Il Fatto 31.5.19
Marco Bellocchio, Il traditore ha già superato i 2 milioni di euro al botteghino.
“Da Cannes a mani vuote? Traditore” con Favino Non sto mai con il potere”
di Federico Pontiggia
Due tradimenti li ha confessati, il terzo è nei confronti dello psichiatra Massimo Fagioli, già suo intimo e assiduo collaboratore?
«Non tradimento, ma fraintendimento. L’incidente è preciso: quando ricevetti il Leone d’Oro alla carriera (alla 68esima Mostra di Venezia nel 2011, ndr), volontariamente pensai di non citare Massimo Fagioli nei ringraziamenti, per riconoscere – non che volessi negare partecipazione e collaborazione – a me stesso una libertà. Da Fagioli e dai fagiolini venne interpretato quale ingratitudine estrema, tradimento, ma io non stavo annullando un’esperienza, me ne stavo separando».
Marco Bellocchio, Il traditore ha già superato i 2 milioni di euro al botteghino.
Un ottimo esito. Ho fatto film con un buon impatto al box office, ma nulla di paragonabile, almeno da Buongiorno, notte nel 2003. Peraltro, mi dicono il risultato de Il traditore sia nettamente superiore, e in un’epoca di cinematografi deserti.
Come se lo spiega?
La Storia – non la insegnano più a scuola, assurdo! – attrae, le parole tradimento, mafia anche. Poi, c’è Pierfrancesco Favino, un attore molto popolare che ha un ruolo perfetto. Si temeva la lunghezza (due ore e 25 minuti, ndr), invece no. Però sono mancati i premi a Cannes.
Non è una novità: è stato in concorso sette volte sulla Croisette, senza mai vincere. L’importante è partecipare, ma…
Non credo in maledizioni… dico la verità, pensavo… Forse conta anche il numero di partecipazioni, non che mi aspettassi un riconoscimento, però, Il traditore è stato bene accolto, anche dalla critica internazionale… (ride). Tanti miei lavori sono stati apprezzati in un secondo tempo, solo Gian Luigi Rondi – critico molto acuto, ma di destra e poi più di centro ed ecumenico – si batté e fece premiare i due attori (Michel Piccoli e Anouk Aimée, ndr) di Salto nel vuoto, Cannes 1980. Parlare di patria oggigiorno è un po’ pericoloso, però è chiaro che da giurati bisogna essere diplomatici oppure dire “a me piace quel film e basta!”.
Se n’è fatto una ragione?
Vicino agli 80 anni (il 9 novembre prossimo, ndr) lo ritengo un messaggio positivo: magari non tornerò più a Cannes, ma io non mi arrendo, non tanto per avere la patacca, bensì per continuare a fare cinema. Non sono mai stato di moda, non mi sono mai schierato con il potere: ho sempre rivendicato un certo anarchismo moderato. Sono stimato, molto, ma rimango fuori dai giochi, in campo autonomo.
In realtà, una “patacca” l’ha avuta: la menzione speciale della Giuria ecumenica, che dovette sorvolare sulla bestemmia, a L’ora di religione nel 2002.
Lo capirono più di altri, sarà l’attrazione degli opposti.
Ne Il traditore non ha ceduto alle lusinghe e ai parametri del “mafia-movie”.
Dovevo trovare la mia strada, cose che mi appartenessero in un tema e un soggetto lontani da me. Per i delitti ho cercato l’essenzialità e la rinuncia ai famosi punti di vista, per le grandi sequenze processuali il registro da teatro d’opera, un tragico grottesco: forme e sguardi personali.
Il critico del Village Voice, Bilge Ebiri, consiglia di doppiarlo in inglese, distribuirlo come Il Padrino – Parte IV e farci un sacco di soldi.
(Ride) Francis Ford Coppola è un riferimento, nella Parte III c’è l’opera lirica, io avrei voluto inserire la Cavalleria rusticana. Quando vidi la trilogia, rimasi profondamente coinvolto, gli stessi mafiosi lo prendono a esempio.
Bellocchio, che cosa ha riconosciuto in Buscetta?
Mi sono agganciato al titolo, non c’era spazio per dilemmi nevrotico-psicologici. Masino era un traditore di retroguardia, nella mia esperienza personale e culturale ci sono traditori che cercano di cambiare il mondo, di ribellarsi. Io stesso mi sono ribellato all’educazione cattolica: tradimento come affermazione di identità e rifiuto. Rispetto alla politica, poi, non ho rinnegato certi principi di sinistra, ma c’è stata una separazione: non sono mai stato complice né ho bordeggiato il terrorismo, però l’ho visto, anche in soggetti che ho conosciuto. In Buongiorno, notte ci sono riferimenti biografici.
Due tradimenti li ha confessati, il terzo è nei confronti dello psichiatra Massimo Fagioli, già suo intimo e assiduo collaboratore?
Non tradimento, ma fraintendimento. L’incidente è preciso: quando ricevetti il Leone d’Oro alla carriera (alla 68esima Mostra di Venezia nel 2011, ndr), volontariamente pensai di non citare Massimo Fagioli nei ringraziamenti, per riconoscere – non che volessi negare partecipazione e collaborazione – a me stesso una libertà. Da Fagioli e dai fagiolini venne interpretato quale ingratitudine estrema, tradimento, ma io non stavo annullando un’esperienza, me ne stavo separando.
Che un autore alla soglia degli 80 anni realizzi due film su commissione non sorprende anche lei?
