domenica 9 giugno 2019

Corriere della Sera 9.6.19
Rossana Rossanda
«Magri, la morte Scelta politica»
«Lucio Magri — dice Rossanda — scelse di morire anche perché deluso dalla politica».
di Maurizio Caprara


«Un’Italia così non me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943 mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce. «Li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, li ha da sempre i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età, cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a un fanale.
«Il povero e l’oppresso hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del Manifesto aveva condannato risolutamente l’invasione sovietica di Praga. Una nuova pagina nera, quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989 propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La Sinistra.
Mente lucida, labbra vivide con rossetto brillante, « La ragazza del secolo scorso» , come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura 1917-1918 di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese, letteratura, filosofia. Molta la storia, da I ricordi di Marco Aurelio a The nemesis of power. The German Army in politics 1918-1945 . La conversazione che segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri, 79 anni, un altro dei fondatori del Manifesto , quando lui fece porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso. Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al Manifesto quotidiano è stata direttore di chi scrive queste righe.
Quali riflessioni derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?
«Pensavo e penso che lui avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».
Affinché arrivasse il suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».
«Lucio aveva perduto sua moglie a causa di una malattia».
Mara, scomparsa tre anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?
«Sì. Rispetto agli altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti, decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per la sua compagna. Anche per la vita politica».
Dunque per quanto era successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu, Magri e altri, nel 1969, foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra 1977 e 1979 a promuovere i convegni del Manifesto sulle «società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura di Breznev.
«Fummo radiati perché eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione Sovietica però veniva da lontano».
E come mai il collasso dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?
«Perché non era solo il crollo dell’Unione Sovietica, ma delle nostre speranze in Italia. Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse. Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».
Tuttavia sei stata ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto momenti politici migliori per una comunista. Erano stati infinitamente peggiori.
«Ero giovane».
Rispetto alla vita, la vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in Italia è giovane adesso.
«Vedere finire ogni speranza di una vita diversa non è cosa da poco».
Non credi di aver dato ad altri insegnamenti che non si disperdono?
«Non mi pare di aver fatto niente di speciale».
Davvero?
«Davverissimo» .
Venivi ascoltata sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti su strade diverse da quella del Manifesto, ma, solo nel campo del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al Manifesto è rimasta e lo dirige.
«È una vostra fantasia. Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal 1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et grand capital di Daniel Guérin».
Credi che non esista alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista, nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?
«Comunque quello che era un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».
Un italiano, qualunque sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo ritiene certo di vita o di morte. E tu, Luigi Pintor, Valentino Parlato e altri dirigenti della sinistra diffidando di vari estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non funzionano, trovarne di nuove.
«In effetti è solo Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi no».
Che la fine di un sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.
«Ma non è che il realismo ti obblighi ad accettare tutto».
Questo «tutto» è riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.
«Dipende. Bisogna misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa. Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50 anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze. Adesso ce n’è molto poco».
Un po’ come una spiegazione che il Manifesto diede delle proteste studentesche del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?
«Le aspettative delle persone contano. Anche adesso».
Tornando al rapporto tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate giovani voi.
«È un’altra dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di annullamento».
Sopravvissuti ai lager nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta in avanti, non indietro.
«Sì, è vero. Però in questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».
Vuol dire che il suo dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta non era una via per tutti voi.
«Se rileggi i libri di Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore del Manifesto , direttore e corsivista brillante che spiccava per graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì su una mina, ndr )».
Di sicuro Luigi Pintor non era sempre ottimista. Il suo Servabo , parola latina che ha tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.
«Certo. A quale aspetto ti riferisci in particolare?»
Pintor spiegò così come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi di Servabo possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
«Comunque puoi capire che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».
Che cosa legge attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?
«Ho cercato di capire un po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo dire».
Lo sostengono in parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque, le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi che non vediamo o non vogliamo vedere.
«Vero, eppure nella circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».
Parlavi di fallimento di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia nella quale ti formasti?
«Domanda del tutto legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è un Paese involgarito».

Corriere della Sera Domenica 9 giugno 2019
La Chiesa e il libero arbitrio
di Dacia Maraini

dal Corriere del 6 dicembre 2011

La notizia della morte di Lucio Magri mi ha molto colpita. Ho conosciuto Magri tanti anni fa nel pieno della sua felicità politica. Ricordo di essere stata folgorata dalla sua bellezza e dalla sua intelligenza festosa e ironica. Un uomo che qualsiasi donna avrebbe volenti-eri corteggiato. Peccato che fosse già impegnato. Ora leggere della sua crudele decisione di tagliare ogni rapporto con la vita mi sorprende e mi addolora. Istintivamente si pensa: chissà se discutendo, magari arrabbiandosi, non avrebbe rinunciato a darsi la morte. Ma è un pensiero infantile (...). Un uomo che di impeto si butta sotto un treno o che ingoia una manciata di pillole e muore fra atroci dolori non fa lo stesso effetto di chi a freddo inizia un per-corso anche burocratico verso la propria eliminazione: l’appuntamento col medico, la prenotazione del biglietto e forse anche di un albergo, la scelta dei vestiti. E quanti soldi bisognerà portarsi dietro? E chi deciderà del funerale? Cremazione o sepoltura? Ogni cosa deve essere stabilita in anticipo e con precisione. Ecco è proprio questa precisione e il controllo sulle emozioni che impressiona. Ci vuole coraggio per essere coerenti fino in fondo. Ma perché Magri ha dovuto andare in Svizzera per affrontare una morte che non strazia il corpo ma lo consegna intero e dignitoso alla tomba? La risposta la sappiamo: in Italia vige il divieto cattolico a diporre del proprio corpo. Questo non impedisce che decine di persone si suicidino ogni giorno. La Chiesa li ignora. Ma per uno che organizza razionalmente la propria fine con l’aiuto di un medico pietoso, arrivano le parole di condanna. Che il divieto valga per i cattolici è comprensibile ma per chi cattolico non è? Perché la Chiesa, che ha accettato per secoli la pena di morte e la tortura, ha da ridire sulla libera scelta di mori-re? Non sarà esattamente l’autonomia della decisione a ripugnarle? Il fatto che così facendo la persona sfugge al controllo di chi vuole stabilire il desti-no delle anime e dei corpi? Non sarà la pratica del libero arbitrio (...)? Tutto può essere perdonato, salvo la sovrana decisione di sé (...). A quando la compiutezza di un diritto che emancipi la nostra Repubblica dai condizionamenti della Chiesa?

Corriere La Lettura 9.6.19
Non ci resta che Machiavelli
L’interesse che si manifesta da più parti per l’autore del Principe nasce dalla crisi dell’attuale pensiero liberale e di quello socialista rivoluzionario o riformatore
di Carlo Galli


Che sia stato il consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Niccolò, era il diavolo), oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo della politica moderna come un magma ribollente di energie e di sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a uscire solo alla metà del Seicento. La via dell’ordine sarà allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo. E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla filosofia costruttiva dell’Illuminismo, quella progressiva e rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti, i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra economia, psicologia di massa, politica.
È questo ordine liberale del mondo a essere oggi in crisi, con le sue certezze, le sue ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non nella fase della loro crisi.
Sta qui il vero significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la politica moderna si è presentata in tutta la sua potenza, prima che prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi vacillano. Nelle recenti interpretazioni di Machiavelli — a titolo esemplificativo, quelle di Ciliberto, Asor Rosa, Ginzburg, Marchesi — è evidente l’interesse a confrontarsi con un pensiero che si genera dalla crisi, che non la inserisce in una rassicurante narrazione. L’interesse, cioè, non a misurare lo Stato e il suo funzionamento a regime, ma di fondare un ordine ex novo; non a maneggiare norme e regole, ma di fronteggiare l’eccezione, di constatare come la libertà umana, l’umana capacità di dare forma ordinata al mondo (la «virtù»), sia insidiata e smentita dalla contingenza, dal caos imprevedibile degli avvenimenti (la «fortuna»); come il «riscontro» fra ragione e realtà — il successo dell’agire umano — non sia garantito da alcun algoritmo, né da alcuna provvidenza, da alcuna tattica (sia questa l’«impeto» o al contrario il «rispetto»).
Ciò che è al centro degli studi machiavelliani, oggi, al di là del loro valore storiografico, è il recupero dell’insegnamento più radicale di Machiavelli: che la politica è l’espressione più alta e più tragica dell’instabilità del reale, e che se ne devono fronteggiare animosamente e accortamente gli aspetti inquietanti, le dinamiche sfuggenti, con un pensiero non astratto, non precostituito, non semplificatorio: non una teoria generale da applicare alla realtà, ma un pensiero nervoso, acuto, in chiaroscuro, aperto al confronto continuo con le pieghe e le insidie del reale.
Davanti all’evidenza che il reale non è né razionale né interamente razionalizzabile, Machiavelli è il pensatore non della forma, ma della metamorfosi; non della netta separazione fra ordine e disordine, fra «lupo» (l’uomo in natura) e «cittadino» (l’uomo dentro lo Stato), ma della loro commistione. Per lui, ogni circostanza politica reale si presenta spaccata in due, come un dilemma che va minuziosamente analizzato per coglierne le contrapposte potenzialità; per lui, ogni regola esiste solo nel momento in cui è attraversata da eccezioni; e la ragione, la valutazione delle forze in campo e dei loro rapporti, il calcolo lungimirante delle conseguenze, coesiste con la consapevolezza che le situazioni possono essere forzate da un’azione spiazzante, «pazza», nella disperata speranza di controllare, almeno per un po’, il corso della fortuna.
Machiavelli pensa la irrazionalità della politica, la sua drammatica contraddittorietà, ma senza essere un irrazionalista; pensa il destino delle umane costruzioni di «ruinare», ma senza rassegnarsi alla sconfitta e all’inerzia; pensa non per teorie, ma dall’interno delle situazioni di crisi, per capirle e per risolverle. Non è un filosofo politico, ma un politico filosofo, un uomo d’azione che riflette sull’azione e che modifica la propria riflessione dentro le contingenze in cui si imbatte.
Eppure non è un opportunista: ha combattuto per un’idea repubblicana contro il potere mediceo, e sempre ha avuto in mente la salvezza dello Stato, di quello fiorentino e di quello italiano che non si è formato, come sarebbe stato necessario, con la conseguente rovina del nostro Paese. E non è neppure un decisionista nel senso di Carl Schmitt, che infatti non lo ebbe tra i suoi autori preferiti: il decisionismo è il rovescio irrazionale del razionalismo della macchina statale moderna, mentre in Machiavelli vibra sempre la concretezza umana della politica.
Enigmatico come la politica in cui è immerso, a questa ha dedicato la vita, nello sforzo di pensarla fino in fondo e di darle un ordine: uno sforzo che egli sapeva destinato a non avere successo e che tuttavia era l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere. Umanista — la sua scrittura audace e immaginosa è uno dei più alti godimenti che offra la lingua italiana —, non fu un «letterato» che si rifugia nelle frivolezze e nelle fiabe: fu umanista perché esperto delle cose umane, quindi pessimista ed energico al contempo. Concreto, intelligente, appassionato, scettico, potente e ironico, il suo ingegno è analogo per certi versi a quello di Leonardo, impaziente e minuzioso, geniale e artigianale al contempo.
Non è quindi necessario che di Machiavelli si faccia un totem; che si ripeta, in forme nuove, la sua storica lezione — che l’Italia ha bisogno di un capo e di un popolo che si sostengano a vicenda per rifondare uno Stato corrotto e snervato dalla religione cristiana. Non sta nell’invocarlo a ogni crisi della nostra Italia il significato più profondo del ritorno di Machiavelli. Quel significato sta piuttosto nell’esigenza, che attraverso di lui si manifesta, di ripensare radicalmente la politica, di prenderla sul serio, di non lasciarne il senso al diritto, all’economia, alla morale. L’esigenza — che anch’egli provò, ma che è da calibrare sulle crisi dei nostri giorni, che non coincidono con quella che egli conobbe — di farsi coinvolgere nella politica, come in un destino che si riaffaccia perentorio ed elusivo, non più trattenuto da schemi e istituzioni ormai scricchiolanti. Ritorna la politica, insomma, e quindi ritorna Machiavelli, come possibile alternativa agli esiti di quella modernità che egli ha grandiosamente aperto.

