martedì 11 giugno 2019

“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese.
“Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”
Il Fatto 11.6.19
“Caro compagno”, l’anima di Berlinguer in una lettera
35 anni fa moriva l’uomo della “questione morale”. Il militante e il carteggio con il segretario: “Una persona di un’umiltà straordinaria”
di Tommaso Rodano


Sostiene il compagno Sergio Fazi che Enrico Berlinguer “l’hanno fatto morì accorato”, col cuore gonfio di amarezza, “per colpa della questione morale”. Sostiene Sergio che il segretario del Pci era amato dalla gente, ma nel partito c’erano troppi dirigenti con un’idea della politica meschina, lontana dalla sua (Sergio fa i nomi, ma questa è un’altra storia).
Berlinguer è morto esattamente 35 anni fa, l’11 giugno 1984: si è spento a Padova quattro giorni dopo l’ultimo comizio, quando un malore lo colse sul palco e lo costrinse a uno sforzo disperato e struggente per arrivare alla fine del discorso. Bisogna rivedere quel filmato: la figura austera, il linguaggio rigoroso e complesso. Sembrano passati due secoli, più che 35 anni.
Eppure quella figura rimane. “Berlinguer ti voglio bene” è il titolo di un film di Giuseppe Bertolucci con Roberto Benigni ma pure, ancora, un sentimento collettivo. Per capire come sia possibile questa memoria ostinata e questo affetto quasi irrazionale per un uomo di partito, bisogna parlare con le persone che riannodano quotidianamente i fili di quei ricordi.
Come Sergio Fazi, appunto. Classe 1946, romano dell’Appio Latino, tessera del Pci dal 1962, segretario di circolo per tanti anni e figura di riferimento nel quartiere da sempre. Indossa una maglietta rossa, siede su una panchina e stringe in mano un foglio, la fotocopia di un documento dattiloscritto. “Ora vi spiego chi era Berliguer”, dice.
“Questa lettera è del 24 marzo 1981, ha la sua firma. Lui, il segretario del Partito comunista italiano, aveva trovato il tempo per ringraziare me, che ero un compagno qualsiasi”. La storia è questa: “Io gli mandai una missiva perché sapevo che sarebbe stato ospite di una tribuna politica e gli volevo dare un consiglio: sicuramente i giornalisti proveranno a metterti alle strette sui rapporti del Pci con l’Unione Sovietica, tu invece parlagli dei problemi concreti della gente. Non sapevo se l’avrebbe mai letta e non pensavo certo che avrebbe risposto”. Invece andò proprio così, Berlinguer iniziò quella trasmissione raccontando la storia di un pensionato in difficoltà e portò il dibattito sul terreno che gli stava a cuore. Dopo qualche giorno, nella piccola sezione del Pci dell’Appio Latino si presentò una collaboratrice del segretario che portava in mano una busta. Sergio Fazi non poteva crederci. C’era scritto questo: “Caro compagno, durante la conferenza stampa alla televisione ho tenuto sul tavolo la tua lettera, pronto a leggerne un passo nel caso che il primo giro di domande dei giornalisti avesse riguardato solo questioni internazionali e di politica generale. Come avrai visto, questa volta vi sono state diverse domande che mi hanno consentito di trattare alcuni problemi di largo interesse popolare. Ti ringrazio per la tua lettera e i tuoi consigli, in ogni caso utili. Fraterni saluti”. E la firma a penna: Enrico Berlinguer.
Sergio ha ancora gli occhi lucidi. “Questo era l’uomo. Di un’umiltà che oggi non si può nemmeno immaginare”. E questo era il Pci: “Un partito che parlava alle persone, stava in mezzo alla gente, in mezzo alle strade”. Si scioglie in un flusso di ricordi. Racconta di quando da ragazzo portava l’Unità ai baraccati del “borghetto Latino”, un gruppo di tre o quattrocento famiglie che viveva ai margini del parco della Caffarella, dentro abitazioni che erano scatole di lamiere. Il Pci trovò loro una casa vera, guidando l’occupazione di un grande palazzo disabitato dietro la basilica di Santa Maria Maggiore, in piazza dell’Esquilino. Sergio c’era.
“La domenica mattina – dice – in mezzo alle baracche ci stavamo noi con il giornale e la suora con il crocifisso e la campanella”. Due chiese. La sua vita è un piccolo saggio nel grande racconto collettivo del Pci: la prima tessera a 16 anni (“Mia madre, avvertita dal prete di quartiere, me la strappò: ero il primo comunista della famiglia”), poi il lavoro da tipografo nella stamperia dell’Unità e del Paese Sera.
Le figure per lui coincidono, Berlinguer era il partito, il partito era la politica, la politica era il rapporto con gli altri: “Ti svegliavi e sapevi che dovevi cambiare la società”. Ricorda quel segretario, quell’uomo buono, e piange ancora, sulla panchina di piazza Scipione Ammirato, vicina alla vecchia sezione. Cita le parole finali di uno dei comizi di San Giovanni che “ancora mi danno i brividi come allora”: “Compagni, tornate nei quartieri e nelle case, portate la voce del partito comunista”. E poi racconta i lucciconi che rigavano le guance a tutti, il giorno di quei funerali monumentali che hanno bloccato la città e fermato il tempo, il 13 giugno 1984.
Il racconto di Sergio Fazi è spezzato come l’eredità di quella storia. Ci sono anche le amarezze, la perdita del lavoro in tipografia e poi il congedo dal partito: “Non ero un nostalgico, né un gruppettaro, un radicale. Per me potevamo pure cambiare nome ma non dovevano tagliare le nostre radici”.
Quello che rimane della lezione di Berlinguer suona nelle parole che vuole consegnare ai nipotini: “Non vivete in pantofole, ribellatevi alle ingiustizie”. E nell’abbraccio alla moglie, il giorno che decise di non rinnovare più la tessera: “Non siamo riusciti a fare il socialismo in Italia, facciamolo a casa nostra, volemose bene”.

Il Fatto Quotidiano 11.6.19
L’ultimo comizio

Folena: “La Rai evitò la diffusione di quel filmato sconvolgente”
Pietro Folena è stato dirigente e parlamentare del Pci e dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità. Su Facebook ha ricordato l’ultimo comizio di Enrico Berlinguer a Padova (l’aneddoto è contenuto anche nel suo libro I ragazzi di Berlinguer). “Per anni mi ero rifiutato di raccontarlo, quel giorno. Mi sembrava una cosa di cattivo gusto. E soprattutto (…) avevo sognato troppe volte il rantolo del coma, l’uomo moribondo sulla lettiga (…). Quelle immagini del malore durante il comizio erano il frutto totalmente involontario e inaspettato di un primo tentativo (…) di modernizzare il comizio, di farne un evento spettacolare. E così avevamo noleggiato un sistema di riprese e di videoproiezione da un privato, che aveva fornito anche l’operatore. Dopo il malore (…) ci tornò un po’ tardivamente in mente – a noi che stando sul palco dietro a Berlinguer non avevamo visto la diretta della sofferenza sul maxi-schermo – che esisteva una cassetta. Cercammo l’operatore. Era scomparso. La cassetta stava per finire sul mercato. Qualche ora dopo quelle immagini potevano già essere sui teleschermi di mezzo mondo. Tramite la Direzione del Pci facemmo intervenire la Rai, che si assicurò i diritti di quelle sconvolgenti riprese”.

