Repubblica 29.5.19
Blitz lirico
Una poesia contro le svastiche
A Fiumicino qualcuno copre le scritte naziste disegnate sui muri con versi di Leopardi, Rimbaud e Shakespeare
di Gabriele Romagnoli
Una poesia contro il nazismo. Detto così sembra un mismatch, come quando nelle qualificazioni ai campionati europei San Marino affronta la Germania. Eppure. È accaduto a Fiumicino, alle porte di Roma capitale. Nottetempo, sui muri dove erano state tracciate svastiche o scritte diversamente oscene, sono apparsi, a coprirle, fogli recanti versi di poesie: da Leopardi a Shakespeare, da Penna a Ungaretti. Il sussidiario posato sopra il Mein Kampf . La rosa bianca dei fratelli Scholl piantata nella cenere. È un gesto, ma prima di esagerarne o equivocarne la valenza, ne va interpretata la natura, in apparenza più estetica che politica. Ad arruolare Cavalcanti contro CasaPound si rischia il ridicolo e si riapre la porta alla stucchevole diatriba che impestò l’ascolto dei cantautori: ma De Andrè dove lo metti, a destra o a sinistra? Ci sono invece tre spunti sollevati dalla vicenda. Il primo riguarda la permanenza dell’esposizione al pubblico a Roma di scritte o disegni. Solitamente, per osmosi, tende all’eterno. E non fa distinzioni politiche. Chi volesse costeggiare le storiche mura a porta San Lorenzo troverà ancora, a vernice rossa: "W il nuovo PCI", seguita da falce e martello, di datazione incerta. A questa longevità fanno eccezione soltanto alcune creazioni, benché di matrice vagamente artistica, raffiguranti sempre gli stessi due soggetti, Salvini e Di Maio, ritratti in varie incarnazioni: bari, preti cattivi, babbi natale. Per il resto, all’inerzia delle istituzioni si sostituisce, quando e come può, la solerzia dei cittadini, con la pettorina dei retakers o il ciclostile del Movimento per l’emancipazione della poesia, fondato a Firenze, ma attivo anche a Roma, che affigge versi sui muri dal 2010. Versi anonimi, mentre a Fiumicino ci sono firme illustri. Tuttavia, questo è il secondo spunto, la poesia è per forma neutrale. La sua gentilezza è rivolta alle parole, la sensibilità al loro accostamento. Il compianto Claudio Lolli nella sua canzone più nota, Ho visto anche degli zingari felici ,
sosteneva che «i poeti amano l’odore delle armi», ma in fondo era poeta pure lui e infatti proseguiva dicendo «i poeti aprono sempre la loro finestra anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata». Lo diciamo noi che è sbagliata, per loro «una finestra è una finestra è una finestra». Può essere il punto di osservazione di tamerici bagnate dalla pioggia o di feriti e caduti di guerra «tutti nel sangue innocenti».
Può capitare, e questo è il terzo spunto, che la poesia scenda in strada e si metta da un lato o dall’altro. Non è il caso dei versi incollati a Fiumicino, reazione di forma ma non di contenuto alle precedenti scritte sui muri. È quel che accadde invece l’anno scorso al liceo Montale di Roma, dove un professore fece coprire frasi indegne su Anna Frank con versi proprio dell’autore a cui è dedicata la scuola, tratti dalla poesia La primavera hitleriana : «La sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue / si è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate / di larve sulle golene, e l’acqua seguita a rodere le sponde / e più nessuno è innocente». A comprova dell’ultima riga, e quasi inevitabilmente, comparvero scritte minacciose contro l’insegnante. È una spirale senza via d’uscita.
Abbiamo fatto tesoro di altri versi, quelli di Bertolt Brecht: «Anche l’odio verso la bassezza distorce i tratti del viso / Anche l’ira verso l’ingiustizia rende la voce rauca» e ci rattrista chi va per dibattiti a travisare l’espressione «rispondere per le rime» replicando con offese alle offese e credendo che i versi siano urla contro l’avversario. Piacerebbe poter essere soavi e a chi vuol mettere a tacere una voce contraria dedicare le parole da libertario di Cesare Teofilato, più volte incarcerato per le sue opinioni, in rima o meno: «Ferma la voce mia, stolto censore / essa è la voce che ti fa spavento / essa è la voce che ti fa rossore / è fiamma antica, che s’accresce al vento». Come certi murales, la poesia può dar voce a un azzeccato sberleffo, cavalcando inconsapevole l’ostacolo del tempo. Prendete per esempio La Regina , di Claude Cahun, pseudonimo di genere ambiguo di artista multimediale dal sesso non definito, vissuta nella prima metà del Novecento: «Attenta ai passi tuoi, iraconda Sovrana / potresti malamente inciampar nella sottana / Non ritener sia men grave lo sconquasso/ quando il cader avvien dal basso al basso».
