sabato 15 giugno 2019

il manifesto 15.6.19
La fine del secolo socialdemocratico
Ritratti. A dieci anni dalla morte, una riflessione sulla figura del sociologo liberale Ralf Dahrendorf che piaceva tanto a Occhetto. La fortuna del pensatore anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un fenomeno legato alla congiuntura dell’89
di Jacopo Rosatelli


In una scena di Mario, Maria e Mario, film che Ettore Scola dedica ai travagli umani e politici dei militanti del Pci di fronte alla svolta della Bolognina, appare un dettaglio rivelatore: uno dei personaggi tiene sul comodino Il conflitto sociale della modernità, libro di Ralf Dahrendorf uscito presso Laterza (suo editore italiano) in quel fatidico ’89.
Scola non aveva scelto a caso: se c’è un intellettuale che accompagna da vicino e ispira i fautori dello scioglimento e trasformazione del più grande partito comunista d’Occidente, è proprio il sociologo liberale, direttore della London School of Economics nel decennio ’74-’84, poi Warden a Oxford, noto in Italia soprattutto attraverso i suoi editoriali su Repubblica. Sarà lui stesso, nei Diari europei (1996), a definire «di simpatia e stretta familiarità» i suoi rapporti con il neonato Pds.
In Dahrendorf, di cui ricorrono il 17 giugno i dieci anni dalla scomparsa, il gruppo dirigente guidato da Achille Occhetto ritiene di trovare gli strumenti teorici per definire il profilo del nuovo «moderno partito riformatore»: dalla classe operaia si passa alla «cittadinanza», dalle contraddizioni economiche alla grammatica dei diritti, dall’alternativa di sistema alla scoperta della democrazia dell’alternanza. Ma non solo.
IL PENSATORE nato nel ’29 nella rossa Amburgo, a fine anni Ottanta cittadino britannico e successivamente membro della camera dei Lord, serve ai fautori della svolta soprattutto perché proclama – proprio lui, figlio di un deputato della Spd perseguitato dal nazismo – la «fine del secolo socialdemocratico»: le principali tradizioni del movimento operaio sono entrambe arrivate al capolinea. E il Pds si propone come un novum che vuole spingersi oltre le identità del passato: non si lascia il comunismo per ricucire lo strappo di Livorno e «ritornare» socialisti, come avrebbero voluto i miglioristi di Giorgio Napolitano, ma per approdare su inesplorati (e fantomatici) lidi di «sinistra democratica».
Si farebbe torto a Dahrendorf, però, se si imputassero a lui le responsabilità della deriva che il Pds e le sue successive trasformazioni avrebbero conosciuto nei tre decenni successivi. La fortuna del sociologo anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un fenomeno legato alla congiuntura dell’Ottantanove, non prosegue oltre. La disponibilità all’ascolto del suo punto di vista viene meno quando, dalla metà degli anni Novanta, il Pds di Massimo D’Alema assume altri numi tutelari, come il cantore della «terza via» Anthony Giddens, intellettuale di riferimento del nuovo corso laburista di Tony Blair e della sua variante tedesca, quella di Gerhard Schröder. Dahrendorf disturba le rappresentazioni apologetiche delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, dell’integrazione europea, del «riformismo» di quello che fu celebrato come «Ulivo mondiale». Mentre nelle due sponde dell’Atlantico la parola d’ordine è liberalizzare, proprio un autentico liberale come Dahrendorf mette in guardia sugli effetti collaterali della sbornia pseudo-innovatrice dei «socialdemocratici».
NEL DECENNIO da Quadrare il cerchio (’95) a La società riaperta (2005), avverte sui rischi connessi all’emergere della nuova «classe globale» che governa l’economia dei flussi, una classe per la quale «è naturale tentare di sfuggire alle istituzioni tradizionali della democrazia», ancorate ai luoghi. Un potere globale che non preoccupa Blair e compagni, che, al contrario, prosperano grazie ai rapporti che con esso intrattengono, infischiandone delle lacerazioni nel tessuto sociale e delle nuove esclusioni. Per affrontare le quali i laburisti della terza via brevettano il workfare (tuttora assai in voga, vedi il cosiddetto reddito di cittadinanza), condizionando l’aiuto a prestazioni «socialmente utili»: una bestemmia per Dahrendorf, perché «l’obbligo del lavoro è, come tutti gli obblighi, un passo verso la non-libertà». Il secondo punto dolente, la crisi delle istituzioni democratiche, alimentata da partiti ormai macchine elettorali al servizio dei leader, prigionieri di un «presentismo» senza orizzonte ideale. E poi l’Unione europea, guardata da Dahrendorf con gli occhi dell’«europeista scettico» (da non confondere con l’euroscettico), «che è allarmato dalla frattura esistente fra le intenzioni e la realtà»: l’edificio comunitario soffre di grave deficit democratico, «il ’nucleo duro’ spaccia i propri interessi per quelli europei», l’economia senza politica (e politiche sociali) rischia di far crollare tutto.
NULLA DI RIVOLUZIONARIO, certo, forse persino «insipido» come ebbe a dire di lui Mario Tronti. Eppure, se nei due decenni della globalizzazione triumphans la sinistra «riformista» italiana (ed europea) avesse continuato a leggere Dahrendorf preferendolo a Giddens, avrebbe forse combinato qualche guaio in meno.
Iinvece di aderireE a narrazioni irenistiche, si sarebbe accorta che persino assumendo un punto di vista liberale si può riconoscere il conflitto sociale come potenziale di progresso di fronte alla «minaccia per la libertà» rappresentata dalla diseguaglianza «insopportabile», «quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati» (Libertà attiva, 2003).
Di fronte alla quale, già a inizio Duemila, il sociologo individua un solo rimedio: «un livello di base delle condizioni di vita, forse un reddito minimo garantito».