Repubblica 11.6.19
Intervista a Bianca Berlinguer
“Ogni giorno mi chiedo che cosa penserebbe papà Enrico”
di Simonetta Fiori


A 35 anni dalla morte del leader del Pci, Bianca Berlinguer ricorda “la sua lezione ancora viva”. E dice: “Non voleva che lo pensassero triste, non lo era”
Ancora oggi non credo di essere riuscita a elaborare completamente il mio lutto». È un momento di pausa a Saxa Rubra, Bianca Berlinguer ha appena fissato la scaletta del suo programma. Chiusa la porta della stanza, perde quel tratto imperioso in cui si rifugiano molto spesso le donne pubbliche per difendersi dal mondo. Sono passati 35 anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer, l’11 giugno 1984, e lei parla del padre con un’emozione intatta, come se quella drammatica pellicola impressa nei ricordi di molti di noi – il malore sul palco di Padova, l’agonia, il funerale in piazza San Giovanni – fosse stata girata ieri.
Perché dici che non hai elaborato il lutto?
«Sento ancora un dolore vivo e profondo, come se una parte di me non si fosse mai rassegnata a quella perdita e a quella assenza».
Non è cambiato nulla in questi anni nel tuo modo di rapportarti a lui?
«Non direi. La sua morte è stata così improvvisa e inaspettata e io ero così giovane che ho faticato a elaborare un rapporto maturo con la sua figura. E poi forse ha inciso anche un altro aspetto».
Quale?
«A me e ai mie fratelli fu sottratta quella intimità che accompagna gli ultimi momenti di vita di un padre e di una madre. Fin dal malore sul palco di Padova, la grande macchina del Pci e la diffusa emozione popolare finirono involontariamente e per troppo amore col sottrarci una parte del nostro dolore rendendolo così condiviso e così pubblico».
Ne parli come se ancora ti toccasse.
«E come potrei mai dimenticare quei giorni? Ci furono di grande conforto il presidente Pertini e i pugni chiusi e i segni della croce di tantissime persone al passaggio della bara. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, continuo a percepire affetto e dolore per la sua perdita».
Come spieghi questo rimpianto così vivo?
«Forse perché mio padre è stato capace di rappresentare la speranza di un cambiamento: il Pci ha incarnato questo progetto per molta parte del nostro paese. Allora il leader era una figura mai separata dal suo partito. Ed esisteva una forte identificazione tra il segretario e il militante perché le loro vite erano simili: passione, lotte e sacrifici. E di dedizione a quell’idea».
So che non ti vuoi spingere al paragone con l’oggi.
«È impossibile. Tutto è cambiato, a cominciare dalla divisione del mondo in due blocchi. Poi mi ha sempre dato fastidio questo strattonarlo da una parte o dall’altra per immaginare che cosa avrebbe detto rispetto all’attualità. Non voglio farlo io».
C’è qualcosa che ti disturba nella memoria pubblica di Enrico Berlinguer?
«Ci sono aspetti rimasti nell’ombra, come l’ amore per il suo Paese e le istituzioni democratiche. Non è un suo tratto peculiare, ma proprio di gran parte della sua generazione che coltivava un fortissimo senso dello Stato, a prescindere dalle appartenenze partitiche. Mio padre era un comunista italiano. E negli anni difficili del terrorismo e delle stragi l’interesse nazionale veniva prima anche dello stesso interesse del Pci».
Il feretro era avvolto in una bandiera italiana.
«Sì, così lo accompagnammo nel viaggio dall’ospedale di Padova fino all’aeroporto dove ci imbarcammo sull’aereo del presidente Pertini.
Quando arrivammo la sera tardi a Ciampino, mamma si accorse che c’era solo la bandiera rossa. E allora chiese che ci fosse anche il tricolore.
Enrico, disse, era prima di tutto un uomo che amava il suo paese».
Fu criticato perché ci mise tanto a fare lo strappo dall’Urss.
«Lo fece quando era sicuro di portarsi dietro tutto il partito. Ma in realtà il suo distacco era maturato da tempo. Già nel 1977 a Mosca il suo discorso sul valore universale della democrazia venne accolto da una reazione glaciale. E nel 1973 c’era stato il gravissimo incidente stradale in Bulgaria: lui era convinto che si fosse trattato di un attentato».
Anche in famiglia non avvertivi un sentimento di vicinanza all’Urss.
«Tutt’altro. Ricordo quando arrivammo a Jalta in nave, nel nostro unico viaggio in Unione Sovietica: guardando verso la banchina papà diceva: “Poveri noi, ecco Ponomariov (un altissimo dirigente del Pcus), ecco Smirnov” (un importante funzionario). Era il 1979 e sapeva di essere un sorvegliato speciale».
Cos’altro non approvi della sua immagine pubblica?
«La tendenza a leggere la questione morale come espressione della diversità antropologica dei comunisti. In quella celebre intervista a Scalfari mio padre denunciò l’occupazione della società e dello Stato da parte dei partiti, anticipando quello che sarebbe poi accaduto, ossia la sfiducia dei cittadini nella politica. Non l’ho mai sentito parlare di superiorità morale dei comunisti».
Il suo tratto caratteriale non ammetteva nessuna supponenza.
«Era un uomo sobrio, ma anche tormentato, che si faceva tante domande. Sentiva il peso di guidare il maggior partito comunista dell’Occidente».
Era timido?
«Sì».
E quando Benigni lo prese in braccio?
«Ero con lui al Pincio. “Ma papà che gli hai detto quando ti ha sollevato?”. “Piano, piano”. Era preoccupato dalla paura di cadere con lui. Però era contento. Benigni gli piaceva molto».
C’è un suo gesto in particolare che ti manca?
«Le tante cose fatte insieme. Ora capisco di più il valore di certe sue attenzioni, quando durante una campagna elettorale difficile o un congresso del Pci lo costringevo, stanco com’era, a preparare con me l’interrogazione di filosofia del giorno dopo».
Cosa gli procurava dispiacere?
«Il fatto di essere considerato triste e serioso. Papà non lo era affatto. Anzi era anche un po’ naif, capace di iniziative imprevedibili, come se volesse recuperare qualcosa che nell’infanzia gli era stata negata. La morte precoce della madre aveva segnato profondamente la sua vita.
Da qui anche il tratto di riservatezza e pudore verso i propri sentimenti.
Ma con noi figli ritrovava quella giocosità forse mai vissuta pienamente da bambino».
L’ultima volta che hai pensato: cosa avrebbe detto o fatto?
«Sempre, Anche ieri».
Ti capita di chiedergli ancora l’approvazione e temere di non averla?
«L’ho fatto per tutta la vita e continuerò a farlo. Ma credo che sia una prerogativa di tutti i figli rispetto ai propri genitori, soprattutto se sono mancati presto».