Corriere 9.6.19
Furti e delitti in calo Ma la paura cresce
In dieci anni omicidi quasi dimezzati, rapine giù del 33% per il 78% degli italiani, però, la criminalità è aumentata e il 39% chiede che diventi più facile acquistare un’arma
di Milena Gabbanelli


Lo dicono i magistrati: la nuova legge sulla legittima difesa «potrebbe essere applicata» per la prima volta nel caso di Marcellino Iachi Bonvin, 67 anni, tabaccaio di Pavone Canavese alle porte di Ivrea. Indagato per eccesso colposo di legittima difesa, venerdì notte ha ucciso a colpi di pistola Ion Stavila, 24 anni, cittadino moldavo incensurato che aveva forzato il suo negozio insieme con due complici. Verrà interrogato nei prossimi giorni alla presenza del suo avvocato. «Ha tutta la mia solidarietà», ha detto il ministro Salvini. «Mi auguro che la nuova legge riconosca che questo 67enne ha fatto quello che è stato costretto a fare. Il ladro, se avesse fatto un altro mestiere, a quest’ora sarebbe a casa sua. Ne abbiamo le palle piene, la gente ha diritto di difendersi, sono orgoglioso di questa legge».
«Questa legge» è nata da una percezione di insicurezza. Anche se in Italia diminuiscono i crimini: lo si sa da 10 anni, e continua ad accadere con diversi governi. Stando ai numeri siamo diventati uno dei Paesi più sicuri dell’Unione europea. Omicidi volontari, quasi dimezzati: 611 denunciati nel 2008, 368 nel 2017. Rapine: 45.857 denunciate nel 2008, 30.564 nel 2017, un calo del 33,3%. Ad incidere di più sulla sfera personale sono i furti in casa, perché diffondono insicurezza: meno l’8,5%, nel 2017 rispetto al 2016.
Come si influenza la percezione
Eppure cresce la paura, reale o favorita da politica e media: nel 2017 il tema «criminalità» è comparso nel 17,2% dei programmi della principale Tv francese, nel 26,3% di quella britannica, nel 18,2% di quella tedesca, e nel 36,4% dei 5 principali telegiornali italiani. Il 78% degli intervistati in un’indagine degli stessi mesi ritiene che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni prima. Questa opinione si concentra al 91% fra gli elettori della Lega. E il 39% della popolazione (nel 2015 era il 26%) chiede che sia più facile acquistare un’arma per difesa personale.
La parola «sempre» ha cambiato la legge
Così, a marzo, sono stati riformati alcuni articoli del codice penale. L’articolo 52 diceva e dice: «Difesa legittima. Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». In soldoni: non puoi sparare a un ladro che fugge. La norma prosegue: «Se il derubato si trova a casa sua o in altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi (cortile, garage, ndr), o in ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale», allora «sussiste sempre il rapporto di proporzione». Quel «sempre», prima non c’era. Tradotto: se uccidi qualcuno che ti minaccia entrando nella tua proprietà, la proporzione fra difesa e offesa è data in partenza per scontata. In sostanza se fino a ieri al giudice restava un margine di valutazione, da oggi sarà molto ristretto, a meno che il giudice non ponga un problema di costituzionalità.
Una legge giustificata?
La nuova legge è nata da un’emergenza giudiziaria? Dai numeri, si direbbe di no. Per questi fatti, nel 2017, risultavano in corso nei tribunali 26 processi. Di questi, in 14 casi si procede per «legittima difesa» (vuol dire che si avvieranno all’archiviazione), mentre negli altri 12 (da oggi 13, con il caso di Pavone Canavese) per «eccesso colposo di legittima difesa», ovvero i giudici devono valutare se l’imputato ha esagerato. Per magistrati e penalisti, la legge è «inutile e pericolosa», anche perché l’inviolabilità della proprietà privata può contrastare con il diritto alla vita — anche quella del ladro — sancito dall’articolo 2 della Costituzione. Si va forse verso una «legittima offesa», piuttosto che difesa.
Come funziona nel resto d’Europa
In alcuni Stati americani, vige il principio stand your ground, proteggi il tuo territorio: se aggredito ovunque, puoi uccidere. E ancor più se sei a casa tua (castle doctrine, «dottrina del castello»). In altri, prevale il duty to retreat, il dovere di cercare prima una via di fuga. In Francia, la legittima difesa è riconosciuta solo se «necessaria, come unico modo di proteggersi». In Gran Bretagna la legge consente di usare anche «una forza sproporzionata», per respingere un’intrusione domiciliare. Ma bisogna provare di aver fatto ciò che «onestamente e istintivamente» si giudicava «necessario». In Germania, non è imputabile chi reagisce violentemente a una minaccia «che non possa essere altrimenti sventata». Soprattutto se l’aggredito ha agito in preda «a confusione, paura o terrore». Anche la nuova legge italiana (articolo 55, eccesso colposo) prevede la non punibilità nel caso di un «grave turbamento». Ma qui è intervenuto il presidente Mattarella: il «grave turbamento» deve essere «effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta». Ci vuole cioè una verifica oggettiva: non può essere solo chi ha premuto il grilletto, a testimoniare per se stesso.
Ricaduta sulla vendita di armi
La nuova legge farà aumentare il numero delle armi da fuoco che circolano in Italia? Nel 2017, 1.398.920 licenze di porto d’armi sono state registrate a nome di civili, più 13,8% rispetto al 2016. Le licenze per caccia sono 738.602. In grande crescita quelle per il tiro al volo e al piattello: più 21,1% nel 2016-2017. Sono meno costose e più facili da ottenere, ma ugualmente efficienti (ne usò una Luca Traini, lo sparatore razzista di Macerata). In totale sono 584.978, ma circa 200.000 italiani, dal 2014, hanno messo piede in un poligono. Calano invece le armi per difesa personale: meno 4,8%, forse per le difficoltà burocratiche.
I rischi dell’arma in casa
Secondo l’Osservatorio Internazionale GunPolicy.org, nel 2017 i privati italiani possedevano 8.007.920 armi da fuoco, un milione in più rispetto a 10 anni prima. Ma 6.609.000 erano le armi non registrate. Se si considera che una famiglia media è composta da 2,3 persone, calcola il Censis, 4,5 milioni di italiani fra cui oltre 700.000 minori hanno un’arma a portata di mano. In Italia, ci sono 12 armi da fuoco ogni 100 abitanti, negli Usa 88. Dice ancora il Censis: se avessimo le stesse regole permissive americane, le famiglie italiane con armi in casa «potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini complessivamente esposti al rischio di uccidere o di rimanere vittima di un omicidio sarebbero 25 milioni».
Decreto Sicurezza bis
In questo clima «scaldato» dal fatto di cronaca legato al furto del tabaccaio, sono in arrivo le norme del decreto Sicurezza bis che riguardano altri temi: migranti e ordine pubblico interno. È annunciato per il Consiglio dei ministri di martedì. Le bozze sono provvisorie: trasferimento della competenza sul controllo delle acque territoriali dal ministero dei Trasporti a quello degli Interni. Obiettivo: vietare transito e porti alle navi delle Ong. Sul tavolo le multe, calcolate in base al numero dei migranti, e la sospensione della licenza per le navi commerciali italiane che li soccorrono in acque internazionali. Si tratta anche su certe norme per l’ordine pubblico, come quella di trasformare le contravvenzioni in reati nei casi di resistenza a pubblico ufficiale durante i sit-in. La paura fa novanta.

Il Fatto 9.6.19
Questa sinistra ha perso il popolo perché non pensa più al lavoro
Vent’anni di errori - È finita una “relazione sentimentale”, i più precari sono stati abbandonati
di Massimo D’Alema


Gentile direttore, la ringrazio, e in particolare ringrazio la collega Silvia Truzzi, per l’attenzione riservata ai temi sollevati nella mia intervista a Repubblica. In effetti l’esigenza di ricostruire un rapporto con i ceti popolari e innanzitutto con il mondo del lavoro appare assolutamente prioritaria sulla via della ricostruzione del centrosinistra.
Sono rimasto colpito e dispiaciuto per l’assenza di reazioni nel campo politico cui si rivolge il mio preoccupato appello, salvo qualche sgraziata sortita priva di rispetto e di intelligenza a dimostrazione che il centrosinistra è, malgrado gli apprezzabili sforzi di Nicola Zingaretti, ancora infestato dai residui di un ceto politico che sembra non aver imparato nulla dalla lezione di questi anni, neppure sul piano dello stile. Vorrei però tornare su un punto sollevato per inciso da Silvia Truzzi, si tratta del riferimento alla volontà di “sospendere l’articolo 18” che sarebbe stata manifestata dal mio governo. Non ho alcun intento polemico, tantomeno di natura personale, anche perché la collega si è limitata a riprendere una ricostruzione leggendaria che ha avuto corso e continua ad averne. Ma questa ricostruzione non è vera.
Mi consentirà di citare ciò che io dissi nella famosa discussione con Cofferati che si svolse al Congresso del Pds dell’Eur: “Io sono convinto che l’articolo 18 vada difeso. Non siamo divisi su questo punto. Questa polemica finisce per oscurare il vero problema. L’articolo 18 protegge una minoranza dei lavoratori italiani. La totalità dei giovani ne è esclusa così come i parasubordinati e il grande mondo dei dipendenti delle aziende al di sotto dei 15 lavoratori”. E aggiungevo concludendo: “Sarebbe un errore farsi chiudere sulla difensiva dai falsi modernizzatori. È la sinistra che deve lavorare a ridefinire i diritti del lavoro alla luce delle grandi trasformazioni in atto”.
È in questa ottica che il governo propose una serie di misure volte a incoraggiare la crescita dimensionale delle imprese. Tra queste, l’idea di continuare per un periodo transitorio ad applicare alle imprese che superano i 15 dipendenti la normativa precedente. In tale senso certamente era prevista la non automatica applicazione delle tutele ai nuovi beneficiari. Ma con l’obiettivo evidente di accrescere, sia pure gradualmente, in modo significativo la platea dei lavoratori protetti. Si può condividere o meno questa impostazione e, all’epoca, Cofferati non la condivise ritenendo che si dovesse mantenere la rigidità della normativa esistente; tuttavia nessuno può disconoscere che quella discussione fu, tutta interna alla sinistra, sul modo migliore di difendere i lavoratori. “Una discussione in famiglia”, l’ha definita uno studioso attento come Piero Ignazi, nella quale non vi furono mai nell’ambito del centrosinistra accenti antisindacali o antioperai.
La realtà è che nel corso di questi lunghi anni non siamo riusciti a costruire un nuovo patto sociale capace di tenere insieme crescita economica, diritti del lavoro e welfare, malgrado i tentativi compiuti in questa direzione (penso alle politiche contro la precarietà fatte dal centrosinistra quando tornammo al governo nel 2006). Si è assistito a una progressiva erosione del rapporto tra il centrosinistra e il mondo frammentato del lavoro subordinato, in particolare dei lavoratori precari e meno protetti. Questo logoramento ha assunto la forma di un collasso e di una “rottura sentimentale” quando hanno preso il sopravvento “i falsi modernizzatori”.
Da qui bisogna con pazienza ripartire se si vuole ricostruire una prospettiva politica e non semplicemente aspettare che i populisti di vario colore portino il paese alla rovina. Per questo mi pare abbastanza ozioso e anche culturalmente datato un dibattito sulle alleanze politiche al centro o a sinistra con la ripetizione di uno slogan “dobbiamo conquistare i moderati” che ebbe un senso alcuni decenni fa ma che appare oggi persino surreale.
Non si esce dal populismo senza riconquistare la fiducia del popolo. E per la sinistra, anche per rendere meno ambiguo questo concetto di popolo, il punto di partenza non può che essere il lavoro. In fondo la forza dei grandi partiti fu proprio quella di garantire una connessione tra élite e masse popolari o per usare un’espressione gramsciana tra “intellettuali e semplici”. Se lo scenario rimane quello di uno scontro tra il popolo e la “casta dei privilegiati” non c’è spazio per la sinistra e più ci si allea con i moderati più si diventa bersaglio del populismo e del qualunquismo.

