Repubblica 5.16.19
Se il M5S guarda a sinistra
di Piero Ignazi
Negli ultimi tempi il Movimento 5 Stelle si è spostato a sinistra. Questo cambiamento è evidenziato da una serie di passaggi: la rivendicazione del valore della Resistenza con conseguente partecipazione alle manifestazioni del 25 aprile, la critica feroce al tradizionalismo della Lega sui temi della famiglia e della parità di genere, la proposta del salario minimo, e una, per quanto timida, marcia indietro sui temi della sicurezza e dell’immigrazione che fin qui lo avevano assimilato al partner di governo. L’indeterminatezza ideologica del M5S, che non si è mai limitato a definire i propri riferimenti cultural-politici, ha reso possibile, e indolore, questo ennesimo cambio di corsia. Nulla di strano se tra qualche settimana assistessimo a una inversione ad U. Ma ora, alla vigilia del voto europeo, i pentastellati si sono posizionati in un territorio tradizionalmente presidiato dalla sinistra. E questo crea non pochi problemi al Pd. Già l’introduzione del reddito di cittadinanza aveva mandato in confusione i democratici, oscillanti tra la denigrazione del provvedimento anche con argomenti tipici della destra neoconservatrice (assistenzialismo per gli scrocconi) e la rivendicazione dell’aver adottato per primi una misura analoga, seppur in sedicesimo (il reddito di inclusione approvato dal governo Gentiloni). Adesso i 5 Stelle cingono d’assedio il Pd ancora più strettamente. Non gli lasciano nemmeno l’esclusiva della bandiera pro-Europa perché hanno abbondonato le intemerate anti-euro e anti-Ue urlate nel corso delle precedenti elezioni europee. Grillo tace e Di Battista anche. Tutto questo mette a rischio la prospettiva strategica di Zingaretti. Il nuovo segretario aveva indicato un obiettivo preciso: indirizzare il partito lungo una linea di sinistra socialdemocratica per recuperare quei voti popolari andati verso i 5 Stelle. Un proposito che colpiva nel segno quando i pentastellati erano attratti dall’orbita leghista e ne condividevano o ne subivano la spinta destrorsa. In quella fase l’alleanza di governo si colorava sempre più di verde e il Pd avrebbe avuto molte armi in mano per recuperare i (tanti) consensi che aveva perso in quella direzione. Il problema è che questa strategia doveva essere messa in atto da tempo. L’incredibile ritardo nella scelta del nuovo segretario ha lasciato il Pd in una sorta di limbo, senza una linea precisa, proprio nel momento di maggiore difficoltà dell’avversario. Ora che la nuova leadership ha impresso una chiara direzione di marcia, il partito rischia di rimanere spiazzato dalla rapidità con cui il M5S ha reagito. È stato perso un anno: un ritardo imperdonabile perché c’era bisogno di tempo per riconquistare il tradizionale elettorato popolare della sinistra. Dopo che il Pd si era ritirato nei centri storici e nei bei quartieri (con qualche eccezione, vedi Milano), «ritornare nelle periferie», come recita il mantra piddino di questi mesi, non è certo una impresa agevole, ammesso che sia ancora possibile. Tra l’altro la concorrenza si è ulteriormente allargata. Non ci sono solo gli arrabbiati antipolitici da contrastare. Sta crescendo una mobilitazione neofascista e/o xenofoba che alimenta risentimenti e aggressività verso la sinistra, i diversi, gli stranieri e, inevitabilmente, gli ebrei: i nemici di sempre della destra rivoluzionaria a partire da fine Ottocento. Ancora una volta il Pd arriva troppo tardi all’appuntamento con i propri potenziali elettori. Le sirene che cercano di attrarli sono molte e molto stridule, mentre il Partito democratico è praticamente afono. La sua voce si sente appena, sussurrata con grazia dal segretario; e per questo non riesce ad arrivare alle orecchie di quell’elettorato che il Pd vorrebbe riportare a casa. Per vincere servono parole forti e chiare.
il manifesto 16.5.19
Alabama choc: l’aborto è reato da ergastolo
Stati Uniti. Criminalizzato anche per stupro e incesto, carcere per i medici che lo praticano: è la legge più oscurantista di sempre negli Stati uniti. Associazioni e donne sul piede di guerra: la legge potrebbe finire alla Corte suprema
Stati uniti, manifestazione delle donne contro l’abolizione dell’aborto
Stati uniti, manifestazione delle donne contro l’abolizione dell’aborto
di Marina Catucci
NEW YORK Lo Stato dell’Alabama ha passato quella che è, ad oggi, la legge sull’aborto più restrittiva del Paese. Grazie al voto positivo del Senato locale, è stato approvato con 25 voti a favore e 6 contrari, un provvedimento che punisce con l’ergastolo i medici che praticano aborti, nessuna eccezione ammessa, nemmeno per i casi di incesto e stupro. Unico caso contemplato per interrompere una gravidanza è se questa espone la vita della madre a un serio pericolo.
I repubblicani dello Stato hanno spinto l’approvazione della legge con l’obiettivo esplicito di rovesciare Roe v. Wade, la causa della Corte suprema che dal 1973 legalizza l’aborto a livello federale, e si uniscono ai loro compagni di partito di altri Stati che si sono mossi con lo stesso fine. Come nel caso della legge sul battito cardiaco fetale della Georgia, secondo cui l’aborto è vietato quando è possibile rilevare il cosiddetto «battito cardiaco» del feto, vale a dire dopo le sei settimane, periodo entro il quale molte donne non sono neppure consapevoli di essere incinte.
Anche sull’espressione stessa «battito cardiaco fetale» si è accesa una polemica tra i difensori dei diritti riproduttivi delle donne e i repubblicani, in quanto considerata dai primi tecnicamente impropria e strumentale, visto che a sei settimane è più corretto dire che l’embrione pulsa, perché non è ancora dotato di un vero organo cardiaco.
Nell’ultimo anno ben 21 nuove leggi sono passate in 16 dei 50 Stati Usa per introdurre nuove misure che limitano il diritto all’aborto. Da quando Trump è entrato alla Casa bianca, nel 2017, queste restrizioni riguardano 28 Stati, più della metà; in 15 le restrizioni limitano le interruzioni di gravidanza alle prime 6 settimane.
Dopo il voto del Senato, l’associazione per la difesa dei diritti civili (Aclu) dell’Alabama, sostenuta dalla Aclu nazionale, ha annunciato su Twitter che intenterà una causa per fermare la legge. La causa verrà probabilmente vinta ma ciò non fermerà i repubblicani che, tra ricorsi e contro-ricorsi nelle corti minori, mirano a portare il caso davanti alla Corte suprema, dove siedono ben due giudici ultra conservatori nominati da Trump e ampiamente contestati da democratici e società civile, Neil Gorsuch e il controverso Brett Kavanaugh, accusato di molestie da quattro donne e integralista cattolico.
La governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, repubblicana, non ha ancora preso pubblicamente posizione riguardo la legge, ma le sue idee contro l’aborto sono ben note. Ivey ha sei giorni per firmare il disegno di legge: quando questa legge passerà sarà grazie alla firma finale di una donna.
Staci Fox, presidente della rete di consultori Planned Parenthood del sud est del Paese, intervistato dalla Cnn prima del voto della Camera, ha detto: «Anche gli autori di questo disegno di legge sanno che è palesemente incostituzionale e non passerà in tribunale. In Alabama abbiamo visto anno dopo anno gli sforzi per cancellare il diritto all’aborto diventare sempre più audaci. Penso che con questo presidente alla Casa bianca e ora Kavanaugh alla Corte suprema, la politica conservatrice in Alabama si senta incoraggiata a fare questo atto eclatante contro l’assistenza sanitaria per le donne».
Per arrivare fino alla Corte suprema, però, fanno notare molti esperti di legge Usa, il caso o i casi avranno bisogno di qualche anno. E se ciò avverrà si spera che accada sotto un’altra presidenza e con un clima politico diverso da quello oscurantista introdotto da Trump e dal vice presidente Pence.