È come se soggetti più autobiografici – I pugni in tasca, L’ora di religione e Il regista di matrimoni – volessero racconti più brevi, cechovianamente parlando. Sicché questi due ultimi mi sono stati suggeriti dallo stesso produttore, Beppe Caschetto, che mi ha lasciato la più ampia libertà: in Fai bei sogni, senza entrare nel giudizio del libro (Massimo Gramellini, 2012, Longanesi, ndr), vidi la possibilità di trarre un racconto personale. Sempre Caschetto ora mi dice: “Perché non facciamo un film sul processo di Norimberga?”. È un bellissimo soggetto, ma ci vuole l’idea buona, dev’essere un film internazionale. Voglio farlo, se vengo sollecitato…
Esterno notte, la serie su Moro, è ancora in piedi?
Sì, se il produttore Lorenzo Mieli non mi tradisce (ride). È un ribaltamento di campo, interessante, rispetto a Buongiorno, notte: la prigionia vista dall’esterno, una serie in sei puntate. Siamo ai soggetti, vanno affrontate alcune scelte: come rappresentare i personaggi, combinare repertorio e finzione, adattare le conversazioni private.
Lei è tendenza Riina, “meglio comandare che fottere”, o Buscetta, “meglio fottere che comandare”?
Meglio fottere, nel senso di vivere. Sono una persona piuttosto introversa, a Buscetta piacevano il casino e le donne. Comandare… non bisogna essere ipocriti, il mio ruolo è anche di comando, ma il potere… io verso i padri ho sempre avuto un’insofferenza. Pur essendo uno che deve comandare, mi sento più naturalmente vicino a chi non comanda. Mi viene in mente T.S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock: “No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be; Am an attendant lord”. Non sono Amleto, non sono nato per esserlo, sono un assistente.
Jacobin Italia 31.5.9
La sinistra non si ricostruisce dal tetto
Con gli appena 465 mila voti raccolti, La Sinistra ha ottenuto meno della metà del milione e 100mila voti presi alle ultime europee
È arrivato il momento di smettere di porsi solo un problema di tattica, di discutere unicamente del modello da seguire o del leader da presentare. Occorre ripartire dalle fondamenta
di Giulio Calella
qui
il manifesto 2.6.19
Sinistra, un fallimento annunciato
Elezioni europee. Solo una riconsiderazione radicale del rapporto tra essere umano e ambiente, tra le nostre vite e il resto del vivente, può rimettere in piedi una prospettiva politica
di Guido Viale
Dirsi «di sinistra» non fornisce più da tempo una rendita elettorale di posizione a chi si dichiara tale. Lo sapevano già coloro che negli anni passati avevano costruito prima Alba, poi Cambiaresipuò e poi ancora L’Altra Europa, escludendo la parola sinistra dal loro logo: non che fossero di destra o di centro, o che rinnegassero i «valori storici» – quali? – della sinistra; cercavano solo di costruire consenso su altre basi, mettendosi in gioco con proposte e impegni più o meno concreti.
SE NE SONO PERÒ DIMENTICATI i promotori della lista La sinistra: una lista abborracciata all’ultimo momento dopo molti incomprensibili litigi, andirivieni e veri e propri linciaggi dei propri esponenti. Ma non fornisce più una rendita di posizione nemmeno chiamarsi Verdi: altra lista abborracciata all’ultimo momento, con pochi agganci (esclusi i volantinaggi dell’ultima ora) con le molte battaglie per l’ambiente (alcune in corso da decenni!) e le recenti mobilitazioni per il clima in campo anche in Italia.
L’avanzata dei Verdi in diversi paesi europei non è un riflesso passivo della battaglia ingaggiata da Greta Thunberg; è in larga parte il frutto di un impegno intenso e capillare, per lo meno sul piano informativo e didattico, che in Italia è mancato o è stato del tutto insufficiente e per questo ignorato.
Certo, anche grazie al fatto che in nessun altro paese stampa e media sono stati altrettanto compatti contro le tante lotte – anch’esse di valenza generale – per la salvaguardia o la valorizzazione dei territori, come quelle NoTav e NoTap; o altrettanto sordi e ciechi di fronte alle grandi minacce che incombono sul pianeta (l’apocalisse climatica e la distruzione della biodiversità) che la maggior parte dei politici di destra come di sinistra (per non dire tutti) nemmeno conosce, o non ritiene comunque temi degni di una chiamata alla mobilitazione.
UN ATTEGGIAMENTO certamente comprensibile, perché affrontare quei temi richiede di impegnare e impegnarsi a un cambiamento radicale del proprio agire e delle proprie proposte che poco ha a che fare con i modi tradizionali – a cui non crede più nessuno – con cui i programmi, elettorali e non, cercano di affrontare le questioni fondamentali del vivere quotidiano: redditi, lavoro, salute, abitazione, convivenza, cioè migranti, o famiglia (che vuol poi dire rapporto tra uomo e donna, ma anche tra genitori e figli).
I TEMPI RICHIEDONO un approccio radicalmente diverso, che per ora solo papa Francesco e pochi altri hanno dimostrato di saper adottare: con molti importanti discorsi e soprattutto con la Laudato sì.
Un’enciclica a cui nessun politico non razzista e reazionario ha mai smesso di fare qualche «richiamo d’ufficio», spesso senza nemmeno averla letta e, sicuramente, senza averne tratto qualche insegnamento. Solo una riconsiderazione radicale del rapporto tra essere umano e ambiente, tra le nostre vite e il resto del vivente, tra un presente considerato immutabile e un futuro evanescente, se non terrorizzante, può rimettere in piedi una prospettiva politica – cioè, di autonomia personale e di autogoverno collettivo – entro cui collocare anche le rivendicazioni fondamentali portate avanti dalle lotte sociali nel corso della lunga storia del movimento operaio.
