lunedì 3 giugno 2019

Il Fatto 3.6.19
Matteo il leghista tracotante come “il macellaio” Bava Beccaris
di Leonardo Coen


Sulla pagina Fb “il razzismo non ci piace”, ho letto un sagace post: “Tra i santi invocati da Salvini mancava San Vittore”, che è mica male come battuta. Temo però che tra poco l’accigliato ducetto del rosarietto se la piglierà anche con Internet, dopo aver attaccato Gad Lerner e aver mandato “un bacione” a Roberto Saviano, minacciando “nuovi criteri per le scorte”. La sua tracotanza mi ricorda tanto quella del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Quando scoppiò la rivolta del pane a Milano, nel maggio del 1898, il governo proclamò lo stato d’assedio e lo nominò commissario straordinario con pieni poteri per la provincia di Milano. Noi meneghini lo ricordiamo come il “Macellaio di Milano”. Perché per sedare le proteste – c’era lo sciopero generale, le fabbriche chiusero tutte e la gente scese per le strade – mise Milano a ferro e fuoco, massacrando 400 persone, donne e bimbi compresi. Per ottenere “ordine e sicurezza”, aveva mobilitato 38 battaglioni di fanteria, 13 squadroni di cavalleria e 9 batterie. Poi Bava Beccaris puntò i giornali d’opposizione: Il Secolo, L’Italia del Popolo, L’Avanti. Decine, i direttori e i giornalisti arrestati. Persino l’avvocato Eliso Rivera, fondatore e condirettore della Gazzetta dello Sport. I reazionari ottusi lo ritenevano un eversore: socio di una Casa del Popolo, voce libera del giornalismo, disposto a dialogare con repubblicani, radicali, anarchici. Don Davide Albertario, prete animoso, direttore dell’Osservatorio Cattolico gridò ai militari che l’ammanettavano: “Il popolo vi ha chiesto pane e voi avete risposto piombo”. Gli arrestati furono costretti a sfilare per le vie di Milano, a piedi, in catene, a due a due, coi soldati e gli sbirri di fianco, pistole in mano, pronti a far fuoco. Il torinese Domenico Oliva, deputato della destra, divenne direttore del Corriere della Sera. Fautore della linea dura contro operai e contro chi si batteva per i poveri, denunciò “la tolleranza incredibile verso i nemici dello Stato, della patria, della civiltà”. Caro Enrico, non ti ricorda qualcuno?

Il Fatto 3.6.19
I 3 generali anti-Trenta e il muro di gomma contro la verità a Ustica
Giugno 1980 - Gli ex capi di stato maggiore dell’Aeronautica negli anni dell’inchieste sulla strage
di Gianni Barbacetto


Ustica: è questo il filo rosso che unisce i generali capifila della rivolta contro la ministra della Difesa Elisabetta Trenta. A dare il via al pronunciamento sono stati tre generali in pensione, Mario Arpino, Leonardo Tricarico e Vincenzo Camporini, con la loro lettera in cui annunciavano che non avrebbero partecipato alla tradizionale parata militare di ieri 2 giugno e in cui rimproveravano alla ministra le sue “dichiarazioni di vuoto pacifismo” e la volontà di “tagliare le pensioni militari” (d’oro).
I tre generali appartengono tutti all’Aeronautica militare e sono stati tutti e tre, in successione, capi di stato maggiore dell’arma. Tricarico è anche il presidente dell’Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) presentata nel 2009 dalla strana coppia Marco Minniti (Pd) e Gianni Letta (Forza Italia), con la benedizione di Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica con il culto di servizi segreti, operazioni coperte e strutture riservate. Del comitato scientifico dell’Icsa fa parte anche Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa con il ministro Ignazio La Russa.
Ustica. I tre generali sono quelli che hanno garantito che il muro di gomma facesse rimbalzare ogni tentativo di scoprire la verità sulla notte del 27 giugno 1980, quando un Dc-9 Itavia partito da Bologna e diretto a Palermo si inabissò con 81 persone a bordo nel Tirreno, al largo di Ustica. Trentanove anni dopo, ancora non sappiamo che cosa sia successo. Sono state a lungo discusse le ipotesi del “cedimento strutturale” o della bomba a bordo, ma più probabilmente quella notte avvenne nei cieli italiani una battaglia aerea in cui velivoli militari dei Paesi della Nato tentarono di colpire velivoli libici, colpendo per errore il Dc-9 civile italiano. Le inchieste giudiziarie e i processi che seguirono si sono conclusi con assoluzioni dalle accuse di alto tradimento per i vertici militari italiani, ma con condanne per un’ottantina di militari dell’Aeronautica per vari reati, tra i quali falso e distruzione di documenti. “Il disastro di Ustica”, scrivono i giudici, “ha scatenato, non solo in Italia, processi di deviazione e comunque di inquinamento delle indagini”. Queste sono state ostacolate “specialmente attraverso l’occultamento delle prove e il lancio di sempre nuove ipotesi – questo con il chiaro intento di soffocare l’inchiesta”, con l’intento di impedire “il raggiungimento della comprensione dei fatti”.
Depistaggi, dunque, inquinamento e sottrazione delle prove: “L’opera di inquinamento è risultata così imponente da non lasciar dubbi sull’ovvia sua finalità: impedire l’accertamento della verità”. Concludono i giudici: “Non può esserci alcun dubbio sull’esistenza di un legame tra coloro che sono a conoscenza delle cause che provocarono la sciagura e i soggetti che a vario titolo hanno tentato di inquinare il processo, e sono riusciti nell’intento per anni”.
L’ultima indagine, svolta dal giudice Rosario Priore, ha concluso che “l’inchiesta è stata ostacolata da reticenze e false testimonianze, sia nell’ambito dell’Aeronautica militare italiana sia della Nato”, com “l’effetto di inquinare o nascondere informazioni su quanto accaduto”. Priore conclude così la sua ordinanza-sentenza: “L’incidente al Dc-9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento, il Dc-9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti”.
Mario Arpino, Leonardo Tricarico e Vincenzo Camporini non hanno, naturalmente, alcuna responsabilità penale individuale in questa vicenda in cui ciò che è successo continua a essere oscurato in nome di segreti da mantenere e alleati internazionali da coprire. “Ma sono stati i massimi garanti, al vertice dell’Aeronautica militare”, dice Andrea Benetti, dell’associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, “del muro di gomma che impedisce ai familiari di 81 persone di ottenere giustizia e ai cittadini italiani di conoscere la verità”.