Repubblica 9.6.19
Marescotti "Noi delusi dai 5S torneremo a ciò che siamo Io voglio fermare i fascisti"
di Matteo Pucciarelli


MILANO — «C’è poco da fare adesso, bisogna andare a votare», dice Ivano Marescotti. L’attore — una storia di sinistra alle spalle, si candidò anche con la lista Tsipras ma l’anno scorsò votò 5 Stelle salvo poi pentirsene — è convinto che la priorità ora sia fermare l’asse Lega- Fratelli d’Italia.
Il M5S è fuori in quasi tutti i ballottaggi, cosa faranno i loro elettori secondo lei?
«Quando i 5 Stelle dicono di non essere né di destra e né di sinistra non dicono il vero: sono un po’ di destra e un po’ di sinistra. Quelli di destra ora votano Lega e affini. Gli altri...».
Gli altri cosa fanno?
«Eh, non hanno una vera sponda politica. Io ero stomacato alle Europee ma piuttosto che non andare a votare ho scelto "La Sinistra". Senza speranze di alcun genere, eh».
Ma ai ballottaggi invece?
«Guardi, vengo da Forlì, parlavo con un po’ di amici: contro i fascisti, e sono tali perché parecchi sono pure dichiarati, non ci si tira indietro. Anche perché sul piano locale si conoscono bene le persone. Per questo bisogna votare chi li combatte, cioè l’altra parte».
A parte il voto di "resistenza", al Pd non dà proprio chance?
«Il Partito democratico è comandato da Lotti e compagnia, qual è l’innovazione portata da Zingaretti? Renzi ha ancora l’80 per cento dei deputati».
Comunque tornando al M5S, governano con la Lega: possibile che i loro sostenitori vadano a votare per il centrosinistra ai ballottaggi, come spera lei?
«Io non sono un Cinque stelle, non li conosco e non li frequento. Ebbi a che fare con alcuni di loro nella battaglia per il no al referendum costituzionale e mi sembrarono persone per bene. Li votai, solo per cambiare il governo che c’era. Poi se fanno l’esecutivo con la Lega e oltretutto invece di arginarla l’hanno portata al doppio dei consensi... Ma a loro rivolgo comunque l’appello per il voto contro le destre».
Senta ma la sinistra che lei tornerebbe convintamente a sostenere qual è?
«Da quando non c’è più il Pci siamo qui che ce lo domandiamo. Il presupposto è stare dalla parte dei più deboli, ma non basta. Il punto è avere in mente un modello alternativo al sistema capitalismo, e non starci dentro. Qualcuno dovrà rifondarla questa idea, anche se non basta chiamarsi "rifondazione" per farlo davvero».
L’attore Ivano Marescotti, 73 anni, in passato ha sostenuto i Cinque Stelle ma alle Europee ha votato un appello per La Sinistra

La Stampa 9.6.19
Milano, psicologo di quartiere contro bulli, droghe e stress
di Chiara Baldi


Sempre di corsa, ossessionati dal lavoro, instancabili, che non amano perdersi in chiacchiere. E che poi soffrono di stress, attacchi di panico, ansia e solitudine. Ma anche preoccupati dalla violenza sulle donne e da quella sui ragazzi, in particolare in ambito scolastico. Milano si siede davanti allo “psicologo di quartiere” e si scopre più fragile. I cittadini della “capitale di tutto”, dal centro alla periferia senza distinzione di sorta, sono nelle mani di questa figura professionale che è una realtà attiva da un mese e ha già avuto successo tra i milanesi di tutte le età e classi sociali. E se in centro c’è ansia e stress da ultra lavoro, al Giambellino ci si preoccupa della violenza di genere, mentre al Corvetto il problema è l’integrazione. Risultati, questi, dell’indagine fatta dagli psicologi dei quartieri.
La panoramica
«Questa iniziativa ci permette di avere uno sguardo ampio su tutta Milano. Siamo partiti dallo studio dei gruppi di quartiere sui social (a Milano sono 80, il numero più alto d’Italia, ndr) e abbiamo notato che ogni quartiere aveva bisogni diversi: anzi, in uno stesso Municipio cambiavano da zona a zona», spiega Armando Toscano, 37 anni, coordinatore del progetto degli psicologi di quartiere per conto dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia che, insieme con il Comune, che offre gli spazi in cui operano i 9 professionisti dei 9 Municipi di Milano, è uno dei soggetti promotori dell’iniziativa.
Per ideare la figura dello psicanalista di quartiere Toscano e il suo team ha dato vita a uno studio, durato anni, sulle esigenze dei milanesi: poco meno di 7mila cittadini hanno partecipato, di cui il 70 per cento donne e di età compresa tra i 31 e i 55 anni. E un quarto degli accessi è da parte di persone di origine straniera. «Una delle preoccupazioni che è emersa in modo trasversale in tutti i municipi, con il 19 per cento delle richieste, è quella del bullismo: i genitori hanno bisogno di ricevere informazioni, servizi e di essere guidati sul tema della violenza e degli abusi, in particolare a scuola. Alcuni colleghi ci hanno riferito di studenti under 14 che decidono di abbandonare gli studi in seguito a eventi di bullismo», racconta Toscano, secondo cui uno dei motivi per cui le famiglie si trovano a dover affrontare oggi questo problema è dovuto al fatto che «i ragazzi hanno più fragilità rispetto al passato, vivono in contesti complessi e hanno fragilità narcisistiche più spiccate».
Ma non c’è solo il bullismo a preoccupare i milanesi. Nel Municipio 1, in pieno centro, predominano ansia, stress, attacchi di panico e solitudine. «La “Milano che fattura” costringe i cittadini a vivere in un costante vortice di malessere. E visto che il Municipio 1 è abitato da molti anziani, spesso rimasti vedovi, si aggiunge il problema della solitudine: sono persone che non hanno una vita sociale dinamica e questo li porta a vivere male», chiarisce Toscano.
La violenza
Nelle zone più periferiche come Barona, Lorenteggio, Giambellino ma anche Quarto Oggiaro, Comasina, Affori e Niguarda, invece, uno delle problematiche più ricorrenti è la violenza di genere. Che, avverte lo psicologo, «non ha una classe sociale di appartenenza ma è trasversale: può riguardare il padre di famiglia che soffre di alcolismo così come il partner della coppia senza figli che ha un elevato stress lavorativo». E ovviamente anche il problema integrazione è piuttosto sentito, sia in zone centrali come Porta Romana che in quelle più lontane dal Duomo come Gratosoglio, mentre è assente nei quartieri che negli ultimi anni sono stati più colpiti dalla migrazione (come via Padova).
Per l’assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino, «con lo psicologo di quartiere facciamo parlare la sofferenza, che è fondamentale per individuarla. I dati emersi ci dicono che ci sono servizi che andranno migliorati». Ma è nella collaborazione tra pubblico e privato, come in questo caso, che Majorino vede l’efficacia del servizio: «Abbiamo nuovamente dimostrato che la politica sociale non ha la forza necessaria a essere risolutiva se non in con queste modalità».

Corriere 9.6.19
l’Immigrazione è davvero un problema così grande?
Esagerazioni. Non siamo ridicoli: la nostra civiltà non è in pericolo per l’arrivo
di qualche straniero
di Carlo Rovelli


Nella furia della polemica, la politica della Lega, ora primo partito d’Italia, viene più volte tacciata di «fascismo». Per una parte considerevole del nostro Paese, «fascista» è il peggior insulto politico. Per un’altra, non so quanto estesa, evoca quasi nostalgia, se non vanto. Talvolta i leader della Lega hanno strizzato l’occhio a quest’altra parte, con linguaggio o piccole azioni più o meno simboliche. Ma ci sono davvero somiglianze fra l’attuale politica della Lega e la politica dei partiti fascisti degli anni Trenta, in Italia, Germania e Spagna?
Ce n’è una importante. Riconoscerla può essere indicazione utile per chi si oppone alla politica della Lega: la risposta attuale a questo aspetto della politica leghista, infatti, è forse nobile, ma mi sembra politicamente inefficace.
Mi riferisco alla strategia politica che fa di una questione marginale il centro del discorso politico, addita un gruppo minoritario come problema centrale, ingigantisce i problemi che questo gruppo solleva, ne fa il capro espiatorio per le difficoltà del Paese, e raccoglie consenso convogliando rabbia e paura contro di esso. Questo, che è quello che la Lega fa con l’immigrazione clandestina, è stata strategia caratteristica dei partiti fascisti, sfruttata con particolare efficacia dal nazional-socialismo tedesco. Ovviamente non c’è nulla nella Lega attuale che possa essere paragonato neppure lontanamente all’orrore assoluto del successivo genocidio ebraico. L’idea di un simile paragone sarebbe ridicola. Ma esiste una somiglianza fra l’uso politico del problema ebraico in Germania negli anni Trenta e l’uso politico del problema immigrazione clandestina nell’Italia (e in altri Paesi) oggi. È utile sottolineare questa somiglianza, non per dare argomenti a sterili rituali d’insulto, ma per riflettere sulla strategia di risposta a questa politica.
Vediamo dunque quale sia e fin dove arrivi la somiglianza. All’inizio degli anni Trenta, sconfitta militare, sanzioni economiche, e lo sconvolgimento sociale seguito alla rapida industrializzazione, avevano gettato parte della popolazione tedesca nella miseria. In quel frangente difficile, è emersa una forza politica capace di fare leva su scontento e disorientamento e trasformarli in consenso. Uno strumento di questo successo è stata la costruzione di un’illusione, un capro espiatorio contro cui convogliare paura e rabbia generate dalle difficoltà: la figura immaginaria del perfido ebreo. Una martellante propaganda è sorprendentemente riuscita a convincere un intero popolo, peraltro colto, che la colpa del disagio fossero gli ebrei. Le difficoltà della Germania non avevano nulla a che vedere con la presenza di ebrei nel Paese; ma la propaganda ha incantato la gente, e tanti si sono convinti che l’ebreo fosse il problema del giorno. Alcuni strati ricchi della società tedesca, non scontenti che masse in miseria dirigessero il risentimento contro il perfido ebreo anziché contro i privilegi, hanno discretamente appoggiato il partito nazional-socialista.
In Italia non c’è la fame della Germania del Trenta. Ma la lunga crisi economica ha soffocato speranze di futuro migliore. L’aumento delle disparità economiche, seguito come altrove nel mondo al crollo del sistema sovietico e alla fine dell’effetto di freno alle diseguaglianze sociali che aveva avuto in Occidente la paura del comunismo, ha creato disagio e scontento. L’incertezza ideologica delle sinistre, spostate su posizioni sempre più conservatrici, ha aumentato il disorientamento politico. In questo frangente difficile è emersa una forza politica che riesce a fare leva sullo scontento trasformandolo in consenso. Uno strumento di questo successo politico è la creazione di un’illusione, un capro espiatorio immaginario contro cui convogliare rabbia e timori: lo sporco immigrato illegale, che toglie ricchezza agli italiani, crea insicurezza e mette in crisi la nostra civiltà. Una martellante propaganda contro l’immigrato, un ingigantimento mediatico dei piccoli problemi creati dall’immigrazione, stanno incredibilmente riuscendo a convincere un intero popolo, peraltro colto, che la colpa delle difficoltà del Paese siano gli immigrati.
Le attuali difficoltà economiche e sociali dell’Italia non hanno nulla a che vedere con la presenza di immigrati, clandestini o meno. L’effetto generale dell’immigrazione sull’economia, se lo si vuole misurare, è più positivo che negativo. I reati non sono aumentati in Italia, anzi, sono diminuiti. Ma la propaganda incanta, e tanti si sono fatti abbindolare e si sono convinti che il problema dell’Italia sia l’immigrazione. Alcuni strati ricchi della società italiana, non scontenti che le masse dirigano il risentimento contro lo sporco immigrato anziché contro i privilegi, discretamente appoggiano la Lega. Che gentilmente ricambia proponendo di diminuire le tasse sopratutto ai più ricchi: le tasse con cui si devono pagare i servizi sociali per tutti.
Problemi generati dall’immigrazione esistono, ovviamente, ma sono irrisori rispetto a questioni serie come la persistente stagnazione economica, la mancanza di lavoro, le crescenti disparità sociali, le italianissime mafie sanguinarie, corruzione, evasione fiscale, e diffusa illegalità. Sono ancor più irrisori rispetto a rischi globali come quelli ambientali e di guerre. Eppure la propaganda di televisioni e giornali di destra martella su ogni minima difficoltà generata dall’immigrazione, ne fa esempi paradigmatici, li mette al centro del discorso politico. Un abile gioco di prestigio ha convinto gli italiani che se hanno meno soldi in tasca è irrilevante — per esempio — il fatto che la ricchezza del mondo si concentri nelle mani di pochi Paperoni: è perché un po’ di nullatenenti sono venuti d’oltremare a rubarci il pane. Il partito che gioca questo perfido gioco di specchi diventa il primo partito del Paese.
L’opposizione a questa destra risponde soprattutto facendo leva su commozione, simpatia e indignazione per le sofferenze dei profughi. Condivido commozione, simpatia e indignazione; ma questa non è la risposta politica efficace. È una risposta che contribuisce a ingigantire il problema, e quindi al successo della politica della destra: si polarizza la discussione, spaventando ulteriormente quei molti nostri concittadini che si sono già fatti convincere che sia in atto un’invasione. La risposta efficace, mi sembra, è l’opposta: smontare il castello di specchi creato dalle ridicole grida «al lupo al lupo l’invasione», riportando la questione immigrazione all’irrilevanza che le è propria.
Mio padre era persona dolce e intelligente. A oltre novant’anni, viveva serenamente. Una badante lo accudiva con affetto. In una delle mie ultime visite, l’ho trovato inquieto. Gli avevano detto che l’autobus che prendeva la badante era pieno di sporchi e puzzolenti neri portatori di orrende malattie, che lo mettevano in pericolo per contagio indiretto. Nonostante la sua intelligenza e cultura, era ansioso per questo pericolo immaginario e assurdo, di cui però tutti parlano nella sua città. Uomo nero, sporcizia, contagio. Oscuri spettri, paure, avevano trovato dove materializzarsi: il nero portatore di contagio. Come la maggioranza del Paese, papà gli immigrati li incrociava appena, ma la pe-stilenziale paranoia collettiva generata dalla propaganda leghista era arrivata alla sua serena vecchiaia. «Ci invadono, corrodono i fondamenti della civiltà, distruggeranno tutto, sono terroristi, stupratori; chiudiamo le porte, barrichiamoci, salviamoci, teniamoli fuori. Votate me e vi salverò dal male che invade».
La sola rilevanza della questione dell’immigrazione è il vantaggio politico che ne stanno traendo Lega e altri partiti di estrema destra in Europa. Trasformare questo problema nel problema centrale è imbambolare i nostri concittadini. Questa, mi sembra es-sere la risposta efficace alla creazione ad arte di un falso problema: mostrare quanto le paure siano ridicole, quanto siano strumentali. Non siamo ridicoli: la nostra civiltà non è in pericolo per l’arrivo di qualche straniero. I soldi che scarseggiano dalle tasche degli italiani non finiscono nelle tasche di poveracci immigrati: sono magari nelle tasche capienti di famiglie spudoratamente ricche. Convogliare rabbia contro il capro espiatorio immaginario di un invasore è prendere in giro la gente, per interessi di parte. Il messaggio della sinistra, mi pare, dovrebbe essere questo: non fatevi prendere in giro.