Repubblica 159.19
Quei leader di sinistra che hanno dimenticato la fatica dei lavoratori
Milioni di voti perduti anche per la scarsa credibilità dei dirigenti Cofferati: torno alla Pirelli. Poi cambia idea E Chiamparino sceglie Marchionne
di Gad Lerner


«Siamo nati in un mondo senza diritti e tutele: molti di noi non sanno cosa sono». Lo raccontava ieri su Repubblica a Marco Patucchi un ventisettenne meccanico stampista della Omron di Frosinone, somministrato - cioè affittato - da Adecco alla multinazionale per cui lavora. Per la prima volta quel giovane ha partecipato a uno sciopero generale dei metalmeccanici, tutelato da un contratto a tempo indeterminato ottenuto dopo anni di precariato. Forse è un’avvisaglia. La sensazione che la misura è colma, e che il futuro dell’industria italiana non si trova affatto in buone mani, sta spingendo i sindacati a ritrovare l’unità perduta. E chi sciopera non prova certo imbarazzo a farlo contro un governo che pure aveva votato. Magari anche solo per marcare la sua distanza siderale da una sinistra ai suoi occhi sfregiata dal marchio d’infamia del privilegio.
La sinistra senza operai è un controsenso. Storico ed esistenziale. La ragione d’essere originaria della sinistra consisteva nel rimettere in discussione il diritto assoluto alla proprietà privata, in nome e per conto di chi ne era escluso. Da quando i dirigenti della sinistra hanno smesso di minacciare il sacro dogma della proprietà privata, allo scopo di rassicurare i detentori della medesima, nella convinzione che averli contro avrebbe frenato la crescita economica e impedito loro di accedere al governo dello Stato, ha avuto inizio la loro separazione dalle classi subalterne. Per consolarsi di questo divorzio, o per evitare di farci i conti, alcuni leader della sinistra nel passato recente erano giunti a sostenere che gli operai non esistono più. Ma naturalmente è falso: cambiano l’organizzazione delle aziende e cambiano le caratteristiche del lavoro sotto padrone. L’epoca è semmai quella della proletarizzazione diffusa di nuovi soggetti, non certo della scomparsa del lavoro alienato, tuttora afflitto spesso anche da fatica fisica.
La destra che si erge a paladina delle vittime di retrocessione sociale, purché dotate di appartenenza nazionale su base etnica e religiosa, rimane altresì custode gelosa delle gerarchie e, pur agitando vaghe promesse di vendetta contro i parassiti, mai e poi mai farebbe sua un’azione incisiva a danno dei ricchi.
E’ spiacevole farci i conti, ma i milioni di voti popolari perduti dalla sinistra hanno molto a che fare con un’incrinatura di credibilità dei suoi dirigenti. Delle loro biografie. Non a caso la propaganda della destra punta il dito contro l’imborghesimento della sinistra. Non solo in Italia. Prendiamo il caso dei due più grandi dirigenti di origine operaia che sul finire del secolo scorso hanno guidato vittoriose rivoluzioni sociali e di libertà: Inàcio Lula da Silva in Brasile, e Lech Walesa in Polonia. Per demolirne il mito, si sono scatenate campagne di denigrazione personale, accusandoli di avere lucrato sul proprio successo rinnegando le loro origini. E’ l’offesa più grave, perché i proletari hanno bisogno di riconoscersi in chi li guida, a partire dal suo stile di vita, per mantenere la certezza che continuerà ad agire nel loro interesse, nella buona e nella cattiva sorte.
E in Italia? Nel lontano 2002 un segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati, sul finire del suo mandato fece un annuncio clamoroso ed esemplare: torno a lavorare nella mia fabbrica, la Pirelli. Già da un ventennio il mondo del lavoro dipendente viveva una retromarcia sia nel potere d’acquisto dei salari, sia nelle tutele sindacali. Quel gesto da novello Coriolano sembrava indicare, col proprio sacrificio personale, i tempi lunghi necessari per la rivincita operaia. Cofferati era dirigente amatissimo, da molti indicato come la figura più adatta per un progetto di rifondazione della sinistra. Ma ben presto tornò sui suoi passi, accettando la candidatura a sindaco di Bologna. E l’incantesimo si spezzò. Come se non vi fosse più spazio in Italia per il sogno di un leader operaio. Al contrario, fu proprio in quegli stessi anni che l’erede più riconosciuto della tradizione del Pci di Berlinguer, Massimo D’Alema, per risultare candidato credibile alla guida del Paese, ritenne opportuno "aggiornare" la sua immagine di umile funzionario di partito. Tale innovazione gli costò sgradevoli insinuazioni, probabilmente false, sul costo esagerato delle sue scarpe. Ma fu proprio lui, invece, a compiacersi della (multi)proprietà di una barca a vela, status symbol evidentemente ritenuto funzionale ai ruoli pubblici cui aspirava.
Si badi bene. Anche Enrico Berlinguer amava veleggiare, e di lui si conserva una bellissima fotografia al timone di una barca (non sua) nel mare di Sardegna. Ma nessuno avrebbe mai potuto appiccicargliela addosso con finalità ironiche. Semmai la vera foto-simbolo di Berlinguer rimane quella della sua dolorosa condivisione di una sconfitta operaia: il comizio ai cancelli di Mirafiori, nell’autunno 1980, quando ormai si profilava inevitabile l’espulsione dalla Fiat di decine di migliaia di lavoratori. Alle Botteghe Oscure, non pochi dirigenti del Pci disapprovarono il segretario per quel comizio, in cui per giunta evocò un’azione di lotta estrema come l’occupazione della fabbrica. Ma fu proprio un istinto di sinistra a suggerire a Berlinguer che vi sono circostanze in cui, a torto o a ragione, devi saper dire innanzitutto tu da che parte stai.
Avete presente, trent’anni dopo, Matteo Renzi che proclama: «Io sto con Marchionne senza se e senza ma»? Così come il sindaco torinese Chiamparino, tanto aspro e polemico con Landini e Airaudo della Fiom, quanto compiaciuto di raccontare ai giornalisti le sue partite a scopone notturne con Marchionne?
Mi scuso se ricorro a esempi personali per spiegare un fenomeno mai riducibile ai sentimenti e alle convenienze dei singoli (peraltro, l’ultimo a poter lanciare accuse moralistiche sarebbe il sottoscritto). La recisione dei legami storici con il mondo del lavoro, che in precedenza i partiti di sinistra curavano fino al punto di garantire l’ingresso in Parlamento di quadri operai provenienti da tutte le principali aziende del Paese - di modo che la controparte imprenditoriale tenesse ben presente con quale forza doveva fare i conti - precede e giustifica il cambiamento di stili di vita dei dirigenti. Non solo degli ex comunisti, ma anche dei socialisti. Forse non è un caso se più sobri si mantennero i cattolici, detentori di un altro credo messianico.
Comunisti e socialisti, invece, esaurita la fede, marxista e messianica al tempo stesso, nella Classe operaia con la C maiuscola, levatrice del rovesciamento dei rapporti di produzione, oppure virtuosamente disposta ai sacrifici caricandosi sulle spalle l’interesse nazionale, non potevano che trovare molto meno interessanti i destini individuali degli operai in carne ed ossa. Fu allora che gli operai, il popolo delle formiche, di sconfitta in sconfitta, cominciarono a sentirsi soli.
Gli intellettuali non avevano più l’obbligo di rendere omaggio alla centralità operaia; e passava in second’ordine perfino quel rispetto per il lavoro manuale, i mestieri e le professionalità e la fatica fisica, che avevano fatto scrivere pagine memorabili a Italo Calvino e Primo Levi, fra tanti altri.
Una vera e propria ansia di legittimazione assale poi i gruppi dirigenti della sinistra allorquando si fa concreta la prospettiva di accedere finalmente al governo nazionale, dopo le tante ottime prove fornite nell’amministrazione delle città e delle regioni. Bisognava rassicurare i soliti noti vecchi padroni del vapore. Già lo si sapeva che gli ex comunisti non mangiavano i bambini. Di più, ora bisognava mostrare loro, nei convegni e negli incontri riservati, che la modernizzazione proposta dagli economisti di sinistra non avrebbe insidiato le posizioni dominanti cementate nei decenni precedenti, soprattutto intorno a Mediobanca.
Oggi viene facile orchestrare una danza macabra intorno alla sinistra senza operai, con tanti iscritti Cgil che s’illudono di trovare rifugio nella trincea pseudo-nazionalista del "prima gli italiani", e con lo smottamento in zona leghista di Sesto San Giovanni, Monfalcone, Pistoia, Piombino, Ferrara. Capita perfino che a scoprire l’acqua calda - l’infatuazione lib-lab dietro a Blair, la ritirata dalle periferie, i diritti umani e i diritti civili anteposti alla questione salariale - provvedano i medesimi aedi e rapsodi che diffusero con zelo il verbo di quella terza via rampante. Più utile sarebbe fare un passo di lato, riconoscendo il peso delle nostre fortunate biografie, di gente bene inserita nelle stagioni in cui è stata al potere la sinistra senza operai.
Anche mezzo secolo fa, nel 1969, cominciarono a scioperare nuovi operai del tutto ignari di diritti e tutele, come i giovani precari odierni. Venne l’autunno caldo che inaugurò un ciclo vittorioso di conquiste sociali e di redistribuzione della ricchezza a favore del lavoro. La storia suggerisce che, dove e quando meno te l’aspetti, la sinistra popolare sa rigenerarsi esprimendo nuovi rappresentanti. Dalle biografie più adatte.
A Mirafiori Enrico Berlinguer, all’epoca segretario del Pci, davanti ai cancelli della Fiat di Mirafiori. La sua fu una scelta di campo precisa, nonostante molti dubbi nella segreteria del partito.