La Stampa 16.5.19
In Alabama l’aborto è fuorilegge
anche in caso di stupro o incesto
di Paolo Mastrolilli
In America l’attacco alla legalità dell’aborto, e non solo, è cominciato. La legge approvata ieri in Alabama, che lo vieta in quasi tutti i casi, è solo l’ultima di una serie di iniziative prese per spingere la Corte Suprema a bandire l’interruzione di gravidanza. La strategia usata, però, lascia intravedere un sistema che potrebbe essere adottato per erodere molti altri diritti, e cambiare i meccanismi della democrazia Usa.
Il testo votato consente l’interruzione di gravidanza solo nei casi in cui ci sia un «serio pericolo» per la sopravvivenza della madre. Nessuna eccezione per lo stupro e l’incesto. Le donne che violeranno la legge non verranno incriminate penalmente, ma i medici sì, e rischieranno fino a 99 anni di prigione. In altre parole, una ragazza stuprata sarà costretta a partorire, e se un dottore la aiuterà ad abortire riceverà l’ergastolo.
La legge ora è sul tavolo della governatrice repubblicana Kay Ivey, ma anche se decidesse di non firmarla, una maggioranza semplice basterebbe al parlamento locale per scavalcare il suo veto. Gli attivisti “pro choice” hanno già annunciato che faranno causa, come volevano i promotori dell’iniziativa.
Dall’inizio dell’anno ad oggi, sono 7 gli stati americani che hanno passato provvedimenti diversi per limitare o vietare le interruzioni di gravidanza. Oltre all’Alabama, lo hanno fatto Georgia, Mississippi, Arkansas, Kentucky, Utah e Ohio. L’obiettivo immediato è ridurre il più possibile gli aborti, ma quello finale è il bando. I promotori delle leggi infatti vogliono provocare le cause dei “pro choice”, nella speranza di arrivare fino alla Corte Suprema, dove la maggioranza conservatrice rafforzata da Trump con le nomine dei giudici Gorsuch e Kavanaugh potrebbe rovescire la sentenza Roe vs. Wade, che nel 1973 aveva legalizzato l’interruzione di gravidanza. Non sarà facile, ma le dimissioni del moderato Kennedy hanno aperto uno spiraglio. Se poi il presidente verrà rieletto, e potrà sostituire anche la liberal Ginsburg, il successo sarebbe a portata di mano.
Trump in passato aveva dichiarato di essere favorevole all’aborto, ma ora sostiene di aver cambiato posizione. Essere “pro life” per lui è indispensabile, se vuole che la sua base di evangelici e conservatori torni a votarlo l’anno prossimo.
Il metodo
L’operazione in corso però lascia intravedere un metodo che potrebbe essere replicato, per annullare altri diritti come quelli dei gay o delle minoranze, ma anche per scalfire le regole della democrazia americana. Un esempio che viene in mente è il braccio di ferro in corso tra la Casa Bianca e il Congresso, sui poteri di inchiesta che la Costituzione affida al Parlamento. Dopo la pubblicazione del rapporto Mueller sul Russiagate i democratici hanno aperto una serie di indagini, come peraltro avevano fatto i repubblicani durante la precedente amministrazione, ad esempio su Bengasi, che forse è costata la presidenza a Hillary Clinton per il caso email.
Trump ha risposto ordinando a tutti i suoi collaboratori di non cooperare, dicendo che il caso è chiuso. Anche se fosse così, in questo modo ha aperto una nuova disputa, non più sulla eventuale collusione col Cremlino, ma sul rapporto tra i poteri dello Stato. I democratici hanno già presentato alcuni ricorsi, e l’obiettivo immediato del presidente è perdere tempo e frenarli, almeno fino alle elezioni. Il problema che ha posto però è grave e di lungo termine, e forse lui spera che alla fine venga risolto in suo favore dalla Corte Suprema. Così le sue nomine dei giudici, a tutti i livelli, diventano l’elemento del mandato di Trump che probabilmente avrà l’impatto più concreto e duraturo sulla società americana.
La Stampa 16.6.1
Merkel: “Preoccupata per la Ue
Dobbiamo difenderne i valori
Salvini non può entrare nel Ppe”
La leader chiude alla Lega: nessun punto in comune, a Weber non servono i suoi voti “Spero che l’Italia trovi la strada per una maggior crescita, la stabilità dipende da tutti”
di Nico Fried Stefan Kornelius
Berlino. Signora cancelliera, l’Europa si trova dinnanzi a elezioni decisive?
«Si tratta senz’altro di elezioni di grande importanza, elezioni speciali. Molti sono preoccupati per l’Europa, anch’io lo sono. Da questa preoccupazione nasce in me un senso di responsabilità ancora più forte che mi spinge a occuparmi assieme ad altri del destino di quest’Europa».
Affermerebbe che «mai l’Europa è stata così tanto in pericolo»?
«Mi riesce difficile confrontare la situazione attuale dell’Europa con i pericoli dei decenni precedenti, poiché allora non ero presente, mentre oggi sono attivamente coinvolta. Dall’esterno la situazione si può valutare meglio. Ma indubbiamente l’Europa deve riposizionarsi in un mondo che è cambiato. Alcune certezze, maturate nell’ordinamento postbellico, non valgono più».
Sono le parole del presidente francese Macron, che è pure attivamente coinvolto.
«È vero, ma non lo è da così tanto tempo. In parte giudica ancora la situazione da una prospettiva in qualche modo esterna. È positivo se osserviamo la nostra Europa da diversi angoli prospettici. Non basta più fare riferimento ai sette decenni di pace, per dare una motivazione all’Europa. Se l’Europa non avesse più una motivazione rivolta al futuro, anche l’opera di pace sarebbe in pericolo prima di quanto si pensi».
Che cosa comportano per l’Ue le sfide globali di Cina, Russia e Usa?
«Ogni volta ci spingono a trovare posizioni comuni. A causa dei diversi interessi, questo spesso risulta essere difficoltoso. Ma ci riusciamo, pensiamo alla nostra politica nel conflitto ucraino. Nel frattempo anche la nostra politica per l’Africa segue una strategia comune, che alcuni anni fa sarebbe stata ancora impensabile. In questo modo andiamo avanti, passo dopo passo. Tuttavia, finora la nostra forza politica non corrisponde alle nostre capacità economiche».
Negli anni scorsi, qual è stata la cesura principale?
«Sicuramente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Ue. Inoltre, con l’euro e nella migrazione abbiamo attraversato crisi vitali. Entrambi i progetti d’integrazione europea degli Anni 90, cioè la valuta e l’apertura dei confini in linea con Schengen, erano giusti e importanti. È risultato però che non erano sufficientemente preparati per affrontare sfide e tempeste. Nell’euro abbiamo fatto miglioramenti. Su Schengen, non siamo ancora fuori pericolo».
A queste due crisi lei deve appellativi controversi: cancelliera dell’austerità e cancelliera dei rifugiati. Saranno questi i meriti che le verranno attribuiti nei libri di storia?
«Di questo non mi preoccupo. Quello che conta è che l’Unione monetaria e l’euro siano stati salvaguardati. Le riforme in Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia si sono rivelate giuste, anche se non nego che l’impatto sulla popolazione è stato notevole. E il tema della migrazione ci accompagnerà anche per i prossimi decenni. Negli scorsi quattro anni, anche in Europa abbiamo percepito le ripercussioni del terrore e della guerra civile nel Vicino e Medio Oriente e abbiamo aiutato i bisognosi. Allo stesso tempo, occorre contribuire a far sì che anche i Paesi africani si avviino verso uno sviluppo economico positivo e sostenibile. Questo è nell’interesse di entrambe le parti».
Entrambi gli appellativi contengono il rimprovero nei suoi confronti di avere spaccato due volte l’Europa: fra Nord e Sud nella crisi monetaria e sostanzialmente fra Est e Ovest nella crisi dei profughi, il che ha portato anche al rafforzamento dei populisti. Riconosce questa responsabilità?