Corriere 11.6.19
Culture politiche
Così il pd è rimasto solo
di Antonio Polito


Sui giornali scriviamo ancora «centrosinistra». Di solito per dire che «ha perso», talvolta che «ha tenuto», di recente perfino per annunciarne qui e là la «ripresa». Ma che cosa è il «centrosinistra»? A che cosa ci si riferisce con questo nome? Alle elezioni europee del maggio scorso solo un partito tra tutti quelli riconducibili al centrosinistra ha superato il quorum: il Pd di Zingaretti. Nel centrodestra sono stati tre. Anche alle Europee di cinque anni fa il Pd fu solo, ma allora prese il 40,8 per cento dei voti, mentre oggi ha il 22,7. La vasta e frammentata area elettorale che ruotava nel passato intorno a quel partito è stata dunque prima risucchiata e poi prosciugata. Il risultato è che oggi non c’è più un centrosinistra. Intorno alla guarnigione asserragliata del Pd c’è il deserto dei tartari; e se proprio vogliamo insistere nella metafora del romanzo di Buzzati, i tartari sono le orde leghiste che da un momento all’altro potrebbero dare l’assalto alla Fortezza Bastiani, l’Emilia rossa. Ecco perché anche un buon risultato elettorale del Pd, quale sicuramente è stato scavalcare i Cinquestelle alle Europee, resta sempre una vittoria di Pirro. Non rende più facile fare l’opposizione(grida vendetta il voto favorevole dei parlamentari democratici, in evidente stato confusionale, alla proposta dei mini-Bot); né prefigura una maggioranza di governo, perché in tempi di proporzionale neanche una buona performance del Pd alle prossime elezioni potrebbe rompere la sua solitudine, e anzi rischierebbe di aggravarla.
Ogni ipotesi di schieramento alternativo al populismo e alla destra soffre infatti della scomparsa nel nostro Paese, o del ridimensionamento fino all’irrilevanza, di tre grandi culture politiche che nel passato italiano e nel presente europeo hanno svolto e svolgono invece un importante ruolo di tessuto connettivo del sistema: l’ambientalismo, il liberalismo e il solidarismo cattolico.
Le prime due sono state le protagoniste delle ultime elezioni in Francia e in Germania, compensando la crisi della sinistra politica e facendo da cuscinetto all’avanzata delle destre anti-sistema. Da noi, invece, i Verdi hanno ottenuto il 2,3% e la lista +Europa, iscritta al gruppo liberale europeo, il 3,1%. Risultati che ne f anno partiti di testimonianza, magari pronti a riscuotere un po’ di collegi uninominali quando si andrà alle urne per le elezioni generali, ma troppo flebili per poter dare un contributo di idee e di leadership nuove alla costruzione di uno schieramento competitivo. Le ragioni sono molteplici, e spesso storiche. Ma tra di queste c’è anche l’imperialismo che il Pd ha praticato nel passato nei loro confronti, e che ora gli si ritorce contro. Al punto che c’è chi ipotizza, come Calenda, di concepire «in vitro» quella forza liberal-europeista che non c’è, per non lasciare troppo solo il Pd (con maligna efficacia, Renzi ha ricordato al suo ex ministro che per fondare un partito di solito non si chiede il permesso a quello di provenienza) .
L’altra cultura politica il cui apporto manca sempre più al centrosinistra, e a dire il vero all’intero dibattito pubblico del nostro Paese, è quella del cattolicesimo, della parte cioè del mondo cristiano che si impegna nella vita civile con l’obiettivo del bene comune. Un’area che, pur continuando ad avere nel volontariato, nei movimenti cristiani, nel sindacalismo, una presenza radicata e trascinante, ha smesso di far politica, forse bruciata dalle troppe delusioni del passato.
L’assenza dalla scena pubblica di queste tre grandi culture, della loro elaborazione intellettuale e della loro spinta ideale, rispecchia anche la fragilità e l’arretratezza del tessuto sociale della Nazione, la debolezza di ceti che potrebbero invece guidare l’opinione pubblica nei momenti cruciali. Un Paese «invecchiato» come il nostro, pensa infatti a consumare risorse e perde interesse nella questione ambientale, che riguarda il futuro e dunque di solito mobilita i giovani. Un Paese sempre più corporativo, che cerca nel «particulare» la via d’uscita a una crisi che sembra non finire mai, è indifferente se non ostile a ogni anelito di riforma liberale dell’economia. Infine un Paese incattivito, perennemente in cerca di capri espiatori, si chiude inevitabilmente allo spirito solidaristico delle tante esperienze cattoliche, che ormai anche la sinistra politica sembra ignorare, pur lavandosi ogni tanto la coscienza con un gridolino di ammirazione per papa Bergoglio.
A furia di discutere per anni se centrosinistra andasse scritto con il trattino o senza, i suoi leader sono riusciti a non averne più nessuno. E siccome non è un animale mitologico, non rinascerà come d’incanto dalle sue ceneri. Il Pd non basta. Qualcun altro ci deve mettere mano.

Corriere 11.6.19
Al centrodestra
l’Italia dei Comuni
di Renato Benedetto


Il centrodestra avanza ed espugna Ferrara e Forlì. Questa è cronaca di oggi. Già, ma il centrodestra avanzava anche l’anno scorso, mentre in un’altra regione «ex rossa», la Toscana, prendeva Pisa, Siena e Massa. E ancora l’anno prima, in città simbolo, come Genova, ma non solo. Così, in due anni, fortino dopo fortino, è maturato il sorpasso. Adesso — dopo il voto di domenica scorsa — se si prendono i 110 comuni capoluogo, quelli governati da un sindaco di centrodestra sono la maggioranza: 53, contro i 41 del centrosinistra. Senza voler riavvolgere troppo il nastro, soltanto due anni fa la situazione era rovesciata: 58 a 38 a favore di Pd e alleati. Un vantaggio saldo, frutto di anni di successi amministrativi: nel 2013, per esempio, il centrosinistra era oltre quota 70.
Ma adesso, appunto, il quadro nelle città capoluogo si è rovesciato, in linea con il dato nazionale che vede la Lega in testa al Centro-Nord, tranne in Toscana (e i 5 Stelle, deludenti però nel voto locale, più a Sud). E con le Regioni che, proprio nel 2019, hanno visto il sorpasso del centrodestra, confermato con il Piemonte.
Nella contesa dei capoluoghi, questa tornata elettorale, tra primo turno e ballottaggio, si è chiusa in parità: 12 a 12. Il pari avvantaggia però il centrodestra, che ne guadagna 5 (prima del voto ne guidava 7). Al Carroccio passa anche Potenza: Mario Guarente, vincente per appena duecento voti, è il primo sindaco leghista di un capoluogo di regione al Sud (risultato che arriva a due mesi e mezzo dalla vittoria del centrodestra alle Regionali lucane). Il centrosinistra trova importanti conferme a Bari, Firenze, Bergamo, Reggio Emilia. Strappa Rovigo alla Lega e Livorno ai 5 Stelle. Ma cede, oltre a Ferrara e Forlì, anche a Pavia, Vercelli, Biella, Pescara.
Se si considerano tutti i Comuni al voto domenica scorsa, non solo i capoluoghi,il centrodestra strappa diverse amministrazioni al centrosinistra, che comunque ne porta a casa di più: 112 sui 221 sopra i 15 mila abitanti al voto, secondo i dati forniti da YouTrend. Il centrodestra vince in 85 comuni: ne aveva 39.
Il Movimento al ballottaggio ha perso in entrambe le città dove amministrava (Avellino e Livorno). Ha vinto però a Campobasso, strappato al centrosinistra al ballottaggio.
È proprio al ballottaggio che il Movimento si conferma un partito «pigliatutto»: ha difficoltà ad accedere al secondo turno, ma quando arriva riesce a pescare elettori a destra e sinistra in modo trasversale. A Campobasso — secondo i dati elaborati dall’Istituto Cattaneo — il 67% di chi al primo turno aveva votato centrosinistra si è poi riversato, anche in chiave anti leghista, sul candidato grillino. Il Movimento è però rimasto fuori dal secondo turno quasi ovunque: chi aveva votato 5 Stelle solo in pochi casi — spiega l’analisi del Cattaneo curata da Marco Valbruzzi — al ballottaggio è tornato alle urne. «Quando il loro candidato non si presenta al secondo turno — dice Valbruzzi — privilegiano in larga misura l’astensione, che in città come Prato e Reggio Emilia attrae più di nove decimi di questo bacino». Tra chi è andato al ballottaggio «non si osserva un pattern univoco», ma si vota «in base a specifiche considerazioni locali»: «Prevale il voto per il centrosinistra a Cremona, a Reggio Emilia e a Foggia, prevale il voto per il centrodestra a Ferrara e Forlì». A Ferrara è stato il 26% degli elettori che al primo turno avevano scelto 5 Stelle a preferire, al ballottaggio, l’alleato leghista (l’11% alla sinistra, gli altri astenuti). Al contrario a Livorno è stato preferito il Pd (29%, contro l’11% del centrodestra).

il manifesto 11.6.19
E poi una mattina il paese si svegliò
Habemus Corpus. Da quando il regime dell’ordine e delle frontiere era al potere, i dissenzienti erano costretti alla clandestinità.
di Mariangela Mianiti