Il Fatto 3.6.19
Tutti contro Trenta: perché i generali vogliono cacciarla
La rivolta delle stellette - Anche lo Stato maggiore della Difesa si è schierato. In ballo: la riforma delle valutazioni interne, sindacati militari e i miliardi degli F-35
di Salvatore Cannavò


La riunione si tiene alle 7 del mattino del 18 aprile e vede precipitare al Ministero della Difesa i Capi di Stato Maggiore delle tre forze armate: Esercito, Marina e Difesa. I generali Salvatore Farina (Esercito), Valter Girardelli (Marina) e Alberto Rosso (Aeronautica) chiedono spiegazioni alla ministra Elisabetta Trenta circa il post pubblicato su Facebook il giorno prima, per “una riforma sull’avanzamento”.
Il merito in caserma. La ministra dice di voler “trovare soluzioni innovative in materia di avanzamenti e progressioni di carriera del personale militare” con la “necessità di rivedere il processo valutativo al fine di individuare chiaramente i criteri alla base dell’attribuzione dei punteggi di merito e limitando, per quanto possibile, la discrezionalità delle commissioni”. Il merito in caserma, insomma, che ha il plauso della truppa, ma che non piace ai vertici. Tra i più contrariati, secondo i corridoi di palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa, il capo di stato maggiore dell’Esercito, Farina, molto vicino all’ex capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, nominato dalla ministra Pd, Roberta Pinotti. Alberto Rosso è stato invece il Capo di Gabinetto della stessa Pinotti fino al 28 ottobre 2018.
L’esternazione molto rumorosa fatta dai generali in pensione Leonardo Tricarico, Vincenzo Camporini e Mario Arpino, i quali hanno annunciato che non assisteranno alla tradizionale parata militare di oggi, va letta, quindi, alla luce di un malumore che si respira da tempo. I tre hanno contestato a Trenta “dichiarazioni di vuoto pacifismo” o, più prosaicamente, la volontà di “tagliare le pensioni” che per molti graduati equivalgono a pensioni d’oro.
Lo Stato maggiore. Ma il lavorìo contro Trenta non viene tanto dai generali in pensione o da esponenti della destra come Ignazio La Russa (che ha avuto Camporini come Capo di Stato Maggiore) e Giorgia Meloni, quanto dagli uomini di cui la stessa ministra si è circondata. Al ministero iniziano a guardare con più distanza, ad esempio, l’attuale Capo della Difesa, Enzo Vecciarelli, che ieri ha pubblicamente preso le distanze dai tre generali in pensione ma, si riflette ai piani alti di palazzo Baracchini, è stato risucchiato dal sistema della “casta” militare, distanziandosi dalla politica che lo ha nominato.
Tra i temi dello scontro non c’è solo la valutazione, e quindi il sistema di nomina interna dei graduati, ma anche l’iniziativa legislativa di “sindacalizzazione” delle Forze armate, sostenuta vistosamente da Trenta; l’iniziativa sull’uranio impoverito dove la ministra propone una riforma per stabilire responsabilità precise della Difesa tutelando i soldati; anche il tema dei suicidi in caserma, avanzato più volte dalla ministra, è oggetto di discussione.
Peace&Love. Le accuse di gestione “peace&love” del dicastero (riferimento al simbolo pacifista fatto dalla Trenta al Senato per rispondere alle accuse di Isabella Rauti, senatrice di FdI) sono solo dei palliativi. Anche l’assenza di Giorgia Meloni dalla parata di oggi, spiega una nota della Difesa, si deve al fatto che la leader di Fratelli d’Italia, “voleva il palco presidenziale previsto per le cariche istituzionali”.
C’è però anche un fronte interno per la ministra, prontamente stoppato dalla difesa che di lei ha fatto Luigi Di Maio. Nel M5S ha destato molto stupore l’attacco ricevuto dal sottosegretario M5S Angelo Tofalo che oltre a blandire Matteo Salvini, e a vestire i panni militari impugnando il mitra, ha parlato di “errori grossolani” al ministero. Chi conosce bene le dinamiche interne sottolinea l’asse di Tofalo con l’altro sottosegretario alla Difesa, il leghista Raffaele Volpi, per lavorare ai fianchi la Trenta.
Il fronte interno. In questo contesto è stata vissuta come un vero e proprio “tradimento” la riunione “segreta” che ha visto Tofalo con il capogruppo 5Stelle nella commissione Difesa della Camera, Giovanni Russo, il senatore della Difesa, Dino Mininno e il membro 5 Stelle del Copasir (comitato di controllo sui Servizi segreti), Francesco Castiello. Nel mondo pentastellato si dice che “hanno fatto gli utili idioti della Lega”. Ed è evidente che la vittoria elettorale di Salvini abbia cambiato le carte in tavola e spinto il leader leghista a mettere le mani su qualsiasi struttura abbia una divisa.
L’Aeronautica. Ma c’è di più. A unire le varie caselle del puzzle si trova spesso l’Aeronautica. I tre generali in pensione che diserteranno la parata vengono tutti da lì. Anche il 5 Stelle Mininno proviene dall’Aeronautica. E l’Aeronautica, più delle altre Forze, ha un nodo irrisolto: gli F-35. La dichiarazione della ministra, relativa all’arrivo di altri 28 velivoli, non va equivocata, perché riguarda le commesse già ordinate dal precedente governo e avallate dal Documento programmatico per la Difesa per il triennio 2018-2020. Ma in quel documento si legge che “gli oneri totali sono riferiti alla sola Fase 1 di prevista conclusione nel 2020. La Fase 2, qualora confermata” prevede delle “contribuzioni al momento ancora non definite”. Al momento, quindi, vengono stanziati 1,447 miliardi, ma il fabbisogno complessivo di miliardi ne richiede 7,093.