«L’intera portata delle decisioni prese è valutabile solo considerando le ripercussioni che avrebbe avuto una politica di segno opposto. Se nella crisi dell’euro e nell’emergenza profughi non avessimo agito o lo avessimo fatto diversamente, le conseguenze sarebbero state, a mio avviso, molto più gravi rispetto ad alcuni problemi di oggi. Queste non sono decisioni nate a tavolino, ma risposte alla vita reale. Se nel mondo quasi settanta milioni di persone sono in fuga, allora era comprensibile che l’Europa dovesse farsi carico di oltre un milione di loro. Capisco che ciò possa creare controversie sociali, che vanno poi gestite. E da questa situazione abbiamo tratto anche alcuni insegnamenti».
I Paesi del Sud continuano a essere preoccupati per il prossimo rigore di bilancio.
«La crisi debitoria nell’eurozona ci ha mostrato che in alcuni Paesi c’erano sviluppi economici negativi, che erano e sono da correggere. Sì, è vero che abbiamo bisogno di una convergenza, quindi di un allineamento economico dei Paesi membri, in cui dobbiamo orientarci però verso la concorrenza mondiale con la Cina, gli Usa e Sud Corea. Se fosse solo un allineamento verso la media europea, le prossime crisi tornerebbero a colpirci duramente».
Negli scorsi anni, Macron si è presentato in Europa con verve e come riformatore, con sempre nuove proposte. A lei viene attribuita sempre l’immagine di chi frena. Perché è così difficile per lei trovare una via di mezzo con Macron?
«Troviamo sempre una via di mezzo. Inoltre, la Germania ha avviato una serie di iniziative. Mi riferisco al nostro impegno nei Balcani o ai cosiddetti Compacts with Africa durante la presidenza tedesca del G20. In questo modo, abbiamo messo in moto un processo che faciliterà gli investimenti privati nei Paesi africani. Anche con la nostra agenda G20 sulla Sanità globale abbiamo posto degli accenti. Certo che discutiamo tra di noi. Vi sono differenze di mentalità e di comprensione dei ruoli. È sempre stato così. Macron non è il primo presidente francese con cui collaboro».
Seguite gli stessi progetti per la costruzione dell’Europa?
«A grandi linee naturalmente sì, ma non dobbiamo dimenticare che è diversa la visione che i nostri Paesi hanno di se stessi. Dopo la Seconda guerra mondiale la Francia, facendo parte degli Alleati, ovviamente ha avuto un ruolo diverso da quello tedesco. La Francia è una potenza nucleare, nel consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha il diritto di veto. Tuttavia, dai nostri diversi punti di partenza e dalle nostre diverse visioni giungiamo sempre a compromessi. In tal modo facciamo molto per l’Europa, anche oggi».
Ultimamente, l’opinione pubblica ha avuto l’impressione che Macron prenda le distanze dalla stretta cooperazione con la Germania anche per motivi di politica interna. Il vostro rapporto è ulteriormente peggiorato?
«No. Assolutamente no. Vi sono state asincronie. Quando ha parlato alla Sorbonne, da noi c’erano appena state le elezioni federali. Poi è seguito un periodo insolitamente lungo per formare il governo. E vi sono differenze di mandato e cultura politica. Io sono la cancelliera di un governo di coalizione con obblighi verso il Parlamento molto più forti rispetto al presidente francese, che non può assolutamente accedere all’Assemblea nazionale. Tuttavia, nelle questioni fondamentali – la direzione in cui si evolvono l’Europa e l’economia, quale responsabilità abbiamo per il clima e l’Africa – siamo quasi sulla stessa lunghezza d’onda. Questo vale anche per la questione degli ambiti in cui eventualmente è necessario agire indipendentemente dagli Stati Uniti, anche se in realtà non auspico una tale situazione».
Parliamo delle priorità post-elettorali. Già due giorni dopo, in agenda ci sarà il tema delle cariche.
«Questo tema sarà in agenda perlomeno fino al Consiglio europeo del 21 giugno. Il 28 maggio discuteremo unicamente di come procedere. Il Consiglio europeo deve presentare una proposta per l’elezione del presidente della Commissione, che sarebbe bene trovasse anche una maggioranza nel Parlamento europeo. È qui che si vota».
E di nuovo scoppia il conflitto sull’importanza dei candidati di punta.
«Questo conflitto c’è da quando questa idea è stata attuata per la prima volta».
Lei non era una sostenitrice della candidatura di Jean-Claude Juncker.
«Ho sempre manifestato un certo scetticismo nei confronti del principio del candidato di punta, naturalmente non nei confronti di Juncker. Ma sono un buon membro del Partito popolare europeo, che ha inserito nei suoi statuti la decisione di nominare un candidato di punta. Quindi: il Ppe ha un candidato di punta, che si chiama Manfred Weber, e io mi adopererò affinché lui diventi il presidente della Commissione, se dalle elezioni usciremo come la maggiore forza politica».
Preferirebbe vedere Weber alla guida della Commissione o Jens Weidmann a capo della Bce?
«Non discuto di quest’alternativa. Weber è il candidato di punta, questa è una grande prova di fiducia. Gode del sostegno del grande gruppo parlamentare del Ppe e al Congresso del partito ha avuto la meglio contro un altro candidato. Ora mi adopero per lui. Ciò non esclude che la Germania abbia altre personalità di spicco per altre cariche».
Weber ha detto che bloccherebbe subito i colloqui per l’adesione della Turchia. Lei ha sempre rifiutato un’interruzione.
«Gli attuali eventi successivi alle elezioni amministrative non rendono più probabile un’adesione della Turchia. Al contrario, sono motivo di una preoccupazione di fondo per gli sviluppi in Turchia. Io ho sempre detto che non intravedo una piena adesione della Turchia. I negoziati vengono peraltro condotti a risultato aperto. Io ho sempre parlato di rapporti particolari con questo Paese, che per noi è così importante. I valori politici in molti punti sono diversi, eppure vi sono interessi comuni; pensiamo solo alla Siria e alla lotta al terrorismo islamico. La politica estera viene sempre fatta in un mix di valori e interessi, anche qui bisogna trovare il giusto equilibrio».
Dopo le elezioni, anche il bilancio Ue sarà al centro dell’interesse. Lei voleva risolvere la questione già molto tempo fa. Ma non se n’è fatto niente. Quali sono ora le sue priorità, dove saranno necessari slittamenti di risorse?
«Non ci siamo messi d’accordo sul quadro finanziario perché non tutti gli Stati membri erano convinti che dovessimo farlo prima delle elezioni».
La Francia era decisamente contraria.
«Dobbiamo risolvere la questione adesso. Sarà insolitamente complicato, tanto più che dobbiamo considerare anche l’uscita della Gran Bretagna e al contempo non sappiamo a quali programmi i britannici forse parteciperanno ancora».
I debiti italiani rappresentano nel complesso un fattore di rischio per il bilancio e la stabilità dell’euro?
«Mi auguro che l’Italia trovi la strada verso una maggiore crescita. Dipendiamo tutti gli uni dagli altri. Lo abbiamo visto nella crisi dell’euro: nessuno nella zona euro agisce in modo autarchico o isolato. Questo vale anche per la Germania, se da noi dovesse indebolirsi la crescita».
A proposito di Italia: Salvini porterebbe volentieri la Lega nel Ppe. E Orban aprirebbe volentieri il Ppe in questa direzione. È immaginabile?
«No».
Non ci sarà nessuna collaborazione con Salvini o con raggruppamenti di orientamento simile?
«È evidente che abbiamo approcci diversi, per esempio nella politica migratoria. Già questo è un motivo per cui il Ppe non può aprirsi al partito del Signor Salvini. Certo è che Weber nell’elezione a presidente della Commissione non si assoggetta ai voti di questi partiti. Che lo votino o no, non si può influenzare».
