Corriere 15.5.19
«Film su Buscetta, un’offesa nell’anniversario di Capaci»
Il figlio del caposcorta di Falcone protesta. Favino: un omaggio
di Felice Cavallaro
PALERMO È una polemica che esplode nel giro di poche ore. Ma, alla vigilia del 23 maggio, proprio mentre a Roma, alla Rai di viale Mazzini, si svolgeva la conferenza stampa per le manifestazioni in ricordo della strage di Capaci, è bastato un scambio di messaggi su Instagram per fare quasi apparire come «un traditore» Pierfrancesco Favino nei panni del pentito Tommaso Buscetta. Appunto, Il traditore, il film che arriva nelle sale proprio il 23 maggio e che sbarca a Cannes con soddisfazione del regista Marco Bellocchio. Adesso sorpreso dal messaggio firmato Giovanni Montinaro, il figlio del caposcorta di Falcone, Antonio, sulla scelta della data: «È solo marketing, da orfano di quella strage mi permetto di scrivere che è decisamente offensivo...».
Non è un riferimento all’opera, né al film né al maestro di tanti capolavori, come lo stesso Giovanni spiega, come precisa anche la madre, Tina Martinez, ormai mascotte della polizia italiana, ma la scelta del giorno di uscita stimola in loro qualche perplessità. E non sono gli unici. Qualche dubbio viene anche a Emanuele Schifani, il figlio di un altro dei tre agenti caduti con Falcone e Francesca Morvillo. Ma lui è tenente della Finanza ed evita di esprimere giudizi su una opzione che inquieta la madre, Rosaria, la vedova che ai funerali tuonò contro boss e complici occulti: «Una questione di opportunità, sarebbe stato meglio dal 24 in poi...».
Il primo a replicare è stato Favino al quale Giovanni Montinaro aveva peraltro espresso il suo apprezzamento: «Nulla di personale, da ignorante in materia, la considero un attore fenomenale...». E, letto il complimento, l’attore ha risposto con tono affettuoso: «Caro Giovanni credo di poterla rassicurare circa il desiderio, nella scelta della data, di omaggiare e ricordare quel giorno senza retorica e senza il desiderio di approfittare di un evento così tragico. Le assicuro anche che nel film non troverà niente che potrà farglielo pensare. La saluto con affetto e la ringrazio di avermi scritto».
Parole apprezzate da Tina Montinaro che vedrà volentieri il film «dal 24 in poi», come precisa anche lei per spiegare cosa succede ogni anno: «La bomba è entrata in casa nostra e ne portiamo i segni addosso».
Per motivare le ragioni che hanno spinto Rai Cinema ad impegnarsi nell’opera ha provveduto il numero uno del ramo, Paolo Del Brocco, parlando di un modo per «mantenere accesa la memoria e combattere con la potenza del cinema la battaglia per la legalità».
Parole gradite a Maria Falcone che, pur preoccupata da una coincidenza «a rischio speculazione» evoca le parole del fratello: «È sempre meglio parlare di mafia che non parlarne». Come si farà il 23 maggio anche accogliendo migliaia di ragazzi in arrivo a Palermo.
Il Fatto 15.5.19
Cina, la nuova Via della Seta apre la strada ai carri armati
Le paure del Pentagono - La strategia di Pechino: approfittare dei patti commerciali per costruire basi militari in Medio Oriente e nell’Artico
di Giampiero Gramaglia
Una rete di basi militari stesa intorno al mondo, per proteggere gli investimenti del programma d’infrastrutture globali One Belt One Road, la cosiddetta “Nuova Via della Seta”: il Pentagono ritiene che Pechino stia progettando l’allestimento di punti d’appoggio militari, di terra, d’aria, di mare e spaziali, secondo quanto contenuto in un rapporto pubblicato ai primi di maggio. L’esplicita percezione d’una crescente minaccia militare cinese coincide con un picco delle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino, innescato dalla guerra dei dazi riaccesa, quasi in contemporanea alla pubblicazione del rapporto, dal presidente Donald Trump. È un cane che si morde la coda: così, Pechino vede sempre più ostili gli Usa di Trump, che cercano di frenare l’espansione del potere cinese.
Attualmente, Pechino ha solo una base militare al di fuori del proprio territorio, a Gibuti; ma ne starebbe progettando altre, fra cui una in Pakistan, tradizionale quanto inaffidabile alleato dell’America, cercando di darsi una dimensione da Super-Potenza globale. Altre basi cinesi potrebbero trovare collocazione nell’Asia sud-orientale, nel Pacifico occidentale, in Medio Oriente. E, un conflitto militare a bassa tensione tra Cina e Usa è già in atto nel Mar cinese meridionale. La scelta di Trump di alzare il livello del confronto, invece di smussare le tensioni, rischia d’indurre Pechino a riavvicinarsi ancora di più a Mosca: è notizia recente un ciclo di manovre navali congiunte russo-russo-cinesi, denominate “Joint Sea 2019” e svoltesi nelle acque di Qingdao, provincia dello Shandong, coinvolgendo due sommergibili, 13 navi di superficie, elicotteri, aerei. Unite dalla rivalità con gli Usa, Pechino e Mosca condividono – dicono fonti della Difesa cinese – una “partnership strategica contro un mondo unipolare”, a dominio americano. A settembre 2018, circa 3.200 soldati cinesi presero parte ai “giochi di guerra” in Siberia, le più grandi manovre mai fatte in Russia con la partecipazione di circa 300 mila militari.
