hanno dimostrato – infatti – l’insofferenza di Hong Kong verso una presenza sempre più evidente di Pechino negli affari interni dell’ex colonia britannica. Non c’entra solo la Cina, perché ovviamente di fronte alla proteste anche gli Usa hanno detto la loro, da Nancy Pelosi, contraria all’estradizione (che poi dipenderebbe dall’esecutivo, accusato di essere filocinese), a Trump che, invece, ha espresso la volontà che tutto si possa risolvere di comune accordo con la Cina.
foto da Scmp.com
Ipotesi piuttosto complicata, mentre Admiralty, Central, luoghi comuni a chiunque sia mai passato da Hong Kong, si riempivano di manifestanti e ben presto diventavano luoghi di scontri con la polizia, che nella serata di ieri ha etichettato come «rivolta» la protesta, lasciando intendere un seguito repressivo non da poco, quanto a potenziali condanne per gli arrestati (sia quelli già in custodia, sia quelli che arriveranno nei prossimi giorni).
Quanto al provvedimento, è ancora in bilico, ma solo per questione di «ordine pubblico»: oggi potrebbe diventare ufficiale. In breve, la legge permetterebbe l’estradizione in Cina di «sospetti» autori di reati per cui si prevedono più di sette anni di pena (quest’ultima caratteristica è arrivata dopo le prime proteste soprattutto degli avvocati dell’ex colonia britannica).
Chi ritiene sia necessario il provvedimento (il governo di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, accusata di «vendere Hong Kong alla Cina» e naturalmente Pechino) portano a propria giustificazione il caso del ragazzo autore di un omicidio a Taiwan e poi rifugiatosi a Hong Kong. In questo caso la legge permetterebbe l’estradizione (il provvedimento prevede la possibilità di estradare sia in Cina, sia a Taiwan sia a Macau).
Chi è contrario ritiene molto semplicemente che la legge permetterà alla Cina di ottenere eventuali dissidenti o persone accusate di reati di opinione contro Pechino. Ma naturalmente non c’è solo questo: in ballo infatti c’è un riavvicinamento politico sempre più netto, dopo che già economicamente e finanziariamente Hong Kong è ultra collegata alla Cina continentale. Le manifestazioni davvero partecipate – come mai si era visto nell’ex colonia, neanche nel 2014 ai tempi della cosiddetta «Umbrella Revolution» che si caratterizzò per la richiesta di suffragio universale (a Hong Kong il chief executive è nominato indirettamente) – dimostrano come per gran parte della società di Hong Kong la propria peculiarità, ovvero la presenza di elementi democratici al proprio interno, sia intoccabile.
La storia, però, sembra andare in una direzione contraria: la Cina ha sempre più rilevanza geopolitica mondiale e sempre più frecce al proprio arco per tenere al guinzaglio paesi e governi.
Le proteste, soprattutto quelle di ieri, sono tracimate in scontri violenti, arresti, feriti in ospedale. Carrie Lam piangente ha assicurato di non aver venduto la città alla Cina, Pechino ha ribadito che la legge permetterà alla città di liberarsi di criminali, affermazioni che si sono immediatamente trasformate nella giustificazione di legge e scontri da parte dei filo cinesi.
Il problema vero per chi protesta è che di fronte non ha solo il governo e la polizia cittadina, bensì la seconda potenza mondiale. Le possibilità di riuscire a bloccare la legge sono sostanzialmente nulle, almeno, sulla carta e data la volontà dell’esecutivo di andare avanti.
Il rischio è quello di interventi ancora più violenti di quanto non sia accaduto da parte della polizia e una coda repressiva di proporzioni gigantesche: un seguito che potrebbe tagliare le ali a un movimento che rispetto a quello visto all’opera nel 2014 è sembrato più radicale, più organizzato e composto non solo da middle class e giovani, ma anche da lavoratori.
La violenza di alcuni scontri è l’ultima risorsa per i manifestanti a fronte di un muro opposto, fino ad oggi, alle loro richieste.