Tutte le esternazioni di Orban fanno intuire che non è interessato a una cooperazione costruttiva con il Ppe. Forse lei dovrebbe respingere la sua richiesta e pregarlo di andarsene?
«Il Ppe ha istituito un gruppo di tre probiviri che dopo una certa scadenza si occuperà del tema Fidesz. Che attualmente è sospeso. Il Ppe adotterà, a tempo debito, una decisione».
Le attività dell’estrema destra populista sono rivolte contro l’Ue. Si discute di pene per le infrazioni. Dopo le elezioni intende adoperarsi per un nuovo meccanismo sanzionatorio?
«Sfrutteremo pienamente tutti gli strumenti previsti dal Trattato di Lisbona. Tutto il resto richiederebbe modifiche dei Trattati».
Sarà sufficiente?
«Abbiamo procedure d’infrazione, nonché la procedura ai sensi dell’articolo 7 con le relative sanzioni. Per sanzioni più dure dovremmo modificare il Trattato di Lisbona, il che andrebbe deciso all’unanimità. Dato che gli Stati membri sono i “Signori dei Trattati”, non sarà molto facile. Io suggerisco di utilizzare le possibilità previste nel Trattato. È assolutamente fuori discussione che debbano essere salvaguardati i valori su cui poggia l’Unione europea».
il manifesto 16.5.19
Gaza, Nakba permanente
Palestina. Ieri migliaia di persone hanno commemorato il 71esimo anniversario della Nakba, la "catastrofe" del 1948 che trasformò in profughi centinaia di migliaia di palestinesi. Gaza, in condizioni sempre più precarie, è stato il centro delle manifestazioni. Oltre 60 i feriti per gli spari israeliani
Manifestazioni palestinesi per la Nakba
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Ieri sono scesi in strada a migliaia. In Cisgiordania, Gaza, nei centri abitati palestinesi in Israele, per commemorare il 71esimo anniversario della Nakba, la “catastrofe” che nel 1948 vide oltre 700mila palestinesi fuggire o cacciati via dalle loro case dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Non sono manifestazioni rituali. Piuttosto sono la rappresentazione concreta di una questione mai risolta, di diritti sempre negati, di un popolo che 71 anni dopo resta in buona parte sotto occupazione israeliana o è costretto a vivere lontano dalla sua terra d’origine, in campi per rifugiati. La Nakba non è mai finita e c’è un luogo che più di altri lo conferma, la Striscia di Gaza, dove in meno di 400 kmq vivono come sardine in scatola due milioni e centomila palestinesi che da 12 anni fanno i conti con il blocco israeliano.
Non sorprende che Gaza sia stata ieri la protagonista delle commemorazioni della Nakba. Almeno 10mila palestinesi hanno raggiunto le linee di demarcazione con Israele per manifestare nei luoghi dove ogni venerdì, dal 30 marzo del 2018, proseguono incessanti le proteste contro il blocco israeliano. Manifestazioni che il governo Netanyahu denuncia come un attacco alla sicurezza del Paese citando i lanci di palloni e aquiloni incendiari da parte dei palestinesi che provocano roghi nelle campagne israeliane a ridotto di Gaza. Ieri decine di dimostranti sono stati feriti dal fuoco dei soldati israeliani che, nell’ultimo anno, ha ucciso circa 250 palestinesi.
Pochi giorni fa esasperazione e rabbia hanno innescato l’ennesima escalation militare: raid aerei israeliani, lanci di razzi palestinesi, distruzioni, morti e feriti. Ma per Gaza non è cambiato nulla, era e resta una prigione a cielo aperto. Il tira e molla delle restrizioni israeliane è sfiancante. Qualche giorno l’agenzia delle Nazioni Unite, Unrwa, ha ricordato che la metà dei palestinesi di Gaza dipendono da aiuti alimentari e ha lanciato un appello per un ulteriore stanziamento di 60 milioni di dollari entro giugno per aiutare più di un milione di rifugiati. «Dai meno di 80mila che ricevevano assistenza sociale nel 2000 oggi ci sono più di un milione di persone che hanno bisogno di aiuti alimentari senza i quali non riuscirebbero ad arrivare a fine giornata» scrive l’agenzia. Circa 620mila abitanti di Gaza sono in stato di povertà assoluta e circa 390mila appena sotto la soglia di povertà. Matthias Schmale, direttore delle operazioni dell’Unrwa, ribadisce che l’assedio di Israele ha peggiorato sensibilmente le condizioni della popolazione.
Sarebbe un errore considerarla un’emergenza umanitaria come tante altre. Piuttosto è una emergenza politica causata dall’ occupazione e dal blocco. Il mondo finge di non vedere e liquida il problema come una conseguenza dello scontro tra il movimento islamico Hamas, al potere a Gaza, e Israele. Intanto A meno di cento chilometri da Gaza, nella città costiera di Tel Aviv, invece sono giorni di svago grazie allo svolgimento dell’Eurovision Song Contest, la gara musicale che quest’anno si tiene in Israele dal 14 al 18 maggio. Un evento che non tutti gli israeliani guardano con favore. Gruppi e ong progressiste si sono uniti ai palestinesi nel chiedere il boicottaggio dell’Eurovision che, spiegano, offre una vetrina a Israele e oscura la realtà. Gli attivisti palestinesi inoltre hanno organizzato a Gaza delle iniziative musicali parallele all’Eurovision – Gaza Message, Globalvision e Gaza Vision – che si svolgono di sera tra le rovine di un palazzo distrutto dai bombardamenti israeliani delle settimane scorse. Sabato, nella serata conclusiva dell’Eurovision a Tel Aviv, quando si esibirà Madonna, a Gaza, tra detriti e rovine di case colpite dai raid aerei, suoneranno e canteranno band e artisti locali che non hanno possibilità di esibirsi sui palcoscenici internazionali. Da lontano parteciperà un genio della musica, Brian Eno.
il manifesto 16.5.19
«L’indifferenza sembra perbene. Ma uccide proprio come l’odio»
L'intervista. Parla Philippe Claudel, autore di «L’arcipelago del cane» (Ponte alle Grazie) che richiama le tragedie dei migranti nel Mediterraneo e indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e «prendere parte». Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile
di Guido Caldiron
Tre cadaveri di sconosciuti trovati sulla spiaggia e la vita nell’isola sembra destinata a mutare per sempre. Richiamando più o meno esplicitamente le tragedie dei migranti nel Mediterraneo, Philippe Claudel indaga in L’Arcipelago del cane (Ponte alle Grazie, pp. 204, euro 16,00) i sentimenti tristi di questi anni di ricorrenti crisi umanitarie, muri che crescono e barbarie che si diffonde. Fedele al percorso già intrapreso, tra gli altri suoi romanzi, con La nipote del signor Linh, Le anime grigie e Il Rapporto, lo scrittore e regista francese membro dell’Académie Goncourt – che è stato tra gli ospiti del recente Salone di Torino -, indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e «prendere parte». Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile.
Questo romanzo sembra tradurre un’urgenza: la necessità di agire di fronte al silenzio che spesso circonda la sorte di chi attraversa il Mediterraneo in cerca di una vita migliore.
Il Mediterraneo si è trasformato dal nostro «mare comune» in una sorta di gigantesca frontiera d’acqua. I media raccontano ogni giorno le storie di persone che muoiono in mezzo al mare, senza che però questo provochi spesso delle reazioni che vanno al di là dell’emozione del momento, senza che le persone sentano di dover chiedere ai loro governanti di cambiare politica e di trovare delle soluzioni umane e efficaci. Perciò mi sono detto che ciò che non riescono a fare giornali e tv, vale a dire ad incidere davvero sull’opinione degli individui, forse la letteratura può contribuire a farlo. Facendo sì che attraverso un romanzo le persone si pongano almeno delle domande in più, inizino a riflettere…
Lo scrittore francese Philippe Claudel
Al pari di quanto avviene nelle sue opere precedenti, anche ne «L’arcipelago del cane» lei sembra giocare con i codici del noir per indurre nel lettore la voglia di indagare, di scoprire quanto sta accadendo. Un meccanismo che spinge chi legge anche ad interrogarsi su se stesso?