Da quando il regime dell’ordine e delle frontiere era al potere, i dissenzienti erano costretti alla clandestinità. Neonate ordinanze avevano imposto nuovi divieti. Vietato riunirsi in luogo pubblico in più di tre persone, cosa che creava grossi problemi alle coppie con due figli perché dovevano andare a passeggio due a due e distanziati di almeno centro metri gli uni dagli altri. Vietato nominare il nome del capo se non per osannarlo, bisognava quindi stare attenti ovunque perché telefoni, email, angoli delle strade, portoni dei palazzi, l’interno dei locali e gli ingressi delle abitazioni erano disseminati di telecamere, microfoni e spie in ascolto.
IL TERZO comandamento recitava Vietato esporre striscioni a finestre e balconi. La misura era stata imposta con un’ordinanza, segreta perché bisognava salvare la parvenza di democrazia, dal Ministero dell’interno alla PORCA, la Polizia Ordine Repressione Controllo Armati che rispondeva direttamente al ministro. La decisione era stata presa dopo che in tutto il Paese era spuntata una quantità crescente di lenzuoli e striscioni che recitavano «Non in mio nome», «Non sono tuo figlio», «Sei il ministro dell’odio», «Non ti votiamo e non ti vogliamo», «Sei un fascista», «Dove hai messo i 49 milioni che hai rubato?», «Chi di barconi ferisce, di balconi perisce», «Non sei il benvenuto», «Mai con te».
Per annientare sul nascere ogni tentativo di insubordinazione, la PORCA aveva cominciato a perquisire le case sospette e i negozi di biancheria per la casa requisendo tutte le tovaglie, tende e lenzuola di colore chiaro e a tinta unita. Ormai sul mercato si trovava solo teleria a tinte forti e fantasie marcate. Erano ammessi solo fiorami, strisce e figure geometriche invasive che rendevano illeggibile e confusa qualunque scritta.
ANCHE la candeggina e i prodotti sbiancanti erano stati ritirati dal mercato per stroncare sul nascere tentativi di decolorazione, così come erano scomparsi pennarelli, pitture indelebili e tinte fluorescenti. Costretta a dormire fra lenzuola multicolor e a mangiare su tovaglie psichedeliche, la popolazione aveva cominciato a dare fuori di matto. Rilassarsi era diventato impossibile, i sonni si erano fatti agitati, i bambini si svegliavano irascibili, gli adulti andavano a dormire infelici. Si stava diffondendo un’epidemia di disturbi della personalità da tetraggine acuta, il paese oscillava fra isteria e depressione.
I più determinati e ribelli cominciarono a organizzarsi. Serviva una resistenza capillare e capace di aggirare i divieti. Non c’erano più teli bianchi a disposizione? Avrebbero ritagliato grandi lettere dai tessuti fantasia. Si rischiava l’arresto se si esponeva alla finestra una scritta? Avrebbero usato spazi pubblici o comuni. Non si poteva criticare il ministro? Non lo avrebbero nominato scegliendo uno slogan, solo uno, da diffondere in tutto il Paese. Una rete di volontari cominciò a fare a pezzi tende, lenzuola e tovaglie ricucendole a forma di lettere giganti, un’altra le unì formando la frase prescelta. Un altro drappello si dotò di tagliaerba per incidere la scritta sui prati. Poi, la notte dopo la parata del Regime, quando le polizie ubriache di vittoria dormivano, i dissenzienti piazzarono in ogni spazio disponibile la frase della rivolta.
La mattina dopo, quando la gente si alzò e gli elicotteri della PORCA si alzarono in volo per l’abituale giro di ispezione, sui tetti, sotto i ponti, sui prati, sulle facciate delle chiese, sulle piazze, lungo le spiagge, l’intero Paese gridava una sola coloratissima frase: NON CI AVRETE. La resistenza era cominciata.

il manifesto 11.6.19
Russia-Cina: il vertice che non fa notizia
L'arte della guerra. Mentre celebravano l'incontro tra Trump e i leader europei della Nato nell’anniversario del D-Day, i grandi media hanno invece ignorato quello, ben più rilevante, svoltosi a Mosca tra i presidenti di Russia e Cina, Vladimir Putin e Xi Jinping
di Malio Dinucci


I riflettori mediatici si sono focalizzati il 5 giugno sul presidente Trump e i leader europei della Nato che, nell’anniversario del D-Day, autocelebravano a Portmouth «la pace, libertà e democrazia assicurate in Europa» impegnandosi a «difenderle in qualsiasi momento siano minacciate». Chiaro il riferimento alla Russia.
I grandi media hanno invece ignorato o relegato in secondo piano, a volte con toni sarcastici, l’incontro svoltosi lo stesso giorno a Mosca tra i presidenti di Russia e Cina. Vladimir Putin e Xi Jinping, quasi al trentesimo incontro in sei anni, che hanno presentato non concetti retorici ma una serie di fatti. L’interscambio tra i due paesi, che ha superato l’anno scorso i 100 miliardi di dollari, viene accresciuto da circa 30 nuovi progetti cinesi di investimento in Russia, in particolare nel settore energetico, per un totale di 22 miliardi.
La Russia è divenuta il maggiore esportatore di petrolio in Cina e si prepara a divenirlo anche per il gas naturale: a dicembre entrerà in funzione il grande gasdotto orientale, cui se ne aggiungerà un altro dalla Siberia, più due grossi impianti per l’esportazione di gas naturale liquefatto. Il piano Usa di isolare la Russia con le sanzioni, attuate anche dalla Ue, e con il taglio delle esportazioni energetiche russe in Europa, viene in tal modo vanificato.
La cooperazione russo-cinese non si limita al settore energetico. Sono stati varati progetti congiunti in campo aerospaziale e altri settori ad alta tecnologia. Si stanno potenziando le vie di comunicazione ferroviarie, stradali, fluviali e marittime tra i due paesi. In forte aumento anche gli scambi culturali e i flussi turistici. Una cooperazione a tutto campo, la cui visione strategica emerge da due decisioni annunciate al termine dell’incontro: la firma di un accordo intergovernativo per espandere l’uso delle monete nazionali, il rublo e lo yuan, negli scambi commerciali e nelle transazioni finanziarie,
in alternativa al dollaro ancora dominante; l’intensificazione degli sforzi per integrare la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina, e l’Unione economica eurasiatica, promossa dalla Russia, con «la visione di formare in futuro una più grande partnership eurasiatica».
Che tale visione non sia semplicemente economica lo conferma la «Dichiarazione congiunta sul rafforzamento della stabilità strategica globale» firmata al termine dell’incontro. Russia e Cina hanno «posizioni identiche o molto vicine», di fatto contrarie a quelle Usa/Nato, riguardo a Siria, Iran, Venezuela e Corea del Nord. Avvertono che il ritiro degli Usa dal Trattato Inf (allo scopo di schierare missili nucleari a raggio intermedio a ridosso sia della Russia che della Cina) può accelerare la corsa agli armamenti e accrescere la possibilità di un conflitto nucleare. Denunciano la decisione Usa di non ratificare il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari e di preparare il sito per possibili test nucleari. Dichiarano «irresponsabile» il fatto che alcuni Stati, pur aderendo al Trattato di non-proliferazione, attuino «missioni nucleari congiunte» e richiedono loro «il rientro nei territori nazionali di tutte le armi nucleari schierate fuori dai confini».
Una richiesta che riguarda direttamente l’Italia e gli altri paesi europei dove, violando il Trattato di non-proliferazione, gli Stati uniti hanno schierato armi nucleari utilizzabili anche dai paesi ospiti sotto comando Usa: le bombe nucleari B-61 che saranno sostituite dal 2020 dalle ancora più pericolose B61-12. Di tutto questo non hanno parlato i grandi media, che il 5 giugno erano impegnati a descrivere le splendide toilettes della First Lady Melania Trump alle cerimonie del D-Day.

La Stampa 11.6.19
La glasnost, oggi
di Mattia Feltri


MicGorbaciov impiegò diciotto giorni per comunicare al suo Paese il disastro della centrale nucleare Lenin di Chernobyl. L’esplosione avvenne all’1.25 del 26 aprile. Ci vollero 36 ore perché i 43 mila abitanti di Prypiat, la città più vicina, fossero evacuati. La sera del 28 la tv diede un’asettica notizia in dieci secondi. Il primo maggio gli abitanti della zona furono incoraggiati a partecipare ai cortei della festa patriottica dei lavoratori, ed esposti alle radiazioni: tutto sotto controllo, aveva scritto la Pravda in un trafiletto. Il mondo già sapeva dei livelli anomali di radioattività registrati in Svezia e provenienti dall’Urss. Soldati, ingegneri, minatori, a migliaia vennero mandati allo sbaraglio a Chernobyl per metterci una pezza, dietro la promessa d’essere dichiarati eroi nazionali. Morirono quasi tutti. Quando satelliti spia fotografarono la centrale danneggiata, finalmente Gorbaciov parlò, il 14 maggio. Fra l’altro, accusò la stampa occidentale d’aver ingigantito le conseguenze «per diffamare l’Unione sovietica». Non so se la serie Chernobyl, la cui prima puntata è andata in onda ieri su Sky, parli di quei diciotto giorni, politicamente i più interessanti del disastro. Non so se si metta in risalto la buona e curiosa fama di cui Gorbaciov e la sua glasnost (trasparenza) continuano a godere in Europa. Si sa però che a Mosca è pronta una serie alternativa, siccome questa è «propaganda per diffamare la Russia», in cui la colpa del guasto ricade sulla Cia. Orgoglio nazionalistico, occultamento o ricostruzione farlocca dei fatti, individuazione del nemico: meraviglioso che siamo ancora lì.

