giovedì 30 maggio 2019

il manifesto 30.5.19
Mai come stavolta è «primo» il partito del non voto
di Franco Astengo


Crescita dell’astensionismo forse oltre la fisiologicità del fenomeno ricorrente nel passato per le elezioni europee, nuova espressione di fortissima volatilità elettorale, esaurimento del «centro» e della «sinistra» con un chiaro spostamento a destra come segno dei tempi di netta contrapposizione; forte dispersione di voti a causa di una soglia di sbarramento molto alta e quindi sostanziale deprivazione della rappresentanza. Sono questi principali fattori che emergono dall’analisi del voto italiano al riguardo del Parlamento Europeo svoltesi il 29 maggio 2019 e che richiamano la necessità di un’analisi disomogenea comprendendo in questa i dati sia delle due tornate europee sia di quella politica del 2018.
Ne è uscita un’Italia spaccata in due: con la Lega egemone fino a Campobasso e il M5S che cerca di reggere da Caserta in giù; in mezzo a questa geografia dai termini bipolari ribaltati rispetto alle politiche 2018 qualche minuscola “enclave” segna, in Emilia e in Toscana, la precaria presenza del Pd. Si evidenzia un passaggio diretto di voti tra Forza Italia e Fratelli d’Italia (con la seconda che si rafforza evidentemente). In diverse regioni Fratelli d’Italia scavalca Forza Italia (Veneto, Friuli, Marche, Umbria, Lazio). Quindi non appare automatico un passaggio diretto tra Forza Italia e la Lega. La Lega in diverse situazioni attinge dal serbatoio M5S, piuttosto che da Forza Italia.
Il M5S invece sicuramente ha approvvigionato l’astensione. Si sta profilando quindi uno spostamento a destra dell’elettorato italiano in una dimensione molto più consistente di quanto non appaia a prima vista. Lega e M5S risultano protagoniste della volatilità elettorale in entrata e in uscita con dimensioni molto spesso superiori al 50%. Siamo di fronte al fenomeno di milioni di elettrici ed elettori che non riescono a votare la stessa lista per due elezioni consecutive, neppure a distanza di un anno tra un’elezione e l’altra.
Per tutta la giornata di domenica è stata venduta la favola della crescita della partecipazione. In realtà anche rispetto alla già deprimente partecipazione al voto del 2014 verifichiamo un’ulteriore contrazione. Le europee si sono ancora una volta rivelate, in Italia, assai poco attrattive per l’elettorato. I voti validi (quindi già sottratte le schede nulle e bianche) sul territorio nazionale sono stati 26.662.962 pari al 53,93% del totale degli aventi diritto. Mentre il non voto (astenuti, binache e nulle) raggiunge la cifra di 22.466.634.
Nell’occasione delle elezioni europee del 2014 (quelle dell’illusorio 40% del Pd) i voti validi furono 27.448.906 pari al 54,17%. Alle politiche dell’anno scorso questa cifra s’impennò fino a 32.841.705, al 70,61%. Rispetto alle politiche 2018 mancano quindi il 16,68% dei voti, circa 2.970.000 unità. Numeri da rendere improbabile qualsiasi raffronto ragionato. Tra le europee 2014 e quelle 2019 ci sono stati circa 900.000 voti validi in meno.
Le sole regioni nelle quali il totale dei voti validi nel 2019 è stato superiore a quello del 2014 sono state: la Valle d’Aosta, Veneto, Friuli, con le maggiori punte di flessione in Campania e Sicilia. In questo caso appare di grande interesse esporre le percentuali per ogni singolo partito riferite non al totale dei voti validi ma a quello degli aventi diritto (riferimento sempre al territorio nazionale). Il totale degli aventi diritto era quindi di 49.129.598 elettrici ed elettori: Lega 18,58%, PD 12,22%, M5S 9,23%, Forza Italia 4,7%, Fratelli d’Italia 3,5%, Più Europa 1,67%, Europa Verde 1,23%, La Sinistra 0,94%. Un esempio dal passato come indice di una solidità del sistema. 1976: DC 14.209.519 su 40.426.658 pari a 35,14%, PCI 12.614.650 pari a 31,20 %, PSI 3.540.309 pari all’8,75%. I tre grandi partiti di massa valevano quindi assieme il 75,09% sull’intero elettorato (votante e non votante: la percentuale dei votanti si era attestata sul 93,39%). Ora i tre primi partiti valgono il 40,03% dell’intero elettorato votante e non votante (percentuale dei votanti: 56,09%). Per la prima volta nella storia repubblicana il partito di maggioranza relativa si colloca al di sotto del 10 milioni di voti.