Quando si vuole spingere chi legge a compiere una riflessione complessa che lo può porre in una posizione scomoda, c’è bisogno che il percorso che lo condurrà fin lì risulti il più possibile intrigante, che giochi con le corde della seduzione narrativa. E in questa prospettiva nulla funziona meglio del polar, della metrica dell’indagine poliziesca con la tensione in cui precipita il lettore. Non si tratta però solo di catturare la sua attenzione con questo strumento, ma anche di coinvolgerlo, di far sì che si trasformi a un svolta in «detective», che svolga la propria indagine personale e che, nel caso di questo romanzo, dopo essersi chiesto chi siano le persone trovate morte sulla spiaggia e chi li abbia uccisi cominci a domandarsi: «Io come avrei reagito, cosa avrei fatto di fronte a tutto questo?». Non a caso si cita spesso il noir come la nuova letteratura sociale: ponendoci tutte queste domande finiamo per interrogarci su come funzioni il nostro mondo e, magari, su come vorremmo cambiarlo.
In questo caso il noir si misura anche con il mito, addirittura con l’eredità della tragedia greca e le sue metafore…
In effetti ho cercato di costruire una sorta di favola, di «mito moderno» se mi passate il termine, una storia che evoca apertamente le strutture mitologiche e la loro capacità di illustrare le contraddizioni e gli abissi dell’animo umano. Così, i personaggi del libro – il sindaco, il parroco, il dottore o la maestra – sono in realtà degli archetipi, proprio come quelli che incontriamo nella mitologia o nella tragedia greche. Non a caso non hanno nome , perché sono chiamati a incarnare forze, figure e idee che vanno ben al di là della loro persona. Ciò detto, in ogni mio romanzo cerco di non lavorare solo sulla storia, ma anche sulla forma stessa della struttura narrativa, cercando di adattarla il più possibile allo spirito dei tempi. Evocare il mito, in questo caso rimanda al tentativo di rintracciare un’architettura essenziale del reale, quasi lo scheletro della società contemporanea attraverso figure che esprimono caratteri e sentimenti universali.
Il mondo in cui viviamo appare immerso nell’odio, eppure il suo romanzo sembra dirci che la viltà e l’indifferenza a volte possono produrre esiti anche peggiori.
In realtà credo che viltà e indifferenza siano solo delle forme più «educate» di odio, più presentabili in società ma che conducono irreparabilmente ai medesimi risultati. Ho l’impressione che il vero motore del mondo sia l’egoismo, che ciascuno di noi è davvero troppo preso da se stesso e le sue faccende per occuparsi di qualcosa o qualcun altro. La figura dell’«altro» ci ispira vuoi indifferenza vuoi odio, il che vuol dire in qualche modo le diverse tonalità di qualcosa che si traduce nel rifiuto se non nel rigetto vero e proprio. Nella storia umana questa presenza è stata spesso vissuta come un arricchimento – qualcuno che arrivava da luoghi a noi fino ad allora sconosciuti e che portava con sé beni o conoscenze che ci erano ignote -, ma oggi è ridotta ad essere vissuta solo come un pericolo. E l’esito di tutto ciò è che stiamo costruendo per gli altri, ma anche per noi stessi, un mondo inumano.
«L’arcipelago del cane» è da questo punto di vista una sorta di «luogo dell’anima», ma ricorda in modo sinistro anche la vecchia Europa. Abbiamo perso la capacità di indignarci?
È vero, ho costruito un paesaggio immaginario che però assomiglia molto all’Europa, come al resto dell’Occidente che passo dopo passo, attraverso questa chiusura verso l’esterno, sta perdendo se stesso e la sua civiltà. Il vero problema è che delle voci come quelle della maestra del romanzo, che vuole provare un’altra via, che non ha paura del cambiamento e dell’incontro, sono ridotte al silenzio, minacciate e ostracizzate. L’importante è che però, proprio come fa lei, non si perda mai la voglia di indignarsi e di reagire. Solo così avremo tutti un futuro.
Il Fatto 16.5.19
La galassia nera dei “demoni” di Salvini
di Tomaso Montanari
In America, un libro come questo avrebbe la forza del Watergate. E in un qualunque Paese europeo, un libro che dimostrasse come il vicepremier e ministro dell’Interno è circondato da postnazisti che ne conducono la politica estera (e forse i flussi di finanziamento) e ne modellano l’ideologia e la retorica porterebbe a una crisi di governo. Temo che questo non succederà con I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega, di Claudio Gatti (oggi in libreria per Chiarelettere): ma mi domando cosa penseranno, dopo averlo letto, Sergio Mattarella (che fermò, a costo di lacerare la Costituzione, Paolo Savona ma non mosse ciglio contro la nomina di Salvini) o Luigi Di Maio e Matteo Renzi, che condividono la responsabilità (seppur in misura diversa) di aver inquinato, dandola in mano a un uomo di queste frequentazioni, la nostra sicurezza nazionale.
Non si tratta di un libro politico: è, nello stile asciutto e fattuale del suo autore, una classica inchiesta giornalistica. Aiutato dal fatto di vivere a New York, fuori dall’involuzione del giornalismo italico, Gatti allinea fatti, date, testi e lunghe interviste che confermano il canovaccio offertogli da una gola profonda: l’ingegner Alberto Sciandra, nazista pentito che è stato il primo infiltrato nella Lega (organizzatore, tra l’altro, della sceneggiata celtica con Bossi alle fonti del Po, nel 1996).
Ne scaturisce la ricostruzione agghiacciante della (riuscitissima) infiltrazione politica che spiega come sia possibile che un partito autonomista abbia abbracciato i più sanguinari centralisti, da Milosevic a Putin, attuale idolo di questa galassia nera.
Il libro dimostra come un nutrito gruppo di post-nazisti, formatisi nell’entourage eversivo di Franco Freda e del suo discepolo Maurizio Murelli (undici anni di galera alle spalle), sia entrato a livelli apicali nella Lega, fin dalla fondazione. Matteo Salvini nasce e cresce, politicamente, in questo ambiente. Si smonta la leggenda (abilmente costruita) del “comunista padano” e l’attuale uomo forte del governo è restituito alla sua identità reale: quella di un uomo di estrema destra nutrito di retorica, idee e soprattutto frequentazioni esplicitamente postnaziste. Non mancano i nessi col nazismo storico, quello di Hitler: nel lontano 1976 al futuro senatore Borghezio viene trovata in casa una divisa da ufficiale nazista (ah, la mania delle divise!), e Gianluca Savoini (per un lungo periodo portavoce di Salvini, e l’anno scorso tra gli organizzatori del suo viaggio in Russia da ministro dell’Interno) aveva nel suo ufficio della redazione della Padania una cornucopia di simboli hitleriani.
Ma non si tratta affatto di un manipolo di nostalgici, siamo lontani dai patetici sfigati di Forza Nuova o dai picchiatori di CasaPound: si tratta di politici lucidi, scrittori, editori che hanno abbandonato “la via del guerriero” e scelto quella “del sacerdote”. Una categoria pericolosa perché dissimulata, questa dei postnazisti. “Ma la più pericolosa di tutti – scrive Gatti – è quella dei cinici calcolatori che pensano di poter usare i postnazisti intelligenti. È la categoria di Matteo Salvini”, che “ha reso presentabile il pensiero postnazista”. Il cardine di questo pensiero è la teoria della “sostituzione del popolo”: per cui l’etnia europea bianca e cristiana sarebbe minacciata da un complotto giudaico-massonico che la vuole sostituire con neri musulmani. Una teoria espressa in termini quasi identici nel Mein Kampf di Hitler, nelle rivendicazioni di Brenton Tarrant (lo stragista delle moschee neozelandesi) e nei discorsi di Salvini: e questa affermazione non è un’illazione, o una calunnia, ma il semplice frutto di un banale confronto testuale, dalla forza dirompente.