Al di là di questa prospettiva resta solo la paura: paura del «diverso»; di perdere a suo vantaggio quel poco che ancora si ha, che poi non è né benessere né rispetto, ma solo la fatica del vivere e l’idea falsa di una «identità» che dovrebbe accomunare persone che in realtà non provano alcun piacere nello stare insieme: nessuno di noi desidera vivere a fianco dei seguaci di Salvini – anche se le regole della convivenza ci impongono di farlo – come nessuno dei seguaci di Salvini è fiero di convivere con noi, l’altra parte di quegli «italiani» che tanto invocano.
Questa paura, che ha invaso non solo l’Italia, ma un po’ tutto il mondo, è quella che ha permesso di realizzare (per ora) la più grande operazione mediatica messa in atto alla svolta del secolo: scaricare su chi sta peggio di noi, nel nostro paese come nel mondo intero, criminalizzandolo, la responsabilità del malessere e della miseria provocate da quell’1 per cento che sta appropriandosi a passi da gigante delle vite e del pianeta (la «casa comune») di tutti.
L’ALTRA PAURA, quella che molti di noi – ma evidentemente non tutti, e neanche la maggioranza – provano sempre più intensamente, fino a venirne metaforicamente paralizzati, è quella provocata dall’affermazione non solo di Salvini, ma di tutte le destre xenofobe, razziste e maschiliste in larghe parti del mondo; e persino nei più insospettati anfratti della nostra società, quelle che credevamo immuni, come la Riace di Lucano, la Lampedusa di Bartòlo, la Valdisusa di trent’anni di resistenza contro lo stupro di un territorio e di una comunità. A questa paura, e non certo all’adesione a una svolta che non c’è mai stata, è senz’altro riconducibile la piccola e politicamente insignificante «rimonta» del PD (l’inutile mito del «voto utile»); ma anche il crollo dei 5Stelle, non più visti come un baluardo contro i progetti devastanti che accomunano sia PD che Lega a tutto l’establishment parassitario che sta divorando il paese insieme alle nostre vite.
Se il Tav «deve» essere fatto, se per «liberarci» dai migranti dobbiamo consegnarli ai predoni della Libia (che con le motovedette donate dall’Italia non solo catturano i migranti per riportarli nello scannatoio da dove cercano di scappare, ma cacciano anche i pescatori italiani – «Prima i libici!» – dal mare che l’Imo gli ha attribuito come fosse proprietà privata), ebbene, allora tanto vale consegnarsi a chi quelle cose le sa fare meglio. Nessun dubbio che in questo caso vinca Salvini.
Per questo, più che nella rinascita dei partiti esistenti, occorre forse lavorare innanzitutto alla promozione di un vasto movimento di opposizione alle più pericolose politiche messe in atto dagli organi dell’Unione, perché è solo l’esistenza di quella controparte comune che può permetterci di cominciare a unificare le mille istanze che oggi si presentano in ordine sparso ai grandi appuntamenti del secolo.
Il Fatto 2.6.19
Tutti contro Trenta: perché i generali vogliono cacciarla
La rivolta delle stellette - Anche lo Stato maggiore della Difesa si è schierato. In ballo: la riforma delle valutazioni interne, sindacati militari e i miliardi degli F-35
di Salvatore Cannavò
La riunione si tiene alle 7 del mattino del 18 aprile e vede precipitare al Ministero della Difesa i Capi di Stato Maggiore delle tre forze armate: Esercito, Marina e Difesa. I generali Salvatore Farina (Esercito), Valter Girardelli (Marina) e Alberto Rosso (Aeronautica) chiedono spiegazioni alla ministra Elisabetta Trenta circa il post pubblicato su Facebook il giorno prima, per “una riforma sull’avanzamento”.
Il merito in caserma. La ministra dice di voler “trovare soluzioni innovative in materia di avanzamenti e progressioni di carriera del personale militare” con la “necessità di rivedere il processo valutativo al fine di individuare chiaramente i criteri alla base dell’attribuzione dei punteggi di merito e limitando, per quanto possibile, la discrezionalità delle commissioni”. Il merito in caserma, insomma, che ha il plauso della truppa, ma che non piace ai vertici. Tra i più contrariati, secondo i corridoi di palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa, il capo di stato maggiore dell’Esercito, Farina, molto vicino all’ex capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, nominato dalla ministra Pd, Roberta Pinotti. Alberto Rosso è stato invece il Capo di Gabinetto della stessa Pinotti fino al 28 ottobre 2018.
L’esternazione molto rumorosa fatta dai generali in pensione Leonardo Tricarico, Vincenzo Camporini e Mario Arpino, i quali hanno annunciato che non assisteranno alla tradizionale parata militare di oggi, va letta, quindi, alla luce di un malumore che si respira da tempo. I tre hanno contestato a Trenta “dichiarazioni di vuoto pacifismo” o, più prosaicamente, la volontà di “tagliare le pensioni” che per molti graduati equivalgono a pensioni d’oro.
Lo Stato maggiore. Ma il lavorìo contro Trenta non viene tanto dai generali in pensione o da esponenti della destra come Ignazio La Russa (che ha avuto Camporini come Capo di Stato Maggiore) e Giorgia Meloni, quanto dagli uomini di cui la stessa ministra si è circondata. Al ministero iniziano a guardare con più distanza, ad esempio, l’attuale Capo della Difesa, Enzo Vecciarelli, che ieri ha pubblicamente preso le distanze dai tre generali in pensione ma, si riflette ai piani alti di palazzo Baracchini, è stato risucchiato dal sistema della “casta” militare, distanziandosi dalla politica che lo ha nominato.
Tra i temi dello scontro non c’è solo la valutazione, e quindi il sistema di nomina interna dei graduati, ma anche l’iniziativa legislativa di “sindacalizzazione” delle Forze armate, sostenuta vistosamente da Trenta; l’iniziativa sull’uranio impoverito dove la ministra propone una riforma per stabilire responsabilità precise della Difesa tutelando i soldati; anche il tema dei suicidi in caserma, avanzato più volte dalla ministra, è oggetto di discussione.