Riscontriamo quindi indici di estrema fragilità del sistema e di difficoltà nell’espressione della rappresentanza politica: segnali da non sottovalutare.

il manifesto 30.5.19
Aborto legale, l’Argentina ci riprova
Diritti delle donne. Una marea verde, dal colore dei fazzoletti simbolo del movimento femminista, accompagna la proposta di legge (l'ottava in 14 anni) per l'interruzione volontaria di gravidanza fino davanti al Congresso. La deputata Victoria Donda Pérez, prima firmataria, al manifesto: «La destra vuole la staticità dei ruoli tradizionali in cui noi donne restiamo riproduttrici di forza lavoro. Una legge ci può liberare»
di Gianluigi Gurgigno Ariadna Dacil Lanza


BUENOS AIRES Lungi dall’essere una mera pratica burocratica, l’ottava presentazione in 14 anni del progetto di legge per legalizzare l’aborto in Argentina è stata accompagnata in tutto il paese da una marea verde che nella capitale ha inondato le vicinanze e l’interno del Congresso nazionale.
LA «CAMPAGNA NAZIONALE per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito», attraverso alcune deputate, ha riproposto il progetto che sostiene sin dalle sue origini, nonostante la composizione del parlamento non sia cambiata dall’anno passato, quando il no del Senato bloccò la legge. Stesso testo e stessa composizione parlamentare, dunque, ma con la vigenza del progetto estesa fino al prossimo anno, quando i seggi saranno già occupati dai deputati e dai senatori eletti nelle elezioni del prossimo ottobre.
La deputata argentina Victoria Donda Pérez (foto di Gianluigi Gurgigno)
Come nel 2018, prima firmataria della proposta di legge per l’«Interruzione volontaria di gravidanza» è la deputata Victoria Donda Pérez, figlia di José Donda e María Pérez, entrambi desaparecidos. Eletta una prima volta nel 2007 nelle file del Movimiento Libres del Sur, l’anno scorso ha fondato il partito Somos e ora è in corsa per la carica di governatrice di Buenos Aires. Sarebbe la prima donna a ricoprirla, così come è stata la prima figlia di desparecidos a sedere in parlamento (è nata all’interno dell’ex Esma, il «Centro clandestino di detenzione, tortura e sterminio» dal 1976 al 1983).
MENTRE GLI ALTRI CANDIDATI progressisti alle prossime elezioni pensano che sarebbe opportuno posticipare il dibattito sull’aborto al fine di generare consensi per superare la destra di Mauricio Macri al governo, Donda la pensa diversamente: «Come donne continueremmo a essere esposte alla clandestinità: il progetto deve essere trattato con urgenza e la legge deve essere approvata adesso».
Pochi minuti prima di incontarci, la deputata ha ricevuto i genitori di Lucía, la sedicenne che nel 2016 fu drogata, abusata e uccisa da due uomini. La propria storia personale ha avvicinato Donda Pérez alle rivendicazioni del femminismo e dei diritti umani. «Quando ero piccola una mia amica ha abortito clandestinamente. L’aborto le venne praticato con un bastone di vimini che le provocò un’infezione, e finì con l’utero perforato. Poi invece altre donne a me vicine hanno potuto pagare e allora sì, hanno abortito in dieci minuti. È una differenza di classe ma, tanto in una clinica come in una buia stanza di quartiere, c’è un comune denominatore: il peso della clandestinità, il sentirti una delinquente». Donda sottolinea che «la destra vuole la staticità dei ruoli tradizionali in cui noi donne continuiamo a essere riproduttrici di forza lavoro. Una legge per l’aborto legale ci può liberare in parte da questa subordinazione».