Il Fatto 11.6.19
In nome di “Ivan il giusto” i russi sfidano il Cremlino
Mosca, giornali e proteste - Falsa accusa di possesso di droga per il cronista che indagava sulla corruzione nella Capitale: “Noi siamo Golunov” è il titolo di tre quotidiani
Vedomosti, RBK e Kommersant – Sono i tre giornali che hanno stampato la prima in comune
di Michela A.G. Iaccarino


“Noi siamo Ivan Golunov”. C’è scritto a caratteri cubitali sulle prime pagine identiche dei tre quotidiani indipendenti di Mosca: RBK, Kommersant, Vedomosti. Anche Novaya Gazeta si schiera con Ivan il giusto, il giornalista arrestato che ha risvegliato la coscienza sopita di Mosca. Già al mattino viene esposto un cartello in molte edicole russe: le copie dei tre quotidiani uze net, sono già finite. Ora su Internet costano già 3.000 rubli.
Il coraggio contro la paura: sabato scorso una folla di cittadini spontaneamente ha cominciato a radunarsi intorno al tribunale Nikulinsky per urlare Svabodu Ivanu, libertà per Ivan. In aula veniva formalmente accusato di traffico di droga – pena prevista 20 anni di carcere, in base all’articolo 228 – il reporter investigativo russo Ivan Galunov. Al giornalista, volto rigato di lacrime dietro le sbarre della gabbia del tribunale, i colleghi urlavano derzhis, sii forte, resisti, tutti sono con te.
Alle spalle Ivan ha centinaia di inchieste pubblicate sulla testata Meduza, riguardanti corruzione e proprietà acquisite illegalmente nella Capitale russa, un giro a cui non si sottraggono esponenti delle forze dell’ordine. Ad arrestare Golunov sono stati gli agenti del colonnello Andrey Shchirov, riferisce l’ong Transparency International. Shchirov possiede terreni del valore di 70 milioni di rubli, eppure ne guadagna solo 800 mila l’anno. Il giornalista, pestato dalle forze dell’ordine che hanno rifiutato di sottoporlo ai test anti-droga quando lo hanno preso in custodia, è stato anche ricoverato in ospedale per le percosse, dice il suo avvocato Andrey Dzulay. Fino al 7 agosto rimarrà agli arresti domiciliari perché “vittima di una fabrikazia”. Mentre il canale statale Rossia24 trasmetteva con la sua vulgata pigra la versione della polizia, facendo sventolare davanti alle telecamere i presunti sacchetti di cocaina trovati nell’appartamento del giornalista, ieri pochi ascoltavano la melassa della propaganda. I messaggi sui profili Telegram raccontavano cosa stava succedendo davvero nei parchi, per strada, negli uffici di Mosca, con una raffica di tweet e video di giornalisti e redattori, perché “oggi tocca a Ivan, ma domani a te”. Il quotidiano Rbk va oltre: si prepara a contestare in tribunale il gigante mediatico del Cremlino, l’agenzia di stampa Ria, che sul delo Golunov, il caso di Ivan, non fa che intorbidire le notizie. Dopo la muraglia solidale dei mass media, perentoria la reazione della società civile. A Mosca è il momento in cui è impossibile rimanere zitti, senza che la coscienza si spezzi per sempre.
La prima a schierarsi è l’ex politica Ksenia Sobchak: “Ivan non ha niente a che fare con la droga”. Una petizione online per la liberazione di Galunov viene firmata da 150 mila persone in poche ore. I russi continuano a fotografarsi davanti alla sede del ministero dell’Interno esibendo cartelli con su scritto: “vergogna” o “narkomani, drogati siete voi”. Sfregio alla verità e spregio della paura: i moscoviti si scattano selfie accanto alle sedi della polizia con la scritta: “Il mio nome è Ivan Golunov, sono un giornalista, arrestate anche me”, nelle metropolitane oppure con lo sfondo rosso delle mura del Cremlino.
Se l’FSB confidava nell’immobilità rassegnata della società, ha dovuto ricredersi quando è rimasta impallinata dalle conseguenze digitali inattese provocate dall’arresto ingiusto. Perfino Putin è stato costretto a esprimersi con il suo portavoce Dimitry Peskov per tamponare la voragine della protesta: “È una vicenda che solleva domande, errori possibili nel caso Golunov”.
“Ormai si tratta della libertà di ognuno di noi” dicono attori e cantanti russi, compresi quelli leggendari dei gruppi Machina Vremenie Ddt. Si combatte dentro e fuori dal web, dal digitale e reale: dopo i commenti che continuano a moltiplicarsi, l’organizzazione di un corteo previsto per domani. Rimane incertezza sul futuro di Golunov, non è detto che ci sarà giustizia, ma nella Mosca dove fino a ieri c’era silenzio, urlare oggi è già vittoria.

il manifesto 11.6.19
Beethoven pacifista (ma non troppo)
In una parola. Domenica sera è andato in onda su Rai3 il programma di Ezio Bosso "Che storia è la musica". Il maestro ha definito «pacifista» la settima sinfonia, la cui prima esecuzione avvenne l’8 dicembre nel 1813 a Vienna in un concerto di beneficenza a favore delle vedove dei caduti nella battaglia di Hanau e dei giovani tornati mutilati
di Alberto Leiss


Grazie all’avviso via whatsapp di un amica che suona il sassofono e il pianoforte non mi sono perso domenica sera il lungo programma sui Rai3 di Ezio Bosso Che storia è la musica. Conoscevo il musicista Bosso solo di fama, e la passione con cui ha spiegato, smontato e diretto la quinta e la settima sinfonia di Beethoven è stata una sorpresa molto bella. Con l’omaggio-intermezzo del preludio della Traviata, tributo dovuto giacché la trasmissione-concerto avveniva nel piccolo delizioso teatro Verdi di Busseto.
Bosso ha scherzato sul proprio cognome, che richiama la pianta forse all’origine del nome del paese natale di Verdi, e si è intrattenuto con vari ospiti, da Enrico Mentana a Gino Strada, Luca Bizzarri, Roby Facchinetti, altre e altri. Tutti un po’ intimoriti oltre che ammirati, invitati a sedersi accanto al direttore che agitava ampiamente braccia, mani e bacchetta davanti ai musicisti dell’Orchestra dell’Europa Filarmonica, presentati quasi a uno a uno.
Bosso ha definito «pacifista» la settima sinfonia, la cui prima esecuzione avvenne l’8 dicembre nel 1813 a Vienna in un concerto di beneficenza a favore delle vedove dei caduti nella battaglia di Hanau e dei giovani tornati mutilati. I tedeschi e i loro alleati inseguivano Napoleone che si ritirava dopo aver perso duramente a Lipsia. Ma a Hanau i francesi ebbero la meglio, infliggendo pesanti perdite ai loro inseguitori.
Il «pacifismo» della settima va forse cercato soprattutto nella cantabilità a tratti «celestiale», sostenuta da un ritmo sempre più incalzante fino ai trionfi del finale e da nuovissime soluzioni estetiche che – come ha raccontato Bosso – «inorridirono» alcuni contemporanei. Il pubblico presente alla «prima» però apprezzò molto quest’opera, chiedendo il «bis» del meraviglioso secondo tempo.
La storia e l’arte sono però contraddittorie. Nello stesso concerto di quell’8 dicembre 1813, oltre alla settima e ad altre musiche, fu eseguita anche un’altra quasi-sinfonia di Beethoven, la Vittoria di Wellington: pezzo che celebrava la battaglia vinta dal generale inglese, sempre contro i francesi, in Spagna, nella località di Vitoria. Qui non udiamo le melodie e le armonie che affascinarono Berlioz, o i ritmi che entusiasmarono Wagner, ma un susseguirsi di rulli di tamburo, squilli di tromba, mentre gli archi e gli ottoni di due orchestre si fondono con la riproduzione di scariche di fucileria e colpi di cannone. Le cronache dell’epoca raccontano che i più noti musicisti che erano a Vienna parteciparono all’esecuzione «militare», a cominciare da quell’Antonio Salieri (che il mito – raccolto da Puskin – vorrebbe assassino di Mozart) che fu maestro di Beethoven. Il successo fu travolgente e contribuì non poco alla maggiore fama dell’autore.
Si sa che l’autore della sinfonia Eroica, inizialmente dedicata a Napoleone, si era infiammato alle idee di libertà che venivano dalla Rivoluzione francese, ma aveva rapidamente cambiato idea di fronte al cesarismo di Bonaparte. Fino a comporre, oltre alla rumorosa Vittoria di Wellington, musiche ancora più retoriche in occasione del Congresso di Vienna e delle feste con teste coronate che lo accompagnarono.
In mezzo però a capolavori come la settima e l’ottava sinfonia, o il Fidelio. Chissà che il compositore non mescolasse col patriottismo anche un po’ di «strategia di mercato»…
Non intendo però contraddire il maestro Bosso. La musica di Beethoven ispira senz’altro i sentimenti migliori, e rende vera e viva – come si è visto e ascoltato domenica sera – l’affermazione che un’orchestra può rappresentare il modello di una «società ideale».
E che la Rai ci riprovi.