Repubblica 15.6.19
Veleni renziani contro il segretario ma lui vuole evitare la scissione
di Goffredo De Marchis


ROMA – È tutto un equilibrio sopra la follia perché il Pd è un organismo fragilissimo e Nicola Zingaretti è chiamato a tenerlo unito. I veleni, le rese dei conti, il solito fantasma della scissione possono ucciderlo a dispetto della lieve ripresa delle Europee. Del resto il segretario non fa che ripetere quanto sia delicato l’ecosistema interno: «Se alle primarie fossero andati meno di un milione di votanti io non sarei qua e sarebbe già nato un altro partito». Quello di Matteo Renzi.
Luca Lotti e il segretario si sono sentiti tutti i giorni da una settimana a questa parte, l’ultima anche ieri mattina per lasciarsi, raccontano, in maniera civile. Luigi Zanda, che ieri ha attaccato frontalmente il braccio destro renziano, sostiene che senza il suo ultimatum Lotti non si sarebbe autosospeso. Ma il leader la pensa diversamente: l’ex ministro dello Sport è stato accompagnato a fare un passo di lato grazie alla linea garantista e attendista e non certo con lo strappo che tutti i commentatori chiedevano.
«La posizione non colpevolista ha portato alla soluzione di una vicenda delicata». In cui il potere di cacciare un dirigente non appartiene al segretario ma alla commissione di garanzia. Insomma, la cacciata non è mai stata in discussione.
Il segretario, a differenza dei critici, deve pensare alla sopravvivenza del Partito democratico. E Lotti, fa notare con i suoi collaboratori, è il capo della maggiore corrente di minoranza (200 membri su 1000 all’assemblea nazionale ossia il 20 per cento) e in più controlla 50 parlamentari. Una bella fetta. Rompere fragorosamente avrebbe spaccato il Pd.
Il pericolo non è certo scongiurato. I renziani fanno girare la voce maliziosa dei rapporti tra il segretario, i suoi uomini e Fabrizio Centofanti, il lobbista coinvolto nel caso Palamara per via dei regali offerti al pm. Zingaretti non nega di conoscerlo ma naturalmente respinge tutte le insinuazioni e sicuramente, sottolinea, «non mi sono mai occupato delle nomine alla Procura di Roma». Poi c’è tutto il lavorìo intorno al centro da affiancare al Pd. Pier Ferdinando Casini ha lanciato l’idea di un partito con Renzi, Calenda e la cui front woman dovrebbe essere a sorpresa Mara Carfagna, la principale avversaria della Lega dentro Forza Italia. Un’offensiva vera contro una forza troppo schiacciata a sinistra e non in grado d vincere. E se i volti di questa avventura sono forse consumati, non lo è la Carfagna e lo spazio politico esiste.
Ecco il punto. Il segretario vuole evitare in ogni modo di offrire una sponda ai renziani desiderosi di andarsene, insofferenti per la linea schiacciata a sinistra, in cerca di un posto al sole col timore di non essere ricandidati. Perché la corrente di Lotti che si chiama Base riformista controlla anche tanti pezzi del partito sul territorio.
Lotti, malgrado il gesto dell’autosospensione (che non significa granché visto che non ha incarichi), ha messo nel mirino alcune personalità e sono le più vicine a Zingaretti. La prima è il tesoriere Zanda che ribatte: «Per quella seduta spiritica mi hanno interrogat o due volte in Corte d’assise, hanno scartabellato tutte le carte. La mia coscienza è più che a posto». La seconda è Paolo Gentiloni che l’altra sera ha parlato di comportamento «altamente inopportuno di Lotti». È lo stato maggiore zingarettiano, è la spina dorsale del Pd. Il segretario aveva dato mandato per questi attacchi diretti? Zanda lo aveva informato che avrebbe fatto una dichiarazione e non sarebbe stato tenero. Ma sia il tesoriere sia il presidente sono figure con una loro autonomia. Fin dall’inizio il segretario ha usato quella che molti scambiano per pavidità, invece è non cercare l’ostilità, ovvero non usare «il fucile». «Luca, dobbiamo trovare un esito che sia un bene per te e un bene per il partito. Una linea responsabile. Il contrario di quello che fa la Lega che si trincera dietro l’immunità. Risolviamolo tra noi», è stato il ragionamento dietro la lunga telefonata di ieri mattina. Che si è conclusa con un primo passo del parlamentare dem. Resta il paradosso dell’altro deputato coinvolto nel caos procure Cosimo Ferri. Non si è mai fatto sentire dal segretario e ieri al capogruppo del Pd Graziano Delrio ha detto che non ha «alcuna intenzione » di lasciare la commissione Giustizia della Camera, di cui è membro. Forse in questo caso bisogna essere meno "civili".