foto di Gianluigi Gurgigno
DAVANTI AL CONGRESSO Ana Clara ha deciso di trascorrere lì il pomeriggio del suo 34mo compleanno, per seguire da vicino la presentazione del progetto di legge. «Tutti abbiamo qualche amica o una familiare che c’è passata. Nel mio caso è stato in una clinica clandestina» dice, e continua parlando del «tabù, la paura e la persecuzione». Flavia la accompagna e commenta: «Una cugina di mio padre è stata violentata dal nonno ed è morta in seguito all’aborto clandestino. Nessuno ha detto niente per paura dei commenti, è terribile rendersene conto. Per questo siamo qui, a partorire una legge, perché siamo la voce di quelle che non ci sono più».
«Io a 15 anni ho abortito illegalmente con pastiglie – interrompe Milagro, sciogliendo il nodo che aveva in gola – e l’aiuto di mia mamma perché non volevo tenere quel bambino. Sono finita in ospedale per un’infezione. Mia mamma mi disse “Milagro per favore non dire niente altrimenti vado in galera”. Oggi sono qui con mia figlia Isa, che insieme al padre abbiamo deciso di avere. È stata la decisione migliore della mia vita». Flavia si allontana dai discorsi moralizzatori e sottolinea che lei «sapeva quello che faceva», ma per scelta o fallibilità dei metodi di cura «sono cose che succedono». Di fronte a tutto questo, il desiderio di non maternità può essere forte tanto come quello di essere madre.
NEL MEZZO DELLA MOLTITUDINE Flor ferma Martina, che non conosce, per chiederle un po’ del suo glitter verde. «Non ho casi di aborto vicini a me ma si tratta di avere un po’ di empatia con ciò che succede alle altre» – dice. Julia e Sonia, di 19 anni, hanno i fazzoletti verdi legati in testa: «Per avere diritti bisogna conquistarseli» dice una mentre camminano per Avenida Callao, l’arteria cittadina che porta al Congresso.
«Io non lo farei e non sono d’accordo con l’aborto, ma mi sembra importante la legalizzazione» dice Macarena, 24 anni e gli occhi truccati di verde. Seduta in mezzo alla strada, con un telo sull’asfalto, una ragazza vende fazzoletti verdi e dice d’essere d’accordo con il simbolo femminista.
Nel frattempo sotto allo stand montato di fronte al Congresso, una delle referenti storiche della campagna, l’avvocata Nelly Minyersky prende con una mano il bastone e con l’altra il microfono per sintetizzare: «Lottiamo per un diritto umano fondamentale. Il diritto all’aborto non è solo il diritto sul nostro corpo, ma anche il diritto a decidere se vogliamo avere figli o no. È il diritto al proprio destino».
traduzione di Gianluigi Gurgigno

il manifesto 30.5.19
Il M5S non è più l’argine, né alla destra, né all’astensione
Crollo elettorale. Il capo, il contratto, l’identità, aver creato aspettative difficili da mantenere, la prova del governo arrivata troppo presto, impreparati su Ilva, Tap e Tav
di Aldo Carra


Il voto delle europee segna la fine di una funzione che il M5S si è sempre vantato di svolgere: quella di impedire che il malessere prodotto dalle politiche di austerità e dalla degenerazione del sistema dei partiti sfociasse in astensionismo di massa ed alimentasse la destra.
Questo per un po’ è stato anche vero, ma, adesso, si è prodotto un fenomeno opposto: sei milioni di votanti in meno ed altrettanti voti persi dal M5S; una nuova destra radicale e populista ha divorato quanto di moderato c’era in quell’area ed ha attratto a sé un altro milione di elettori dal M5s e dalla stessa area di centro-sinistra.
Così, dopo il terremoto del 2018, la nuova scossa ha prodotto una implosione del M5s ridotto al 17%, e ci mette di fronte ad nuova destra riorganizzata che si attesta al 50%. Sul versante opposto un Pd che arresta la sua emorragia di voti, ma non mostra capacità attrattive né verso l’elettorato perduto né verso quello in movimento ed una sinistra radicale il cui ennesimo e generoso tentativo di accorpare in extremis chi ci sta si infrange di fronte ad uno scontro tra titani che richiama a schierarsi ed a non disperdere il voto.