Corriere 29.5.19
Angela Merkel «Sui nazionalisti occorre vigilare, dovremo essere più vigili degli altri Paesi»
Merkel e il populismo «Restiamo vigili, stanno riemergendo le ombre del passato»
di Christiane Amanpour
Cancelliera Merkel, qual è la sua reazione alle elezioni europee. Il suo partito ha mantenuto il primo posto in Germania, ma anche i Verdi sono andati molto bene, mentre lei personalmente ha riscontrato un calo superiore alle attese.
«Sono contenta che l’affluenza alle urne in Germania sia cresciuta rispetto alle precedenti elezioni europee, come in molti Paesi. Siamo diventati il partito più forte e ciò avrà il suo peso nella ripartizione degli incarichi in seno all’Unione Europea. È giusto riconoscere le conquiste dei Verdi, che si fanno portavoce delle crescenti preoccupazioni dei cittadini su come affrontare i cambiamenti climatici. Queste problematiche sono una sfida anche per il mio partito: occorre dare risposte migliori e dire con chiarezza che siamo pronti a rispettare gli impegni presi».
Parliamo dell’ambiente: i giovani sono interessati a questo tema, è parte del loro diritto esistenziale. Lei si era prefissa obiettivi che non sono stati rispettati, come in altri Paesi. Il nucleare è stato accantonato dopo la catastrofe di Fukushima: si è pentita di quella decisione?
«È giusto che i giovani alzino la voce e facciano notare alle vecchie generazioni quello che sta accadendo e quali potrebbero essere le ripercussioni sul loro futuro. Siamo stati capaci di raggiungere solo in parte gli obiettivi che ci eravamo prefissi. Ma quest’anno abbiamo incontrato difficoltà ad attenerci ai limiti del 2020, e ci siamo impegnati per il 2030. Non rimpiango affatto di aver abbandonato l’energia nucleare, sono convinta che non sia sostenibile a lungo termine. Abbiamo inoltre deciso di ridurre gradualmente la produzione di energia con le centrali a carbone, fino alla cessazione nel 2038. Certo, è una bella sfida rinunciare sia al carbone che al nucleare e dovremo trovare soluzioni più idonee, ma possiamo farcela. In Germania le energie rinnovabili rappresentano una percentuale già considerevole del mix e ci proponiamo di aumentarla entro il 2030».
Il presidente Trump ha dato l’altolà all’importazione di automobili costruite in Germania per motivi di sicurezza nazionale. Che ne pensa?
«Ho preso atto di questa dichiarazione ma difenderemo le nostre ragioni. È giusto che abbiamo ottenuto il mandato dall’Unione Europea per avviare i negoziati commerciali con il governo americano. La Germania prenderà queste trattative molto seriamente. Il mio ragionamento è ovviamente che le automobili tedesche non sono costruite solo in Germania. Prendiamo la Bmw: la fabbrica principale è in Carolina del Sud; significa che la Germania ha investito molto di più in America, grazie alle sue aziende, di quanto non abbia fatto l’America in Germania. Sarà opportuno esaminare da vicino la questione, in quanto occorrerà tutelare posti di lavoro e di formazione in America. Poi i manufatti possono essere trasportati in tutto il mondo. Inoltre, occorre sottolineare come anche la Germania è aperta alle aziende americane. Siamo pronti ad accogliere tutti a braccia aperte».
Un presidente tedesco, nel 40° anniversario del D-Day, pronunciò un discorso rimarchevole sull’Olocausto, dicendo che il giorno della sconfitta della Germania fu anche il giorno della sua liberazione. Lei è d’accordo?
«Certamente. Ricordo che fu nel 40° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale che il presidente federale tedesco Weizsäcker pronunciò questo discorso. All’epoca vivevo nella Repubblica democratica tedesca, la Germania era divisa, e di conseguenza quel discorso lasciò in noi un segno profondo. Mi parve una descrizione molto accurata e pertinente della situazione e la condivido ancora oggi».
Gli analisti la descrivono come il volto della Germania buona, ma dicono anche che sotto il suo governo antichi demoni sono riemersi: naziona lismo, populismo, antisemitismo, forze oscure che vediamo uscire vittoriose dalle urne.