Corriere 9.6.19
I professori indeboliti
La solitudine in cattedra
Il malessere profondo dei docenti privi di autorità e inascoltati
«La nostra competenza è inutile
Non abbiamo più ragion d’essere»
di Marco Imarisio


Gli insegnanti che se ne vanno sono sempre di più. Le domande presentate fino allo scorso 3 giugno per accedere a «quota 100» tra i dipendenti pubblici sono in totale 46.099. Quelle che provengono dal comparto scuola fanno la parte del leone con 32.100 richieste, 18.700 inviate dal corpo docente, secondo il calcolo fatto dall’Inps, sovrapponibile alla stima dei sindacati, che prevede fino a 25.000 uscite annuali dovute alla formula 62+38, alle quali bisogna aggiungere altri quindicimila pensionamenti con requisiti ordinari. A metà dell’anno in corso, le richieste di lasciare la cattedra sono già 8.000 in più del 2018-2019, un dato che secondo le associazioni di categoria a settembre lascerebbe scoperti 120-140 mila posti, azzerando di fatto le 110 mila stabilizzazioni dei precari fatte dalla Buona Scuola. Non è un caso che il Miur abbia inserito nel decreto Crescita in discussione alla Camera un emendamento che farà entrare in ruolo i docenti precari che hanno svolto 36 mesi di servizio negli ultimi 8 anni. La parola «esodo» forse è una sintesi esagerata, buona per un titolo di giornale. Ma rende l’idea. E i numeri parlano chiaro.
«Ci deve pensare la scuola». Quante volte lo abbiamo sentito. In occasione di qualunque caso di cronaca che riguardi gli adolescenti, dalle baby gang al bullismo, dalla lotta alla droga a una educazione civica che latita. Ma nessuno pensa alla scuola, salvo nelle annuali ricorrenze, come la maturità, quando il discorso viene declinato comunque in modo tecnico, le tracce di esame, le novità. La scuola è scomparsa anche dai radar della politica. Dopo un biennio di discussioni spesso aspre sulla Buona Scuola, il nuovo governo l’ha messa in secondo piano, oscurata da altre priorità, che si chiamino immigrazione o reddito di cittadinanza. Quando c’è da tagliare, quattro miliardi negli ultimi cinque anni secondo i sindacati, meglio il silenzio. E così anche i numeri sugli abbandoni dei docenti passano senza lasciare traccia, nonostante quantifichino la spirale di disamore e frustrazione che da troppo tempo, vent’anni almeno, avvolge gli insegnanti, l’unico elemento fisso di un paesaggio umano che si rinnova ogni settembre. La scuola è l’ultimo luogo dove gli italiani condividono una esperienza comune. Ma nessuno sa più cosa succede davvero nelle aule scolastiche, e forse non interessa neppure saperlo.
Anche i migliori ogni tanto si ammalano di labirintite. «Questo stress continua comincia a pesarmi fisicamente». Era stato bello vedere i cinque professori italiani scelti dal Miur sulla passerella del Global Teacher Prize a Dubai, di solito riservata ad attori e calciatori famosi. Nel marzo del 2017, Dario Gasparo era tornato a casa con il suo assegno da 30 mila euro. Non è ancora riuscito a spenderli. Aveva deciso di impiegarli per un giardino trentennale, un’aula all’aperto all’interno del suo istituto, la scuola media Caprin di Trieste, dove insegna matematica, chimica e fisica. Gli ostacoli amministrativi e la burocrazia gli hanno fatto vedere le stelle, non solo in senso figurato. «Somatizzo perché ho spesso la sensazione di incartarmi».
Non è solo la consapevolezza di essere ormai diventato il lato debole del triangolo insegnante-alunno-genitori, quella ormai è agli atti. Anche nella tranquilla Trieste può accadere di vedersi tornare indietro la nota sul diario a un alunno colpevole di avere sparpagliato le sue feci sul gabinetto, con la firma accompagnata da un appunto. «Mio figlio mi ha raccontato una cosa diversa. Dovremo chiarire». C’è un malessere più profondo, identitario, che colpisce anche chi dal proprio modo di insegnare ha ottenuto riconoscimenti importanti. «Con gli anni realizzi che le tue competenze non servono. E hai sempre meno tempo a disposizione. Mentre parli, dopo dieci secondi ti accorgi che qualche alunno distoglie lo sguardo. Gli effetti dei cellulari, della connessione perpetua. Ma tanto non importa. Perché ormai il lavoro è mirato sulle nostre paure. La prima cosa è evitare i ricorsi, stare attenti al pericolo della culpa in vigilando. E così perdiamo ogni giorno di più la nostra ragion d’essere».
Nelle scuole di Shanghai non esistono bidelli e sorveglianti, perché fanno tutto gli alunni, e non c’è bisogno di controllarli. Le differenze tra i Paesi possono consolare. Ma nella classifica quinquennale pubblicata lo scorso dicembre del Global Teacher Status Index che valuta la reputazione sociale degli insegnanti in 35 Paesi, l’Italia è malinconicamente ultima in Europa, sopravanzata di poco anche dalla Turchia, e terzultima dopo Brasile e Israele. Sono sondaggi che valgono il giusto, anche solo per avere conferma di una sensazione ormai certificata, che gli insegnanti italiani avvertono sulla loro pelle. Come è potuto accadere? Come siamo potuti passare degli austeri maestri di Collodi e dal maestro Manzi a questo stato di prostrazione? Adolfo Scotto Di Luzio, docente di storia della pedagogia e delle istituzioni culturali all’università di Bergamo, considerato oggi uno dei massimi studiosi della scuola italiana, ha una tesi. E per dimostrarla parte da un passo del messaggio inviato dal ministro Marco Bussetti a un convegno sul ruolo dell’insegnante nella società liquida che si è svolto a Roma lo scorso ottobre. «In un sistema integrato con il mondo del lavoro, la scuola non deve essere un luogo fatto solo per studiare, ma anche per conoscere se stessi» diceva l’attuale titolare del Miur.
«Appunto» ribatte Scotto Di Luzio. «Nelle tre famose “I” della riforma Moratti, due lettere su tre stavano per impresa e informatica. Tutte le leggi e le direttive approvate negli ultimi anni vanno in direzione di una scuola di formazione, conforme alle esigenze del lavoro. Storia, filosofia, letteratura, persino la matematica, non contano più. Tutto quello che i docenti sanno, non vale nulla. La loro perdita di ruolo e di prestigio comincia con questa impostazione condivisa da ogni forza politica. Tutte le riforme che si sono susseguite negli anni portano a questo modello di scuola che potremmo definire confindustriale, e sono sempre state concepite in modo ossessivo contro gli insegnanti, considerati portatori di un sapere vecchio e inutile, non aggiornati, e additati come ultimi depositari di privilegi ingiustificati. La conseguenza è un’istruzione lasciata al mercato, alle risorse dei singoli. La famiglia abbiente del Meridione spedisce il figlio a Milano, mentre la famiglia milanese lo manda a Londra. Vince chi ha la possibilità di comprare una scuola migliore. La politica ha deciso di non affrontare la questione, riempiendosi la bocca solo di tecnologie in classe, lasciando fare al mercato. Fino agli anni Novanta l’insegnante sapeva bene quale era il suo compito. Oggi, a domanda, non sa cosa rispondere». La difesa corporativa non si addice a Scotto Di Luzio. «Gli insegnanti italiani hanno interiorizzato questa tendenza al ribasso». Nella sua carriera di docente delle scuole di specializzazione, racconta di trovarsi spesso di fronte ad aspiranti professori che studiano sui riassunti, su Google, come i loro studenti. «Non è colpa loro, ma la preparazione dei giovani docenti ormai è parte del problema. Come se ci fosse un rassegnato adeguamento alla propria perdita di identità».
La voce degli insegnanti non si sente, perché il ruolo del capro espiatorio, per il quale sono perfetti, non prevede repliche. A loro non viene mai chiesto nulla, perché la loro opinione non deve disturbare il dibattito autoreferenziale della politica. Se qualcuno lo facesse, scoprirebbe una diffusa voglia di semplicità. Non un ritorno al passato, quanto piuttosto il recupero dei fondamentali, principio di autorità, assunzione di responsabilità da parte dell’allievo e delle famiglie, come unica via per ridare dignità e visibilità a chi nella scuola ci lavora. L’ex maestro di strada Marco Rossi Doria è stato l’ultimo insegnante a mettere piede al Miur, sottosegretario dal 2011 al 2014 sotto i governi Monti e Letta, esperienza che gli ha lasciato qualche amarezza. «Ci ho provato, a far capire che sulle spalle degli insegnanti vengono poste responsabilità ingiuste, perché non compete a loro l’educazione in senso stretto degli alunni, e non possono sostituirsi alle famiglie. Ma ho fallito». Non resta che ripartire dalle piccole cose buone, da una modesta proposta. «L’onda lunga dei pensionamenti, anticipati o meno, continuerà. Ed è vero che esiste un problema di formazione dei docenti. La generazione dei grandi concorsi degli anni Settanta, composta da gente che ha imparato questo mestiere sul campo, dovrebbe essere considerata una risorsa, per fare da ponte tra il vecchio e il nuovo con gli insegnanti appena immessi in ruolo. Una forma di assistenza, una trasmissione dei saperi».
L’ottimismo non abita più qui, neppure tra le righe di questo articolo. Paolo Galli si congeda senza nessun rimpianto, con un certo sollievo. «La considerazione della quale gode la scuola è data dalla carenza di materie prime. Carta, carta igienica, fotocopiatrici vecchie di anni, computer che sembrano il Commodore 64. Ho sempre pensato di fare il lavoro più importante del mondo, ma forse mi sbagliavo anche su questo. Peccato, perché resto ancora convinto che la scuola anticipi quel che saremo, quel che diventerà la nostra società. Non è vero che gli insegnanti sono inutili come le mosche. Sarebbe bello che qualcuno prima o poi dicesse con chiarezza cosa fare ai colleghi che restano, senza caricarli di circolari astratte che grondano sociologia d’accatto».
Per ritrovare un raggio di sole, bisogna scendere a sud. A casa di Maria Franco, che per 35 anni ha insegnato italiano nel carcere minorile di Nisida. C’era anche lei sul palco di Dubai, tra i cinque migliori insegnanti italiani del 2017. Adesso è arrivato il momento dei saluti. «Collocata a riposo per raggiunti limiti di età». Ma rifarebbe tutto. Sentirla raccontare di quando le detenute scrissero dei racconti d’amore, di quando un suo ex allievo diventato pizzaiolo non volle farle pagare la cena, grato dopo anni per l’aiuto ricevuto, restituisce il senso profondo di un mestiere bello e necessario. «Abbiamo goduto di un paradosso. Le condizioni non favorevoli, l’orizzonte ristretto, ci hanno imposto di fare rete. Ognuno, dagli educatori ai formatori fino alla professoressa, sapeva bene cosa fare. Una ricetta semplice. Capisco la disillusione dei colleghi. La scuola ha bisogno di definire i propri obiettivi e di risorse per rag-giungerli. Se un Paese ci crede davvero, le deve trovare». Nessuno lo ha detto meglio di Derek Bok, ex presidente dell’università di Harvard tanto ambita dagli studenti di tutto il mondo, e nessuno dovrebbe dimenticarlo. Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza.