Si esaurisce così la funzione argine verso l’astensione svolta dal M5s, mentre la funzione traghetto, svolta attraendo anche elettorato di sinistra e proiettandone il malessere verso lidi populisti, produce i suoi effetti nefasti nello sfondamento di Salvini.
L’implosione del M5s nasce da diversi fattori: un appannarsi dell’identità – sotto l’equivoco del né destra né sinistra – proprio mentre la Lega rafforzava la sua identità di destra; una forte accentuazione della funzione del capo politico non compatibile con le esigenze di flessibilità ed articolazione che deve avere un movimento, soprattutto se esso è giovane e deve favorire l’emergere di forze nuove; il ricorso alla trovata del contratto di governo per spiegare l’alleanza con una forza abbastanza diversa che non poteva che generare una instabilità permanente che può risultare mobilitante fino ad un certo punto, ma non oltre; l’aver puntato su obiettivi specifici mirati a particolari categorie, come il reddito di cittadinanza, che hanno alimentato aspettative difficili da soddisfare e creato anche esclusioni e disillusioni; l’essere arrivati troppo presto alla prova del governo ed impreparati su dossier, come Ilva, Tap e Tav che erano in stato avanzato…. .
Queste e altre contraddizioni hanno generato il crollo elettorale e mettono il M5s di fronte a scelte vitali. Vedremo come esso reagirà, ma è certo che si è creata una nuova larga schiera di elettori delusi che scelgono l’astensione e che, in queste elezioni, non sono stati attratti né dalla proposta del Pd né da quella della sinistra. E sembra abbastanza certo che buona parte di essi sono stati mossi da scelte come il voto per Salvini sulla Diciotti, le soluzioni trovate su questioni ambientali che erano state bandiere elettorali ed, in generale, dalla subordinazione alla direzione politica imposta da Salvini.
Si apre, perciò, una nuova fase di doppio movimento. A livello politico vedremo ripercussioni sul governo e conseguenze sul ruolo delle opposizioni. Ma è a livello sociale che occorrerà al più presto costruire una relazione con i tanti soggetti che si sono chiamati fuori dal voto ed i non pochi che il sistema elettorale ha privato di rappresentanza. È a questo elettorato che va rivolta l’attenzione della sinistra e del Pd. Sapendo che tra questi elettori ci sono molti giovani e che c’è una forte sensibilità sui temi ambientali.
Speriamo di non essere trascinati nel dibattito tutto politicista su nuovi scenari, alleanze, governi di transizione più o meno tecnici. Sarà necessario parlare anche di questo. Ma se vogliamo dare voce ai soggetti di cui abbiamo parlato ed anche costruire dal basso uno schieramento sociale per contrastare la deriva a destra sarà necessario anche che vi sia chi si dedica a costruire sedi, occasioni di lavoro e ricerca comuni, a generare una nuova alleanza dal basso tra ispirazioni ed aspirazioni di sinistra e sensibilità e culture ambientaliste. Il lavoro da fare non manca, ma va fatto uscendo dai recinti della cultura di sinistra ed ambientalista per fertilizzare terreni nuovi e coltivare nuove piante.

il manifesto 30.5.19
Fratoianni: «Ora anche la sinistra si impegni nell’alternativa all’onda nera»
L'intervista. Il leader di Sinistra italiana: la nostra lista non è stata percepita come utile a fermare le destre, adesso non richiudiamoci fra noi. Basta frammentazioni, darò il mio contributo. Serve il dialogo con M5S e Pd. Anche con Calenda. Ma continuare a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno non porta a nulla
di Daniela Preziosi


«La nostra proposta è stata schiantata dal richiamo al voto utile». Per Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, l’analisi della sconfitta della lista La Sinistra, nata dopo il deragliamento di un’altra lista, Liberi e uguali, è amara. «Più in profondità, questa fase politica è stata segnata dalla polarizzazione di uno scontro. E in questo scontro il bisogno di difendersi dall’onda nera ha prevalso su tutto il resto. Un racconto a cui tutti abbiamo contribuito e che ha portato i cittadini a votare dove sembrava più forte la possibilità di fare resistenza.
L’onda nera non c’è?