Il Fatto 13.6.19
“La Cina vuole tutti in ostaggio”
di Alessia Grossi
“Se la legge che permette l’estradizione dei sospetti criminali da Hong Kong alla Cina venisse approvata, sarebbe preoccupante non solo per i suoi cittadini, ma anche per gli stranieri e per chiunque transiti sul suo territorio”. Andrea Sing-Ying Lee è il Rappresentante di Taiwan in Italia – l’isola a 180 km dalla costa cinese che dal 1949 rivendica la propria indipendenza da Pechino – ed è certo che la nuova norma aprirà le porte alla persecuzione anche politica di cittadini invisi a Pechino.
Per questo “le proteste di questi giorni del popolo di Hong Kong – spiega – sono assolutamente legittime”. “Taiwan appoggia i cittadini hongkonghesi che sono scesi in strada per difendere i diritti umani e lo Stato di diritto del loro Paese”, continua Lee. La norma contro cui più di un milione di persone a Hong Kong sta manifestando – scontrandosi con la polizia che ha caricato con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, causando 70 feriti, di cui due gravi –, viola non solo l’accordo secondo cui l’isola non può subire interferenze né giuridiche né politiche da parte della Repubblica Popolare Cinese fino al 2047, cioè per i 50 anni successivi al ritorno sotto la sovranità cinese nel 1997. Ma, soprattutto “vedrebbe cancellate libertà che in Cina non esistono”, sostiene il rappresentante di Taiwan, quelle acquisite da Hong Kong sotto il sistema britannico di cui fu un governatorato dal 1898. “Esorto il governo ad ascoltare le preoccupazioni della sua popolazione”, è stato l’appello lanciato dal ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt. Eppure la governatrice Carrie Lam – che ha dichiarato di non avere intenzione di ritirare la legge tanto discussa, nonostante le proteste – sostiene che “la norma garantirebbe in alcuni articoli “l’applicazione della richiesta di estradizione in Cina soltanto di persone sospettate per stupro e omicidio oltreché il rispetto dei diritti umani”. “Il sistema giudiziario cinese è noto a tutti per le sua mancanza di trasparenza”, sostiene invece Lee, “non è detto che Pechino garantisca agli imputati gli stessi diritti di Hong Kong”. Dunque, si domanda Lee, “perché non lasciare che a processare gli accusati sia il proprio sistema giudiziario invece di inviarli in Cina?”.
Per non parlare dei danni “anche economici che potrebbero derivare a Hong Kong da questa legge”, spiega ancora Andrea Lee, al quale non sfugge che tra l’isola e Pechino “ci siano già leggi di cooperazione dal punto di vista giuridico” e che quindi questa “nuova concessione al governo di Xi JinPing non sarebbe poi così necessaria”.
“In questo modo – afferma – tutte le aziende straniere che operano sul territorio di Hong Kong potrebbero non sentirsi più protette da uno Stato di diritto con leggi eque, sensazione che avrebbe in realtà chiunque transitasse anche solo per l’aeroporto dell’isola rischiando di essere estradato in Cina se Pechino lo ritenesse in qualsiasi momento necessario”. Non nasconde il tema degli oppositori politici Lee, come i cittadini di Taiwan, Paese di dissidenti secondo Pechino, che a Hong Kong “ha investito 30 miliardi di dollari” e ha creato “centinaia di aziende in cui lavorano più di 100 mila taiwanesi”. “Una situazione preoccupante”, la definisce il rappresentante di Taipei in Italia. Intanto la Cina, che fin dalle prime proteste di domenica ha fatto sapere che appoggia la legge, ha negato le voci secondo cui avrebbe inviato forze di sicurezza dalla terraferma. “Sono solo notizie per creare il panico”, ha detto il ministro degli Esteri di Xi JinPing, Geng Shuang, dopo che fin dalle prime ore della protesta aveva chiesto all’Occidente di “non intromettersi nella questione”. Eppure, nonostante in teoria la nuova legge sia nata dopo la fuga a Hong Kong di un omicida cinese, i sospetti verso Pechino si sono rafforzati per una serie di sparizioni di oppositori al potere cinese, fra cui anche un gruppo di editori dissidenti e un miliardario, poi ricomparsi nelle prigioni della Cina continentale.