Peace&Love. Le accuse di gestione “peace&love” del dicastero (riferimento al simbolo pacifista fatto dalla Trenta al Senato per rispondere alle accuse di Isabella Rauti, senatrice di FdI) sono solo dei palliativi. Anche l’assenza di Giorgia Meloni dalla parata di oggi, spiega una nota della Difesa, si deve al fatto che la leader di Fratelli d’Italia, “voleva il palco presidenziale previsto per le cariche istituzionali”.
C’è però anche un fronte interno per la ministra, prontamente stoppato dalla difesa che di lei ha fatto Luigi Di Maio. Nel M5S ha destato molto stupore l’attacco ricevuto dal sottosegretario M5S Angelo Tofalo che oltre a blandire Matteo Salvini, e a vestire i panni militari impugnando il mitra, ha parlato di “errori grossolani” al ministero. Chi conosce bene le dinamiche interne sottolinea l’asse di Tofalo con l’altro sottosegretario alla Difesa, il leghista Raffaele Volpi, per lavorare ai fianchi la Trenta.
Il fronte interno. In questo contesto è stata vissuta come un vero e proprio “tradimento” la riunione “segreta” che ha visto Tofalo con il capogruppo 5Stelle nella commissione Difesa della Camera, Giovanni Russo, il senatore della Difesa, Dino Mininno e il membro 5 Stelle del Copasir (comitato di controllo sui Servizi segreti), Francesco Castiello. Nel mondo pentastellato si dice che “hanno fatto gli utili idioti della Lega”. Ed è evidente che la vittoria elettorale di Salvini abbia cambiato le carte in tavola e spinto il leader leghista a mettere le mani su qualsiasi struttura abbia una divisa.
L’Aeronautica. Ma c’è di più. A unire le varie caselle del puzzle si trova spesso l’Aeronautica. I tre generali in pensione che diserteranno la parata vengono tutti da lì. Anche il 5 Stelle Mininno proviene dall’Aeronautica. E l’Aeronautica, più delle altre Forze, ha un nodo irrisolto: gli F-35. La dichiarazione della ministra, relativa all’arrivo di altri 28 velivoli, non va equivocata, perché riguarda le commesse già ordinate dal precedente governo e avallate dal Documento programmatico per la Difesa per il triennio 2018-2020. Ma in quel documento si legge che “gli oneri totali sono riferiti alla sola Fase 1 di prevista conclusione nel 2020. La Fase 2, qualora confermata” prevede delle “contribuzioni al momento ancora non definite”. Al momento, quindi, vengono stanziati 1,447 miliardi, ma il fabbisogno complessivo di miliardi ne richiede 7,093.
Il Fatto 2.6.19
La nuova tempesta sarà religiosa
di Furio Colombo
Il gesto volgare del ministro Salvini che agita il rosario e invoca la Madonna, usa cioè simboli estremi del cattolicesimo per ricattare i credenti e ottenere voti, ha aperto un nuovo varco alla politica del distruggere per governare.
Dopo avere spaccato con impegno e furore il reticolato di solidarismo italiano che, anche al colmo del fascismo, non si era mai veramente interrotto, si è dedicato a ripulire il Paese da ogni frammento di cultura e di storia, in modo da imporre la nuova autorità a un livello sempre più basso o sempre più spaventato. È stato inventato un popolo del “dopo” (dopo la raccolta di voti della Lega) che ha il compito di togliere di mezzo il popolo del “prima”, compreso il tuo insegnante e chiunque si porta addosso tracce di cultura e riferimenti alla storia.
Non sto dicendo che la Lega prende i voti di chi è rimasto isolato dalla cultura. Sto dicendo che il regime della Lega cerca e incoraggia i livelli isolati di vaste zone popolari già predisposte dalle cattive scuole, dalla televisione di Berlusconi e dall’equivalente giornalismo, per eliminare inutili e fastidiosi tributi al bello, al buono e al solidale e poter incassare voti e applausi, se persino la Marina militare italiana abbandona (o le viene ordinato di abbandonare) uomini, donne e bambini in mare. Apprezzata anche l’idea di incriminare chi li salva, sequestrando le navi che hanno appena protetto vite umane.
Bisogna ammettere che questo darsi da fare per essere sicuri di raccogliere il peggio non è un fenomeno solo italiano. Anzi, come sempre, l’Italia, che è cattiva ma prudente, ha aspettato un segnale forte. È arrivato da Donald Trump, con il suo immediato legarsi ai suprematisti bianchi e assassini. Ma quel rosario in pugno brandito come un’arma o come una superstizione che porta male ai disubbidienti, quel comizio finto religioso fondato sulla celebrazione della “Madonna dei porti chiusi” non è un semplice gesto volgare o un normale esempio di maleducazione. Segna l’apertura della terza fase, quella della guerra di religione. Attenzione non stiamo parlando del tanto discusso “conflitto di civiltà”, fra islamici e cristiani. Stiamo parlando della guerra al Papa. I leghisti stanno portando il linguaggio sguaiato e i sacchetti di sabbia, e al momento giusto saranno pronti. Sanno che Papa Bergoglio non ha mai esitato nel giudicare la follia cattiva e inutile dei porti chiusi, la speciale crudeltà del lasciar morire i migranti in mare, la lotta accanita all’accoglienza, la guerra alle navi di soccorso Ong. Ma il Papa insiste nell’accoglienza come principale dovere cristiano, e sa che il lato nero della Chiesa è pronto (a cominciare dal clima di accuse e calunnie che stanno spargendo alacremente, intorno a lui, a opera di alcuni cardinali e alcuni vescovi che si impegnano, come certi prefetti della Repubblica, a stare dalla “parte giusta”) a portare alla luce la congiura.