Il Fatto 15.6.19
Radio Radicale, dove sono finiti i 300 milioni di fondi pubblici
Il dossier - Composizione e bilanci dell’azienda
di Patrizia De Rubertis


Trecento milioni di euro arrivati quasi sempre a fine anno nelle leggi di Stabilità, nei decreti Milleproroghe o in altri provvedimenti ad hoc hanno permesso a Radio Radicale di svolgere per 25 anni “servizio pubblico”, senza alcun tipo di valutazione (come l’affidamento con una gara) e nonostante sia una radio privata e legata a un partito. Ed è una ricorrente che il salvataggio dell’emittente fondata nel 1976 da Marco Pannella arrivi sempre in extremis grazie a denaro pubblico. Come l’ultima boccata di ossigeno arrivata dall’accordo Lega-Pd che giovedì ha concesso a Radio Radicale altri 3 milioni nel 2019 (e 4 milioni nel 2020). Che si vanno ad aggiungere ai 5 già stanziati per l’anno in corso. Un unicum nel panorama editoriale quello conquistato dall’emittente.
Radio Radicale nasce 43 anni fa, per iniziativa di un gruppo di deputati militanti dell’omonimo partito, e diventa subito il megafono delle battaglie di Marco Pannella, tra cui quella contro il finanziamento pubblico ai partiti. Ma senza quei fondi e a fronte di costi di gestione sempre più alti, sono costretti a chiudere nel luglio 1986. I dirigenti decidono di sospendere tutti i programmi per lasciare la parola agli ascoltatori che tra messaggi di stima e bestemmie la trasformano nell’emittente più ascoltata d’Italia (l’esperimento è stato ripetuto anche nel 1993, sempre per salvarsi dalla chiusura). Ma la svolta arriva nel 1990 con la legge 230 quando si aprono le porte dei contributi pubblici: da allora la radio percepisce ogni anno circa 4 milioni di euro. La secondo svolta è datata 21 novembre 1994: viene firmata la convenzione, approvata con un decreto del ministro delle Telecomunicazioni Giuseppe Tatarella, che da allora eroga alla società Centro di produzioni S.p.a. (ossia Radio Radicale con il suo archivio in via Principe Amedeo a Roma) 10 milioni di euro ogni anno per la trasmissione delle sedute parlamentari. È merito di un bando del governo Berlusconi, che i maligni dicono sia stato cucito su misura (niente musica e zero pubblicità), se la radio – che navigava in cattive acque – si salva di nuovo. I Radicali continuano a essere contrari a dare i soldi dei contribuenti ai partiti, ma da allora la radio ha incassato oltre 300 milioni di euro. Il bando, fatto per decreto, non è stato mai convertito in legge. È stato rinnovato per ben 17 volte, da tutti i governi, con una specie di regime transitorio. Contributi all’editoria e rinnovo della convenzione che hanno permesso di percepire 14 milioni di euro ogni anno.
Chi c’è dietro la radio? Fino alla fine degli anni Novanta l’azionista unico dell’emittente era l’Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella. Poi l’assetto proprietario cambia nel marzo 2000 quando l’imprenditore Marco Podini (già padrone della catena di supermercati A&O e dei discount Md), aderendo all’appello pubblico di Pannella in un altro momento di difficoltà della radio, acquista tramite la Pasubio Spa il 25% di Radio Radicale per 25 miliardi di lire. Emittente finanziata fino ad allora solo da soldi pubblici, e il cui valore totale schizza così a 100 miliardi di lire. Pochi mesi prima la Rai aveva fatto un’offerta per rilevare tutta la società per una ventina di miliardi. Podini annuncia un aumento della sua partecipazione al 50%, che però non avverrà mai. L’imprenditore siede insieme alla sorella Maria Luisa nel cda della società (la quota è passata nel frattempo alla Holding Lillo) ed è anche il presidente della Dedagroup, una società che si occupa di information technology. Così come l’altro gruppo che possiede, la Piteco, una software house italiana quotata in Borsa.
Da allora le quote della società che controlla la radio sono rimaste immutate: all’associazione Pannella, editore dell’emittente, resta il 62,68% e un’altra piccola quota, del 6,17%, è in mano alla commercialista Cecilia Maria Angioletti. Il resto è in mano alla holding finanziaria Lillo attiva nel campo della distribuzione alimentare che fattura 2,3 miliardi di euro l’anno. Nel 2017, ultimo dato aggiornato del bilancio, i ricavi complessivi della radio hanno raggiunto gli 8,3 milioni con un incremento di 21mila euro sull’anno prima, garantiti dagli introiti della convenzione. A cui si aggiungono 4 milioni di contributi dal fondo dell’editoria. Il costo del personale (a Radio Radicale lavorano 52 dipendenti tra cui 20 giornalisti impiegati) è salito a 4 milioni dai 3,8 del 2016 (compresi contributi e Tfr) con il direttore Alessio Falconio e l’ad Paolo Chiarelli che guadagnano poco più di 100mila euro. Utili ce ne sono stati pochi negli ultimi anni, ma non è sempre andata così. Il 2010, per dire, si chiuse con un utile di 168 mila euro, ma il cda deliberò di distribuire un dividendo di 600 mila euro attingendo alle riserve. Negli ultimi 3 anni i conti hanno sempre chiuso in rosso (nel 2017 di 6.500 euro).