«In Germania queste problematiche devono essere affrontate nel contesto del nostro passato: dovremo essere più vigili degli altri Paesi e sì, c’è ancora molto da fare. Abbiamo sempre avuto un certo numero di antisemiti, sfortunatamente; a tutt’oggi, non esiste in Germania una sola sinagoga o scuola materna per bambini ebrei che possa fare a meno della sorveglianza della polizia. Purtroppo non siamo riusciti a estirpare questi mali. Dobbiamo far fronte agli spettri del passato: dire ai giovani quali sono stati gli orrori della guerra per noi e gli altri, spiegare perché siamo a favore della democrazia, perché combattere l’intolleranza e non tollerare le violazioni dei diritti umani, e perché l’articolo uno delle nostre leggi — l’inviolabilità della dignità umana — è fondamentale per noi. Occorre insegnare queste cose a ogni nuova generazione. È diventato più difficile, ma proprio per questo dobbiamo rinnovare il nostro impegno».
Per questo ha consentito l’ingresso a tanti rifugiati?
«Sono convinta che dobbiamo imparare a vivere in un certo equilibrio con i nostri vicini, e il continente africano fa parte del nostro vicinato. Per questo è necessario aiutare i popoli africani nei loro Paesi, in modo che non vengano spinti a emigrare. Sulla soglia di casa nostra c’è la Siria; in Iraq la situazione è ancora critica. Non abbiamo vigilato come avremmo dovuto, non abbiamo capito che i cittadini di quei Paesi non avevano lavoro, istruzione, né le cure necessarie, e questo li ha costretti ad affidare la loro vita ai trafficanti. In questa emergenza umanitaria, abbiamo offerto loro il nostro aiuto. Ma la situazione non è sostenibile a lungo. Noi tutti, come Stati, abbiamo il dovere di gestire e guidare l’immigrazione. Non nel senso di chiuderci gli uni agli altri, ma nell’aiutarci ad affrontare queste emergenze umanitarie e nel creare nuove opportunità in quei Paesi. Lavoriamo a questo sin dal 2015, quando abbiamo firmato un accordo con la Turchia affinché fornisse aiuti ai rifugiati sul posto, ma abbiamo anche affrontato la lotta contro i trafficanti di esseri umani».
Lei ha anche oppositori come l’ex ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, che ha dichiarato: «La cancelliera Merkel è stata catastrofica ma ne sentiremo la mancanza, chiunque verrà dopo sarà peggio». Le pare un complimento?
«Si tratta ovviamente dell’opinione del signor Varoufakis, con il quale sono stata spesso in aperto disaccordo. Resto dell’avviso che la Grecia diventerà un Paese prospero solo a condizione di attuare le riforme: ho lottato in questo senso, ma anche per mantenere la Grecia nell’eurozona. In Germania abbiamo un detto, “Molti nemici, molto onore”, e questo si riflette nell’opinione che Varoufakis ha di me. Mi sono sempre battuta per tutelare l’integrità dell’eurozona, ma senza scendere a compromessi sui nostri principi, facendo di ogni erba un fascio e rinunciando alle riforme».
Lei è stata la prima cancelliera e la donna più potente al mondo. Non so se è d’accordo, ma è un giudizio diffuso. Ma è pronta a dichiararsi femminista? È contenta del ruolo delle donne nel mondo e in Germania, dove non esiste ancora la piena parità?
«La regina d’Olanda, al G20 delle donne, ha detto che il femminismo significa che le donne hanno gli stessi diritti in ogni parte del mondo, in tutte le attività, dalla politica ai media: questo dev’essere il traguardo, ma non l’abbiamo ancora raggiunto. Lei ha ragione, anche da noi esiste ancora un gap salariale, per molte ragazze sono diventata un modello, durante gli anni da cancelliera. Abbiamo bisogno di più donne in tutte le posizioni di rilievo. Di conseguenza gli uomini dovranno cambiare stile di vita, perché le donne non potranno più farsi carico di tutte le incombenze tradizionali se vorranno partecipare alla vita sociale e politica. Dovrà esserci una migliore collaborazione sia nella vita professionale che in quella familiare. Abbiamo imboccato la strada giusta».
(Traduzione di Rita Baldassarre)
Corriere 29.5.19
L’estrema destra tedesca impone le sue priorità al di là del «muro»
di Paolo Valentino
Travolti dall’onda verde che sta cambiando il paesaggio politico della Germania, abbiamo trascurato un altro tipo di cambiamento climatico. Mentre il dato nazionale del voto europeo dice che i Gruenen sono ormai seconda forza, la Spd scivola verso l’insignificanza e la stessa Cdu vede in pericolo la sua natura di partito popolare, qualcosa di molto più preoccupante succede nell’Est.