La guerra di religione spaccherà il Paese Italia perché il Papa che crede nel- l’accoglienza e rifiuta finti abbracci con il capo della Lega è a Roma, capitale del Paese che Salvini governa sulla base di valori anteguerra. Fa bene il Papa a non fingere misericordia e a non concedere udienze.
Ma di nuovo il peggio viene dall’America, e la pronta risposta italiana è la messa in scena (detta “per le famiglie”) del ministro leghista Fontana, con la sua rumorosa anche se non frequentatissima sosta a Verona. Ha dimostrato che bisogna restare pronti e attenti. Attenti a che cosa? Attenti al prossimo scontro sull’aborto, una grande questione morale che invece viene usata come dirompente arma politica. Si tratta di usare i diritti delle donne per spaccare i credenti, dagli aspri fondamentalisti cristiani ai miti praticanti cattolici.
La sequenza della strategia di estrema destra è esemplare: l’assemblea dello Stato dell’Alabama ha preparato e votato all’unanimità la legge dei 99 anni. È la pena per un medico che pratica un aborto. Non importa la ragione dell’aborto. Anche fermando un feto che non avrebbe potuto sopravvivere o che avrebbe ucciso la madre, sei un assassino. Il corpo giudiziario dell’estrema destra americana è già pronto, dai tribunali di campagna alla Corte Suprema. In America medici abortisti sono stati uccisi più volte, cliniche fatte saltare, stragi come quella di Oklahoma City ne sono la prova. Ecco il senso del gesto tutt’altro che naïf del rosario in pugno in un comizio elettorale. Vuol dire “noi siamo pronti” e “la guerra è guerra”. Come sempre, in nome di Dio.
Corriere 2.5.19
Tienanmen
Trent’anni dopo la strage, le trascrizioni segrete dei capi cinesi: «Uccidiamo chi va ucciso»
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi
«Bisogna uccidere coloro che debbono essere uccisi, condannare coloro che debbono essere condannati», disse il vecchio rivoluzionario e vicepresidente Wang Zhen nella sala di una palazzina in stile imperiale di Zhongnanhai, a poche decine di metri da Piazza Tienanmen. La strage era già stata compiuta e i dirigenti del Partito stavano discutendo la linea.
Tutto fu deciso dietro le mura che chiudono alla vista Zhongnanhai, il quartier generale del potere comunista, un tempo giardino imperiale accanto alla Città Proibita. Deng Xiaoping era lì con i compagni dirigenti quando a metà aprile del 1989 i primi gruppi di cittadini cominciarono ad affluire in Piazza Tienanmen per accumulare (sotto il Monumento per gli eroi del popolo) fiori e poesie in memoria di Hu Yaobang, l’ex segretario del Partito estromesso per liberalismo e morto per un attacco di cuore il 15 aprile. Fu a Zhongnanhai che fu decretata la legge marziale il 18 maggio, quando il movimento ormai chiedeva riforme, la fine della corruzione e della censura e l’uscita di scena dei «vecchi» aggrappati al potere anche dopo la pensione. Fu da Zhongnanhai che fu dato l’ordine ai soldati di «ripulire» la piazza nella notte tra il 3 e il 4 giugno: la strage con mitragliatrici e carri armati. E fu ancora dietro quelle mura rosse che si riunirono tra il 19 e il 21 giugno i mandanti della repressione.
Trent’anni dopo, la censura continua a cancellare ogni tentativo di commemorazione a Pechino. Ma a Hong Kong, che mantiene la sua autonomia semi-democratica, è appena stato pubblicato un libro con le trascrizioni finora segrete dei discorsi tenuti dai membri del Politburo in quei giorni.
The Last Secret: the final documents from the June Fourth crackdown si basa su trascrizioni conservate e fatte filtrare ora da un funzionario presente alla discussione. Non si sa quanti fossero i partecipanti a quella riunione del Politburo, allargata agli «anziani ex dirigenti» che ancora manovravano dietro le quinte, quelli che gli studenti avevano sperato di far uscire di scena per sempre. Sono 17 le voci. Tutti cominciarono proclamando: «Sono completamente d’accordo», «Sostengo assolutamente» la decisione del compagno Deng Xiaoping di mobilitare l’esercito «per porre fine ai tumulti anti-partito e agli atti controrivoluzionari».
Wang, che chiedeva condanne ed esecuzioni capitali, fu appoggiato da Xu Xiangqian, ex grande maresciallo dell’Esercito di liberazione: «I fatti hanno provato che la confusione e i tumulti sono dovuti al collegamento tra forze interne e straniere, frutto del rifiorire della borghesia che aveva come obiettivo l’instaurazione di un regime anticomunista vassallo di potenze occidentali».
Il milione di studenti e cittadini che erano stati in Piazza Tienanmen per cinquanta giorni furono bollati da Peng Zhen, ex presidente del Comitato centrale del Congresso del Popolo, come «un piccolo gruppo che, collaborando con forze straniere, voleva abbattere le pietre angolari del nostro Paese». Un tema ripreso da molti: «Quarant’anni fa il segretario di Stato Usa Dulles disse che la speranza di restaurare il capitalismo in Cina era riposta nella terza e quarta generazione nata dopo la nostra Rivoluzione: non dobbiamo permettere che la profezia si avveri».