Il Fatto 3.6.19
“La voce metallica del Pd, metafora di una sinistra senza più cuore”
Il sindaco appena rieletto di Lecce (al primo turno) analizza gli errori di un partito (una volta il suo) che “ha perso ogni credibilità”
di Antonello Caporale

“La sinistra è senza cuore. E io ho le prove.
Questo è un processo al sentimento.
“Infatti dovremo applicarci per far tornare l’emozione nelle parole, la passione nei pensieri, il cuore nella testa. Altrimenti restiamo quelli che siamo: una parte politica che ha perso credibilità. Parliamo ma mostriamo di non credere a quel che diciamo”.
Carlo Salvemini è il sindaco di Lecce riconfermato al primo turno nella prova d’appello. Ha 53 anni, e dà l’impressione, per via della barba e del suo amore per le camicie senza colletto, di un intellettuale iraniano in esilio. Dirige un’azienda che distribuisce libri scolastici. Aveva vinto rocambolescamente già due anni fa, ma non aveva con sé una maggioranza. E infatti era stato fatto dimettere. Salvemini, militante della sinistra classicheggiante, un cuore rosso antico cioè, e forse per questo fuoriuscito da anni dal Pd, ha rivinto, mettendo insieme un bel cartello di formazioni in cui il partito di Zingaretti è comunque stato compagno d’avventura. Ha vinto in una città dove la destra dominava quando tutto il resto d’Italia era dell’Ulivo. Figurarsi ora che il vento spira forte e in senso decisamente contrario.
Dunque, sindaco lei dice che la sinistra è vittima di una specie di malattia autoimmune. Più che Salvini è l’astenia a fregarla.
Ricordo le parole con cui abbiamo annunciato, per esempio, il reddito di inclusione. Ricordo la distrazione con la quale si elencava succintamente il provvedimento. Si intuiva che dei poveri e poverissimi poco c’importava. Abbiamo così annientato, con la voce metallica, robotizzata di un governo senza cuore, la radice quadrata della nostra identità politica. Cos’è la sinistra senza una lotta appassionata, magari disperata, contro le ingiustizie sociali?
Non è questo un effetto collaterale dell’esercizio pluriennale del potere?
È la misura di quel che non si è fatto. Non si è fatto scouting, non si è cercato di promuovere nuove figure. I segretari a Roma cambiavano ma nelle regioni tutto rimaneva uguale a se stesso. Sempre gli stessi referenti di un ventennio. E allora come puoi pensare tu Renzi che la gente ti creda che vuoi cambiare l’Italia quando in casa tua ti affidi a quelli di sempre? Dico Renzi, ma vale il discorso per Bersani, quand’era lui il titolare della ditta, e per Zingaretti adesso. E per tutti quegli altri che storpiano il nome della sinistra, lo diluiscono in sbiadite pratiche di consenso
Lei che farebbe?
Io faccio quel che so fare. Amo la politica ma non ho vissuto mai un giorno senza il mio lavoro. Ho amato la politica anche quando non sono stato eletto nel consiglio comunale, e la amerò anche quando ne uscirò
Lei.
Ho riportato in pista i trentenni e i quarantenni, due generazioni messe ai margini. E devo coltivare la loro emancipazione, costruire personalità che nel futuro proseguano il lavoro che abbiamo iniziato.
Lecce è bellissima, ma ha una periferia grigia, bruttina assai.
Il bello può narcotizzare al punto che hai la fortuna di avere un magnifico anfiteatro romano nella piazza principale, quella di Sant’Orono, e nemmeno accorgertene. È il processo di narcosi del bello. Ne siamo così pieni da dimenticarcene. Anche se la città nel suo complesso è consapevole dell’incantevole barocco che l’avvolge (fino in qualche caso eccedere con punte di presunzione).
Ma la bellezza si deve coltivare anche fuori le mura antiche.
Infatti io elimino dal vocabolario la parola periferie e parlo di quartieri. I leccesi devono capire che lo spazio pubblico è una continuazione del proprio salotto privato. C’è la casa e quel che le sta intorno dev’essere curato e bello quanto quel che è di esclusiva proprietà. Conquistare la nozione di bene comune e poi costruire un pensiero comune che lo tuteli.
Lei amministra Lecce. Se dovesse trovarsi a dare un consiglio a Zingaretti?
Non parli mai di governo. Che andiamo a fare al governo adesso? Per fare cosa? E con chi? Adesso c’è una sola urgenza: riacquistare credibilità. Abbiamo perduto l’identità e la rotta per un difetto di reputazione. Gli elettori non ci stimano. E perché non hanno fiducia in noi?.
Per la voce metallica della sinistra, mi dirà.
Per quel che non abbiamo fatto ma soprattutto per come ci siamo mostrati. Insensibili alle questioni grandi e drammatiche: la casa che in tanti non posseggono in un Paese che scoppia di case. Le file all’ospedale, le ingiustizie che si vivono nei luoghi pubblici, i buchi neri della scuola. Istruzione, sanità, emarginazione. Sono tre pilastri del dolore.
Vuole il mondo nuovo.
Voglio la verità. Dobbiamo fare un discorso di verità al popolo. Dobbiamo dire che abbiamo le pezze al culo e che i problemi sono così grandi che non li risolveremo in due mesi. Gli italiani sanno avere pazienza, ci aspetteranno. A patto però che ritorniamo ad essere credibili ai loro occhi.
E per essere credibili serve il cuore.
Rigenerazione emotiva. Ci si emoziona per un filo d’erba, perché non dovremmo emozionarci per compiere battaglie a favore degli ultimi? Perché non dovremmo appassionarci del mare pulito? Sa che Lecce ha 25 chilometri di costa, è una città di mare? Nessuno lo sa, e il mio compito è di dire agli italiani: se venite troverete il barocco e una spiaggia magnifica. Non è una grande battaglia? Non è un modo per costruire posti di lavoro? Ripulire e ricucire quartieri che hanno subìto, perché distanti dalla bellezza monumentale, gli sfregi dell’incultura, dell’approssimazione, della colpevole disattenzione.
Che altro deve fare Zingaretti?
Non stare un giorno a Roma. Andare per città e paesi a trovare la sua gente. Senza comizi o assemblee affollate. Incontri a quattr’occhi. Riconoscerà i bravi, gli darà fiducia, costruirà una classe dirigente vera. Avendo davanti però non sei mesi di opposizione.
Lei proprio non vuole andare al governo?
Al governo ci si arriva dopo che hai programmi e persone, idee e alleanze. Il tutto subito è una grande debacle dell’intelligenza. Questo presentismo, voler risolvere a sera il problema che si è manifestato al mattino, è una prova dilettantesca, la misura della modestia delle nostre ambizioni. La popolarità evapora in fretta.
Lei ha vinto al primo turno.
Ho convinto i miei concittadini, ritengono che io sappia amministrare. Adesso è il momento di ricambiare ma senza quella frenesia da talk show. Bisogna lavorare con serietà e con determinazione, e dare a ciascun problema una soluzione possibilmente intelligente.