il manifesto 9.6.19
Oggi urne aperte in 136 comuni


Oggi dalle 7 alle 23 oltre 3,6 milioni di italiani sono chiamati alle urne per i ballottaggi in 136 comuni. Al voto 15 capoluogo di provincia (Potenza, Campobasso, Avellino, Foggia, Livorno, Prato, Ferrara, Forlì, Reggio Emilia, Cremona, Ascoli Piceno, Biella, Verbania, Vercelli e Rovigo), in 109 comuni con più di 15mila abitanti e in 12 più piccoli. La Lega cerca conferme anche a sud e punta su Potenza e Campobasso (qui il ballottaggio è con i 5S).
A Foggia Franco Landella, sindaco uscente del centrodestra, è al ballottaggio con Pippo Cavaliere, centrosinistra. Ad Avellino corsa tra Gianluca Festa e Luca Cipriano, entrambi del centrosinistra. Scontro a destra ad Ascoli Piceno, tra Marco Fioravanti (di Fdi, sostenuto dalla Lega) e Piero Celani, Fi. A Reggio Emilia il sindaco uscente dem Luca Vecchi ha sfiorato la vittoria il 26 maggio contro Roberto Salati, centrodestra.
A Ferrara il leghista Alan Fabbri ha quasi battuto Aldo Modonesi. A Forlì sfida tra Gian Luca Zattini (centrodestra) e Giorgio Calderoni (centrosinistra).
A Rovigo tra Monica Gambardella (Lega, Fdi, Fi) e Edoardo Gaffeo (Pd e civiche). A Cremona tra il sindaco uscente Gianluca Galimberti e Carlo Malvezzi, centrodestra.

La Stampa 9.6.19
Ballottaggi: i grillini ago della bilancia
Oggi urne aperte in 121 comuni e 15 capoluoghi. Salvini punta sull’Emilia. Per Zingaretti partita cruciale
di Carlo Bertini


Può sembrare paradossale, ma i protagonisti di oggi nei 121 comuni e 15 capoluoghi che andranno al ballottaggio saranno i grillini. Ufficialmente da Roma non danno indicazioni di voto, ma ovunque saranno loro a fare la differenza.
C’è un motivo preciso per cui il Pd spera nella stampella dei 5Stelle: se Salvini tracimasse in regioni come Emilia, Toscana e al sud, non si riuscirebbe più ad arginare il suo strapotere; viceversa si potrebbero riequilibrare un poco i rapporti nella maggioranza. Fatto sta che per Nicola Zingaretti la partita è cruciale: spuntare la vittoria ai ballottaggi (specie a Livorno e nelle regioni rosse) e aggiudicarsi la tornata di amministrative confermerebbe il radicamento del nuovo Pd nelle realtà locali. Dandogli una spinta a superare l’era Renzi e a costruire una coalizione larga che ruoti intorno ai Dem, in grado di apparire una valida alternativa per sfidare il centrodestra.
Ma è un test anche per Di Maio: i cinque stelle sono in gara solo a Campobasso, ma i big M5S potranno capire se il loro elettorato sia più incline a spostarsi a sinistra o a destra. E se eventuali cantieri con il Pd dopo un voto delle politiche possano avere un appeal per i loro elettori.
Per Salvini è doppia sfida: sul piano simbolico prova a varcare il Rubicone, insidiando città come Ferrara o Reggio in Emilia e altre in Umbria e Toscana. E sul piano politico deve verificare quanto le coalizioni di centrodestra con Forza Italia riescano ad avere la meglio: specie in alleanze locali quasi sempre a trazione leghista.
Si va al ballottaggio dunque in 136 comuni di cui 15 capoluogo, con oltre tre milioni e mezzo di elettori. La Lega vorrebbe rastrellare campanili al sud, come Potenza e Campobasso, dove il centrodestra parte in vantaggio. A Campobasso, che insieme a Termoli ha dato il là alle trattative per una desistenza tra Pd e 5Stelle (poi smentita) c’è l’unico derby tra Lega e M5S. Centrodestra in vantaggio anche a Foggia dove il 15% di voti andati ai 5stelle saranno decisivi. Così come lo saranno a Livorno e Prato e non solo. In Emilia Romagna si giocano le sfide principali della Lega: Reggio Emilia è più difficile da espugnare, Ferrara molto meno; Forlì, Rovigo, Cremona altre partite significative.
In Piemonte si va al voto a Biella, Verbania e Vercelli, dove se la vedranno sempre centrodestra e centrosinistra. Con M5S ago della bilancia.

Il Fatto 9.6.19
Unite peggior destra e miglior sinistra
di Furio Colombo


Chi conosce persone di “sinistra” sa che si è subito diffusa una sorta di sollievo nell’apprendere del ritorno dei socialdemocratici al governo della Danimarca. Stesso partito con rigoroso pedigree socialista (occupazione, salari, attenzione alle scuole e agli ospedali, protezione ai più deboli, sostegno a famiglie e bambini, parità delle donne) con in più un correttivo che ha subito portato al successo: tutti sì, ma gli immigrati no. Sono i giorni in cui reparti militari americani al confine con il Messico e reparti militari messicani al confine con il Guatemala sono schierati in fitta catena per impedire che le disperate carovane di famiglie in fuga dal banditismo e dalla fame, che continuano ad arrivare dai poverissimi Stati centroamericani, possano passare il confine e varcare la frontiera. I confini sono chiusi e devono restare chiusi. Se lo restano, decenni di illusorio lavoro delle Nazioni Unite nel tentativo di mettere in contatto i ricchi con i poveri, e di colmare, almeno fino a un grado minimo di sopravvivenza, i paurosi dislivelli di esistenza e sopravvivenza fra popoli e popoli, Stati e Stati, e giochi economici ben congegnati dove comunque il più forte si prende tutto, saranno stati inutili.
Ancora una volta il leader mondiale della riorganizzazione del mondo è il presidente Usa. Donald Trump ha portato una straordinaria innovazione nella storia del mondo agiato. Prima di lui, presidenti americani avevano cercato, con vera grandezza di visione (Roosevelt, Kennedy, Carter, Clinton, Obama) di accostare le due parti (i ricchi e i poveri, gli stanziali e i profughi) e altri avevano soltanto espresso, ma con cautela e moderazione, buoni sentimenti e nessun tentativo di cambiare le cose.
Trump ha fatto squillare le trombe di un giudizio universale che proclama il diritto di razza, e di controllo esclusivo della propria ricchezza. Si tratta di proclamare un riconoscimento delle cose così come sono: i ricchi si difendono dietro confini chiusi e armati, pronti alla vendetta in caso di violazione (con diritto di prelievo di qualunque bene di necessità esistente presso i poveri, come il titanio in Africa). I poveri restano dove sono anche in caso di rovinosi cambiamenti climatici e di malattie. E, per precauzione, i volontari vengono scoraggiati, disprezzati e, in caso di rischio per la loro vita, denigrando ogni tentativo di salvezza come un costo inutile. Abbiamo sempre detto che Trump è un pessimo americano, e che gli americani della grande tradizione solidarista sono contro. Ma proprio in questi giorni una importante rivista “liberal” (The Atlantic) titola: “Se i progressisti non fanno rispettare le frontiere, ci penseranno i fascisti” (cito da Repubblica, 7 giugno). È la posizione del celebre e ultra-liberal sindaco di New York De Blasio, e di più di metà dei democratici che – a Washington – hanno il controllo di una delle Camere. Ma anche del socialista Sanders e di molti democratici post kennediani. La vera differenza fra le due posizioni prevalenti sulle barriere alla migrazione sta diventando il linguaggio e i modi di dissuasione. Secondo alcuni italiani, per esempio, “il muro” dovrebbe smettere di salvare in mare e dichiarare reato il salvataggio. Ciò che colpisce è che non si intravedano tentativi di affrontare il problema “migranti” come si fa con le malattie: non si negano ma si affrontano con espedienti che puntano al malanno, non alla persona malata. Prevale di nuovo la parola frontiera, come se il ricordo di un mondo con le frontiere chiuse (che portano fatalmente armi, soldati e guerra) fosse andato perduto, dopo avere insanguinato la storia. Un fatto sensazionale poco notato ma tristemente esemplare è la visita (che viene descritta come “amichevole”) fra Aung San Suu Kyi (Nobel per la Pace, lungamente prigioniera politica e ora presidente formale di Myanmar-Birmania) e il leader Orbán, che il dizionario, e non l’opinione, impone di definire “fascista”.
Orbán ha costruito una vasta barriera di filo spinato per isolare l’Ungheria, non ha mai visto un migrante, la sua minoranza da reprimere sono gli intellettuali liberi e antifascisti del suo Paese. Ma fa da sponda e alleato ai sovranisti e suprematisti europei come i leghisti italiani. La Nobel birmana conosce la tragedia del suo Paese, la persecuzione della minoranza uigura, e non l’ha mai condannata. Siamo di fronte all’espandersi di un “buon senso” di frontiera, un fenomeno grave e in crescita? Qualcuno sta trovando un punto di congiunzione fra il timore di ritorno del fascismo e un modo di rassicurare i cittadini che rafforza la democrazia? O stiamo assistendo a un forte sbandamento a destra? Quando sapremo a quale sponda del guado stiamo approdando, dovremo riconoscere che solo il Papa, tra i leader, ha continuato a vedere gli immigrati come esseri umani in cerca di un aiuto che la peggiore destra e la migliore sinistra hanno, quasi con le stesse ragioni, negato.