Ciò che Gatti dimostra è che Salvini non è semplicemente saltato, all’ultimo momento, su una retorica “di destra”: la sua integrale sottoscrizione dell’essenza ideologica del postnazismo mondiale è invece il frutto di un lungo e accurato lavoro di un gruppo politico che ora viene per la prima volta messo a nudo.
Non si tratta di discutere come e quanto Salvini sia fascista: il punto non è quanto filologico sia il suo recupero del passato, ma quanto devastante sia il suo progetto per il futuro. Il consenso alle sue tesi è vasto, ed è stato alimentato da un’ingiustizia sociale devastante e da un disinvestimento in scuola e cultura che portano le firme di governi di centrosinistra almeno quanto quelle dei governi di centrodestra. Dunque, il punto non è costituire un fronte antifascista con chi ci ha condotto a questo punto, ma invertire la rotta finché siamo in tempo: capire quali demoni siano stati liberati da trent’anni di liberismo selvaggio è vitale, e questo libro sconvolgente è un passo nella direzione giusta. Visto che uno dei protagonisti è Marcello Foa, è verosimile che la Rai non gli dedicherà molto spazio: invece leggerlo e discuterlo è davvero fondamentale. Per il futuro della democrazia italiana.
Bombe per lo Yemen, guerra in Parlamento
Commercio d’armi - I 5Stelle chiedono risposte al sottosegretario Picchi (Lega)
Bombe per lo Yemen, guerra in Parlamento
di Salvatore Cannavò
Come anticipato dal Fatto, il M5S ha deciso di muovere un altro pedone nella sua partita a scacchi con la Lega. Stavolta si tratta di un tema altamente sensibile, il commercio di armi verso l’Arabia Saudita e che Ryad utilizza contro i civili nello Yemen.
L’iniziativa è stata annunciata ieri dal senatore Gianluca Ferrara, capogruppo del M5S in commissione Esteri in nome dei “diritti umani prima degli affari”. A essere interpellato è il sottosegretario leghista agli Esteri, Gianluca Picchi, a cui è andata la delega sulla legge 185 che regola le autorizzazioni del commercio di armi con l’estero.
Il gesto ha una valenza importante perché riguarda la possibilità o meno di bloccare il flusso di commesse che partono dal nostro Paese verso l’Arabia Saudita in virtù dell’autorizzazione concessa nel 2016 dal governo Renzi, dal valore di 411 milioni. “Oggi ho presentato un’interrogazione parlamentare – dichiara Ferrara – per conoscere le ragioni per cui non si sia ancora provveduto a sospendere le consegne delle bombe aeree della Rwm vendute dal governo Renzi all’Arabia Saudita, che le utilizza in Yemen in violazione del diritto internazionale. Vogliamo capire dalla Farnesina, nello specifico dal sottosegretario Guglielmo Picchi, che ha la delega in materia, se la legge 185 del 1990 non fornisce sufficiente copertura legislativa per procedere subito con la sospensione”, conclude il senatore.
Il punto è tecnico e politico allo stesso tempo. Sul piano tecnico, le bombe aeree prodotte a Domusnovas, in Sardegna, dalla Rwm Italia sono il frutto di accordi pluriennali di vendita autorizzati nel corso del 2016 dal governo Renzi. Nel 2016, però, la risoluzione del Parlamento europeo del 25 febbraio chiedeva all’Unione europea di imporre un embargo sulle armi all’Arabia Saudita “tenuto conto delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale”. Tale determinazione non è però stata ritenuta sufficiente dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (Uama), a cui la legge conferisce il potere di concedere le autorizzazioni, e che risponde al ministero degli Esteri, quindi a Picchi che ha la delega, ad accertare le gravi violazioni dei diritti umani che avrebbero potuto costituire un fattore ostativo al rilascio delle autorizzazioni.
Gli interroganti lamentano il fatto che i contratti di fornitura sono secretati e quindi non si possono conoscere le condizioni di una eventuale disdetta, ma ricordano anche che il Trattato internazionale sul commercio di armamenti (Att), ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014, stabilisce che, “qualora, a seguito dell’iniziale concessione di un’autorizzazione all’esportazione di materiali d’armamento, uno Stato esportatore venga a conoscenza di nuove informazioni rilevanti, esso può rivalutare la suddetta autorizzazione dopo eventuali consultazioni con lo Stato importatore”.
Da qui la richiesta al governo di sapere se la legge 185 non fornisca già di per sé “sufficiente copertura legislativa per procedere alla sospensione prevista dall’articolo 15”. E quindi si passa alla sottintesa domanda politica: il governo, e in particolare la Lega, ha la volontà o meno di chiudere questa partita che desta ormai uno scandalo insostenibile?
IL Fatto 16.5.19
Il “culto del Duce” mai rinnegato del numero uno
di Urbano Croce
Non manca mai, Marco Bonometti, alla ricorrenza del 28 aprile. In molti dicono di averlo visto più di una volta seduto, tra i banchi della chiesetta sotto il colle Cidneo, a Brescia. Qui l’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana organizza ogni anno una messa per ricordare l’anniversario della morte di Benito Mussolini. Tutti in città sanno della messa in suffragio che si tiene nella Chiesa di S. Stefano, anche quest’anno partecipata da “pezzi” della Brescia che conta, imprenditori medi e piccoli, oltreché da ex militanti nostalgici del Msi.
Bonometti non ha mai negato le sue simpatie fasciste. Famosa la polemica per la sua partecipazione ufficiale a Salò all’inaugurazione, qualche anno fa, della mostra “Il culto del Duce”. E chi frequenta il suo ufficio sa quanto ci tenga alle collezioni di busti di Mussolini, in bella mostra.
Giacca, cravatta e fascio littorio per l’ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna da tempo la scalata in Confindustria nazionale, fallita una prima volta nel 2016, e che da ieri è indagato per finanziamento illecito ai partiti.
Bianchi e repubblicani: la carica degli anti abortisti
In Alabama l’interruzione di gravidanza sarà illegale anche in caso di stupro: i medici rischiano fino a 90 anni di carcere
Bianchi e repubblicani: la carica degli anti abortisti
di Giampiero Gramaglia | 16 Maggio 2019
IL Fatto 16.5.19
L’America bigotta e ipocrita di Donald Trump fa un altro passo indietro verso lo smantellamento dei diritti civili conquistati negli ultimi cinquant’anni
Dopo la Camera, il Senato dell’Alabama ha approvato con una netta maggioranza – 25 voti contro sei – la legge più restrittiva dell’Unione sull’aborto, che lo vieta in tutte le circostanze, anche in caso di incesto o stupro. Unica eccezione, quando è in gioco la vita della mamma. Prima dell’Alabama, altri quattro Stati – da ultimo, recentemente, la Georgia – hanno approvato leggi dette “del battito di cuore”, che proibiscono l’aborto da quando si percepisce il battito del cuore del feto, cioè ancora prima che una donna s’accorga di essere incinta.