Corriere 3.6.19
Venezia Collisione con battello, feriti e polemiche
Grandi navi, perché non decidete?
di Gian Antonio Stella


E se succede a Venezia? «Uffa!», sbuffavano fino a ieri mattina i sostenitori delle Grandi Navi. E attaccavano a snocciolare contro i soliti gufi una miriade di dati, calcoli, portolani, algoritmi, sigle imperscrutabili di strumentazioni spaziali che mai e poi mai avrebbero consentito un incidente nel canale della Giudecca eccetera eccetera... È successo davvero. E tutte le chiacchiere sono state spazzate via.
E rano le 8:34. Entrata dalla bocca di porto di San Nicolò e diretta verso la Marittima, la nave da crociera «Msc Opera» procedeva lungo il canale veneziano a 5,3 nodi. Tanti, come dimostrerà la cronaca. Una velocità solo un po’ più bassa di quella prescritta negli anni Trenta del Novecento quando i bastimenti non erano palazzoni immensi alti quanto il campanile dei Frari, il secondo di Venezia dopo San Marco.
Di colpo, su quel bestione bianco da 65.000 tonnellate lungo 275 metri, largo 32 e capace di trasportare circa 2.679 ospiti e 728 uomini e donne dell’equipaggio, c’è un blackout ai comandi. Un blackout inspiegabile. E la nave affidata alla guida di un rimorchiatore davanti e uno dietro della flottiglia di Rimorchiatori Riuniti Panfido, fondata tanti anni fa in Venezuela da due emigrati italiani che fecero fortuna, diventa ingovernabile. Peggio: a dispetto di ogni schema, la grande nave accelera. E dopo esser passata davanti alla Madonna della Salute ai cinque nodi che dicevamo, accelera e accelera in poche centinaia di metri fino a quasi sette nodi.
«Mi sono accorto che aumentava la velocità tirando a dritta verso San Basilio e il pontile dei vaporetti dove c’era molta gente e ho cominciato a tirare e tirare per raddrizzarla verso il centro del canale», racconta Andrea Ruaro, triestino, ventun anni di esperienza in laguna, il pilota del rimorchiatore Angelina che stava davanti, «Per quanto spingessimo i motori al massimo, però, non ce la facevamo. Era proprio impossibile».
È fermo lì, in banchina, un «lancione» turistico che in quel momento sta accogliendo i passeggeri a bordo, la «River Countess». Quello che succede è nei video ripresi da varie persone che stavano nei dintorni con il telefonino acceso. La grande nave da crociera ormai cieca ad ogni comando, mentre l’altro rimorchiatore alle spalle cerca di rallentarla, piomba a poppa del «lancione», lo copre in parte decapitando il ponte superiore, si infila fra questa e la banchina staccandola all’ormeggio e trascinandosela avanti con un’ancora gigantesca infilata nel fianco.
Ambulanze, Vigili del fuoco, carabinieri, poliziotti, vigili urbani. Un caos indescrivibile. Il cozzo è stato così forte che tutti si chiedono sgomenti quale possa essere il bilancio. Minuti febbrili a controllare le due navi, la banchina, eventuali passeggeri scaraventati in acqua. Cinque feriti, pare. Nessun morto. Grazie a Dio. E mentre i soccorsi si mettono febbrilmente in moto, cominciano a grandinare i commenti.
Il sindaco Luigi Brugnaro tuona: «È l’ennesima dimostrazione che non è più pensabile che nel canale della Giudecca debbano passare le grandi navi. Lo diciamo da otto anni, e chiediamo immediatamente l’apertura del Vittorio Emanuele». Il governatore Luca Zaia, che già aveva detto la sua («È un’immonda schifezza, il problema va risolto: c’è un decreto che è chiaro e che dobbiamo applicare») ai tempi delle prime polemiche seguite dal divieto d’ingresso — poi aggirato — alle imbarcazioni superiori alle 40mila tonnellate imposto dal governo di Mario Monti, insiste: le grandi navi da lì vanno tolte. Ecco anche Danilo Toninelli: «Il Comitatone aveva partorito e analizzato tredici diversi progetti, noi li abbiamo ridotti facendo sintesi con tre: Chioggia, San Nicola e Malamocco...».
Riemergono le fratture. Istantanee. Fatta la tara alla consueta gaffe toninelliana («San Nicola» invece di San Nicolò...) e l’accenno a Chioggia, unica città grillina del circondario, le tre le soluzioni prospettate come una magica rosa dal ministro dei Trasporti sono infatti da anni e anni al centro di discussioni accese e di non facile uscita. Contestate più o meno tutte dai promotori del comitato «No grandi navi», da anni in guerra contro il viavai dei giganteschi alberghi semoventi da crociera e ieri riuniti subito a San Basilio per una manifestazione di protesta.
Ironizza Matteo Salvini: «Mi risulta che una soluzione per evitare problemi come quello dell’incidente tra le navi a Venezia era stata elaborata già dall’anno scorso, con l’allargamento di un canale e una parte delle navi a Porto Marghera, ma tutto ciò è bloccato da mesi perché è arrivato un no da un ministero romano, e non è un ministero della Lega».
Al di là delle posizioni di principio di chi contesta come Italia Nostra e gli ambientalisti di mezzo mondo la stessa filosofia di piegare una città gentile e fragile come Venezia alla logica di un turismo di massa sempre più invasivo, ingordo e volgare, le obiezioni a questo o quel progetto per aprire alle Grandi Navi un percorso diverso da quello della Giudecca, non sono affatto capricci buttati lì a casaccio. La riapertura del «Vittorio Emanuele», per dire, spaventa quanti temono che l’allargamento e lo scavo fino a undici metri del canale possa portare dentro altra acqua dal mare rendendo sempre più costose e forse inutili le paratie del Mose. Vale la pena? Mah...
Su un punto sono tutti d’accordo: il tormentone sulle grandi navi da crociera e sul percorso per farle entrare in laguna è diventato ormai insopportabile. E non è possibile che venga rimesso in discussione ad ogni cambio di governo. Chi deve decidere decida. Purché non tenga conto solo del business. Come se la conservazione della nostra città più bella e delicata venisse dopo.
Vada come vada, l’incidente di ieri, così spettacolare e traumatico, nel cuore di Venezia, la fa finita una volta per tutte con una tesi spacciata per un dogma. L’idea che la tecnologia possa metterci al riparo da ogni rischio. Non è così. Non in ambienti fragili come la laguna. È stato un «problema tecnico», dice un comunicato di Msc. Ci dobbiamo accontentare? E fidarci ancora di chi, come fece l’allora soprintendente di Venezia Renata Codello sosteneva che c’era da star tranquilli e che «nessuna nave entra nel canale della Giudecca con i motori accesi perché viene trascinata dai rimorchiatori e quindi la sua mole non crea una serie di fenomeni meccanici in profondità»?
Quando l’ammiraglio Felicio Angrisano lasciò al successore il comando della capitaneria di porto di Genova, disse: «Lascio uno scalo sicuro, affidabile, funzionale». Il più possibile, precisò: «L’unica sicurezza a prova di bomba, per un porto, è non fare entrare nessuna nave...».
È una questione di buon senso, però. Ne abbiamo ancora?

Repubblica 3.6.19
Promesse da marinai
Sette anni e 5 governi ma sulle grandi navi solo parole e zero fatti
di Sergio Rizzo