Nei Lander della ex Ddr infatti, Alternative fuer Deutschland è saldamente al secondo posto appena dietro l’Unione cristiano-democratica. Di più, in Sassonia e Brandeburgo il partito di estrema destra è primo, rispettivamente con il 25% e il 20%. In entrambi gli Stati, si voterà di nuovo in settembre per i Parlamenti regionali; se fosse confermato, lo scenario produrrebbe effetti devastanti anche a Berlino.
A trent’anni dalla caduta del Muro, il risultato del 26 maggio mostra una Germania profondamente lacerata proprio sulla linea della ferita interna della Guerra Fredda. Da un lato liberalità, coscienza ambientalista, società aperta e tollerante, ambizioni da Paese avanzato. Dall’altra senso di accerchiamento, frustrazione per la memoria negata, odio, intolleranza, protesta. Così mentre a Ovest è la lotta al riscaldamento del clima il primo motivo che muove l’elettorato, nell’Est sono i salari più bassi, i posti di lavoro che spariscono, la paura di immigrati che non arrivano più, l’esclusione dai posti di comando, perfino i lupi che assaltano le greggi, il fuoco sul quale i pifferai di AfD gettano la loro benzina populista. Senza contemporaneamente lesinare sorrisi a negazionisti, neonazisti, identitari e spazzatura varia. Non è solo un’emergenza tedesca, è un’emergenza europea.
Repubblica 29.5.19
Vienna
Attacco antisemita contro la mostra sui superstiti della Shoah
di Andrea Tarquini
BERLINO — Vandalismi e violenze antisemite dilagano in Europa dopo le elezioni. A Vienna per la terza volta si è verificato un atto vandalico contro l’esposizione fotografica del fotografo italotedesco Luigi Toscano dedicata ai sopravvissuti alla Shoah. La notizia è stata resa pubblica proprio nello stesso giorno in cui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha condannato, esprimendo "grave preoccupazione", l’aumento di atti antisemiti in tutto il Vecchio continente. E nello stesso giorno in cui la cancelliera federale, Angela Merkel, in un’intervista alla Cnn, denunciava che la Germania «ha sempre avuto un certo numero di antisemiti, purtroppo», denunciando «il ritorno di cupi spettri del passato in Europa» e notando che ancora oggi in Germania «non vi è una sola sinagoga, un solo asilo o una sola scuola per bambini e ragazzi ebrei che non abbia la necessità di essere sorvegliata dalla polizia tedesca».
A Vienna, dopo essere state graffiate con coltelli e sfregiate con svastiche, adesso i pannelli dell’esposizione di Luigi Toscano dal titolo "Gegen das Vergessen" (Contro l’oblìo) sono stati tagliati e strappati. L’esposizione si trova nel centro storico della capitale austriaca, lungo la Ringstrasse, in un luogo di solito sorvegliatissimo dalle forze dell’ordine austriache. Per proteggere le immagini dopo il terzo attacco, vista l’incapacità della polizia della Repubblica alpina di fare il suo dovere, sono state organizzate ronde giovanili promosse dall’associazione degli artisti Nesterval, dalla Caritas e dalla comunità degli islamici residenti in Austria. «Sono sconvolto e indignato che un ricordo delle vittime della Shoah provochi una tale reazione violenta e aggressiva, tale violenza cinica e distruttiva», ha dichiarato Luigi Toscano sui social.
il manifesto 29.5.19
Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo: «L’unità a sinistra? Una boiata consolatoria»
Parla la 'capa' di Potere al popolo. Le sommatorie di ceti politici non funzionano, ormai è un dato, serve guardare fuori dal circolo, Meglio sbagliare in maniera diversa anziché fare sempre lo stesso errore
di Daniela Preziosi
Viola Carofalo (’capa’ di Potere al popolo, ndr), dopo il voto, replicando agli elettori di sinistra delusi, ha pronunciato una sentenza di sapore fantozziano: «L’unità della sinistra è una cazzata». Ce la articola?
Vedevo i commenti su facebook. È partito il mantra: la soluzione dei problemi della sinistra è rimettersi tutti insieme. Ora, senza negare che la litigiosità a sinistra sia un guaio, è una risposta consolatoria. Il risultato della Sinistra lo dimostra: l’addizione non ha funzionato. Il problema è guardare fuori, a quelli che non si riconoscono nella sinistra. Non vuol dire che non è giusto fare alleanze, né che noi siamo autosufficienti. Ma la matematica lo ha detto varie volte: rimettere insieme quel che c’è non risolve niente. È un dato.