Repubblica 2.6.19
L’intervista
Zhou Fengsuo "Tiananmen può ancora risvegliare i cinesi"
dal nostro corrispondente Filippo Santelli
PECHINO — E se oggi in Piazza Tiananmen incontrasse un ragazzo di 21 anni, come lui nel 1989, che cosa gli direbbe? «Gli direi che ero uno studente, che ho protestato insieme a milioni di persone per la libertà e la democrazia, che siamo stati lì per 50 giorni, prima di una brutale repressione del governo». Direbbe la nuda verità Zhou Fengsuo. Solo che la verità sul 4 giugno 1989, il giorno in cui l’esercito comunista sparò contro i cittadini, in Cina è cancellata. Ancora più quest’anno, trentesimo anniversario dell’evento spartiacque. Zhou era un brillante studente di Fisica a Tsinghua, la migliore università del Paese, quando diventò leader degli studenti, per poi ritrovarsi numero cinque nella lista dei più ricercati. Emigrato negli Stati Uniti, ha fondato con altri Humanitarian China, associazione che lotta per tenere viva la memoria e sostenere le famiglie degli attivisti. In Cina questo 4 giugno passerà tra censura e inconsapevolezza, ma per lui resta il momento della verità: «Ha mostrato che la democrazia è possibile. E che con un Partito che uccide impunemente non può esserci giustizia».
Era uno studente dall’avvenire assicurato, che cosa l’ha spinta verso Tiananmen?
«La fisica è ricerca di verità universali e io le cercavo anche nella società.
Dopo la morte di Hu Yaobang (leader riformista esautorato due anni prima, ndr ), decine di migliaia di studenti sono arrivati a Tiananmen e lì abbiamo mostrato la nostra volontà. Libertà di stampa, pubblicazione del patrimonio dei leader, democrazia: per la prima volta se ne parlava senza paura, ci facevamo coraggio l’un l’altro. Mi sono reso conto di quanto fosse forte la speranza».
Il 13 maggio è iniziato lo sciopero della fame, la vera occupazione.
Com’era la vita nella piazza?
«Il mio compito era proteggere e assistere gli scioperanti. All’inizio dormivamo all’aperto, poi abbiamo montato le tende, avevamo freddo e fame. Ho costruito un sistema di trasmissione connettendo gli altoparlanti: la nostra voce copriva la piazza, parlare dal cuore era liberatorio, ci tenevamo su cantando l’Internazionale e l’inno nazionale, ma ero così esausto che svenni. Il clima era febbrile, c’erano opinioni diverse, però è incredibile come siamo riusciti a mantenere l’ordine e creare un consenso».
Temeva un epilogo violento?
«Ad aprile ci avevano riferito che Deng Xiaoping era pronto a usare la forza, ma dopo che la gente di Pechino aveva fermato una volta i soldati in modo pacifico non pensavo fosse possibile. Avevamo l’appoggio dei cittadini».
Invece il 3 giugno i carri armati muovono verso Tiananmen.
«C’era puzza di gas nell’aria, gli spari tutto attorno. Eravamo nell’occhio del ciclone, attorno alla piazza la gente cercava di bloccare i soldati.
Poco prima dell’alba eravamo rimasti in 3mila e Liu Xiaobo (il premio Nobel morto in carcere nel 2017, ndr ) ha negoziato con i soldati una via di uscita. Ancora si dibatteva se restare o andarcene, poi i militari sono arrivati, ci hanno colpiti con i calci dei fucili e spinti via».
Era finita .
«Sulla strada per l’università sono passato davanti all’ospedale di Fuxing e ho visto 40 corpi a terra sotto una rimessa per biciclette. Sapevamo che c’erano stati dei morti, in quel momento ho realizzato».
E si è ritrovato sulla lista dei ricercati.
«Ero tornato a Xi’an, la mia città, e ho visto il mio nome alla televisione. La polizia è arrivata subito, mamma urlava. Mi hanno rinchiuso per un anno, tenuto per tre mesi in manette, picchiato, ordinato di dire in tv che nessuno era stato ucciso. Mi hanno rilasciato come segno di distensione verso gli Stati Uniti. Dopo un paio di anni me sono andato».
Il Partito sembra avercela fatta: oggi in Cina il 4 giugno è solo un giorno con più controlli. Qual è l’eredità di Tiananmen?
«La più importante: mostra che i cinesi amano la libertà e che la democrazia è possibile».
Un miliardo e 400 milioni di cinesi hanno accettato un patto diverso: non toccate la politica e starete meglio.
«Forse il patto esiste, ma non si può sapere visto che i cittadini vengono tenuti al cappio, che sono impauriti come lo eravamo noi prima di scoprire che avevamo tutti nel cuore la stessa cosa. Guardi le foto di quei giorni: le persone sono diverse, nessuno può dire cosa succede quando si conquista la libertà. Deng e gli altri non hanno ucciso per mantenere la stabilità, ma per restare al potere, per questo chiediamo che i loro eredi paghino».
Nella Cina di Xi Jinping il Partito è tornato onnipresente e lo spazio per voci indipendenti pare inesistente. Che aspettative ha?
«Molto negative. Ma l’arresto degli attivisti o i musulmani nei campi di rieducazione non mi sorprendono: se puoi uccidere i cittadini senza ripercussioni non c’è limite alla brutalità. Non vedo possibilità di evoluzioni o rivoluzioni in Cina, neppure se arrivasse una crisi economica. L’unica è la pressione esterna».
Si riferisce a Trump?
«Ha fatto pessimi commenti su Tiananmen, ma la guerra commerciale è un buon passo.
L’influenza della Cina all’estero è sempre più forte, nessuno vuole parlare a noi attivisti per non offendere il Partito. Il totalitarismo digitale cinese è un pericolo per il mondo, va affrontato».
Si pente mai di essere partito?
«No, è solo grazie alle persone fuori dalla Cina che la verità si preserva. Mi manca Tiananmen, non questa Cina».