«Vada a bordo, cazzo!». C’era chi aveva pensato che per la svolta sarebbero bastate quelle 4 parole, oltre al dramma dei 32 morti del naufragio della Costa Concordia. Quell’ordine ruvido impartito senza ammettere repliche la notte del 13 gennaio 2012 da Gregorio De Falco a Francesco Schettino, che aveva mandato un palazzo galleggiante a schiantarsi sull’isola del Giglio, doveva essere il segnale definitivo. Mai più rischi inutili, mai più morti. Basta con gli inchini di quelle navi alte sessanta metri a sfiorare minuscoli porticcioli. Basta con i passaggi radenti alle banchine solo per il delirio degli smartphone di turisti imbarcati a 500 euro alla settimana.
Soprattutto, basta al più pericoloso dei giochi: il transito arrogante nel canale della Giudecca, a offendere la meraviglia di Venezia con le dimensioni insopportabili di quei mostruosi grattacieli galleggianti. Duemila inchini all’anno davanti a San Marco, calcolavano i comitati cittadini che si battevano contro le grandi navi: uno ogni quattro ore. Una sfida estrema a un ecosistema delicatissimo, uno scempio per la laguna, un affronto alla bellezza della città. Ma che nessuno aveva mai potuto mettere prima in discussione. L’azione di lobby sempre più potenti delle compagnie navali era risultata fino a quel momento invincibile. E le proteste venivano spente con argomentazioni quali l’indotto dei posti di lavoro nella piccola ristorazione e nelle lavanderie che si sarebbero perduti vietando i passaggi a Venezia. Davanti a 32 morti, però, la prospettiva cambiava radicalmente. E quell’ordine di De Falco a Schettino sembrava il messaggio che finalmente si girava pagina.
A palazzo Chigi c’era Mario Monti. Il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera e quello dell’Ambiente Corrado Clini sfornarono un decreto che prefigurava per quegli immensi alveari galleggianti un’alternativa al passaggio dalla Giudecca e San Marco. Ma si sapeva che il governo sarebbe durato ancora poco: a chi remava contro bastava solo aspettare che tutto s’impantanasse, grazie anche alla burocrazia. Passò inutilmente quasi un altro anno e mezzo, e dopo ancora tremila inchini, e manifestazioni sempre più calde, il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni denunciò, a giugno 2013, la paralisi totale. L’applicazione del decreto che vietava il transito delle grandi navi a ridosso di San Marco era sospesa in attesa di una soluzione proposta da Capitaneria e Magistrato delle acque, ma di cui non si vedeva ancora l’ombra.
«Risolveremo entro il 25 luglio», promettevano il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi e il suo collega all’Ambiente Andrea Orlando, mentre a rinfocolare le polemiche ci pensava un incendio a bordo di una nave da crociera della Royal Caribbean di fronte a Chioggia. E se quel 25 luglio Lupi giurava che la soluzione finale si sarebbe trovata «entro ottobre » l’assessore Gianfranco Bettin denunciava due giorni dopo che un palazzo galleggiante di 272 metri della Carnival Cruise Lines era passato a 20 metri da Riva Sette Martiri.
A novembre, finalmente, il governo di Enrico Letta sembrò deciso ad applicare il decreto vietando il passaggio delle grandi navi, e arrivò subito l’inevitabile ricorso al Tar da parte di Venezia terminal passeggeri e dalle compagnie di navigazione contro la limitazione del traffico dei colossi da crociera. Accolto ovviamente dai giudici amministrativi. Intanto il governo era cambiato: Matteo Renzi al posto di Letta, con un nuovo ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti. Che garantì: «Procederemo in tempi brevissimi con la scelta della soluzione alternativa per assicurare agibilità ambientale e tutelare l’economia turistica». Campa cavallo. L’idea concordata da Comune e Regione di consentire l’ingresso ai crocieristi dalla bocca di Malamocco verso Marghera, dove i turisti sarebbero sbarcati dalle supernavi in una nuova stazione marittima da costruire, incontrava molte opposizioni. Quelle degli ambientalisti, e anche quelle di certi ambienti politici: prima di tutto nel Movimento 5 Stelle, che continuava a chiedere d’imporre il divieto assoluto all’ingresso in laguna per i colossi delle crociere.
Per anni si andò avanti in modo inconcludente, con quel decreto che non veniva attuato, e il Tar del Veneto che regolarmente (guarda caso) demoliva le ordinanze di limitazione al traffico emanate di volta in volta dalla Capitaneria. Finché al governo, esattamente un anno fa, non è arrivato il Movimento 5 Stelle. E la confusione a quel punto è diventata assoluta, con i comitati ostili alle navi in laguna che insistevano per il divieto totale, il ministro Danilo Toninelli che prometteva non senza titubanze di onorare la richiesta e il vicepremier leghista Matteo Salvini che invece spalleggiava apertamente il governatore del Veneto Luca Zaia. Così: «La messa in sicurezza della città non può mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di migliaia dell’indotto, oltre all’economia del turismo». Era il 30 agosto 2018. Da allora, secondo il classico copione made in Italy, non è successo nulla di concreto, se non un fiorire di ipotesi alternative (almeno tre) di discutibile realizzabilità. Il succo è che, da oltre sette anni e cinque governi, il decreto per impedire a mostri marini da venti piani di violentare Venezia è arenato nei cassetti dei ministeri. E solo per un caso, sette anni dopo la Costa Concordia, non ci sono scappati altri morti.

Il Fatto 3.6.19
Tienanmen
Trent’anni dopo la strage, le trascrizioni segrete dei capi cinesi: «Uccidiamo chi va ucciso»
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi


«Bisogna uccidere coloro che debbono essere uccisi, condannare coloro che debbono essere condannati», disse il vecchio rivoluzionario e vicepresidente Wang Zhen nella sala di una palazzina in stile imperiale di Zhongnanhai, a poche decine di metri da Piazza Tienanmen. La strage era già stata compiuta e i dirigenti del Partito stavano discutendo la linea.
Tutto fu deciso dietro le mura che chiudono alla vista Zhongnanhai, il quartier generale del potere comunista, un tempo giardino imperiale accanto alla Città Proibita. Deng Xiaoping era lì con i compagni dirigenti quando a metà aprile del 1989 i primi gruppi di cittadini cominciarono ad affluire in Piazza Tienanmen per accumulare (sotto il Monumento per gli eroi del popolo) fiori e poesie in memoria di Hu Yaobang, l’ex segretario del Partito estromesso per liberalismo e morto per un attacco di cuore il 15 aprile. Fu a Zhongnanhai che fu decretata la legge marziale il 18 maggio, quando il movimento ormai chiedeva riforme, la fine della corruzione e della censura e l’uscita di scena dei «vecchi» aggrappati al potere anche dopo la pensione. Fu da Zhongnanhai che fu dato l’ordine ai soldati di «ripulire» la piazza nella notte tra il 3 e il 4 giugno: la strage con mitragliatrici e carri armati. E fu ancora dietro quelle mura rosse che si riunirono tra il 19 e il 21 giugno i mandanti della repressione.
Trent’anni dopo, la censura continua a cancellare ogni tentativo di commemorazione a Pechino. Ma a Hong Kong, che mantiene la sua autonomia semi-democratica, è appena stato pubblicato un libro con le trascrizioni finora segrete dei discorsi tenuti dai membri del Politburo in quei giorni.
The Last Secret: the final documents from the June Fourth crackdown si basa su trascrizioni conservate e fatte filtrare ora da un funzionario presente alla discussione. Non si sa quanti fossero i partecipanti a quella riunione del Politburo, allargata agli «anziani ex dirigenti» che ancora manovravano dietro le quinte, quelli che gli studenti avevano sperato di far uscire di scena per sempre. Sono 17 le voci. Tutti cominciarono proclamando: «Sono completamente d’accordo», «Sostengo assolutamente» la decisione del compagno Deng Xiaoping di mobilitare l’esercito «per porre fine ai tumulti anti-partito e agli atti controrivoluzionari».
Wang, che chiedeva condanne ed esecuzioni capitali, fu appoggiato da Xu Xiangqian, ex grande maresciallo dell’Esercito di liberazione: «I fatti hanno provato che la confusione e i tumulti sono dovuti al collegamento tra forze interne e straniere, frutto del rifiorire della borghesia che aveva come obiettivo l’instaurazione di un regime anticomunista vassallo di potenze occidentali».
Il milione di studenti e cittadini che erano stati in Piazza Tienanmen per cinquanta giorni furono bollati da Peng Zhen, ex presidente del Comitato centrale del Congresso del Popolo, come «un piccolo gruppo che, collaborando con forze straniere, voleva abbattere le pietre angolari del nostro Paese». Un tema ripreso da molti: «Quarant’anni fa il segretario di Stato Usa Dulles disse che la speranza di restaurare il capitalismo in Cina era riposta nella terza e quarta generazione nata dopo la nostra Rivoluzione: non dobbiamo permettere che la profezia si avveri».

Corriere 3.6.19
In edicola Domani con il quotidiano il volume curato da Marcello Flores con reportage, analisi e schede
Tienanmen trent’anni dopo
Il tabù di sangue della nuova Cina
Amnesia. Oggi del 1989 non si parla: il potere ha barattato il successo economico con l’oblio
Il leader. Deng Xiaoping voleva stabilità per proseguire le riforme e temeva il caos dell’epoca di Mao
Gli studenti che affollavano la piazza chiedevano riforme, il regime si oppose
E nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989 i carri armati schiacciarono la protesta
di Marco Del Corona