C’è, c’è. E ha messo in secondo piano i contenuti necessari per recidere le radici su cui quell’onda ha costruito la sua forza. Ma, sia chiaro, questo non ci assolve.
Dare la colpa al ‘voto utile’ non è autoassolversi dai limiti della vostra proposta?
È il contrario. Gli elettori hanno scelto chi sentivano più efficace per fermare le destre. Ci hanno considerati insufficienti e poco credibili. Poi ci sono altri elementi, la costruzione tardiva della lista per esempio, ma non credo che questo sia il punto.
Davate l’impressione degli stessi ceti politici che si rimescolano, dalla Sinistra Arcobaleno a L’Altra Europa a Leu?
Magari, nel 2014 abbiamo preso il 4 per cento. Ma certo, il tema del mancato ricambio e rinnovamento c’è. Ma non è centrale. È paradossale un risultato così proprio mentre nel paese si avverte un risveglio democratico.
Lei è stato un protagonista della lista, per alcuni suoi compagni sembrava il leader. Troppo?
In questa campagna ho messo tutte le mie energie, fino all’ultima goccia. Come tutti e tutte. Non è bastato. Quando si è trattato di ammettere la sconfitta ci ho messo la faccia.
Il 9 giugno ci sarà l’assemblea della lista. Altre volte le spaccature sono arrivate proprio dopo il voto. Quale sarà la proposta di Si per il futuro della lista?
Si ha riunito la segreteria, sabato terrà la direzione. Decideremo insieme. Io andrò all’assemblea: è doveroso ragionare sul futuro. Abbiamo di fronte una stagione complicata e un percorso lungo, dobbiamo riconquistare un insediamento sociale nel paese, fin qui ci siamo dispersi in sperimentazioni generose ma evanescenti. La frammentazione della sinistra, dai Verdi a noi al Prc a Possibile, l’Altra Europa, Diem, Dema, èViva e le esperienze civiche, va superata. È percepita come insopportabile. Anche se questa lista ha provato a costruire la più larga unità. Proverò a dare un contributo. Ma non basta. Il voto ci pone un’altra questione: collocare lo sforzo di ricomposizione e rigenerazione dentro la costruzione di un’alternativa alle destre. Il nodo non può essere più aggirato. Non possiamo chiuderci fra noi dicendo che abbiamo ragione ma non ci hanno capiti. Senza rinunciare ai nostri valori e contenuti, occorre dichiararsi pienamente coinvolti dalla richiesta che viene dal paese: costruire un’alternativa a una destra che raggiunge il 50 per cento e in cui la destra radicale sta sul 40.
Dal 2 per cento al 50 mancano 48 punti. A chi si rivolge?
A tutti quelli che sono oggi interessati a costruire un’alternativa a questa destra. Rispetto l’entusiasmo del Pd, non lo contesto perché ho il senso della misura, ma se immagina un’alternativa concreta non può limitarsi alla riproposizione di schemi vecchi. Tanto meno il centrosinistra. Serve rivolgersi ai 5 Stelle e favorirne il cambio di prospettiva. Per tirarlo dentro questo campo.
Riaprire un dialogo con il Pd dopo gli anni del freddo? Come?
Costruendo uno spazio di discussione in una prospettiva diversa. Perché questa alternativa abbia gambe serve un lavoro sociale per riconquistare tutti quelli che sono andati a destra e che hanno smesso di votare. Serve mettere mano ai nodi su cui il centrosinistra è stato sconfitto. Non pretendo che il programma sia il nostro. Ma si devono porre al centro i diritti e le libertà, lo dico a M5S. E i diritti sociali, il lavoro, la distribuzione della ricchezza, la protezione di chi non ce la fa, e questo lo dico al Pd. Altrimenti anche le forme più larghe di coalizione sono inefficaci. Guardiamo al Piemonte: un’alleanza larghissima, ma ugualmente non competitiva. Lavoriamo su una piattaforma, su parole nuove. L’exploit di Bartolo (il medico di Lampedusa, ndr) vorrà ben dire qualcosa.
C’è stato anche l’exploit di Calenda, però.
Sarebbe persino una buona notizia se nascesse una forza centrista. Ognuno fa il suo mestiere e organizza pezzi di società. I contenitori di tutto e il contrario di tutto non funzionano.