Il voto nel Senato di Montgomery, la capitale dello Stato, era stato rinviato la settimana scorsa, quando la seduta del Senato venne interrotta in un contesto caotico. Il provvedimento deve ora essere firmato dalla governatrice repubblicana Kay Ivey, che non s’è ancora pronunciata, ma che s’è sempre dichiarata contro l’aborto. Se la legge entrerà in vigore, praticare l’interruzione di gravidanza nello Stato sarà un reato punito fino a 99 anni di carcere; solo tentarlo costerà una condanna a dieci anni. C’è il rischio, osservano i critici del provvedimento, che misure così drastiche incoraggino procedure clandestine e penalizzino i poveri e le minoranze, mentre per i ricchi sarebbe più facile aggirare la norma trasferendosi in un altro Stato. Unanime la protesta dei democratici: diversi aspiranti alla nomination democratica per Usa 2020 si sono pronunciati, da Biden a Sanders, alle donne in lizza. Il provvedimento, però, spiegano analisti del New York Times, non è stato concepito per essere attuato, perché le riserve sulla costituzionalità sono numerose, ma proprio perché i giudici sollevino la questione e facciano finire il caso alla Corte Suprema. Su una cui sentenza del 1973, nel caso ‘Roe vs Wade’, si fonda il riconoscimento dei diritto costituzionale di porre termine a una gravidanza, diritto non avallato da nessuna legge federale: fino ad allora, spettava agli Stati decidere in merito. L’Alabama è uno degli Stati più conservatori: il suo politico più in vista è stato George Corley Wallace, governatore per quattro mandati, sempre in corsa per la presidenza dal ’64 al ’76 – e sempre sconfitto -, costretto su una sedia a rotelle per le conseguenze d’un attentato, definito dai suoi biografi “il perdente più influente del XX secolo”, ostinatamente favorevole alla segregazione razziale nel periodo delle lotte degli afro-americani per i diritti civili.
Lo Stato partecipa a un largo movimento conservatore che vuole riportare la questione dell’aborto davanti alla Corte Suprema, sfruttando il fatto che le recenti nomini di giudici conservatori da parte del presidente Trump hanno creato i presupposti per un giudizio che rimetta in forse l’affermazione del diritto costituzionale all’aborto. La partita alla Corte Suprema è forse più aperta di quanto i conservatori non sperino: Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, i due giudici designati da Trump e che dovevano dare alla Corte un’impronta decisamente conservatrice, hanno finora assunto posizioni discordanti in casi che avevano a che fare con la pena di morte, la genitorialità responsabile, i diritti degli imputati
Repubblica 16.5.19
In occitania
Nel castello dell’ideologo nero che sogna la “rimigrazione”
Renaud Camus è il padre di teorie razziste note sul web. Allievo di Barthes, scrittore di nicchia e ormai ex amico di Carrère, è diventato famoso per avere ispirato l’attentatore in Nuova Zelanda
di Anais Ginori
PARIGI - «Chiediamo ai Paesi e alle principali aziende del digitale di agire contro il terrorismo e l’estremismo violento sulla rete». Riuniti a Parigi con altri capi di Stato e di governo, la premier neozelandese, Jacinda Ardern, e il presidente francese, Emmanuel Macron, lanciano ‘l’Appello di Christchurch’ due mesi dopo la diffusione in diretta su Facebook degli attacchi terroristici contro due moschee in Nuova Zelanda. «L’obiettivo è dare indicazioni di lavoro in termini di reattività di fronte ad incidenti come questo e di collaborazione tra piattaforme, Stati e società civile”, sottolinea il comunicato dell’Eliseo.
Ad annunciare la propria adesione all’iniziativa congiunta di Nuova Zelanda e Francia sono stati finora una ventina di capi di Stato e di governo, tra cui i premier del Canada, Justin Trudeau, della Norvegia, Erna Solberg, dell’Irlanda, Leo Varadkar. Arrivati a Parigi la premier britannica Theresa May, il re Abdallah di Giordania e il presidente senegalese Macky Sall che saranno i primi a firmare il codice volontario per sradicare il terrorismo e la propaganda online, stilato dalla Arden e da Macron. Gli Stati Uniti hanno invece deciso di non firmare l’appello. «Continuiamo a sostenere gli obiettivi generali rappresentati dall’appello», precisa la Casa Bianca secondo cui la rinuncia a sottoscrivere l’appello è motiva dal rispetto della «libertà d’espressione».
Numerose invece le adesioni dalla Silicon Valley: Google, Amazon, Facebook, WhatsApp, Instagram, YouTube, Microsoft, Twitter. Le aziende, si impegnano anche a rivedere «gli algoritmi e gli altri processi che potrebbero guidare gli utenti e amplificare il contenuto terroristico ed estremistico violento».
PLIEUX - C’era una volta un castello con un nobile decaduto che dall’alto della sua torre scrutava l’orizzonte, convinto che l’invasione dei barbari fosse alle porte. Di persona Renaud Camus è molto meno astioso, inquietante e apocalittico della favola nera che racconta nei suoi ultimi testi.
L’intellettuale francese apre il portone del suo castello in Occitania con un largo sorriso, sgranando gli occhi azzurri. Si fa fotografare volentieri davanti a un’installazione intitolata “la Ferocia” dell’artista corso Marcheschi o seduto dietro alla gigantesca scrivania, circondato da sterminate biblioteche. Camus vive nel castello con il suo compagno, un ragazzo elegante come pure lo scrittore settantenne, in lino beige, panciotto e cravatta.
L’improvvisa notorietà all’estero non gli dispiace. Anche se è dovuta a un giovane neozelandese che ha sterminato cinquanta persone nella moschea di Christchurch, a qualche migliaio di chilometri dal Château de Plieux. Il manifesto del terrorista neozelandese Brenton Tarrant era intitolato “The Great Replacement”, espressione coniata da Camus per descrivere la presunta sostituzione dei popoli europei con altri popoli, in particolare arabo-musulmani.
«Quel manifesto era mortalmente noioso, non l’ho neppure terminato» commenta con una punta di snobismo, evitando di lasciare trasparire qualsiasi pathos. «E comunque nei miei testi è scritto che sono profondamente non-violento e pacifista ». Cambia discorso. Quando all’estero cercano notizie sulla “grande sostituzione”, racconta, trovano estratti di “Tricks”, uno dei suoi pochi libri tradotti: racconti erotici omosessuali, pubblicati negli anni Settanta con la prefazione del suo mentore, Roland Barthes.
C’è stato un tempo in cui Camus era un intellettuale rispettato. Prima di diventare un reietto, una “Bestia Nera”, come dice lui stesso, era uno scrittore di culto per alcuni, incensato da Libération e Nouvel Obs. La sua personale svolta è cominciata nel 2002 quando ha deciso di fondare il partito dell’“In-noncence”, con l’obiettivo di lottare contro la «grande sostituzione».
Ha già partecipato simbolicamente a due presidenziali e ora si candida alle europee. Nella lista in vista del 26 maggio figura un rappresentante dei gilet gialli e un francese di origine algerina convertito al cattolicesimo. Uno dei punti del programma recita: «Non bisogna uscire dall’Europa ma farne uscire l’Africa che la colonizza profondamente ». Nel 2015 era stato condannato proprio per aver scritto che i musulmani stavano «colonizzando » l’Europa. «Ribadisco », dice ora. Plaude a Matteo Salvini che ha chiuso i porti ma preferisce Viktor Orbán, ancora più deciso nel bloccare l’immigrazione. Marine Le Pen non lo convince perché, dice, «tergiversa » e non vuole organizzare la «rimigrazione». È la sua ultima, pericolosa proposta, ovvero il trasferimento in massa all’estero di chi non è in regola e ma anche di chi «non segue usi e costumi francesi». Plieux è un delizioso paesino arroccato sulle colline, con le case in pietra, le persiane azzurre, ringhiere di fiori. È una cartolina della Francia eterna. Ma Camus si accende di rabbia quando ne parla: aProvate ad andare a fare una passeggiata di sera vicino alla stazione di Agen», la città più vicina. «Guardate come si è ridotta Parigi e immagino sia così anche per Roma. Ormai il cammino è segnato: si va verso le bidonville globali».
Dice cose f atte apposta per scandalizzare, come quando si paragona ai partigiani che combattevano l’occupazione tedesca. Il suo discorso colto è pieno di buchi e contraddizioni. Ha delle cifre sulla presunta “sostituzione”? Glissa, è «un sentimento, una percezione». Gli facciamo notare che dall’Ottocento in poi sono state accolte varie ondate di migranti, anche italiani. Risposta: «Erano individui, non popoli che volevano rimpiazzare il nostro». La sua, dice, non è xenofobia. «Anzi sono contro l’appiattimento dei popoli e delle civiltà, voglio preservare la possibilità di mondi stranieri».