Ma prima del voto a un tavolo vi siete seduti. Ci avevate provato.
Sarebbe da pazzi non provarci. Ma le alleanze vanno fatte sui contenuti. Non volevamo la solita sommatoria dei ceti politici. Sarebbe andata meglio? Non lo so. Ma è meglio sbagliare in maniera diversa anziché fare sempre lo stesso errore.
Perché è saltato tutto?
Non volevano rinunciare alla continuità. Ci era stato proposto Cofferati. Con rispetto per la persona, non ci rappresenta. Per noi era importante che ci fosse De Magistris, la sua è una figura credibile.
Cofferati non era candidato.
Ha rinunciato. Ma la continuità è anche la mancanza di chiarezza. Sinistra italiana in Piemonte ha sostenuto Chiamparino. Ognuno faccia come vuole. Non siamo settari, ma siamo No Tav.
Vuol dire che già sappiamo che l’unità con queste forze alle politiche non la farete?
A me l’unità dei ceti politici non interessa, invece mi piace moltissimo l’unità con le associazioni con cui lavoriamo sempre e con la gente normale. Abbiamo fatto accordi a Firenze e Livorno: c’erano persone credibili.
Ripeto: alle future politiche non farete nessuna convergenza con i soggetti de La Sinistra?
Dipende come si costruisce. Per Pap non decido io, decidiamo assieme. Con il Prc si poteva già fare alle europee, ma loro inseguivano Si, Diem, Verdi…
Con il Prc avevate testé rotto.
Una cosa è un soggetto politico, un’altra è una convergenza. Il nostro problema è anche non disperdere forze. In queste riunioni si parla per ore, si fanno le tabelline con i voti che ciascuno porta, e non si fa mezzo sforzo per uscire dal circolo ristretto.
Stavolta avete saltato il giro. Salterete anche le politiche?
Credo che sarebbe sbagliato. Ma candidarsi a tutti i costi non ha senso. Stare nelle istituzioni può servire, abbandonare tutto per fare campagna elettorale, no. Facciamo attività sociale. Tanto la strada è lunga. C’è chi oggi si è risvegliato con la Lega al 30 per cento. E invece sono vent’anni che la sinistra va alla deriva. Tre mesi di chiacchiere elettorale? Meglio di intervento sociale. Per defascistizzare la società dal basso.
In Italia il fascismo è alle porte?
Io non uso con leggerezza la parola fascismo. Di sicuro c’è una stretta autoritaria. Mi spaventa. Ma non siamo vittime di un colpo di stato. Spero che Salvini sia il punto più basso, ma non ne sono sicura purtroppo.
Se c’è questo il rischio non servirebbe un fronte democratico?
Ma si riferisce al Pd?
Mi riferisco a tutte le forze democratiche che denunciano la stretta autoritaria.
In astratto sì. In concreto sta parlando del partito del decreto Minniti. Salvini è più tamarro e fa più impressione. Ma no, un fronte elettorale con il Pd no. Non funziona, anche questo è dimostrato. Nei quartieri popolari la destra cresce. E non c’è alleanza che la fermi, anzi le operazioni politicistiche allargano le distanze. Bisogna tornare lì a parlare con le persone. Sono idealista? Ma le scorciatoie hanno fatto solo danni.
Quindi di fronte al rischio di un governo Salvini, pace?
Pace? Guerra.
La prego. È una provocazione?
Guerra politica intendo. Intervento sociale.
Il Fatto 29.5.19
Licenziati via social. L’ultima frontiera della disumanità
di Silvia Truzzi
Mentre l’Italia andava al voto, i lavoratori di Mercatone Uno scoprivano di non avere più un impiego nel peggiore dei modi, ovvero tramite avviso su Whatsapp e Facebook. Non che sia una novità, anche se ferocia e viltà si perfezionano con inquietante efficienza: negli ultimi mesi le cronache abbondano di storie di precari (rider e non) liquidati via messaggino. Siccome il diavolo si nasconde nei dettagli (o nei particolari c’è Dio, scegliete voi) la modalità con cui oggi si comunica il licenziamento racconta perfettamente cosa sia diventato il lavoro. E comunque sia non tutti i 1860 dipendenti erano stati avvertiti: moltissimi di loro sono andati tranquillamente al lavoro sabato scorso, in un giorno che credevano come tutti gli altri e invece hanno trovato le serrande abbassate e un grande buco a forma di futuro davanti. Come i lettori sanno, in questa rubrica abbiamo spesso citato il lavoro come architrave del dettato costituzionale. Oggi ricorderemo invece un comma ormai totalmente desueto, ovvero il secondo dell’articolo 41, sovente brandito come una bandiera dai turboliberisti, perché definisce “libera” l’iniziativa economica privata. Che però “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Tutte cose purtroppo accadute in una specie di tempesta perfetta nella sconvolgente vicenda di Mercatone Uno.