Il Fatto 11.6.19
Africa Unite, il reggae è un quintetto d’archi
Contro la voracità del mondo virtuale, lo storico gruppo ha preso tempo e si è reinventato
In Tempo Reale Africa Unite e Architorti Self distribuzione
di Diletta Parlangeli


Qui e ora, appiattiti sulla linea del presente ingolfato d’informazioni, di slogan, di nuovi suoni da gettare in pasto alla (spesso) pessima dieta digitale. In Tempo Reale (Self distribuzione) è il nuovo disco degli Africa Unite che non faticano a definire “un segnale”. La dimostrazione di una volontà di rottura rispetto alla frenesia bulimica che caratterizza le uscite discografiche: “Tutto corre velocissimo, sembra che se non fai un singolo al mese verrai fagocitato. La musica passa sempre di più in secondo piano rispetto al personaggio che cresce online e ci sembra che sia sempre un po’ vuota. A noi questo non appartiene molto”, dice Bunna, anima del gruppo con Madaski dal 1981. E infatti, non ci pensano nemmeno. Il nuovo disco non solo si è preso il suo tempo, ma ha già viaggiato molto. Ha fatto la spola tra loro e gli Architorti, quintetto d’archi già incontrato sulla strada – l’ultima occasione nel 2018 nello spettacolo multimediale “Offline”, con la compagnia di danza MMCDC – che ha trascinato gli storici fautori del reggae italiano in territori sonori diversi. A tratti più cupi, se vogliamo, coraggiosi. Senza eufemismi, come i testi. “[…] il capitano di felpe, stilista nemico giurato di ogni scafista slogan precotti a tutta intervista finita la pacchia è l’Impero del Nord ogni straniero sarà un terrorista” recita un brano. E nell’incetta di slogan veloci, quante assonanze si trovano con il mondo della musica di cui Bunna parlava all’inizio, lo stesso fatto di “personaggi che internet fabbrica con disinvoltura” citato dal giornalista Marco Molendini nel suo testo di addio al Messaggero.
“È un tipo di superficialità pericolosa su tutti i fronti. Sembra che se non ‘spacchi’, non sei nessuno e che tu debba sempre vivere sulla cima della piramide”. Servirebbero meno picchi d’istanti e più tempo per l’approfondimento, la divulgazione, la cultura, prosegue Bunna. Se dovesse iniziare fornendo consigli per l’ascolto a un ragazzo, direbbe: “Marley, Fossati e Caparezza. Tutti, ognuno con le sue peculiarità, per la grande bravura a far passare dei messaggi importanti”.

La Stampa TuttoSalute 11.6.19
Quando colpisce il burnout
I consigli per correre ai ripari se lo stress da lavoro ha superato il livello di guardia
di Fabio Di Todaro


Una stanchezza che non va mai via. Un aumento dell’ansia oltre la soglia di guardia. L’assenza di motivazioni e anche di tempo da dedicare a se stessi. E il pensiero ricorrente, che non sfuma nemmeno quando si è in vacanza: quello del ritorno tra i corridoi dell’ufficio e delle responsabilità a cui si è costretti.
Di fronte a questi campanelli d’allarme, una volta esclusa la presenza di altre malattie, un medico è oggi autorizzato a mettere nero su bianco il nome eloquente di una sindrome sempre più diffusa: il «burnout». Essere colpiti da stress da lavoro d’ora in avanti non sarà più materia esclusiva dei giudici del lavoro. L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha infatti sdoganato quello che viene definito come «un fenomeno occupazionale per il quale si può cercare una cura, pur non trattandosi di una condizione medica».
L'Oms definisce lo stress da lavoro «una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo». Sono tre le caratteristiche-chiave individuate dagli studiosi: «Senso di esaurimento o debolezza energetica, aumento dell'isolamento dal proprio lavoro con sentimenti di negativismo o cinismo e, infine, ridotta efficacia professionale». Il «burnout», quindi, è una realtà molto specifica: si riferisce - secondo la classificazione dell’Oms - proprio a una serie di fenomeni legati al «contesto occupazionale» e non dev’essere confusa con esperienze simili, ma scatenate da altri ambiti della vita.
Le motivazioni. Il primo ad occuparsi di questo problema, nel 1974, fu lo psicologo Herbert Freudenberger. La sua esperienza si riferiva principalmente a professioni cosiddette «di aiuto» (come quelle di infermieri e medici) e si estese nel tempo a tutti coloro che vivevano a contatto con il disagio altrui. Poi, anno dopo anno, se n’è parlato sempre di più come un fenomeno sociale in crescita. Ma al momento non ci sono ancora dati definitivi sull’estensione del fenomeno.
«La velocità con cui si opera oggi è sicuramente un fattore di rischio, ma non credo che andare in miniera agli inizi del ‘900 fosse piacevole», morde il freno Cristina Colombo, responsabile del centro dei disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele di Milano. «I ritmi odierni portano le persone più responsabili ad avvertire la percezione di lavorare male. Questo disagio può determinare l’instaurarsi di uno stato d’ansia cronico che, se protratto a lungo, porta anche all’esaurimento delle proprie risorse». Accade, così, di sentirsi svuotati, privi di energie e schiacciati dagli impegni. Non è in gioco solo il sovraccarico di responsabilità: il «burnout» può dipendere dall’insoddisfazione sempre più marcata nei confronti del proprio lavoro. «Il termine, infatti, non indica soltanto una situazione dovuta all’eccesso di lavoro, ma anche alla sensazione che la propria attività non abbia una vera utilità».
I segnali. Che qualcosa non vada, in genere, è il corpo a evidenziarlo, prima che la mente. Sentirsi prosciugati, soffrire di nausea, non riuscire a dormire e a superare banali malattie come il raffreddore, percepirsi come sempre in affanno: a fronte di questi campanelli d’allarme è possibile che si sia già alle prese con la condizione estrema inquadrata dalla comunità scientifica. Prima che sia troppo tardi è dunque necessario correre ai ripari. Già, ma come?
Un «vademecum» valido per chiunque, e per tutti i casi, non esiste. Di sicuro occorre parlarne: prima con chi ci è accanto tutti i giorni, dai famigliari ai colleghi di lavoro, poi, eventualmente, anche con uno specialista. La risposta non è da ricercare nei farmaci, bensì in un cambio di strategia che ci porti a ricordare che la vita non è fatta soltanto di lavoro. «Occorre riscoprire tutte quelle piccole cose sacrificate per troppo tempo, ma che in realtà ci possono indurre un piacere autentico». Che si tratti di un viaggio o di un’attività sportiva, di una rimpatriata con gli amici o di un po’ di tempo da dedicare alla casa o a un hobby, ciò che conta è sempre lo stesso risultato: riuscire a staccare con il lavoro e a liberare davvero la mente. L’importante è procedere a piccoli passi, senza porsi obiettivi eccessivamente ambiziosi. E a maggior ragione se è stata proprio una lunga lista di «cose da fare» a farci esplodere e provocare un senso di esaurimento delle proprie energie, fisiche e mentali.
Cambiare occupazione è la soluzione più estrema: talvolta necessaria, ma oggi non sempre possibile. Se però non si possono fare le valigie, può essere utile quanto meno «chiedere di cambiare mansioni, almeno per un periodo limitato». Il telelavoro? Anche questo può rappresentare un’opportunità, ma occupare lo stesso ruolo semplicemente lavorando da casa non sempre rappresenta una soluzione definitiva.
A rischio. La fatica accomuna sempre chi lavora, ma «a fare la differenza sono la soddisfazione e il riconoscimento del proprio ruolo - prosegue l’esperta -. Non è un caso che una delle categorie più a rischio, oggi, sia quella degli insegnanti». Più esposti all’esaurimento professionale - le donne risultano più colpite rispetto agli uomini - sono, comunque, tutti coloro che sono coinvolti in situazioni di emergenza o che lavorano in «contesti di aiuto» o in quelli sociali. Si tratta, da una parte, di medici, infermieri, poliziotti e vigili del fuoco e, dall’altra, di educatori, assistenti sociali, «caregiver».
Senza dimenticare che lo stress aumenta sia nelle professioni più performanti (dagli avvocati ai broker) sia in quelle - spiega l’Oms - dove si sommano elementi diversi, ma ugualmente a rischio: dalla insufficiente comunicazione alla limitata partecipazione nei processi decisionali, dallo scarso potere di controllo sul proprio settore di lavoro all’inadeguato livello di supporto da parte dei capi, fino agli orari sempre, e comunque, inflessibili e a compiti e obiettivi poco chiari, che generano confusione e conflitti.
E «last but not least» l’ombra delle molestie psicologiche e delle diffuse pratiche di mobbing.