Il Fatto 15.6.19
Lotti si autosospende e manda tre “pizzini” ai vertici del Pd
Csm: un’intervista di Zanda, ispirata dal Nazareno, invita il renziano a lasciare. Nel pomeriggio l’ex sottosegretario ne prende atto con un post allusivo su Fb
di Wanda Marra


Mancano pochi minuti alle 16 quando Luca Lotti consegna a un post su Facebook la sua “autosospensione” dal Pd. Una decisione che gli amici si aspettavano, ma nei prossimi giorni, magari in presenza di un’indagine a suo carico, dopo le notizie sul suo ruolo uscite nell’inchiesta di Perugia su Luca Palamara. Invece, l’amico di sempre di Matteo Renzi ha deciso – in totale autonomia, ma non senza consultarsi con l’ex premier, che per la vicenda è arrabbiatissimo con il neo segretario – di cambiare gioco. Troppo pesanti le notizie emerse, ma anche la voglia di trovare una strada di rilancio. Fino ad oggi, si era difeso attaccando, aveva fatto pesare il suo ruolo e il suo passato. Lui era quello che parlava con tutti, per conto dell’ex premier, ma anche di se stesso. Oggi quel capitale di rapporti, di segreti, di connessioni, di favori fatti e ricevuti, di decisioni sulle nomine nei posti chiave, di potere del passato che si riverbera nel presente, decide di farlo pesare in un altro modo.

Si autosospende dal gruppo parlamentare del Pd alla Camera, ma facendolo lancia “pizzini” e minacce, a tutti. Si iscriverà al gruppo misto, ma da lì, attraverso la sua corrente, Br (Base Riformista), cannoneggerà Nicola Zingaretti. O almeno, ci proverà.
“Caro segretario – scrive dunque Lotti – apprendo oggi dai quotidiani che la mia vicenda imbarazzerebbe i vertici del Pd. Il responsabile legale del partito mi chiede esplicitamente di andarmene per aver incontrato alcuni magistrati e fa quasi sorridere che tale richiesta arrivi da un senatore di lungo corso già coinvolto – a cominciare da una celebre seduta spiritica – in pagine buie della storia istituzionale del nostro Paese”. A chiedere il passo indietro, con un’intervista al Corriere della sera, è stato il tesoriere, Luigi Zanda. Previa interlocuzione con il segretario. Al quale Lotti rinfaccia una cosa su tutte: la presunta seduta spiritica del 4 aprile 1978, nella quale alcuni giovani quadri Dc (tra cui Prodi) cercarono di individuare il luogo in cui era detenuto Aldo Moro. Zanda recapitò al capo della polizia, Giuseppe Parlato, l’indicazione emersa dalla seduta con un biglietto autografo non datato. Una vicenda piena di tutte le ombre che hanno caratterizzato il caso Moro.
Il secondo “pizzino” è per lo stesso Zingaretti: “I fatti sono chiari. Tu li conosci meglio di altri anche perché te ne ho parlato in modo franco nei nostri numerosi incontri”. Un modo per tirare dentro il segretario, sostenendo che lui sapeva tutto. E poi, il passaggio che già delinea una strategia politica: “Sono nato e cresciuto come uomo di squadra. Per questo l’interesse della mia comunità, il Pd, viene prima della mia legittima amarezza. Ti comunico dunque la mia autosospensione dal Pd fino a quando questa vicenda non sarà chiarita. Lo faccio non perché qualche moralista senza morale oggi ha chiesto un mio passo indietro. No. Lo faccio per il rispetto e l’affetto che provo verso gli iscritti del Pd”. Ancora: “Continuerò il mio lavoro con tanti amici in Parlamento per dare una mano contro il peggior governo degli ultimi decenni”.
La rivendicazione di un ruolo politico che va avanti: d’altra parte Lotti ha scelto di fondare una corrente con Antonello Giacomelli e Lorenzo Guerini, che controlla la maggioranza dei parlamentari dem. E il suo è un modo per ribadire che darà battaglia dentro al partito. Come? Per arrivare a cosa? La settimana prossima Br farà una serie di riunioni, proprio per stabilirlo. C’è già un appuntamento, dal 5 al 7 luglio a Montecatini. In quell’occasione le mosse saranno chiare. La guerra alla segreteria pare già decisa, però. Nel frattempo, uno dopo l’altro, escono tutti i parlamentari della corrente, in difesa del loro leader. Un avvertimento preventivo a Zingaretti. “Gli arriverà un messaggio forte”, dicono i vicinissimi. La conclusione del post di Fb è di quelle che potrebbero investire chiunque, a partire da Zingaretti per i rapporti con Palamara e dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che avrebbe manovrato per portare a capo della Procura di Napoli Giovanni Melillo: “Quanti miei colleghi, durante l’azione del nostro Governo e dopo, si sono occupati delle carriere dei magistrati? Davvero si vuol far credere che la nomina dei capiufficio dipenda da un parlamentare semplice e non da un complicato quanto discutibile gioco di correnti della magistratura?”. Finale con citazione di Enzo Tortora: “Io sono innocente. E spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa di tutto, senza conoscere niente”.
La risposta di Zingaretti non si fa attendere: “Ringrazio Luca Lotti per un gesto non scontato che considero di grande responsabilità nei confronti della politica, delle istituzioni e del Pd. Sono consapevole della difficoltà umana di questi giorni, ma ciascuno di noi ha una responsabilità alta nei confronti della nostra comunità e verso il Paese”. Formalmente non lo scarica, di fatto ha lavorato per farlo. Ma neanche adesso si può permettere di andare fino in fondo.