Quindi lei potrebbe dialogare anche con Calenda?
Se il tema è la costruzione di un’alternativa la discussione si fa tra diversi. Ma non si può immaginare un’alternativa continuando a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno.
Per il Prc la pregiudiziale anti Pd sembrerebbe un dato acquisito.
Sarebbe un errore se fosse così. Lo dico qui e lo dirò all’assemblea del 9 giugno. Non ho cambiato giudizio sul Pd e sui suoi governi. Ma non possiamo non misurarci con la realtà. Non sto proponendo di affrontare la questione riducendola soltanto a un problema di alleanze. Ripeto: il centrosinistra, non c’è più, serve uno schema nuovo.
Lei si dimette?
A questa domanda risponderò alla direzione del partito. È un dovere comunicare le mie scelte innanzitutto davanti agli organismi dirigenti e alla mia comunità politica.

il manifesto 30.5.19
Accoglienza migranti, il Viminale chiede 3 milioni di euro a Lucano
Riace. Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso, entro 30 giorni
di Silvio Messinetti


«Non c’è niente di eroico nel vile infierire su chi è più debole» scriveva Dacia Maraini. Ma al Viminale più che eroi ci sono caterpillar, uomini in ruspa con cui abbattere il nemico. L’attacco concentrico di politica e magistratura lo ha già esiliato, umiliato, e il 26 maggio, anche, sconfitto elettoralmente (dopo un’operazione politica tanto efficace quanto spregiudicata, pronta a tutto, anche ad aumentare i residenti del 40% in un anno nel borgo, pur di strappargli Riace). Ora, non sazi, i solerti funzionari del ministero di Salvini battono pure cassa contro Mimmo Lucano. Il nuovo capo dipartimento dell’Immigrazione, Michele Di Bari, già prefetto a Reggio Calabria e responsabile numero uno della disastrosa gestione della baraccopoli di San Ferdinando ma promosso, guarda caso, da Salvini all’importante incarico, ha inoltrato al comune della Locride formale diffida a saldare il conto pregresso. Un conto salato di 3 milioni da versare entro 30 giorni. Se così non fosse «si procederà mediante trattenuta sui versamenti erariali». Si tratta di somme già incassate per i servizi resi dal 2011 al 2018. Ma che il Viminale rivuole indietro perché nel corso degli anni Riace non avrebbe sanato alcuni vizi di rendicontazione.
Secondo la procedura, in caso in caso di anomalie nei conti, l’amministrazione deve presentare controdeduzioni, pena tagli al budget successivo. Secondo il ministero ciò non sarebbe avvenuto, dunque l’ente deve versare il quantum. Questa diffida, tuttavia, stride con la recente sentenza del Tar di Reggio che aveva annullato la circolare del ministero che escluse Riace dallo Sprar. Ebbene, quel provvedimento era stato annullato proprio perché non era stato preceduto da una chiara segnalazione delle asserite anomalie e, inoltre, in quanto implicitamente smentito dai rinnovi triennali dei progetti.
La decisione del Tar, infatti, si fonda essenzialmente sulla circostanza che a Riace a dicembre sia stato autorizzato il finanziamento per il triennio 2017-2019, «in prosecuzione del triennio precedente senza avere comminato penalità». Peraltro, secondo il Tar, se sussiste il danno erariale questo l’avrebbe prodotto proprio il Viminale in quanto «il progetto avrebbe dovuto essere chiuso alla scadenza naturale. Averne autorizzato la prosecuzione, lasciando la gestione di ingenti risorse pubbliche in mano ad un’amministrazione, per quanto ricca di buoni propositi e di idee innovative, ma ritenuta priva delle risorse tecniche per gestirle in modo efficiente, appare fonte di danno erariale che dovrà essere segnalato alla Procura presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della regione Calabria». La magistratura amministrativa aveva, dunque, già sottolineato in sentenza la non correttezza della procedura seguita dal Viminale. Che, tuttavia, ci riprova infierendo su Lucano e sugli assessori delle sue vecchie giunte. Che potrebbero esser chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei Conti di un danno erariale milionario.