Esattamente un anno fa la società era passata alla Shernon Holding per volere dei tre commissari nominati dal ministero dello Sviluppo nel 2015 (ministro Carlo Calenda), dopo tre bandi andati deserti e la cassa integrazione per circa 3 mila dipendenti, eredità della gestione dei precedenti proprietari (che sono sotto processo a Bologna per aver distratto, secondo l’accusa, fondi della società per dirottarli in Lussemburgo). Venerdì scorso il Tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento per venire incontro alle richieste dei fornitori: in meno di otto mesi l’azienda ha accumulato 90 milioni di buco. Dunque oltre ai dipendenti, anche i fornitori sono nei guai: nel tracollo sono coinvolte 500 aziende dell’indotto, che contano circa 10 mila dipendenti, perché Mercatone Uno si è di fatto finanziata non pagando fornitori e locatori di un terzo dei punti vendita per 6 milioni. Alla fine della catena ci sono pure gli inconsapevoli consumatori: fino all’ultimo momento possibile Mercatone Uno ha venduto e ricevuto acconti per merce che probabilmente nessuno vedrà mai nei 55 punti vendita che sono appena stati chiusi. In totale ha incassato 3,8 milioni di acconti per 20 mila ordini da più o meno altrettanti clienti. A questo punto del racconto si dirà: si poteva evitare? “Ci chiediamo chi e come ha vigilato su questa operazione nelle stanze del Mise e nell’amministrazione straordinaria che ha gestito la crisi precedente”, scrive la Cgil della Puglia (dove lavoravano 250 dipendenti). “È inaccettabile che gli organi di vigilanza del ministero dello Sviluppo economico, che appena la scorsa estate avevano permesso l’acquisto da parte della nuova società di quel che rimaneva di Mercatone Uno, non abbiano verificato la sostenibilità aziendale degli acquirenti. I lavoratori avevano sostenuto non pochi sacrifici in termini di orari e salari abbattuti, e una volta incassata la flessibilità l’azienda ha bypassato ogni rapporto con le organizzazioni sindacali, fino all’incredibile epilogo scoperto notte tempo”.
Al Mise è convocato un tavolo nei prossimi giorni e si vedrà in quale modo affrontare l’emergenza per tutti i danneggiati. I 5Stelle esprimono il ministro dello Sviluppo economico nella persona di Luigi Di Maio: dopo la batosta elettorale, non possono che ripartire da qui.
Il Fatto 29.5.19
L’alleanza a sinistra ora si deve fare
di Domenico De Masi
Nel momento stesso in cui fu varato l’attuale governo era lampante che Salvini avrebbe fagocitato buona parte del Movimento 5 Stelle per poi realizzare il governo più a destra dal dopoguerra. L’operazione è stata accelerata da tre circostanze. La prima: mentre Salvini, di fatto, si è dedicato quasi esclusivamente alla propaganda e alla simonia, Di Maio si è speso in quattro funzioni, due ministeri, vicepremier e capo politico del Movimento. Il secondo motivo sta nella diversa strategia in politica estera. Salvini ha fatto dei suoi rapporti privilegiati con i leader delle destre europee uno sfoggio di potenza, Di Maio è incorso nella gaffe dei Gilet gialli ed è senza gruppo di riferimento nel Parlamento Ue. Il terzo motivo attiene al programma di governo. Salvini ha saputo gonfiare le poche realizzazioni cui si è applicato: la riduzione degli sbarchi e la quota 100. Di Maio, invece, ha affrontato le due questioni oggi più gravi – la povertà e il lavoro – che hanno richiesto provvedimenti complessi come decreto Dignità e Reddito di cittadinanza. Riferendosi in gran parte al sottoproletariato, questi provvedimenti erano destinati a non riscuotere la giusta gratitudine da parte dei beneficiari.