Non a caso a Pechino la copertura mediatica delle proteste è stata molto limitata. A differenza di quanto è accaduto in tutto il mondo, in cui gli scontri – ancora più imponenti “delle proteste degli ombrelli” che nel 2014 chiedevano il suffragio universale per l’elezione del governatore – hanno invaso social, tv e siti di news. “Speriamo che queste immagini tristi che ricordano Tienanmen e altri scontri del passato non diventino la norma in un Paese pacifico, ma siano un’eccezione”, si augura Lee. Intanto Pechino ieri ha fatto sapere di aver aperto la prima tratta ad alta velocità che collegherà Tianjin, nella Cina continentale, a Hong Kong, operativa dal 10 luglio. La tratta toccherà 12 stazioni, facendo salire così i collegamenti con l’ex colonia britannica a 58.
Repubblica 13.6.19
Carrie Lam
dal nostro corrispondente
PECHINO — Non ha mai ceduto di un millimetro Carrie Lam. Neppure quando si trattava di demolire uno degli storici moli coloniali di Hong Kong: da segretario allo Sviluppo, era il 2007, si presentò davanti alla folla di manifestanti radunata per bloccare i lavori e disse "no", preservare il passato non era possibile: «Non voglio dare false speranze». Non le sta dando neppure ora che è chief executive , il primo "governatore" donna della storia di Hong Kong, e in gioco c’è molto più di un molo: l’identità stessa della città. La legge sull’estradizione verso la Cina serve, ha scandito due giorni fa davanti ai microfoni in tutta la sua compostezza, per nulla impressionata dalla folla di un milione di persone che il giorno prima aveva marciato "contro", lei e la norma. E ai giovani che ieri sono scesi in strada, gli stessi con cui durante la protesta degli ombrelli la mandarono a dialogare, ha riservato solo lacrimogeni, pallottole di gomma e un durissimo video di tre minuti: la loro «è istigazione alla rivolta, non amore per Hong Kong».
Non si piega, perché in fondo è a questa dedizione d’acciaio che la 62enne Lam Cheng Yuet-ngor, il suo nome cantonese, deve tutto. Nata da una famiglia povera, quarta di cinque figli, si è sudata ogni passo verso l’alto, all’istituto cattolico femminile, tra i banchi di Sociologia, poi tra quelli di Cambridge, quindi nei ranghi dell’amministrazione. Il problema è che molti ora si chiedono dove batta il cuore, dietro a tanta determinazione: prima ha servito la Gran Bretagna, poi, dopo la restituzione del 1997, la Repubblica popolare cinese. Ma Hong Kong? Ieri durante gli scontri è stata trasmessa una sua intervista registrata in cui, lacrime agli occhi, risponde all’accusa di averla svenduta alla Cina: «Come potrei mai? Sono nata qui. L’amore per questo posto mi ha portato a fare dei sacrifici personali».
Eppure come tutti i bravi funzionari Lam sa bene che più di tutto contano le priorità del capo, quel Xi Jinping che l’ha scelta e di fronte a cui ha giurato. E tra i pensieri di Xi non c’è di sicuro lo stato di diritto a Hong Kong. Proprio come il marito, matematico conosciuto a Cambridge, e i due figli, anche lei aveva un secondo passaporto inglese, una scialuppa di salvataggio che i locali si tengono ben stretti. Ma ci ha rinunciato per entrare nel "governo" della città. Ora è solo cinese e i cartelli la ritraggono dipinta di rosso, con una falce e un martello gialli attorno agli occhi.
Le chiedono di dimettersi, qualcuno la minaccia addirittura di morte. Sarà lei a trasformare questa città orgogliosa in una delle tante metropoli cinesi? Una volta la cattolica Lam si attribuì una beatitudine biblica: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché loro è il regno dei cieli». Chissà se si sente nel giusto anche oggi che ha mezza Hong Kong contro. O se si è solo ritrovata spalle al muro per una legge tutto sommato inutile, ma appoggiata da Pechino in modo così smaccato che non si può più ritirare. In ogni caso, Carrie Lam non arretra di un millimetro.
https://spogli.blogspot.com/2019/06/repubblica-13.html