Il Fatto 15.6.19
“Il segretario dem doveva muoversi prima e dire no agli intrallazzatori”
Massimo Cacciari - “Sono mancate del tutto una visione e una posizione forte”
di Lorenzo Giarelli


“Con questa faccenda siamo tornati ai livelli di Berlusconi”. Luca Lotti si autosospende dal Pd, eppure il suo è un passo indietro che porta con sé rancori e accuse, tra attacchi ai compagni di partito (“Zanda è coinvolto in pagine buie della storie repubblicana”, ha detto l’ex ministro) e una rivendicata estraneità ai fatti (“Io sono innocente, spero di cuore che lo sia anche chi mi accusa”). E così Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, non nasconde il disappunto per una vicenda che doveva chiudersi ben prima e che ora, dopo settimane di tentennamenti della segreteria e novità giudiziarie, ricorda persino i modi e il linguaggio del leader di Forza Italia.
Professor Cacciari, Lotti si è autosospeso dal partito. È una mossa tardiva?
Lotti ha fatto quel che doveva, ma il punto è che a questa mossa non saremmo neanche dovuti arrivare, perché serviva ben prima una presa di posizione forte da parte di Zingaretti.
Secondo lei il segretario del Pd non si è esposto abbastanza contro l’ex ministro?
Ricordo che Zingaretti ha condotto tutta la campagna elettorale per le ultime primarie celebrando una discontinuità rispetto alla leadership di Matteo Renzi. Ma allora sarebbe stato logico, oltre che utile dal punto di vista politico, che un segretario coerente dicesse chiaro e tondo che quanto è successo tra Lotti, Ferri e il Csm è incompatibile con la nuova linea che il Pd intende assumere, ammesso che a questo punto intenda assumerla.
Dunque questa autosospensione non cambia le cose?
Rimane intatto il fatto politico. Zingaretti doveva esser chiaro nel dire che nel nuovo Pd gli intrallazzatori non sono più ammessi. Lotti ha fatto un gesto doveroso, ma era Zingaretti a doversi esprimere, a dare una visione in prospettiva, al di là della singola vicenda.
Lotti però si professa innocente.
La valutazione politica prescinde dalla questione penale. Nel Pd non può esserci posto per personaggi che intrallazzano in questo modo su nomine della magistratura, della Rai o di qualunque altro posto.
Lotti, nella sua difesa, accusa Zanda di esser coinvolto nella famosa seduta spiritica in cui uscì il nome di via Gradoli, durante il sequestro di Aldo Moro. Piuttosto indicativo dei rapporti interni al partito, non trova?
Nel Partito democratico è bene che ognuno parli per se stesso, perché nessuno ha la lingua abbastanza lunga per poter accusare il prossimo di alcunché. Il 90 per cento del partito è corresponsabile di quegli errori sciagurati che hanno portato alla catastrofe renziana degli ultimi anni, una leadership che ha preso una situazione certamente già in difficoltà ma l’ha portata alla definitiva dissoluzione, sia a livello elettorale sia come partito. E Lotti ovviamente è coinvolto in questa storia.
È mancato uno strappo deciso con quella stagione?
Senza dubbio fin da subito doveva esserci più coraggio e franchezza, almeno nella vicenda tra Lotti e il Csm.
Oltre a dichiarare la propria innocenza, Lotti allude al fatto che chi lo accusa possa essere in malafede.
Mi sembra di essere tornati a quel che diceva Berlusconi.
In che senso?
Quando scoppiarono gli scandali per le feste a Arcore, Berlusconi si giustificava chiedendo che cosa ci fosse di male se a casa sua andava a puttane. Nulla, certo, ma era un po’ strano che lo facesse un presidente del Consiglio, o era normale anche questo? E allora che cosa c’entra la questione penale in questo discorso? Quella sarà competenza dei giudici, io mi occupo di politica, non di processi. Sono cose dell’altro mondo: c’è una totale confusione tra la rilevanza politica e quella giudiziaria. Siamo all’assenza dei fondamentali.

Il Fatto 15.6.19
Petros Markaris
“Il movente dei miei killer è la crisi economica”
di Fabrizio d’Esposito