Nella grande sala da pranzo c’è un ritratto di Emmanuel Carrère. I due scrittori si sono frequentati per vent’anni. «Ti ammiro e ti considero come un amico» scrive Carrère in una lettera pubblicata nella raccolta “Propizio è avere ove recarsi”. L’amicizia è finita con la metamorfosi di Camus da raffinato dandy a “ideologo di estrema destra”, “oracolo dei gruppi identitari”: così l0 definisce adesso Carrère osservando l’evoluzione di un uomo solo che a un certo punto ha trovato, anziché lettori, dei seguaci. «Quegli individui la cui vocazione è ingabbiare in pesanti certezze un pensiero danzante» osserva Carrère che forse alludeva a qualcuno come Dominique Venner, amico di Camus, suicida nel 2013 dentro a Notre-Dame. Verner aveva lasciato un messaggio in cui sosteneva che il “Grand Remplacement” era una delle ragioni del suo gesto.
Niente sembra turbare Camus, come se la sua controversa dottrina politica fosse anche un’opera letteraria.
In cima alla Torre c’è la scrivania dove l’estate scrive il suo diario, al quarantesimo volume, già pubblicato da Fayard prima che l’editore rompesse con lo scrittore maledetto. Oggi l’intellettuale si autopubblica, vende su Amazon, si promuove sui social. Vive con la pensione e qualche diritto d’autore. Spiega di non avere fondi per fare campagna elettorale. È riuscito però a registrare un video che, secondo le regole elettorali, sarà trasmesso sulla tv pubblica nei prossimi giorni.
Nell’ultima versione de “Le Grand Remplacement” Camus ha aggiunto una lunga risposta a Carrère in cui ironizza sul comodo appartamento del romanziere nel decimo arrondissement .
Vi siete più sentiti? «Sono diventato un infrequentabile anche per lui». Un altro storico amico, Alain Finkielkraut, ha interrotto le relazioni. «È d’accordo con me ma dice che l’espressione ‘grande sostituzione’ è troppo violenta».
Per consolarsi parla del successo di Michel Houellebecq, che l’ha citato in “Sottomissione” immaginandolo come ghostwriter di Marine Le Pen alle presidenziali del 2022. Lui nega sia possibile. Potenza della letteratura.
Repubblica 16.5.19
Il reportage
“Per noi pochi yuan e lauree inutili” La crisi taglia le ali ai ragazzi di Pechino
Il rallentamento dell’economia e l’ostilità di Trump frenano le aspettative dei giovani cinesi che non trovano impieghi adatti al titolo di studio. Ma la disoccupazione miete vittime anche nel digitale e nell’industria
dal nostro corrispondente Filippo Santelli
PECHINO — La parolaccia che tormenta i giovani d’Occidente, disoccupazione, non fa parte del vocabolario di Yue Lian. Come molti studenti cinesi dell’ultimo anno, anche questa 23enne laureanda in management della finanza ha già ricevuto un paio di offerte. Ma se oggi è qui a Pechino, tra le bancarelle di una fiera del collocamento allestita allo Stadio dei lavoratori, è perché non facevano al caso suo. «Una banca mi ha proposto l’ufficio marketing – racconta stringendosi al petto la cartellina dei curriculum come fosse un tesoro – però non ho studiato cinque anni per fare telefonate». Così si è vestita bene, pantaloni neri e cappotto cammello, ha preso il treno dallo Hebei, dove si trova il suo Tangshan College, ed è arrivata nella capitale, per capire se può offrirle qualcosa di più adatto ai sacrifici che la famiglia ha fatto per lei. «Trovare un posto a 6 mila renminbi al mese (circa 900 euro, ndr ) non è un problema, se ti accontenti di pagare l’affitto e mettere insieme il pranzo con la cena. È trovarne uno buono che è difficile. Sono in ansia. Decisamente, non potevo laurearmi in un anno peggiore».
Decisamente, basta guardare i dati di aprile: industria, investimenti e consumi crescono tutti sotto le attese, gli ultimi ai minimi da 15 anni. L’economia cinese stava già rallentando, poi a peggiorare le cose sono arrivati i dazi di Trump. In questo clima le aziende ci pensano tre volte prima di assumere. Così il premier Li Keqiang ha riconosciuto con inusuale candore che il Paese quest’anno avrà un problema nuovo, inedito: l’occupazione. I funzionari di Partito devono dargli assoluta priorità, in particolare per «i lavoratori migranti e i nuovi laureati». Categorie che sulla carta non potrebbero essere più lontane: da una parte il proletariato dal colletto blu di cantieri e fabbriche, dall’altra i giovani di belle speranze e camicia bianca. In realtà due facce dello stesso intoppo sulla strada cinese verso il benessere.
«Hai visto che pure Didi e Meituan licenziano?», fa Wang Yin, 22 anni e modi spicci. Didi, cioè la Uber cinese, e Meituan, l’app delle consegne a domicilio, sono metafore del momentaccio. Campioni hi-tech, nei cui uffici lavorano brillanti programmatori. Ma anche colossi del terziario, che impiegano autisti e fattorini. «Mi avevano detto che studiare nuovi media era la scelta migliore, ora invece anche il digitale se la passa male », dice Wang. Non è questione di essere “choosy”, rivendica, «ma di trovare qualcosa che sia adatto alle mie aspettative». Dà un’altra occhiata agli stand, dove i reclutatori intervistano file di candidati. Un’azienda immobiliare, una di trattori, una che organizza corsi privati, non il massimo. «Le grandi imprese come Alibaba o quelle straniere ormai prendono solo gente con il master – fa lei, laureata che noi diremmo triennale – quelle piccole non hanno cultura dello sviluppo professionale e possono fallire da un giorno all’altro».
Certo che un cattivo lavoro è meglio di nessun lavoro. E per quanto manipolato, il tasso di disoccupazione ufficiale è di poco superiore al 5%, visto dall’Italia fa invidia.Ma la religione dell’istruzione come ascensore sociale è ancora viva tra le famiglie cinesi, colonna del patto sociale che legittima il Partito. Per questo il fattaccio di Mindray è stato uno choc: l’azienda biomedicale di Shenzhen aveva reclutato 450 laureandi nelle migliori università del Paese, salvo poi avvisarne 200 che il loro contratto era saltato, gli affari vanno male. Dopo tre giorni di tempesta mediatica, alla fine l’impresa è tornata sui suoi passi, confermando le assunzioni.
Ma se carriera e stipendi dorati non sono più scontati neppure per gli alunni di Beida o Tsinghua, gli atenei di punta del Paese, figurarsi per quelli di seconda o terza fascia. Quest’anno la Cina sfornerà 8 milioni e 340 mila laureati, un record storico, tutti con pari aspettative. La metro di Pechino è tappezzata di pubblicità di app per cercare lavoro.
Il paradosso è che in un Paese dove le imprese private creano il 90% della nuova occupazione, ora qualcuno rivaluta i cari vecchi dinosauri di Stato. Almeno a loro il governo può vietare i licenziamenti. «Io ero fortunata – dice con occhi timidi e nervosi Zhang Mei, 30 anni – lavoravo alle risorse umane di una grande azienda ferroviaria di Stato, ma poi è stata spostata in un’altra provincia per le norme anti inquinamento».
Zhang, che qui a Pechino ha famiglia, ha deciso di non seguirla, incassando una mini indennità e mettendosi alla caccia di nuovo posto. «Ma le imprese private non si fidano di me, e ci sto mettendo più tempo del previsto, sono già due mesi. Non c’è nessun tipo di supporto nella ricerca».
Ecco l’altra mancanza, per un Paese che di fatto non ha mai avuto problemi di impiego: non esistono politiche in tema. Per 40 anni l’esplosione cinese ha fatto da sola, garantendo un posto ai contadini che arrivavano in città, e uno meglio pagato ai loro figli. Ora il governo sta cercando di inventarsi qualcosa, un embrionale sistema di formazione professionale per gli operai disoccupati causa robot, che però in tanti casi non sanno neppure leggere.
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