La Stampa TuttoSalute 11.6.19
I medici tra le categorie più colpite
di F. D. T.


Anche chi deve prendersi cura degli altri può ammalarsi di «burnout». I medici italiani, secondo un’indagine in 12 Paesi dello «European General Practice Research Network», hanno un livello di stress quasi doppio (il 43%) rispetto alla media dei colleghi europei (22%). Colpa delle notti trascorse in bianco a seguire troppi pazienti, degli insufficienti tempi di recupero, del mancato riconoscimento retributivo e della paura di sbagliare e di essere denunciati. Condizioni che portano soprattutto gli ospedalieri a soffrire di sindromi da esaurimento, oltre che a una profonda insoddisfazione lavorativa. Da qui la campagna lanciata da Consulcesi, network di servizi legali specializzato nell’assistenza ai camici bianchi: #BurnoutInCorsia. «È a rischio sia la salute di chi cura sia quella di chi dovrebbe essere curato. L’eccesso di stress può causare la compromissione delle performance cognitive». Quanto alle categorie, secondo un’indagine negli Usa, sono soprattutto i medici di terapia intensiva e i neurologi a essere esposti al «burnout». A seguire medici di famiglia, ginecologi, internisti e medici del pronto soccorso. F. D. T.

Corriere 11.6.19
Un saggio di Tommaso Braccini (Salerno) sulle antiche vicende della città che C’è un velo su Bisanzio
poi divenne Costantinopoli e oggi è Istanbul. Un nodo strategico essenziale per i traffici di ogni tipo sulle cui origini non esistono fonti davvero affidabili
Fu colonia greca, poi capitale romana
Sulla sua storia sono sorti troppi miti
di Paolo Mieli