Fu una lunga notte, in Cina, e non è ancora passata. Tra il 3 e il 4 giugno 1989 la leadership del Partito comunista trasformò in azione le minacce che aveva formulato da settimane, man mano che le proteste di studenti e cittadini si intensificavano. Furono le ore del massacro della Tienanmen, ovvero la repressione violenta di massicce, pacifiche manifestazioni popolari.
La folla invocava un freno alla corruzione, una riforma del sistema politico che affiancasse quella economica, lanciata da Deng Xiaoping nel dicembre 1978; ma di quella stessa riforma economica chiedeva una messa a punto rispetto alle disfunzioni che fornivano all’ala conservatrice nel Partito argomenti contro il segretario generale Zhao Ziyang, considerato troppo aperto. A metà aprile il cordoglio per la morte di un altro leader riformista, Hu Yaobang, già esautorato, aveva provocato la prima mobilitazione sulla piazza centrale di Pechino. Il cuore simbolico della nazione — con la Città proibita a nord, la Grande sala del popolo a ovest, al centro il mausoleo dove riposa il corpo imbalsamato di Mao, con il monumento agli eroi — si era trasformato in un accampamento, estensione dei campus universitari. Bandiere, tende, striscioni, un simulacro di Statua della Libertà, approvvigionamenti offerti anche da storici ristoranti, mentre le condizioni igieniche si facevano via via più precarie.
La lunga notte non è ancora passata, dura il silenzio nel quale quasi da subito la Cina ha sprofondato l’«incidente», le centinaia o migliaia di morti (le stime variano), le informazioni sulle manifestazioni che avevano coinvolto decine di altre città. Un’«amnesia» istituzionalizzata, come hanno suggerito accademici e romanzieri, che tuttavia continua a interrogarci ora che la Cina si è imposta come seconda economia mondiale, vera controparte degli Stati Uniti sulla scena globale. Le conseguenze della scelta di Deng Xiaoping di mandare i carri armati a sgomberare la piazza arrivano fino a oggi, in una catena di cause ed effetti anche fuori dai confini stessi della Cina, come mostra il volume Piazza Tienanmen. 4 giugno 1989. I fatti, i protagonisti, la memoria curato da Marcello Flores per il «Corriere della Sera», in edicola da domani con il quotidiano.La data del 4 giugno non si può dire, in Cina. Le giovani generazioni non sanno. Chi sa deve limitarsi alludere, ci gira intorno provando a beffare la censura, come racconta Guido Santevecchi nella sua testimonianza. Non basta più scrivere sul web «35 maggio»: la censura digitale blocca tutto. E le cosidette «madri della Tienanmen», vestali della memoria, non avranno a chi lasciare il testimone. Nel 2009, alla vigilia del ventesimo anniversario della strage, Ding Zilin, anima del gruppo, aveva accolto il «Corriere» nel suo appartamento nella zona universitaria della capitale. In salotto conservava le ceneri del figlio Jiang Jielian, ammazzato a 17 anni. Un ritratto a olio, una fotografia. «È caduto — ci diceva Ding, allora sessantaduenne — per affermare la libertà e i diritti inalienabili dell’uomo e infatti lì c’è un pezzetto del Muro di Berlino: chi cercava di scavalcarlo veniva ammazzato. Come qui». Omissione pubblica, strazio privato. Le parole che la signora Ding pronunciò in quell’occasione valgono ancora oggi: «I dirigenti, i delegati dell’Assemblea del popolo sono sempre più giovani e noi sempre più vecchi. Noi che abbiamo perso figli e compagni lottiamo, ma moriamo uno dopo l’altro. Anche l’atteggiamento della comunità internazionale è cambiato. La strage fu sotto gli occhi di tutti, i governi fecero pressioni sulla Cina. Ma adesso?».
Deng Xiaoping aveva sposato la linea dura non soltanto perché, sul piano politico, riteneva che assecondare la protesta avrebbe compromesso la stabilità dell’intero sistema. C’era anche un determinante aspetto personale: a Deng le masse studentesche, per quanto pacifiche, ricordavano il caos della Rivoluzione culturale scatenata da Mao nel 1966, durante la quale lui stesso venne perseguitato ed emarginato e il figlio Pufang fisicamente defenestrato dalla Guardie rosse (rimase paralizzato). La Tienanmen segnò uno spartiacque. Deng si convinse che fosse necessario accentrare il potere, anziché distribuire le cariche principali (segretario generale del partito, capo della commissione militare, capo dello Stato) e affidò la nuova fase a un ingegnere venuto da Shanghai, Jiang Zemin, capostipite politico di una generazione di tecnocrati che avrebbe rilanciato il capital-socialismo.