Repubblica 30.5.19
L’intervista
D’Alema "Il Pd non sa come si parla agli operai "
L’ex premier: "Il risultato delle Europee è positivo, ma la sinistra resta da ricostruire. Surreale il dibattito sul centro: i moderati votano già per i dem"
Fossi Zingaretti affiderei a Landini un seminario di una settimana per spiegare come si fanno i comizi davanti alle fabbriche
di Stefano Cappellini


Massimo D’Alema, nella lista unitaria per le Europee c’era anche Articolo 1 insieme al Pd. È andata bene? Avete pareggiato? Matteo Renzi dice: persi 100mila voti rispetto al 2018.
«Le elezioni le ha vinte la destra, su questo non c’è dubbio. Ma il risultato del Pd è stato positivo. Il centrosinistra ha fermato una emorragia e si è reinsediato nel suo mondo. Non dimentichiamo che, dopo il voto del 2018 e un anno di logoramento, secondo i sondaggi era sceso anche più giù del 18 per cento».
Se si votasse adesso per il Parlamento la destra avrebbe la maggioranza.
«Il vantaggio della destra è preoccupante, ma il dato più interessante delle Europee è che il risultato ha riproposto uno scenario bipolare destra-sinistra che sembrava superato. Averlo ripristinato è fondamentale: il Pd è di nuovo in campo ed è l’antagonista di Salvini».
Il calo del M5S è strutturale?
«Continueranno ad avere un mercato elettorale, ma è fallito il loro impianto culturale, cioè l’idea che si potesse costruire una dimensione post-politica e liquidare la dualità destra-sinistra».
Il Pd ha intercettato solo una minima parte dei voti in uscita dal M5S.
«Il Pd si è presentato con un volto nuovo, positivo, non arrogante e non anti-sindacale. Però quell’elettorato che si era allontanato aveva bisogno di un elemento più forte di discontinuità che non c’è stato. Per ragioni anche comprensibili, il poco tempo a disposizione. L’immagine del Pd resta da ricostruire, insieme a una coalizione di centrosinistra completamente nuova».
Le elezioni si vincono allargando al centro?
«Trasecolo. Questo dibattito lo trovo surreale. Dicono: dovete conquistare i moderati. Ma i moderati votano già per noi. O vogliamo sostenere che stanno con Salvini? Noi perdiamo nelle periferie. Questo discorso vecchio aveva un senso quando la sinistra rappresentava la classe operaia e doveva allargarsi verso il ceto medio. La società è cambiata ed è smarrita. Ha bisogno di messaggi forti, identitari».
Lei da cosa partirebbe?
«Dal mondo del lavoro. Non dico di cancellare con un tratto di penna il Jobs Act e tornare a prima.
Consideriamo pure superato un modello di tutele che era legato al vecchio modello fordista. Lanciamo però un nuovo grande patto del lavoro: welfare, diritti, lotta alla precarietà».
Zingaretti non l’ha fatto?
«Io anziché aprire il dibattito sul centro mi piglierei uno dei pochi capi operai della sinistra, Maurizio Landini, e gli farei fare un seminario di una settimana per spiegare come si parla agli operai, il 50 per cento dei quali ha votato Lega. Perché il Pd, al momento, non è in grado di farlo. Nel mio partito ideale, in campagna elettorale tutti i lunedì i candidati sarebbero mandati a fare comizi davanti alle fabbriche».
Quindi è contrario alla proposta di Calenda, che ipotizza la costruzione di un partito di centro che si allea al Pd?
«Può essere che un centrosinistra articolato su due gambe abbia una maggiore capacità di tenuta. Io mi sono opposto per anni all’abolizione del trattino tra centro e sinistra, ma non si può piangere sul latte versato. Contribuii a fondare una coalizione intorno a due forze fondamentali, una radicata nella tradizione del cattolicesimo democratico e una nella storia della sinistra. Poi si sono fuse. Ma dovevano convivere. Quando Renzi ha dichiarato guerra a una di queste due tradizioni, è stato il collasso.
Anche un partito unico ha bisogno di due gambe per stare in piedi».
Immagini che la prossima legge di bilancio tocchi a un governo di sinistra. Cosa dovrebbe fare?