Col magnifico pretesto del giallo, il greco Petros Markaris è diventato a 82 anni uno dei più grandi narratori delle crisi finanziarie ed economiche che hanno devastato l’Europa negli ultimi lustri.
Lei ormai è l’inventore del giallo anti-troika, contro la tecnocrazia dell’Unione Europea. Dopo L’università del crimine, è Il tempo dell’ipocrisia. Nuovi omicidi che conducono alle imposizioni dell’Ue.
Il problema non sono solo le linee guida dell’Unione Europea, ma soprattutto una realtà che è stata imposta alle persone dalla globalizzazione e dal sistema finanziario. Nel passato la crescita era legata alla distribuzione della ricchezza. Non sto dicendo che tutti avevano la stessa fetta, ma che ognuno aveva il diritto di partecipare alla spartizione. Ora abbiamo sostituito le cifre alle persone. Ci dicono che se i numeri vanno bene, allora anche le persone staranno bene. Questa è ipocrisia, perché il 10% ottiene il 90% della ricchezza e il 90% solo il 10%.
E questo della ricchezza è il movente di uno degli omicidi. Non crede però che l’ipocrisia sia un sentimento inestirpabile, soprattutto in politica?
L’ipocrisia è sempre stata parte della natura umana e delle nostre società. E ha anche avuto una grande importanza nella politica. La differenza tra passato e presente è che una volta combattevamo contro l’ipocrisia, in modo particolare nella politica. Adesso siamo indifesi e, ancora peggio, alcune persone accettano l’ipocrisia come una scintilla di speranza. La crescita dell’estrema destra ne è la prova.
Dal Pil al numero degli occupati e alle banche: nei suoi ultimi libri lei dà lezioni di economia.
La decisione di studiare economia viene da mio padre. Io odiavo l’economia, ma quando cresci nella Istanbul degli anni ’50 all’interno di una minoranza, è tuo padre colui che prende le decisioni. Così sono andato a Vienna a studiare economia. Non ho mai terminato gli studi e non sono mai diventato un dirigente di banca o un manager. Ma ho acquisito competenze sufficienti per capire cosa sta accadendo nel mondo della finanza e utilizzarlo nei miei romanzi.
Gli omicidi sono rivendicati da terroristi che si firmano come l’Esercito degli Idioti Nazionali. L’idiota è colui che viene raggirato dall’ipocrisia del potere?
Nel romanzo questo è causa di un gran mal di testa per la polizia e per l’antiterrorismo. Non si trovano da nessuna parte nel mondo dei terroristi che si definiscono idioti. Potrebbe dipendere dal fatto che si ritengono vittime, oppure dal fatto che credono che la nostra società attuale produca un esercito regolare di idioti nazionali. Il lettore conoscerà la verità solo alla fine del romanzo.
Il rischio è che il lettore simpatizzi per gli assassini. Non è pericoloso?
La grande innovazione nei gialli contemporanei riguarda il cambio della domanda principale. L’enigma non è più “chi” (il killer) come nei tradizionali gialli inglesi, ma “perché”. Perché quest’uomo o questa donna hanno superato i loro limiti e sono diventati degli assassini? La domanda è collegata direttamente alla società, alla politica e all’economia e conduce a due ulteriori questioni: fino a che punto l’assassino è esso stesso una vittima? Fino a che punto la vittima è a sua volta colpevole? Questa è la domanda cruciale nei miei romanzi.
Le idee di giustizia sociale hanno animato in passato altre sigle terroristiche, in Grecia come in Italia.
Però i terroristi non possono cambiare la società. Al contrario, le persone hanno paura del terrorismo, quindi per reazione si attaccano al principio della legge e dell’ordine, il che significa che si riavvicinano al sistema e allo status quo.
Non pensa che alla destra sovranista di Salvini e Le Pen potrebbe piacere il suo giallo?
Non m’interessa se gli piace o no il mio romanzo. Se iniziassi a chiedermi a chi piacerà o chi userà nel modo sbagliato i miei libri smetterei di fare lo scrittore. Sono uno scrittore politicamente impegnato, ma non sono un politico. Molti autori credono, al principio della loro carriera, che con i loro scritti cambieranno il mondo. È un’illusione. Gli scrittori non possono cambiare il mondo. La loro capacità dev’essere quella di scrivere storie che aiutino il lettore a farsi le giuste domande e a pensare un passo avanti.
Dopo un anno i gialloverdi italiani hanno fatto già la fine Tsipras in Grecia? Anche loro realisti, soprattutto i Cinque Stelle?
Beh, questo è il problema principale dei partiti che promettono ai loro elettori che cambieranno l’Unione europea. Alcune di queste promesse sono state fatte per inesperienza ma la maggior parte sono solo opportunistiche. Quando Tsipras e il suo partito cominciarono a dire che avrebbero cambiato l’Europa molti elettori ci credettero e iniziarono a votare per loro. Solo in pochi hanno continuato a chiedersi come un Paese come la Grecia, con un enorme debito pubblico, avrebbe potuto cambiare l’Europa. Qualunque Paese voglia cambiare l’Europa ha bisogno di alleati e alleanze. Non esiste un Paese che farebbe un’alleanza con un perdente. Tsipras l’ha capito dopo il referendum e si è adeguato. I Cinque Stelle stanno affrontando la stessa, dura, realtà.
È così difficile contrastare l’attuale Unione europea, anche dopo le elezioni di maggio?
Credo che i partiti del sistema possano ancora mettere insieme una maggioranza con l’aiuto dei Verdi. Comunque il problema in Europa è proprio il declino dei partiti di sistema. Molti europei, soprattutto le classi medie, sono profondamente delusi dai partiti di sistema. Questa è la ragione principale della crescita delle destre in molti Paesi europei. Non tutti quelli che votano per l’estrema destra hanno ideologie di estrema destra o fasciste. Sono disperati e non esistono al mondo persone disperate che riescano ad avere la mente lucida.
Nel Tempo dell’ipocrisia due novità cambiano la vita del commissario Charitos: diventa nonno e ha la promozione mai avuta. Lunga vita a Charitos e a Markaris!
Nel Tempo dell’ipocrisia avevo bisogno di dare un po’ di speranza a un uomo onesto: ho dato a Charitos quel che meritava da tempo. Grazie per gli auguri.

Repubblica 15.6.19
Cucchi, la perizia che chiude il caso "Senza botte non sarebbe morto"
I periti del gip: "Se non ci fosse stata la frattura sacrale non sarebbe finito in ospedale". Ilaria: "Dimostrato il legame tra lesione e decesso"
di Francesco Salvatore