Il mio popolo è tenuto al cappio
Ma quei cinquanta giorni di 30 anni fa dimostrano che ama la libertà e che la democrazia è ancora possibile
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Repubblica 2.6.19
La scatola vuota dei 5Stelle e il nuovo cinema della sinistra
I liberaldemocratici devono confluire in un Pd guidato da personalità capaci di rilanciare a tutto campo il partito
di Eugenio Scalfari
La nostra specie si distingue dalle altre per una sola ma fondamentale ragione: vive insieme al "Sé", la consapevolezza del se stesso con tutto ciò che ne deriva. Qualche esempio contribuisce a renderci edotti dell’importanza fondamentale del se stesso.
Vediamo.
Eraclito ci disse che chi mette il piede nel fiume tocca quell’acqua un solo istante e non la toccherà mai più perché l’acqua scorre, il tuo piede è fermo e questo determina il rapporto tra l’acqua corrente e il piede immobile.
È il primo esempio, direi in ordine di tempo, ma contribuì a fondare il principio della relatività.
Di esempi ce n’è una quantità: Archimede disse che tutto ciò che vive nel mondo ha i suoi limiti salvo i numeri perché i numeri sono infiniti.
Socrate visse la sua agonia in piena lucidità di pensiero come hanno raccontato alcuni suoi discepoli e soprattutto Fedone. La certezza del filosofo greco era che la morte porta via il "Sé" e questo è tutto: il "Sé" non si ripete in nessun’altra forma e perciò se ha debiti ed è un buon cittadino cerchi di pagarli finché ancora respira e vive.
Einstein, dopo lunghi studi, arrivò a teorizzare la relatività generale: il mondo, anzi, l’universo sono composti di particelle il cui movimento cambia di continuo perché viene attratto e a sua volta attrae tutte le particelle che hanno una reciproca comunicazione.
La comunicazione cambia di continuo per la molteplicità delle particelle, la loro distanza continuamente variabile e il loro spessore elettromagnetico. Ma il "Sé" suscita anche pensieri d’altro genere, a cominciare dal rapporto con gli altri: rapporto di pace e di amicizia oppure di guerra e di odio e di amore e potere. Di qui nascono la pace e la guerra e la scienza politica: valori, ideali, interessi. E anche la tempistica: presente, passato, futuro. Servitù e libertà.
L’illuminismo di Condorcet e di Voltaire si basa su un trio di valori: libertà, eguaglianza, fraternità. Questa è stata la civiltà moderna nei periodi positivi della sua esistenza, condizionati a loro volta dalle varie categorie professionali e culturali che hanno distinto il popolo in diverse classi, caratterizzate dalla cultura, dai mestieri, dalla agiatezza materiale e dall’importanza politica che ciascuna delle classi possiede ma che varia continuamente per mille ragioni in ciascuno dei membri di quella classe; talvolta la crisi è individuale e altre volte è collettiva.
Infine c’è una collettività, anzi una infinita quantità di collettività che va dalla famiglia, dagli amici, dai conviventi in un quartiere di una città e della città stessa, di una regione, d’una nazione. Spesso le nazioni lottano in continuazione tra di loro ma altrettanto spesso possono fondersi e assumere la vastità d’un continente.
I popoli a loro volta si distinguono anzitutto per la diversità fisica che li distingue e assai spesso sono popoli vaganti, alla ricerca di luoghi più adatti ad essi per accoglienza con chi vi abita già da tempo, per clima, per occupazioni lavorative e il benessere che può risultarne. Questa è la traccia che dobbiamo avere ben presente se vogliamo in qualche modo giudicare quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi in un momento particolarmente delicato sia dal punto di vista politico sia da quello economico.
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La premessa di cui sopra ci consente un giudizio e una serie di previsioni su quanto sta accadendo sotto i nostri occhi.
Per cominciare ricordiamoci che Salvini viene da Bossi che fu il fondatore della Lega Nord. Quanto a Di Maio, viene da Grillo e dalla sua predicazione decennale.
Entrambe queste due origini hanno prodotto i fenomeni ai quali assistiamo in questi recenti anni. Se andiamo a esaminare entrambi questi fenomeni ci rendiamo conto che tutte e due sono partiti dal populismo e tale è rimasta la loro natura. Salvini l’ha estesa all’intero territorio italiano, Di Maio ha avuto una estensione territoriale e politica assai minore, ma il populismo è stato e tuttora è la materia prima di entrambi i due partiti. Il problema non è da poco poiché il populismo non concepisce alcun programma ma segue i capi, anzi, il capo. Tuttavia i due fenomeni che hanno la stessa origine e hanno seguito lo stesso percorso sono molto diversi uno dall’altro: il populismo di Salvini ha come finalità quella di instaurare una sua dittatura vera e propria. Quella di Di Maio ha in buona parte abbandonato la struttura populista del suo movimento grillino: Grillo si proponeva di abbattere tutte le classi dirigenti esistenti in Italia e poi costruire una classe dirigente propria che avesse come finalità quella di essere la sola. La differenza tra la dittatura di Salvini e la classe dirigente unica di Grillo (e quindi di Di Maio) differiscono proprio in questo: i grillini non concepiscono la dittatura di una persona ma di una classe dirigente. Non una dittatura, dunque, ma una oligarchia che detiene collegialmente il potere.