Corriere 9.6.19
Germania
Parla Annalena Baerbock, leader dei Grünen
«Il governo ai Verdi? Noi ci siamo»
di Paolo Valentino


«la lotta verde terrà unita l’Europa, dobbiamo prendere sul serio i giovani». Così al Corriere la leader dei Grünen, i Verdi tedeschi, Annalena Baerbock. «In Germania serve un nuovo voto. Ed è giusta la procedura d’infrazione all’Italia in assenza di segnali positivi».
D icono di lei che sarà la prossima cancelliera tedesca. Dicono che per quanto sia l’altro co-presidente dei Verdi, Robert Habeck, la popstar della politica federale, il Festspiel, il festival permanente che a ogni uscita attira uomini e soprattutto donne da ogni parte della società, è lei il vero centro del potere nei Grünen. È soprattutto lei, «feticista del dettaglio», che ha cambiato i Verdi facendo dissolvere nell’aria l’eterna divisione tra realò e fundi , pragmatici e fondamentalisti. Annalena Baerbock ha 38 anni, due figlie piccole, ha studiato alla London School of Economics, siede al Bundestag da due legislature e parla con la velocità di una mitragliatrice. Guida il partito da appena 18 mesi, sufficienti però a far passare i Grünen da sesta a seconda forza politica tedesca nelle elezioni europee e, storia di questi giorni, a portarli in testa a tutti i sondaggi con il 26% delle intenzioni di voto.
La Germania deve abituarsi all’idea di un cancelliere verde?
«I partiti politici devono abituarsi al fatto che i temi dei Verdi, in particolare la difesa del clima, non possono essere considerati marginali, ma devono stare al centro dell’azione di ogni governo».
E lei come si sente a essere descritta come futura cancelliera tedesca?
«Io e Robert Habeck ci siamo candidati alla presidenza dei Grünen per affrontare i problemi più urgenti, non per girare intorno alla domanda su chi dei due faccia cosa. E la nostra azione sta avendo abbastanza successo. Ci concentriamo su temi concreti come il clima o gli alloggi a prezzi ragionevoli, su come far funzionare meglio l’Europa. Chi perde tempo a fare speculazioni, perde forza».
Il prossimo obiettivo dei Verdi è diventare primo partito in Germania?
«Non siamo ossessionati dai sondaggi, lavoriamo per assumerci responsabilità e poter tradurre in pratica le nostre idee».
Joschka Fischer, il vostro padre nobile, dice che il successo elettorale comporta per i Verdi grandi responsabilità e sfide. Siete pronti?
«Prendiamo molto sul serio, a tutti i livelli, il fatto che così tante persone ci diano fiducia e contino su di noi. Al Bundestag rimaniamo opposizione ed è difficile avere una maggioranza sulle nostre proposte di legge, che continuiamo comunque a fare per indicare soluzioni alternative. Ma ovviamente vogliamo agire sull’intero territorio nazionale, nei Land e nei comuni dove in molti posti siamo diventati il primo partito».
Cos’hanno capito i Verdi meglio degli altri partiti tedeschi, soprattutto la Cdu e la Spd?
«Non ci siamo chiusi in noi stessi. Ci misuriamo con le grandi questioni. Facciamo proposte, indichiamo una prospettiva: come tenere insieme l’Europa? Come portare la Germania fuori dalla dipendenza energetica dai combustibili fossili offrendo nuove prospettive a chi ci lavora? Penso anche che noi Grünen abbiamo preso sul serio i giovani, la generazione che vivrà sulla propria pelle le conseguenze della crisi del clima. Abbiamo dato loro fiducia, portandoli anche nella politica reale e candidandoli nelle nostre liste».
La Grosse Koalition tra Cdu e Spd sotto la guida di Angela Merkel sembra paralizzata. Cosa verrà dopo: un’alleanza tra Cdu, Verdi e liberali, un esecutivo di minoranza o nuove elezioni?
«La Grosse Koalition deve chiedere a sé stessa se abbia ancora la forza di governare questo Paese. È stato fatale che dopo le elezioni del 2017, l’Europa abbia dovuto aspettare così a lungo perché la Germania avesse un governo. Poi ci sono state le proposte francesi per rilanciare l’economia e l’Eurozona, ma dal governo tedesco c’è stato solo silenzio. L’Europa non può ancora aspettare che la Germania faccia qualcosa, ecco perché il governo federale dovrebbe agire. Se non è più in grado di farlo allora dobbiamo andare a nuove elezioni. La gente ha diritto di decidere nuovamente, anche perché nel frattempo tutti i partiti si sono dati nuovi leader, i temi centrali sono diversi dal 2017 e le sfide sono più grandi. Occorre un nuovo e più forte mandato popolare».
Come volete usare il vostro successo alle elezioni europee?
«L’Europa ha assicurato 70 anni di pace. E su questo fondamento vogliamo continuare a costruire per il XXI secolo. È nata come Comunità del carbone e dell’acciaio, ora deve diventare Unione della difesa del clima. Dobbiamo far sì che il mercato interno non valga solo per merci e servizi ma anche per i prodotti digitali. I giganti del Web devono pagare le tasse e dobbiamo investire nella coesione dell’Europa. Non serve amministrare lo status quo, così si diffonde il sentimento che la politica protegga il potere non le persone. Invece è vero il contrario: l’economia, nel senso dell’economia sociale di mercato, dev’essere al servizio delle persone».
Salario minimo europeo, tassa sul web e tassa ecologica sulle emissioni nocive: basteranno queste misure a entusiasmare i giovani per l’Europa?
«Sono stati proprio i giovani, in Germania e altri Paesi, ad aver capito che l’Europa è il futuro, la loro Heimat. Per questo sono andati in massa alle urne. Vivono in luoghi diversi, ma la varietà dell’Europa li unisce. Ora si aspettano che qualcosa si muova nell’Europarlamento. La cosa più importante sarebbe di avere una o un presidente della Commissione che porti avanti e cambi l’Europa in modo che i giovani non perdano fiducia nel futuro. In concreto significa applicare gli accordi di Parigi sul clima ma anche rafforzare l’Europa sociale, il vero kit per tenere insieme l’Unione. Un’Europa comune deve avere diritti sociali comuni. In Germania significa il diritto di base all’alloggio, che è nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, ma non c’è nella Costituzione tedesca».
Considera legittimo che Manfred Weber rivendichi la presidenza della Commissione europea, in quanto Spitzenkandidat del più forte raggruppamento politico, quello dei popolari?
«Era tempo che i quattro gruppi più forti (popolari, socialisti, liberali e Verdi ndr ) si incontrassero per discutere su come portare avanti l’Europa. Ci vuole una donna o un uomo appassionatamente europeista, la quale o il quale abbia anche il coraggio di cambiarla. La futura o il futuro presidente della Commissione deve dimostrare di avere una visione concreta per un’Unione avanzata, sostenibile e sociale. Finora non ho visto nulla di tutto ciò in Manfred».
Che ne pensa della procedura d’infrazione proposta dalla Commissione contro l’Italia per violazione delle regole su deficit e debito?
«Penso che in Europa ci siano regole comuni che tutti i Paesi debbano rispettare. Riguardo alle situazioni di bilancio passibili di procedura, com’è attualmente il caso dell’Italia, significa che i governi nazionali devono presentare piani nei quali spiegano in che modo attraverso un’equa politica fiscale e finanziaria intendono ridurre il deficit e riportare sotto controllo il debito per evitare una procedura d’infrazione. Quando non accade, la Commissione in quanto guardiana dei Trattati deve avviarla».

Repubblica 9.6.19
La crisi in Germania
Schulze, la leader dei Verdi "Se cade la Grande coalizione non saremo noi la stampella"
di Valerio Varesi


BOLOGNA — Katharina Schulze sembra sconfessare il cliché del politico tedesco serio e compassato. Si presenta sul palco di "Repidee" sorridente, solare vestita di rosa e molto casual. Ma dietro questa immagine vagamente bucolica si nasconde il carisma di una lady concreta e con le idee chiare sia in politica interna che su una visione del mondo radicalmente differente rispetto a quella dei partiti tradizionali. Sollecitata dalle domande della corrispondente di Repubblica da Berlino Tonia Mastrobuoni, dice senza esitazioni che i «Verdi non entreranno nella Grosse koalition e che se questa dovesse finire in crisi l’alternativa saranno le elezioni». Gli ecologisti, che nei sondaggi in Germania sono ormai indicati come il primo partito in molti länder, «non faranno da stampella». Detto questo, Schulze sottolinea la peculiarità del suo partito che non è di massa bensì «un partito di alleanze». Senza nessuna preclusione. «Noi stipuleremo accordi con chi condivide le nostre idee», dice la leader tedesca. Con un distinguo di non poco conto: «A patto che si tratti di partiti democratici ». Una precisazione opportuna se si tiene presente che Schulze è stata pesantemente minacciata dalla destra neonazista verso la quale nutre grande preoccupazione. Proprio di fronte a queste minacce ha potuto sperimentare come le destre estreme e populiste «costituiscano ormai una internazionale nera che si estende in molti Paesi europei » alla quale, secondo Schulze, va contrapposta «una internazionale democratica».
Quale sia la ricetta per questo futuro lo spiega con la chiarezza che contraddistingue il programma ecologista tedesco: uscita dai combustibili fossili, abbandono del nucleare, 100% di energie rinnovabili, più peso al trasporto pubblico e conversione verso l’elettrico. Un problema, questo, in un Paese in cui si concentra gran parte della produzione automobilistica mondiale. «Sono consapevole che l’industria dell’automobile dà lavoro a migliaia di persone e per questo non dico no al mezzo privato, ma voglio che si acceleri la sua conversione all’elettrico», spiega. «Non è vero che le idee dei Verdi fanno stare peggio — aggiunge — si possono creare tanti posti di lavoro anche cambiando la tecnologia rendendola ecocompatibile».
La stessa praticità Schulze la mostra verso un altro tema molto delicato finora appannaggio delle destre: quello delle tradizioni, estremamente sentite nella sua Baviera. Quella dell’Heimat è una corda sensibile, da sempre richiamo dei populisti e delle destre estreme. «Perché lasciare questo argomento a loro?», si chiede la leader dei Verdi. «Essere per la tradizione non significa necessariamente essere tradizionalisti — dice — significa semplicemente coltivare i propri legami con la storia del Paese. Anch’io voglio bene alla Germania». Nel suo programma, c’è anche qualcosa destinato a confliggere con i grandi interessi economici, vale a dire la proposta di espropriare i grandi fondi immobiliari che possiedono più di 3mila appartamenti per ovviare all’impennata vertiginosa degli affitti e frenare la speculazione. Ciò le è valso l’accusa di un eccesso di socialismo. Ma lei risponde serafica ribadendo che, più semplicemente, lavora per un mondo migliore.