La sinistra tutta avrebbe dovuto votare i decreti in favore di questo “stock di poveri”, come lo chiamano i neoliberisti infrattati nel Pd, invece di avversarli. Senza questa opacità, dopo il 4 marzo il Pd avrebbe accettato di formare un governo con i Cinque Stelle e oggi Salvini sarebbe al 10 per cento. E se i 5Stelle fossero rimasti all’opposizione, avrebbero avuto quattro anni di tempo per indebolire gli antagonisti e, intanto, preparare la propria classe dirigente.
Ora non c’è più tempo per i distinguo come fecero nel 1920 i liberali, i socialisti, i comunisti e i cattolici di fronte all’ondata fascista, che perciò ebbe facile vittoria. Occorre convenire sul fatto che, a causa della mancata funzione pedagogica esercitata dai partiti e dagli intellettuali di sinistra, il popolo confuso degli sfruttati è disperso in tutti i partiti, persino in quelli di estrema destra. È questo popolo che occorre ricompattare.
Ciò richiede un impegno congiunto di intellettuali, politici e cittadini. Richiede inoltre una disponibilità sia pure tattica da parte di tutte le forze che riconoscono nell’onda nera il pericolo maggiore per la nostra democrazia. Fra qualche anno i Di Maio, gli Zingaretti, i Bersani, i Fratoianni, i Renzi, i Calenda, i Cremaschi di oggi potranno essere ricordati come i leader disorientati e litigiosi del 1920, poi ridicolizzati da Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni, o potranno essere ricordati come i Terracini, i Calamandrei, i Togliatti, i Nenni, i De Gasperi che nell’immediato dopoguerra misero in stand by le proprie differenze per dare vita a una Costituzione democratica.
Oggi, per fortuna, questa rifondazione della sinistra è più realizzabile di ieri. Secondo l’Istituto Cattaneo, un anno fa la base sociale del Movimento 5 Stelle era composta per il 45% da elettori “di sinistra”; per il 25% da elettori di destra; per il 30% da elettori fluttuanti. In questo anno la leadership Di Maio, portando avanti progetti “di sinistra”, ha spinto gran parte dei grillini di destra e di quelli fluttuanti a passare con Salvini, sicché nel Movimento sono rimasti quelli meno allergici a un’alleanza sia pure tattica con il Pd. A questo gruppo, dimagrito ma più omogeneo, conviene staccare subito la spina del governo e marciare all’opposizione per darsi un nuovo orientamento e orgoglio.
Il Pd è almeno in parte il risultato dalla metamorfosi che, in tre tappe, ha trasformato il comunismo di Togliatti nella socialdemocrazia di Berlinguer e poi la socialdemocrazia di Berlinguer nel neo-liberismo di Renzi e Calenda. Ora, però, questi due leader, ideologicamente più vicini che mai, potrebbero creare un partito di centro, liberando finalmente il Pd delle scorie neo-liberiste. Infine, l’avanzata di Salvini, la rozzezza dei suoi comportamenti e la sua vocazione autoritaria spingono tutte le schegge di sinistra a ricompattarsi.
Realizzare una grande alleanza, sia pure tattica, tra i lavoratori, i partiti, i club, i movimenti, i comitati di quartiere e i centri sociali interessati a sconfiggere la Lega è una missione quasi impossibile, eppure è indispensabile se si vuole evitare al Paese il naufragio nell’onda nera.
Infine va ricordato il ruolo imprescindibile degli intellettuali. A essi, oggi più che mai, compete il compito di decodificare i mutamenti socio-economici in atto; elaborare un modello di società postindustriale coerente con le ragioni della sinistra; offrire il loro contributo di idee a tutte le compagini socio-politiche convergenti nell’alleanza di sinistra; capire come mai la destra riesce a valorizzare i social media molto meglio della sinistra e aiutare la sinistra a colmare questo gap facendo dei social un uso efficace ma onesto.
Il Fatto 29.5.19
Le ultime ore di Bibi. Gli ultra-ortodossi ricattano Netanyahu
Senza un governo - Scade a mezzanotte il termine per trovare una maggioranza. I partiti religiosi si sfilano senza l’esenzione dalla leva per i giovani delle yeshiva
di Fabio Scuto
Sono trascorsi meno di 50 giorni dalla notte delle elezioni, quando un trionfante Benjamin Netanyahu salì sul palco a Tel Aviv per celebrare la sua ennesima vittoria, mentre in molti lo davano per spacciato. Lunedì notte, quando si è presentato alla Knesset per incontrare i suoi fedelissimi, appariva un uomo umiliato e disperato, che lotta per difendere la sua sopravvivenza.