Fu fatta pulizia, non solo nelle università, nei giornali, sui posti di lavoro. Il Partito mise agli arresti domiciliari Zhao Ziyang, colpevole di cedimento di fronte alla «piazza controrivoluzionaria», chiuse in carcere il suo collaboratore Bao Tong, il funzionario comunista più alto in grado a finire in cella per i fatti del 1989, l’intellettuale che con il «Corriere» definiva Zhao «il mio grande amico». Anche lui, guardato a vista nel suo appartamento per ironia della sorte vicino al Museo di storia militare, nel 2009 accusava le autorità: «Non fanno che indicare il 4 giugno come un momento a cui è seguito un periodo di grande stabilità. Beh, se si ritiene che questo sia il modo più efficace per risolvere le instabilità...».
Le parole di Bao Tong introducono uno dei paradossi che la Tienanmen ha innescato. Perché dopo il 1989 la Cina ha accelerato il suo processo di sviluppo e la pace sociale indotta dalla repressione ha assecondato i piani del partito. Il regime ha saputo offrire un crescente benessere, la riduzione della povertà e la nascita di una classe media assicurandosi un controllo sociale che ora, sotto Xi Jinping, ha raggiunto grazie alle nuove tecnologie livelli estremi di sofisticazione. E a fronte del biasimo per i fatti del 1989, l’Occidente non ha mai cessato di tessere rapporti e costruirsi opportunità in Cina e con la Cina. Paradossale anche la distorsione prospettica che la memoria del 4 giugno 1989 ha prodotto in tanti osservatori, convinti che si fosse trattato di una richiesta di democrazia nella forma dei sistemi occidentali, quando invece — a giudizio della maggioranza degli studiosi — le richieste degli studenti e dei manifestanti rimanevano comunque all’interno dell’orizzonte del sistema esistente. La reattività che, con vari strumenti politrici e polizieschi, il partito fa scattare tuttora nei confronti degli «incidenti» (scioperi, petizioni, proteste) che attraversano la società è figlia del 1989: la stabilità innanzi tutto — è il mantra di Pechino —, la stabilità come garanzia del consenso. E però, in una società iperconnessa, in un Paese ormai forte sulla scena mondiale, resta impossibile discutere apertamente di fatti di trent’anni fa: anche questo, dopo tutto, è un paradosso.

Corriere 3.6.19
In edicola per un mese a e 8,90 più il prezzo del giornale
Nel libro la cronaca di giorni caldi e i testi degli scrittori


Sarà in edicola da domani con il «Corriere della Sera» il volume Piazza Tienanmen. 4 giugno 1989. I fatti, i protagonisti, la memoria. Curato dallo storico Marcello Flores, il libro di 236 pagine sarà in vendita a e 8,90 più il prezzo del quotidiano e rimarrà disponibile per un mese. L’opera è stata realizzata in occasione dei trent’anni dalla violenta repressione delle manifestazioni studentesche in Cina. Il libro si compone di un saggio introduttivo dello stesso Flores che colloca le proteste della primavera 1989 nel quadro sia dello viluppo della Cina post-maoista, guidata da Deng Xiaoping, sia della crisi che attraversava i Paesi del blocco comunista in Europa (tra l’altro, un’attesa visita dell’allora leader sovietico Mikhail Gorbaciov a Pechino coincise proprio con le proteste, imbarazzando le autorità cinesi e facendone emergere le difficoltà). Seguono un intervento di Fabio Lanza, studioso dei movimenti studenteschi in Cina, e un reportage di Guido Santevecchi, dal 2013 corrispondente del «Corriere» da Pechino, sulla memoria cancellata. Quindi la tragedia di trent’anni fa viene rievocata dagli articoli delle firme del «Corriere» che seguirono gli eventi: i reportage dell’allora corrispondente Renato Ferraro, i contributi di Andrea Bonanni, Ettore Mo, Franco Venturini, Arrigo Levi, Fox Butterfield, Gianni Riotta, Vittorio Strada, Giuliano Zincone, cui si aggiungono tre testi di Tiziano Terzani, che pochi anni prima era stato espulso da Pechino, e quelli di due scrittori: Alberto Moravia (L’enigma dei vecchi terribili) e Claudio Magris (Muore un mito, si salvi la speranza). Completano il libro una cronologia e le biografie delle figure più importanti coinvolte. (j. ch.)

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