Corriere 9.6.19
Il Messico cede al ricatto di Trump
E blocca i migranti per evitare i dazi
Accordo lampo dopo 48 ore di negoziati Seimila militari al confine con il Guatemala
di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON Due passi concreti per arginare le minacce di Donald Trump. Primo: il governo messicano si impegna a schierare seimila gendarmi della Guardia nazionale lungo il confine con il Guatemala. Secondo: i richiedenti asilo che hanno superato illegalmente la frontiera con gli Stati Uniti, torneranno in Messico e lì aspetteranno l’esito della loro domanda.
Dopo solo 48 ore di negoziato a Washington, venerdì 7 giugno, il Segretario di Stato Mike Pompeo e il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard sono riusciti a disinnescare una pericolosa catena di crisi. Il presidente americano, appena rientrato dal viaggio europeo, ha annunciato via Twitter «l’accordo» e l’annullamento della manovra sui dazi. Ieri mattina Trump ha aggiunto un particolare: «Il Messico ha accettato di cominciare immediatamente a comprare abbondanti quantità di prodotti agricoli dai nostri grandi e patriottici “farmers”».
Il risultato è stato accolto da un sollievo generalizzato tra i politici e nel mondo dell’economia.
La Casa Bianca aveva predisposto un piano dalle conseguenze devastanti. Le dogane erano pronte ad applicare, a partire da domani, un prelievo aggiuntivo del 5% su tutte le importazioni provenienti dal Messico, per un valore di oltre 350 miliardi di dollari. In sostanza una tassa secca di 17,5 miliardi su imprese e consumatori statunitensi. Il tributo sarebbe aumentato di un 5% ogni mese fino a toccare la quota del 25% il primo ottobre. Lo scenario avrebbe destabilizzato settori cruciali come quello dell’automobile e della grande distribuzione Usa. L’istituto Oxford Economics aveva calcolato che nel 2020 il prodotto interno lordo statunitense sarebbe calato dello 0,7%.
Fondi per la sicurezza
Per rispettare il patto il governo messicano ha bisogno di soldi E li chiede a Trump
Una scommessa d’azzardo, più che una manovra politica: ma per Trump l’intesa lampo con il Messico è la prova di quanto sia efficace la sua «Art of the deal», l’ arte di fare affari, com’è titolata la sua autobiografia manifesto del 1987. Non tutti sono d’accordo, però. A parte i commenti sarcastici dei democratici, bisogna tenere conto di altre dinamiche. Da giorni Wall Street seguiva con grande nervosismo gli sviluppi sull’ennesimo fronte aperto dal presidente. La Federal Reserve era entrata in allarme e aveva cominciato a inviare messaggi chiari alla Casa Bianca: le guerre commerciali stanno danneggiando la crescita del Paese. Le lobby industriali stavano premendo sui loro referenti al Congresso, tanto che la maggioranza del partito repubblicano aveva fatto sapere di essere pronta a rovesciare il decreto del presidente con l’appoggio dei democratici.
Sull’altra sponda il nuovo governo di Andres Manuel Lopez Obrador di tutto aveva bisogno tranne che di uno scontro con il suo principale cliente commerciale.
Alla fine Pompeo e Ebrard hanno trovato una via d’uscita. Adesso, naturalmente, bisognerà vedere quali saranno gli effetti diretti sul campo. I seimila militari inviati al confine con il Guatemala dovranno fermare «la marea» di profughi spinti dalla violenza delle cosche a fuggire dall’Honduras e da El Salvador: centinaia di migliaia di persone, famiglie, bambini che finora le forze dell’ordine messicane si sono limitate a «monitorare». Secondo le indiscrezioni raccolte dal Washington Post l’amministrazione Trump non si aspetta l’azzeramento dei flussi. Ora circa 60 mila migranti illegali vengono arrestati ogni mese mentre attraversano il confine. L’obiettivo realistico è scendere a 20 mila.
Lopez Obrador si è insediato alla guida del Paese lo scorso 1 dicembre, promettendo di spazzare via la corruzione di Stato e debellare i narcotrafficanti. Un programma che richiede uno sforzo militare e di intelligence finora mai visto. Ma soprattutto il governo messicano ha bisogno di soldi, tanti soldi: investimenti per cercare di rilanciare l’economia del Sud, risorse per rafforzare la legalità a tutti i livelli. Lopez Obrador li chiede a Trump. Nella dichiarazione congiunta di ieri c’è un riferimento preciso: «Stati Uniti e Messico riconoscono il forte legame tra la promozione della crescita economica nelle regioni meridionali messicane e il successo di politiche di sicurezza e prosperità nel Centro America». Le parti si sono prese altri tre mesi per discutere anche di questo. Nel frattempo l’emergenza è sempre più cruda. I centri di accoglienza di Texas e Arizona sono incredibilmente sovraffollati: saltate le condizioni igieniche di base. I funzionari dell’Ice, l’Immigration and customs enforcement, non sanno più che cosa fare. Aspettano, ormai da settimane, indicazioni da Washington.

Il Fatto 17.6.19
Chernobyl, una serie di disastri
di Michela A. G. Iaccarino


Il lampo nucleare. La nube nera che raggiunge il cielo. La polvere che fa brillare l’aria di grafite. Le linee telefoniche tagliate per evitare la disinformazia, in quella città sigillata nel suo inferno d’uranio 235. Le sirene d’emergenza che la notte del 26 aprile 1986 svegliarono Chernobyl risuonano nelle prime scene della serie tv che sta soffiando sulle braci dell’Est. Quello che accadde allora torna notizia da prima pagina oggi perché sono gli americani a raccontarla. Si riaccende l’incendio tra Mosca, Kiev e ora, anche la Hbo.
La crociata radioattiva dei giornali russi contro la serie del regista di Breaking Bad e Walking Dead, Johan Renck, è cominciata. È una caricatura, non la verità per Argumenty i Fakty. “Non è mostrata la parte più importante: la nostra vittoria” scrive la Komsomolskaya Pravda, che insinua che serva in realtà a minare la Rosatom, agenzia nucleare russa. All’eterna lotta tra fiction e propaganda, dove la verità è sempre materiale infiammabile, partecipa anche l’ultimo leader dell’Urss, Michail Gorbaciov, che ha commentato il suo personaggio a Echo Moskvy.
Il web slavo non ha dogana tra Ucraina e Russia. La rete fuma come le turbine di quell’aprile, lo fa anche il ministero della Cultura russo che non ha girato la serie tv per primo. Per alcuni giornali è fango e “offesa alla potenza nucleare russa”, per altri è una descrizione potente di quell’esplosione che uccise anche chi sopravvisse. Una giustizia filmica a puntate cadenzate, con qualche battuta aforistica, banale ma realistica, scambiata tra i personaggi: “La posizione ufficiale del partito è che non è possibile una catastrofe nucleare in Urss”. Un reattore non è politica, ma in Unione Sovietica tutto lo era.
È caccia a ogni particolare sbagliato: dal più grande al più insignificante, nella guerra fino all’ultimo dosimetro, numero esatto dei liquidatori e fotogramma. Ricostruzione scenografica esemplare. Carta da parati color perestroika, pizzi alle tende, telefoni e orologi d’epoca, come tute e maschere antigas. Sul set retro soviet ricostruito, gli scienziati negano la realtà, vomitano sangue sui camici bianchi, bruciano e muoiono. Uno dopo l’altro, con accento britannico. Ma “è un film, non un documentario!” ha ricordato per fortuna un ingegnere di Chernobyl. “C’è poco di reale ma lo spirito del film è giusto” ha detto un residente, Serhii Parashin. La ruota panoramica, le scritte ancora sulla lavagna a scuola, il sarcofago protettivo del radiatore, la città rimasta mummia radioattiva di se stessa. Chernobyl è ancora lì, sospesa come una Pompei nucleare, ingombrante reliquia sfruttata dal turismo nero. Una tragedia sempre sold out per l’agenzia di viaggio Cherobyl tour. “È difficile capire tra tutti questi turisti chi è venuto perché ha visto la serie” dice Julia Maskun, manager dell’organizzazione che preferisce il no comment sul prodotto tv.
Serhii Mirnuy, ex lavoratore della centrale, ora guida per i visitatori che pagano 200 dollari per una giornata tra macerie e fantasmi, dice che “la realtà di allora supera di gran lunga in emozione e fantasia la finzione della tv, sono un testimone”.
Nadia Filimonova, bambina di Chernobyl, aveva due anni nel 1986. “Tutti ci nascondevano che era successo qualcosa di terribile. Io ho saputo tutto solo a 6 anni, quando mi hanno spedito in Francia per curare malattie che si hanno solo in vecchiaia”. Oggi aiuta i bambini rifugiati della guerra del Donbas a Irpin. “I russi hanno silenziato tutto allora, vogliono rifarlo oggi”. Per lei non è questione di dettagli della ricostruzione, ma l’atto stesso di raccontare: “Noi ucraini oggi vajuem, combattiamo su tutti i fronti, questa è un’altra infovoina, guerra dell’informazione”.
Ieri la Pripryat sovietica, oggi l’Ucraina di guerra: per Nadia è una questione molto più vecchia di Chernobyl, è quella che riguarda il monopolio della narrazione della memoria sovietica. Soprattutto dopo Maidan. Ma il Cremlino ha deciso. È geopolitica anche il cinema e risponderà con misure a specchio: la storia di quegli eroici sovietici deve essere rinarrata in un nuovo serial russo, prodotto dall’Ntv, tv allineata alla linea patriottica, per mostrare il loro trionfo contro uranio, vento radioattivo e infine, un sabotatore della Cia, che nella storia alternativa di Mosca, è il vero colpevole del disastro. Lo spoiler sul reo è concesso, perché, come si dice in una delle prime scene della serie americana, “non importa chi è l’eroe, ma chi è il responsabile”. E Chernobyl, 33 anni dopo, è stata tutta colpa degli americani.

La Stampa 9.6.19
“La Cia dietro il disastro Chernobyl”
In una fiction la verità del Cremlino
di Giuseppe Agliastro


La propaganda del Cremlino tira in ballo la Cia nel disastro di Chernobyl.
La tv statale russa Ntv sta lavorando a una nuova serie sulla più terribile catastrofe nucleare di sempre. Un’opera in cui si insinua che, nel momento dell’esplosione, a Chernobyl c’era una spia americana. Lo sceneggiato è ancora in post-produzione ma è già stato sommerso dalle critiche per il tentativo di raccontare il tremendo incidente del 1986 senza alcun rispetto per la verità storica. Trattandosi di fiction sarebbe forse in parte anche legittimo. Ma dietro la serie sembrano esserci più interessi statali che artistici. Nonché un tentativo di far passare per fatti reali quelli che non lo sono.
Mosca da tempo diffonde una propria versione riveduta e corretta dei principali eventi storici. Una sorta di storia parallela secondo cui lo sbarco in Normandia non è stato cruciale per la sconfitta delle truppe di Hitler, la rivolta di Maidan in Ucraina è stata solo opera di forze neofasciste e i due agenti russi che hanno avvelenato a Salisbury l’ex spia doppiogiochista Sergey Skripal in realtà non erano altro che turisti e non hanno mai fatto nulla di male.
Le accuse a Washington
In questo caso l’obiettivo non proclamato è quello di puntare il dito contro Washington anche per Chernobyl. «C’è una teoria - ha detto il regista Aleksey Muradov - secondo cui gli americani si infiltrarono nella centrale nucleare di Chernobyl. Molti storici non escludono la possibilità che nel giorno dell’esplosione un agente dei servizi d’intelligence nemici stesse lavorando alla centrale». La tesi secondo cui dietro il disastro di Chernobyl ci sarebbe lo zampino degli 007 americani appare del tutto campata in aria. Infondata. Ma comoda per la narrativa del Cremlino e per la sua visione idealizzata della storia russa e di quella sovietica volta a rafforzare l’identità nazionale e a unire i russi attorno al loro leader, Vladimir Putin. E così, la serie tv filmata in Bielorussia ha tra i principali protagonisti un tenente colonnello del Kgb spedito nell’allora Ucraina sovietica sulle tracce di un pericoloso agente della Cia.
I finanziamenti
Difficile pensare che il governo russo non ne sapesse nulla visto che, secondo «Hollywood Reporter», il ministero della Cultura di Mosca ha finanziato l’opera con 30 milioni di rubli, oltre 400.000 euro.
L’incidente
L’esplosione che sconvolse il mondo avvenne nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986. Un test finito male fece saltare in aria il coperchio del reattore numero 4 contaminando mezza Europa. L’incendio fu estinto solo dieci giorni dopo. Le radiazioni uccisero in brevissimo tempo almeno 31 tra tecnici della centrale e vigili del fuoco. Ma si stima che negli anni tumori, leucemie e cardiopatie abbiano fatto centinaia di migliaia di vittime. Eserciti di «liquidatori» furono mandati allo sbaraglio a Chernobyl per limitare i danni della catastrofe. Indossavano enormi scafandri che però non li proteggevano adeguatamente dalle radiazioni. Se le conseguenze furono così gravi è anche per la pessima gestione dell’emergenza da parte del governo sovietico. Mosca dapprima cercò di nascondere il disastro. Quando non fu più possibile, tentò di minimizzare sulla sua reale portata. La cittadina di Pripjat, ad appena cinque chilometri dalla centrale esplosa, fu evacuata ben 36 ore dopo la fuga radioattiva.
Per qualcuno a Mosca però è forse più facile pensare a un complotto americano piuttosto che riconoscere gli errori delle autorità sovietiche.
Al contrario dello sceneggiato russo, la recente serie della Hbo dedicata a Chernobyl è stata lodata dai critici per la cura dei particolari e la fedele ricostruzione storica. Anche in Russia l’opera dell’americano Craig Mazin è stata apprezzata da molti. Soprattutto per il modo in cui ha valorizzato il sacrificio dei liquidatori e le sofferenze della gente comune.