ROMA — Cade anche l’ultimo ostacolo sulla strada per determinare se la morte di Stefano Cucchi sia un omicidio preterintenzionale. Ovvero il legame tra le botte date dai carabinieri che lo hanno aggredito in caserma il 15 ottobre del 2009 e il suo decesso, avvenuto sette giorni dopo all’ospedale Pertini di Roma. A raccontare ieri nel processo in Corte d’Assise a Roma, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, che il continuum tra le lesioni e la morte di Cucchi sia un’ipotesi fondata è stato uno dei periti incaricati di scandagliare ogni aspetto della morte del geometra: «Se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente non sarebbe morto», la spiegazione del professor Francesco Introna, medico legale del policlinico di Bari.
Poche parole, mai pronunciate in aula in dieci anni di processi, che per la prima volta permettono di legittimare l’ipotesi da sempre formulata dal pm Giovanni Musarò, ovvero che Cucchi è morto per gli esiti letali del pestaggio che subì la notte del suo arresto: omicidio preterintenzionale, la traduzione da codice penale. «Nessuno può avere certezze — ha specificato Introna — se non ci fosse stata la lesione s4 (in una delle vertebre ndr ) il soggetto non sarebbe stato ospedalizzato. Cucchi era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per la frattura. Se non fosse stato in questa condizione, non avrebbe avuto una vescica atonica, ma avrebbe avuto probabilmente lo stimolo alla diuresi. Dunque se non avesse avuto la frattura, Cucchi non sarebbe stato ospedalizzato e probabilmente la morte non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un altro momento». Una serie di concause, quindi. Che secondo il medico prescindono da quei calci e pugni.
Introna fa parte dei periti nominati dal gip nell’ambito dell’incidente probatorio nell’inchiesta bis sul caso Cucchi. La sua dichiarazione, dunque, nell’aula del tribunale — dove si formano le prove per stabilire la sentenza penale — potrebbe essere determinante. «Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto», ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, al termine dell’udienza. Gli ha fatto eco l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi: «Ora nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria».
Di diverso avviso l’avvocato Alessandra De Benedictis, legale di uno dei carabinieri imputati: «I periti hanno sottolineato oggi che la lesione del nervo vescicale, che determina lo stimolo ad urinare, ha scatenato il nervo vagale. Il problema è il rigonfiamento della vescica causata dal catetere non funzionante. Se in ospedale il catetere avesse fatto il suo dovere la vescica si sarebbe svuotata. Certo non possiamo essere accusati di omicidio preterintenzionale per un catetere non funzionante ».

La Stampa 15.6.19
Fausto Amodei
“In Italia nessuno dice più pane al pane, vino al vino”
di Marinella Venegoni


Un bel gruzzolo di scrittori e architetti, avvocati e poeti, etnomusicologi, giornalisti e letterati. Un combo torinese. Vivevano del loro lavoro ma coltivavano con tenacia la passione per la canzone sociale, che volteggiava per metafore o faceva le pulci in musica ad Andreotti e Fanfani cantandone le malefatte. Cantacronache nacque come contraltare ostinato alla canzone stupidina che si era andata affermando soprattutto a Sanremo, dove le mamme del mondo erano tutte belle. Qui, invece, si badava ai contenuti più che alla musica. Attivo fra il 1957 e il 1963, il gruppo si era riempito di personaggi eterogenei come Italo Calvino, Franco Fortini, Sergio Liberovici, Emilio Jona, Michele Straniero, Margot, Fausto Amodei; tutti scrutati dall’occhio affettuoso e complice di Umberto Eco.
Da loro finirono per discendere anni dopo i cantautori, e se De André si ispirò apertamente alla pacifista Dove vola l’avvoltoio di Calvino per la Guerra di Piero, Francesco Guccini confessò poi non a caso di esser stato influenzato da Fausto Amodei, che fra tutti appare ancora il più moderno, il più vicino alla canzone d’autore che noi conosciamo. Un fulmine, Amodei, nel catturare situazioni in atto e farne musica. Pensiamo soltanto a Per i morti di Reggio Emilia, la più famosa delle sue, scritta dopo l’uccisione di 5 manifestanti nel 1960: roba che se qualcuno mai la intonasse oggi in una scuola, passerebbe guai seri.
Otto album sono usciti da qualche giorno, vinili dei ‘60 e ‘70 trasformati per la prima volta in Cd rimasterizzati, a cura della benemerita collana «Dischi del Sole» di Toni Verona, destinata a preservare la memoria storica oggi così poco di moda. Spicca L’ultima crociata di Fausto Amodei, il cantautore ante-litteram, che nel 1974 mentre infuriava la campagna del referendum sul divorzio del 12 maggio, scrisse pepate canzoni sul tema e sulla situazione politica, poi confluite in questo album.
«In parte avevo sbagliato bersaglio perché me la prendevo con Andreotti invece che con Fanfani» dice adesso Amodei, che a 84 anni resta un signore acuto, pacato e assai ironico. Architetto, fu anche deputato fra il ‘68 e il’72 occupandosi del regime dei suoli, senza mai perdere di vista la chitarra che aveva sempre pronta: «Nel ‘62 Cantacronache si aggregò al Nuovo Canzoniere Italiano, fino a fine ‘70, e lavoravo con loro. A un certo punto, con gli anni di piombo, mi sono ritirato non perché mi sentissi disarmato, ma perché tutti questi gruppi musicali non facevano belle canzoni. Ho interrotto al momento dei nouveaux philosophes, subodoravo che potesse venir fuori qualcosa di brutto come successe. L’estrema sinistra mi accusava di revisionismo, scrissi: Io che son revisionista. Il testo diceva tra l’altro: «...C’è un’accusa che mi coglie un poco alla sprovvista/per cui il comunismo mio val niente/Perché non sono un anticomunista».
Per un po’ non ha tenuto più concerti; «Mi sono occupato di Angelo Brofferio e del mio grande Brassens. L’ho anche conosciuto, lui, dopo un concerto a Parigi: ma eravamo due timidi e abbiamo parlato poco».
Voi Cantacronache siete stati i padri dei cantautori... «Abbiamo aperto sulla strada degli chansonnier francesi. Io picchiavo su Brassens, Liberovici invece, si ispirava a Kurt Weill e allo yiddish». Quando ascolta ciò che si suona in questi anni, cosa pensa? «Noi si cantava con i microfoni quando andava bene, adesso come minimo ci sono i fuochi d’artificio. Quel che mi manca è la miseria musicale, ora tutto è sovrastato da echi e batteria. Giocano su 3-4 note, e non sanno che là fuori c’è un mondo. Buttano delle possibilità piacevoli».
Amodei dice di non suonare né cantare almeno da 7 anni: «Quel che continuo a fare sono altre traduzioni di Brassens, che vengono raccolte dalla barese Mirella Conenna. È rimasto comunista? «No. Bisogna prender atto che il socialismo reale ha dato esempi poco luminosi. Lo sarei se ci fosse un partito alla Berlinguer».
Oggi non si scrivono canzoni che risveglino la coscienza, come faceva lei... «Oggi si usano metafore e perifrasi. A dire pane al pane e vino al vino, sono rimasti i fascisti».


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