La differenza tra i due schemi è notevole ma è puramente teorica: Grillo delegò i poteri a Di Maio che fu incaricato di costruire la classe dirigente, ma in realtà questo compito non è stato adempiuto e quindi il Movimento dei Cinque Stelle è stato guidato unicamente da Di Maio così come la ex Lega Nord, diventata nazionale, è guidata unicamente da Salvini. I due movimenti sono di natura analoga con una differenza di fondo: Salvini ha le attitudini per condurre un popolo intero, Di Maio no: ha perso il suo nucleo populista ma non l’ha rimpiazzato in nessun modo. I Cinque Stelle sono una scatola di discreto formato ma praticamente vuota. Accade infatti sotto gli occhi di tutta la pubblica opinione che l’aumento di suffragi di Salvini va di pari passo con la diminuzione dei seguaci dei Cinque Stelle: uno cresce e l’altro diminuisce. Naturalmente c’è un limite e il Movimento Cinque Stelle non riversa l’intero deflusso sul partito di Salvini, va anche altrove: non vota, vota per il partito democratico, o per i Fratelli d’Italia, insomma si disperde. Al contrario di Salvini i Cinque Stelle in Europa praticamente non esistono. La verità è che Grillo ha prodotto poco o niente al contrario della Lega Nord che si è estesa a tutto il Paese e rappresenta quindi una leadership nazionale che può ancora crescere trasformando l’Italia in una piattaforma mediterranea al servizio della Russia di Putin. Ma la sinistra c’è o non c’è?
Questo è il terzo tema.
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La parola sinistra è comparsa soltanto da due secoli, non di più. Naturalmente le divisioni politiche tra diversi gruppi sociali sono sempre esistite, nessuna persona è uguale ad un’altra e parole geometriche e topografiche come destra o sinistra non avevano fino a un paio di secoli fa questi significati e quindi non venivano usate politicamente. Neanche gli illuministi le usarono in quel modo. Bisogna arrivare alla sconfitta di Napoleone con la rivoluzione francese che gli stava storicamente alle spalle. A quel punto ecco che la parola sinistra comincia ad essere usata ed evoca inevitabilmente un centro e una destra.
Di fatto, accadde quando il re di Francia Luigi XVI convocò gli Stati generali. Per statuto e per consuetudine essi erano formati da tre gruppi sociali: la religione e i Vescovi che la rappresentavano; la nobiltà; il Terzo Stato che di fatto rappresentava quella che poi fu da tutti chiamata borghesia. Il popolo vero e proprio, quello soprattutto dei contadini che costituivano la maggioranza e dei pochi operai che facevano da servitori e da aiutanti, non aveva un suo nome e non veniva convocata negli Stati generali. Il Terzo Stato era il più numeroso. La storia ci insegna che la rivoluzione nacque dal fondersi dei tre ordini di Stato e quindi dal dominio del Terzo Stato che propose al re di trasformare gli Stati generali in una assemblea costituente che avrebbe riformato l’intera struttura politico-amministrativa del Paese e che, una volta compiuto il suo lavoro, il re avrebbe dovuto consacrarlo e convocare un’assemblea legislativa che sulla base delle indicazioni della costituente avrebbe promulgato la legge costitutiva. Così infatti accadde e così cominciò la rivoluzione francese. Non si chiamava ancora sinistra il Terzo Stato. Il nome fu inventato da Marat e da lì prese il volo. A pensarci bene, questo fu l’unico risultato politico prodotto da Marat, tuttavia merita di ricordarlo.
*** I comunisti sovietici non si chiamavano sinistra ma semplicemente comunisti salvo Trotsky che fu un altro (dopo Marat) a riesumare l’aggettivo di sinistra.
Indipendentemente da lui, quella parola fu definitivamente coniata e usata durante le rivoluzioni del 1848 che percorsero l’intera Europa. La parola sinistra fu battezzata da Marx insieme a quella comunista ma prese il volo in Europa e nel mondo intero, soprattutto il mondo occidentale, nella seconda metà dell’Ottocento. In Italia più che altrove: la usò Mazzini con la sua "Giovane Italia", la usò Cavour non per definire se stesso ma quelli che con lui avevano fatto un patto politico per portare il Piemonte verso l’unità d’Italia. La usò Garibaldi che diventò in qualche modo il vessillo d’una politica che favoriva le classi popolari, gli operai, i contadini, la borghesia illuminata.
Talvolta ci si domanda le ragioni per cui quella parola diventò il segnale di un programma e il coagulo di interessi e ideali e valori. In Francia nacque il tricolore, bandiera nazionale con tre colori che rappresentavano il bianco l’equità, il blu il territorio, il rosso la sinistra. L’Italia ereditò la medesima bandiera cambiando il blu in verde.
La nostra sinistra attuale ha molto da fare e debbo dire che non può tardare oltre: deve raccogliere i liberaldemocratici nel partito del Pd, guidato da personalità capaci di rilanciare a tutto campo quel partito. Accanto ad esso ci sono movimenti popolari attratti dal Pd e anche capaci di creatività aggiuntive a quelle esistenti nello statuto e nella prassi del partito. Quei movimenti vanno incoraggiati: sono una amplissima platea che guarda un film e si identifica con esso. Il film, gli attori, il racconto che esso contiene, quello è il partito. Gli spettatori che lo guardano con piena soddisfazione e identificazione sono i movimenti che appoggiano e sono pronti a tornare quando ci sia in un altro film la ripetizione delle trame, degli attori, della musica che ne fa parte; insomma spettacolo analogo, attori e autori analoghi, pubblico crescente e identificato con ciò che vede e che segue.
Questo è il compito che deve essere svolto dallo stato maggiore del Pd il quale deve anche disporre di mezzi che diffondano il suo messaggio rappresentato dal film.
Non farò nomi di chi è addetto a compiti così impegnativi. Li ho già fatti varie volte e ripeterli è inutile e noioso. Auguro a chi è incaricato di produrre l’azione politica di una sinistra moderna di aver chiaro il compito e di eseguirlo con rapida efficacia.
https://spogli.blogspot.com/2019/06/il-fatto-31.html