Corriere 9.6.19
La disputa su Chernobyl in tv
Record di gradimento per la serie Usa sul disastro I russi lanciano la contro-storia: fu colpa della Cia
dal nostro corrispondente Giuseppe Sarcina


WASHINGTON «Qual è il costo delle bugie?» E «di chi è la colpa?». La mini serie Chernobyl comincia con due domande che, a distanza di 33 anni dal disastro nucleare, riaccendono uno scontro da guerra fredda tra russi e americani, evocando antichi complotti della Cia e più attuali manovre di sabotaggio economico.
La fiction in 5 puntate ideata dal newyorkese Craig Mazin, diretta dallo svedese Johan Renck e trasmessa dalla piattaforma Hbo, ha ottenuto un grande successo. Negli Stati Uniti è stata vista da un totale di 6 milioni e, secondo i rating della rete, come Internet movie database o Rotten Tomatoes, ha totalizzato il più alto indice di gradimento per questa categoria di programmi. Più del Trono di Spade.
In Italia arriverà da domani, su Sky Atlantic. In Russia nessuna tv ha comprato i diritti. Anzi il canale Ntv ha annunciato di aver pronta la contro-storia, quella autentica, per smascherare «la versione caricaturale» degli americani. Il regista è Alexey Muradov, 56 anni di Mosca, premiato quest’anno dalla National Academy per le arti e le scienze della Russia.
Il racconto di Mazin, 48 anni, prende le mosse da quella drammatica notte del 26 aprile 1986. Un’esplosione, poi un incendio nel reattore nucleare di Chernobyl, nel Nord dell’Ucraina. In queste settimana i media americani si sono concentrati sull’accuratezza scientifica della trasposizione sullo schermo. Micheal Shellenbergher, presidente di Envirnmental Progress ha sottolineato tutte le esagerazioni, se non le distorsioni della realtà. Un solo esempio, per non svelare troppo. C’è la scena drammatica di una donna che corre in ospedale per assistere il marito, un vigile del fuoco sfigurato dalle emissioni della centrale. «Non lo toccare o resterai contaminata» la ammonisce la scienziata-eroina. Ma le radiazioni non sono virus contagiosi.
Da ultimo, però, la discussione si è spostata sul piano storico-politico, diventando sempre più aspra. Stanislav Natanzon, popolare conduttore della tv Russia 24 ha commentato: «Mancano solo le fisarmoniche con gli orsi che ballano e poi siamo a posto». Come dire, facile rappresentare con luoghi comuni i meccanismi istituzionali dell’Unione Sovietica negli anni Ottanta, quelli di Michail Gorbaciov: burocrati gretti e servili; il culto della segretezza anche nell’emergenza; l’imbarazzante penuria di strumenti tecnologici e così via.
Anche la risposta messa in campo dalla Russia ufficiale, però, fa discutere. Il regista Muradov ha detto al tabloid Komsomolskaya Pravda: «Esiste una teoria che spiega come gli americani avessero infiltrato la centrale nucleare di Chernobyl; molti storici non negano che nel giorno dell’esplosione un agente dei servizi segreti nemici fosse presente nella stazione di comando». Conclusione: «Il mio show mostrerà una visione alternativa della tragedia di Pripyat (la cittadina vicino alla centrale, ndr)». Difficile che l’operazione non sia stata avallata dal Cremlino. L’emittente Ntv è controllata da Gazprom, l’industria petrolifera chiave, la base materiale del potere di Vladimir Putin. Altri opinionisti importanti, come Dmitry Steshin, sostengono che obiettivo della fiction americana è screditare l’industria nucleare russa, in modo da danneggiare la vendita di centrali all’estero della società statale Rosatom.
Dalla capitale russa, però, arrivano anche altre voci, come nota il quotidiano britannico The Guardian. La giornalista Ilya Shepelin ha scritto su Moscow Times: «Il fatto che sia un canale tv americano e non uno russo a raccontarci la storia dei nostri eroi è una fonte di vergogna che a quanto pare i media pro-Cremlino non riescono a sopportare».
Chernobyl è stato l’incidente nucleare più grave della Storia. Secondo un rapporto dell’Onu causò 65 morti accertati e almeno 4 mila casi di tumore alle tiroide. Ma esistono stime più catastrofiche, otre 20-30 mila morti su cui si continua a dibattere. Oggi è diventata meta anche di un turismo della memoria.
La gestione della crisi fu il test più importante per la politica della Glasnost , la trasparenza, predicata da Gorbaciov. Nel 1987 un tribunale sovietico identificò e condannò sei tecnici e ingegneri dell’impianto. Tra gli imputati non c’era alcun agente della Cia.

La Stampa 9.6.19
“Ho una faccia di gomma con la mappa della mia vita
Posso usarla come voglio”
di Antonio Monda


La cosa al mondo che la infastidisce di più è parlare degli Oscar, eppure ne ha vinti due. Frances McDormand ritiene che i premi non abbiano alcun senso, e in campo artistico siano addirittura dannosi. Guai poi a parlarle della cerimonia, «interminabile noiosa e fasulla».
Sono in molti a pensarla come lei, ma Fran, come la chiamano gli amici, lo dice apertamente, aggiungendo «e poi le scarpe fanno troppo male». Nella sua bella casa nell’Upper West Side le due statuette sono quasi nascoste, come quelle vinte dal marito Joel Coen, e ogni dettaglio dell’arredamento tende all’essenzialità.
È una donna spiritosa, imprevedibile e assolutamente diretta: non l’ho mai sentita fare un complimento insincero o risparmiare una critica, specie con le persone più vicine. «L’amicizia impone la sincerità», spiega, «anche quando fa male», e basta frequentarla per pochi minuti per capire come ogni sua scelta nasca da una concezione etica. Si definisce pagana, e ama festeggiare i solstizi e gli equinozi: lo fa con una punta d’ironia, però, perché si tratta di una decisione nata dal rigetto di ogni religione, ed è la prima a non volere che divenga una fede.
Ama il corpo in ogni fase della vita: inorridisce quando vede qualcuno che si sottopone a una chirurgia plastica, e appartengono alla leggenda hollywoodiana le discussioni con colleghi di entrambi i sessi che hanno fatto quella scelta: «Io ho una faccia di gomma, e mi ha aiutato e servito in ogni occasione, specie ora che invecchio, perché ho ancora con me intatta la mappa della vita, e posso ancora usarla come voglio». Ti guarda con sospetto quando la definisci femminista, perché non ama le etichette, ma crede fermamente nella bellezza dell’universo femminile: «Sono le donne a salvare il mondo», afferma con una punta di tenerezza, e non perde occasione per difenderne in ogni modo la dignità, senza mai diventare un’estremista.
L’intensità delle sue interpretazioni è straordinaria, grazie a un formidabile talento istintivo che negli anni è riuscito ad arricchire di una grande tecnica: si contano sulla punta delle dita le interpreti che riescono a passare con analoga naturalezza dalla commedia al poliziesco, dal dramma al film in costume. I suoi personaggi sarebbero inconcepibili senza di lei, ma il segreto grazie al quale riesce a renderli unici è che li ama sino in fondo: ha la capacità delle grandi attrici di impadronirsi completamente della scena che recita, e riesce a dare il meglio di sé nei film di Joel e del fratello Ethan, e in quelli ispirati al loro stile, come Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Ci siamo conosciuti nel 2001, in occasione di una retrospettiva su Anna Magnani che avevo curato per il MoMA. «Sono Frances McDormand, un’attrice», mi disse al telefono, e non c’era alcuna finta modestia. «Vorrei chiederle se è possibile vedere L’amore», aggiunse, e si riferiva al magnifico film nel quale Nannarella interpreta una donna convinta di portare in grembo Gesù.
Riuscii a organizzare una proiezione, e Fran si presentò con tutta la compagnia con la quale stava recitando a teatro: «Anna è la più grande», spiegò a tutti, e chiamò per nome la Magnani come se fosse un’amica a cui essere grata, prima di studiare con attenzione anche il ruolo del seduttore, un pastore che per la protagonista è san Giuseppe. Rimase molto divertita quando scoprì che lo interpretava Federico Fellini, ma si commosse sino alle lacrime per quella povera donna: «Un’idiota come l’avrebbe inteso Dostoevskij», disse. Risposi che trovavo struggente la sua illusione di essere la madre di Cristo, ma lei mi disse senza battere ciglio: «Non è un’illusa, ha ragione, tutti i bambini sono Gesù». Non ho mai sentito una risposta più profondamente religiosa da parte di un’atea, e non ho mai avuto il coraggio di chiederle se il materialismo professato con veemenza abbia una relazione con il fatto che il padre adottivo fosse un pastore protestante.
Il suo vero nome è Cynthia Ann Smith, e la madre biologica è greca: Fran si riferisce a quest’ultima definendola una «white trash», ed è l’unica persona al mondo che ho sentito usare quel termine con orgoglio. Venne data in adozione quando aveva soltanto un anno e mezzo, ed è probabile che la mamma frequentasse la chiesa prima che i nuovi genitori cominciassero a girare per l’America. Insieme a Joel ha deciso a sua volta di adottare un bambino originario del Paraguay, e antepone ogni scelta lavorativa al suo Pedro McDormand Coen, sostenendo che «la cosa più difficile è trovare l’equilibrio tra il tempo da dedicare ai figli e la libertà che è necessario lasciagli».
Ha scoperto nell’adolescenza la passione per la recitazione, e dopo essersi laureata in quella straordinaria fucina di talenti che è la Yale School of Drama si è trasferita a New York, dove divideva una stanza con Holly Hunter. La grande occasione avvenne per caso: l’amica, incinta, non riuscì ad andare a un provino e le suggerì di sostituirla. Fu proprio Fran a vincere il ruolo da protagonista per un noir diretto da due fratelli del Minnesota che esordivano nella regia. Blood Simple - Sangue facile diventò un film di culto e in quella occasione nacque anche l’amore con Joel Coen. È stata lei a spingere perché Joel e Ethan prendessero l’amica Holly come protagonista per il film successivo, ritagliando per sé un ruolo marginale, a cui ha dato il soprannome della sorella, Dot.
Erano anni difficili, e quando fu costretta a vivere a Los Angeles divise l’appartamento con Joel, Ethan, Holly Hunter, Sam Raimi e Scott Spiegel. Un periodo che ricorda con affetto, pur non amando quella città: ha sempre preferito New York, anche se negli ultimi anni passa gran parte del suo tempo a Bolinas, nella California del Nord. Nel giro di poco tempo Hollywood si accorse dell’originalità del suo talento, e assieme a interpretazioni memorabili come la donna abusata dal marito in Mississippi Burning - Le radici dell’odio si è divertita in blockbuster come Transformers o prestando la voce in un episodio dei Simpson.
Il suo eclettismo è evidente anche nelle scelte teatrali: è una delle colonne portanti di una compagnia d’avanguardia come il Wooster Group, ma ha calcato il palcoscenico con ruoli diversissimi quali Stella nel Tram che si chiama desiderio e Fedra, vincendo anche un Tony per Good People. Ancora oggi sostiene di preferire il teatro, e a volte hai la sensazione che lo dica per prendere in giro il marito, che invece ritiene imprescindibile il mezzo cinematografico. È impressionante la differenza di carattere: Joel è taciturno almeno quanto Fran è veloce ed espansiva, e negli incontri pubblici lui le lascia volentieri lo spazio.
Pochi giorni fa, per preparare una versione cinematografica del Macbeth, mi ha invitato a visionare con loro L’imperatrice Scarlatta, e l’ho vista rimanere ammaliata dalle movenze di una diva diversissima quale Marlene Dietrich. Il suo metodo di lavoro parte proprio dallo studio del cinema: per il personaggio di Mildred in Tre manifesti, che le ha dato il secondo Oscar, ha analizzato addirittura John Wayne, mentre si rifiuta di rivelare il segreto di Marge, l’indimenticabile poliziotta di Fargo che le assicurò la prima statuetta.
Da qualche anno ha cominciato anche a produrre, per essere certa di scegliere i ruoli che le interessano: è riuscita a rendere struggente l’aspra Olivia Kitteridge, creata dalla penna di Elizabeth Strout, e si può solo esultare sapendo che ha acquistato i diritti di Donne che parlano di Miriam Toews. «Non esiste nulla più bello di una donna», ti dice mentre pensa quanto siano diversi tutti questi ruoli, «ma se perde la sua ironia rischia di perdere il suo mistero».

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