Nel IV secolo a. C. lo storico Teopompo di Chio riferiva di come ai suoi tempi Bisanzio fosse già molto conosciuta. Conosciuta anche come città del vizio, dal momento che gli abitanti si accalcavano per l’intera giornata al porto e al mercato tra postriboli e bettole, in cui affluiva il vino delle navi dirette verso il Mar Nero. Il commediografo Menandro in un frammento riferisce di «mercanti tutti ubriachi». Lo storico Filarco sosteneva che i Bizantini erano soliti affittare agli stranieri le loro stanze da letto, «mogli comprese». Stratonico di Atene alla metà del IV secolo a. C. raccontava che Bisanzio era soprannominata l’«ascella della Grecia» per i cattivi odori che la città emanava, con un probabile riferimento al grande commercio di pesce fresco ed essiccato. Si può dire che all’epoca l’odierna Istanbul fosse già famosissima. In ogni senso.
La colonia greca Byzantion aveva mille anni di età allorché Costantino, all’inizio del IV secolo dell’era cristiana, fondò la Nuova Roma (questo il nome ufficiale che fu dato a Costantinopoli) sul Bosforo, fa notare Tommaso Braccini, in apertura di Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma, che sta per essere pubblicato da Salerno. Dopo la fondazione di Costantinopoli, «Byzantion, oltre che una città è diventata», sostiene Braccini, «un laboratorio mitografico in piena regola e non ha ancora smesso di esserlo». Ad alimentare questo «laboratorio mitografico» è stata innanzitutto quella che potremmo definire la propaganda ufficiale, ma nel corso dei secoli ha giocato un ruolo importante anche «il bisogno dei suoi abitanti di superare il trauma di una serie di rifondazioni radicali che talora li hanno fatti sentire come alieni in una terra incognita e potenzialmente ostile».
Le «rinascite», secondo le leggende medievali, «non hanno azzerato quel che c’era prima, ma hanno progressivamente portato a compimento quel che era previsto da sempre». Ragion per cui quello delle origini di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul è un vero rompicapo per gli storici alle prese con un difficile lavoro di distinzione e di integrazione, tra impronte storiche vere e proprie (poche), ricostruzioni mitologiche e tracce archeologiche. A questo proposito Braccini riprende alcuni elementi già presenti nel libro da lui scritto con Silvia Ronchey, Il romanzo di Costantinopoli, edito da Einaudi. Ma qualcosa si può ritrovare anche nello straordinario L’impero che non voleva morire. Il paradosso di Bisanzio (640-740 d.C.) di John Haldon (Einaudi) e nel libro del turco Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, pubblicato da Mondadori.
Il principale tra gli elementi che contraddistinguono Bisanzio fin dai suoi albori è costituito sicuramente dalla cornice naturale della città, a cavallo tra due continenti: il Bosforo, il Corno d’Oro, il promontorio Bosporio. A questa eccezionale collocazione geografica sono strettamente collegati altri elementi: l’importanza del commercio, la menzione dei viaggiatori (a partire dai mitici Argonauti) e anche gli assedi «che scandiscono di pari passo la storia reale e quella mitica della città». Su questo palcoscenico ideale si susseguono l’uno dopo l’altro i personaggi a cui viene attribuito il merito di aver fondato quella che sarà una «capitale imperiale». All’inizio — in varie fonti antiche come Dionisio — non ci sono «personalità dominanti». Viene evocato «un vero e proprio pulviscolo di colonizzatori provenienti da ogni parte della Grecia», oppure si fa cenno, forse più plausibilmente, a «un gruppo di fondatori megaresi, che si muovono lungo un Corno d’Oro e un Bosforo minutamente ricostruiti in tutti i loro anfratti, nelle calette e negli scogli». Si tratta spesso «di microtoponimi e riferimenti a piccole entità topografiche, che però significavano qualcosa nella vita di chi li vedeva ogni giorno e che, pertanto, nella ricostruzione di Dionisio, sono tutti collegati con miti e storie che spesso sono solo la variante locale di trame ben più diffuse, nell’antichità e oltre».
In passato, scrive Braccini, si è oscillato tra due interpretazioni contrapposte dei miti di fondazione di questa città, miti «che sono una componente fondamentale di ogni identità pubblica»: in una prima fase, «secondo una prospettiva positivistica, si è creduto che conservassero in ogni caso un nucleo di verità storica e che andassero accuratamente setacciati in cerca di questa sorta di pagliuzze d’oro». Successivamente, con un approccio definito «costruttivistico», si è asserito che si trattasse di mere invenzioni finalizzate a «corroborare e illustrare peculiari istanze sociali e politiche proprie delle epoche e dei contesti culturali nei quali tanti miti furono di volta in volta elaborati».
Entrambi gli elementi — sostiene Braccini — possono tranquillamente convivere: «Gli scampoli di realtà storica, spesso decontestualizzati e ridotti ai minimi termini, costituiscono altrettanti mattoni che, a fianco di veri e propri “motivi” mitici e folklorici ampiamente diffusi», contribuiscono a edificare una costruzione che non è certo neutra o oggettiva, «ma veicola volutamente l’immagine di sé vagheggiata» da chi l’ha costruita. Anche i «miti di fondazione» della colonia greca di Byzantion e l’«archeologia» relativa al passato di Costantinopoli precedente alla sua conquista da parte di Costantino «si adeguano al contesto nel quale vengono concepiti e raccontati». Alcuni temi o figure («non necessariamente attinenti alla realtà storica», specifica Braccini) si rivelano più resistenti e risultano attestati dall’antichità fino all’epoca ottomana. Altri invece sono più transitori e spesso attingono al patrimonio delle «leggende migratorie» che circolano «nel tempo e nello spazio, al contempo paradigma prestigioso e comodo serbatoio per corroborare e ampliare il passato di una città divenuta improvvisamente capitale di un impero, e successivamente, dopo il trauma di una conquista, di un altro».
Per orientarsi tra le testimonianze, spesso pochissimo note, di storici, poeti, cronisti ed eruditi distribuiti in oltre un millennio e mezzo, è pressoché obbligatorio attingere alla Patria Costantinopolitana, una collezione di opere storiche compilata attorno al 995, ai tempi del regno di Basilio II. La Patria Costantinopolitana contiene il testo sulla storia di Bisanzio scritto dal pagano Esichio di Mileto nel VI secolo. Quella incentrata sulle antichità di Bisanzio era perlopiù «una microstoria locale, trovatasi inopinatamente su una ribalta mondiale»: troppo «gracile, frammentaria e provinciale perché potesse sostenere da sola il peso di elogi all’altezza del nuovo ruolo». Il problema che si trovarono di fronte i suoi panegiristi, in prosa e in poesia, fu dunque quello «di corroborare questi miti delle origini (anche ricorrendo a “prestiti” più o meno disinvolti) e renderli presentabili». Da un lato si cercò il più possibile di «sganciare le leggende da una madrepatria greca abbastanza oscura e insignificante»; dall’altro «di riorganizzarle e rileggerle sulla falsariga della storia romana… per enfatizzare come il destino di diventare una nuova Roma fosse già fatalmente scritto nell’origine e nella storia di Bisanzio». Discorso di cui si trovavano anticipazioni già nel libro di Gilbert Dagron, edito da Einaudi, Costantinopoli: nascita di una capitale (330-451).
Lo storico Polibio ricordava come i Bizantini «abitassero un luogo che, per quanto ubicato in maniera non ottimale dalla parte di terra, godeva invece di una posizione invidiabile per sicurezza e prosperità rispetto al mare». Infatti, proseguiva, «la città dominava l’imboccatura del Ponto, al punto che non si poteva né entrare né uscire da esso senza il suo benestare». Dal Ponto giungevano merci utili e pregiate (Polibio le elenca: bestiame, schiavi, miele, cera, pesce secco) e ne conseguiva che i Bizantini ne erano i veri padroni. Lo stesso peraltro si poteva dire dell’olio e del vino che dal Mediterraneo passavano al Mar Nero e del grano che «era soggetto a flussi commerciali alterni».
Se Bisanzio avesse deciso di bloccare il transito o si fosse schierata con i Galati e soprattutto i Traci, o se non fosse mai stata fondata e il controllo dello stretto fosse stato lasciato ai barbari, ipotizza l’autore, i Greci ben difficilmente avrebbero potuto godere di tali fondamentali commerci. Per questo motivo, conclude Polibio, era giusto considerare i Bizantini benefattori comuni di tutti e non limitarsi a essere loro grati, ma «mostrarsi anche pronti ad aiutarli nel caso di minaccia da parte dei barbari». A proposito dei Traci va aggiunto che sulle origini di Bisanzio ha a lungo gravato il sospetto (Braccini lo definisce lo «spettro») che avesse avuto una parte fondamentale proprio quel popolo considerato bestiale e incivile. Ciò che aveva spesso indotto «a minimizzare (anche se mai a eludere completamente) l’apporto locale alla nascita della futura colonia». Sarebbe stato imbarazzante attribuire ai Traci un ruolo di un qualche rilievo nella fondazione di quella che era destinata a diventare la capitale dell’impero.
Ma torniamo ai traffici mercantili. Certo è, scrive Braccini, che a partire dal V secolo i diritti riscossi dalle navi in transito lungo il Bosforo costituirono una fonte di rendita sempre più importante al punto da fare gola agli Ateniesi e ad altri. I Bizantini, «liberisti ante litteram», ironizza l’autore, cercarono di ricorrervi il meno possibile, ma talora «finirono per cedere a questa tentazione soprattutto in circostanze di emergenza in cui c’era necessità di “fare cassa” rapidamente come in occasione della crisi causata nel III secolo dalla minaccia dei Galli stanziati nella vicina Tylis».
Bisanzio fu sottoposta a numerosi assedi. Il primo, riferisce Esichio, fu quello di Odrise, re degli Sciti respinto con il lancio di rettili sull’esercito degli assalitori (dopodiché i Bizantini non fecero mai male ai serpenti come ricompensa per il «servigio reso»). Il più storicamente documentato fu quello di Filippo II di Macedonia (338 a.C.) di cui si parla ampiamente nel saggio di Luisa Prandi Taverne e bevitori di Bisanzio greca: a proposito delle vicende di Leone (pubblicato dalle Edizioni universitarie di Trieste). Il Leone di cui al titolo di questo studio sarebbe stato un oratore di Bisanzio che, da un’improvvisata discussione con il sovrano macedone, ne intuì le intenzioni aggressive e poté aiutare la sua città a resistergli. Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, avrebbe poi collocato trombe alimentate dal vento per spaventare i «popoli impuri» di Gog e Magog (i Tatari) e tenerli lontani dalla città.
L’ultimo assedio sarebbe stato quello di Settimio Severo (sul trono di Roma dal 193 al 211 d.C.). Ne parla Cassio Dione e, secondo Braccini, «il trauma della distruzione e della sanguinosa conquista della futura capitale dell’impero da parte di un imperatore romano rimase sempre vivo al punto che talora, in maniera fantasiosa, si cercò di negare» l’accaduto. Braccini da tutto ciò trae l’impressione «che le costruzioni di poeti, storici ed eruditi in merito al passato più remoto di Istanbul e, ancor prima, di Costantinopoli, siano simili alla nebbia che, nelle testimonianze di tanti viaggiatori, avvolgeva impenetrabile la città». Dal punto di vista dello storico tutto gli è parso come «un velo di affabulazioni, leggero, impalpabile, perennemente mutevole» che «sembra avviluppare gli edifici e il terreno». Qualche elemento naturale o architettonico «pare emergere, più o meno stabilmente, dalla coltre opaca»; ma a volte quello che sembrava concreto «non è che l’ennesimo miraggio». Molto meglio affrontare la «leggenda di Bisanzio» come «una costruzione culturale, spesso consapevole» che cerca di conciliare i racconti mitici «con le specificità in alcuni casi davvero notevoli, dell’antica colonia greca poi divenuta capitale mondiale». Che però conteneva tutta la sua grandezza quando era una colonia greca famosa per la promiscuità sessuale e i mercati maleodoranti.

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