«In questi anni si è accumulata una grande ricchezza in una quota ultraminoritaria della popolazione, dunque è lecito pensare a una tassazione patrimoniale. Poi resta la necessità di una seria lotta all’evasione fiscale».
Salvini propone flat tax e manette agli evasori.
«Per ora ha fatto solo il condono fiscale».
Con la lotta all’evasione non si recuperano i miliardi che servono per la manovra.
«Una buona idea di Piketty è rafforzare il bilancio dell’Unione europea finanziando lo sviluppo attraverso una fiscalità europea che colpisca le grandi multinazionali. In Italia Amazon paga di tasse meno di un medio imprenditore della Brianza. E poi serve la carbon tax, perché la difesa dell’ambiente, in quanto critica al capitalismo, è un tema di sinistra».
Immagina un Pd anticapitalista?
«La correzione delle distorsioni del capitalismo è tornata a essere un filone di studio florido nelle università, da Stigliz alla Mazzuccato. Spero che, tra un tweet e l’altro, i loro libri possano suggerire qualche spunto anche alla sinistra italiana».
Il governo cadrà presto?
«Le condizioni politiche perché cada non ci sono.Il M5S non ha alcun progetto. Salvini dovrebbe tornare con Berlusconi e per lui questo è un problema».
Ma che durata può avere un governo così diviso?
«Può cadere travolto dalla realtà. I fatti sono testardi. Il risultato delle Europee accentua il nostro isolamento. A questo punto è naturale che la Ue reagisca all’avventurismo del nostro governo sui conti pubblici. E all’Europa basta un frase: l’Italia non è affidabile. Il giorno dopo i mercati ti massacrano, e i mercati sono molto più cattivi di Moscovici. Ma l’Europa deve cambiare. L’ondata popolista non ci ha travolti, spero che la classe dirigente europea comprenda lo scampato pericolo e avvii un percorso di coraggiose riforme».
Avremo solo posti di serie B nella governance della Ue?
«Si sta costruendo un patto politico tra democristiani, socialisti e liberali. Questo compromesso corrisponde a un accordo tra la Germania, che ha la guida dei popolari, la Francia, con Macron che esce rafforzato dal voto, e i socialisti a trazione iberica. L’Italia è marginale per la rozzezza e la dequalificazione della sua classe dirigente».
Sarà un leghista il commissario italiano a Bruxelles?
«Suggerirei nel caso di puntare su una figura seria e amministratore credibile».
Giorgetti o Zaia?
«Certamente sono due personalità apprezzabili. Non sta a me fare nomi. Ma ricordiamoci che il Parlamento europeo è un animale non facilmente addomesticabile.
Bocciò Rocco Buttiglione. E Buttiglione al confronto di questi qui è Churchill».
Per tutta l’intervista ha parlato del Pd come fosse il suo partito. Lo sente di nuovo la sua casa?
«Non ci sono più case. Bisogna ricostruirla, la casa. Non io, ma milioni di elettori ancora non sentono tale il Pd. Almeno due persone, prima di votare, mi hanno chiesto: posso votare Bartolo, il medico dei migranti, senza barrare il simbolo del Pd? E sa perché Bartolo è stato così votato, senza aver affisso nemmeno un manifesto? Perché esprime valori».
Ma in questa sofferenza della sinistra non si riconosce colpe?
«Ho già fatto tutte le autocritiche e pagato il mio prezzo».
Ha fatto da poco 70 anni. Tempo di bilanci?
«Sono in pace con la mia coscienza. Pur nelle mutate condizioni di ogni epoca, sono sempre stato coerente con le idee che mi hanno spinto all’impegno civile e politico».
Pentito di nulla?
«Di molte cose. Ma della più grave non voglio dire, aprirebbe troppe polemiche».
Ha a che fare con la fondazione del Pd?
«I partiti devono avere un ubi consistam».
"Chi vuole ricostruire il comunismo è senza cervello, chi non ne ha nostalgia è senza cuore". Chi l’ha detto?
«Io, alla festa dei miei 70 anni, parafrasando Putin».
Ha molta nostalgia?
«Il Pci è stata la pagina più straordinaria della mia vita. Credo che, per la mia generazione, questo sia un sentimento unanime».

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