Con una manciata di ore alla scadenza della mezzanotte di oggi, il primo ministro Netanyahu non riesce a formare un nuovo governo. Per tenere unita una maggioranza di sette diversi partiti ha dovuto fare molte promesse in campagna elettorale, spesso anche in contrasto fra loro. Ma l’importante in aprile era vincere contro i centristi e il partito dei Generali – Kahol Lavan – e far votare immediatamente alla nuova Knesset una legge che gli desse l’immunità di fronte ai 3 diversi processi che dovrà affrontare nei prossimi mesi.
Le cose si sono sviluppate diversamente, e ieri Netanyahu ha ottenuto l’ok dal suo partito di presentarsi ad elezioni anticipate assieme al partito centrista Kulanu del ministro delle finanze Moshe Kahlon. “La cooperazione passata – ha affermato – ci ha consentito di aver la meglio sui media e sulla sinistra. Andiamo assieme, e vinceremo”. Avigdor Lieberman leader del partito nazionalista Yisrael Beitenu, non ci sta infatti all’alleanza e i suoi 5 deputati sono fondamentali per raggiungere la maggioranza. Non entrerà nel governo se non farà parte del programma la riforma del servizio militare per i ragazzi religiosi delle yeshiva, delle scuole talmudiche. Provvedimento apertamente osteggiato dai 3 partiti religiosi della maggioranza. Per evitare che il presidente Reuven Rivlin dia l’incarico a un altro leader politico, il Likud ha fatto approvare lunedì notte in prima lettura un provvedimento per lo scioglimento della Knesset e la convocazione di elezioni il 17 settembre. Il testo deve passare ancora in seconda e terza lettura, ma ciò potrebbe avvenire anche in poche ore. Lieberman continua ad insistere di ritenere Netanyahu l’unico premier possibile, ma dice anche che, se non si troverà un accordo sulla leva, è meglio andare ad elezioni anticipate. Le ragioni per cui Lieberman ha deciso di far fuori il suo vecchio capo – iniziò la sua carriera come assistente volontario di Netanyahu 30 anni fa – sono complesse. Lieberman, – in passato sfuggito ad accuse di riciclaggio e frode – non è un difensore dello stato di diritto o dei valori democratici liberali. Ma secondo i suoi calcoli il tempo per Netanyahu sta per scadere e se vuole salvarsi questo è il momento di saltare dalla nave. E lo sta facendo con molta attenzione, scegliendo una questione di principio – la legge che impone anche agli studenti ultra-ortodossi delle scuole talmudiche il servizio militare – come la questione su cui rompere con Netanyahu.
Lieberman ha il più acuto istinto politico nella Knesset. E ha concluso che anche se Netanyahu riuscisse a formare una coalizione di governo, e forse persino a far approvare una qualche forma di legge sull’immunità, alla fine cadrà. L’accusa lo costringerà ad abbandonare il mandato e affrontare il tribunale nel 2020. Con Netanyahu fuorigioco, ci sarà un “liberi tutti” nella destra israeliana, dove non c’è nessun chiaro successore. Naftali Bennett il leader dei coloni con il suo nuovo partito, Hayamin Hehadash, non ha superato la soglia elettorale. Due settimane fa, Gideon Sa’ar del Likud ha fatto il suo primo tentativo di leadership quando ha parlato contro la legge di immunità proposta da Netanyahu. Lieberman si sente in vantaggio e sta facendo la sua mossa. È sempre possibile una riconciliazione dell’ultimo minuto se Lieberman, otterrà tutto ciò che richiede. Appare però assai improbabile. In questo caso, Netanyahu sarà più vulnerabile e esposto agli “appetiti” dei suoi alleati ma avrà ancora la sua maggioranza e sarà premier. Viste le premesse, il suo quinto governo potrebbe avere però un’aspettativa di vita breve.
Un altro scenario, che appare molto probabile, è che il piano di Netanyahu per dissolvere la Knesset, già depositati tre disegni di legge, passi. Per legge, se Netanyahu non riesce a formare una coalizione entro stasera, il presidente Rivlin può riavviare le consultazioni e conferire a un altro parlamentare il mandato di governo. Sciogliere la Knesset e convocare elezioni è l’unico modo per prevenirlo. Perché Netanyahu è terrorizzato dalla prospettiva che qualcun altro possa diventare primo ministro. Per questo ha bisogno che la maggioranza della Knesset voti per sciogliersi entro la mezzanotte di oggi per poi tornare al voto e sperare in un altro miracolo elettorale. Una mossa disperata per invertire un destino segnato.
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