Ora il Dipartimento per la Difesa Usa prevede che la Cina punterà “su quei Paesi con cui ha relazioni d’amicizia consolidate e interessi strategici coincidenti, come il Pakistan, in funzione pure anti-indiana, o che hanno l’abitudine d’accogliere installazioni militari di altri Paesi”. Potrebbe però succedere che gli sforzi cinesi siano ostacolati da Paesi preoccupati d’avere sul proprio territorio una presenza a tempo pieno delle forze armate cinesi. Il rapporto del Pentagono è stato pubblicato dopo l’uscita d’una nota d’allarme per l’intensificarsi delle attività cinesi al di là del Circolo polare artico, che potrebbero aprire la via a una rafforzata presenza militare nella Regione, compreso lo spiegamento di sottomarini come arma di deterrenza contro un attacco nucleare. La Danimarca, dal canto suo, ha espresso preoccupazioni per l’interesse cinese per la Groenlandia: Pechino si propone d’installarvi una stazione di ricerca e una stazione a terra per i satelliti, d’espandere la sua presenza nel settore minerario e d’ampliare e rinnovare le strutture aeroportuali. I danesi temono che “le ricerche civili fungano da supporto a una rafforzata presenza militare cinese nell’Artico”. L’anno scorso, fonti di stampa riferirono di trattative per una base cinese nel “corridoio del Vacan”, nel Nord-Ovest dell’Afghanistan, una striscia stretta (tra i 12 e i 60 km) e lunga (circa 260 km), nella provincia del Badakhshan, che rende più agevole il transito tra Cina e Pakistan via Tagikistan. Poco tempo fa, il Washington Post ha individuato un avamposto militare dove sarebbero dislocate numerose truppe cinesi nel Tagikistan orientale.
Il presidente cinese Xi Jinping intende proiettare il potere o almeno l’area d’influenza del suo Paese al di là del tradizionale e immediato “cortile di casa” dell’Asia orientale e sud-orientale. Ciò può comportare un rafforzamento della presenza della Cina nelle Istituzioni internazionali – dall’Onu all’Accordo di Parigi contro il riscaldamento globale –, l’acquisizione di tecnologie d’avanguardia e il consolidamento di una forte presenza economica in tutto il mondo. A ciò s’accompagna, non esplicitata, una proiezione globale della forza militare cinese in terra, mare e cielo e nello spazio. Nel rapporto del Pentagono si legge che “i leader cinesi stanno usando la leva del loro crescente potere economico, diplomatico e militare per consolidare la loro prominenza regionale ed espandere l’influenza internazionale”. Nel Mar cinese meridionale, Pechino ha già stabilito avamposti militari. Qui s’intersecano interessi di vari attori: dalla Cina alla Malaysia, agli Usa.
Repubblica 15.5.19
Nei campi di Gaza “Meglio fuggire”
Tra i disperati della Striscia: la miseria e l’incubo di una nuova guerra “Marceremo ancora, altro che festival”. Ma i giovani non vogliono restare
di Davide Lerner
Campo profughi Bureij (striscia di Gaza) — Le gigantesche casse legate con una corda sul pick-up di Hamas rimbombano a tutto volume: «È il giorno della nakba (la tragedia palestinese della sconfitta del 1948, ndr.)», dice una voce solenne, mentre la macchina fa il giro del campo profughi di Bureij, nella striscia di Gaza. «Ci ritroviamo tutti alla frontiera domani, è disponibile servizio autobus per la manifestazione », scandisce esaltata. All’imbrunire, dopo il canto del muezzin, famiglie allargate e amici si sono riunite per l’iftar, il grande pasto che rompe il digiuno del Ramadan. I commensali ascoltano il richiamo e si domandano: «Tu di che villaggio sei?». Persino Oussam Jabber, ventiquattrenne studente di ingegneria alla Islamic University di Gaza City, mai stato in vita sua fuori dalla striscia, risponde senza esitare: «Mughar, vicino all’odierna Yavne». I suoi amici nominano prontamente i villaggi dei nonni: a Gaza quasi tre quarti della popolazione è di figli e nipoti di profughi. Fra le botteghe del campo i muri sono ricoperti di disegni che inneggiano alla resistenza: nel cielo ormai buio si intravedono le luci intermittenti di un elicottero militare israeliano.
«La nostra anima non procede in avanti, solo in cerchi. E ci condanna a cadere e ricadere sempre nelle stesse buche». Torna in mente la frase dello scrittore israeliano Eshkol Nevo attraversando l’infinita serie di check-point e la gabbia lunga quasi un chilometro che conduce da Israele nella piccola Sparta creata da Hamas nella striscia di Gaza. Esattamente un anno fa decine di migliaia di israeliani invadevano piazza Rabin a Tel Aviv per osannare Netta Barzilai, la vincitrice del festival di musica pop di Eurovision. A nessuno sembrava importare della carneficina consumatasi poche ore prima a Gaza: sessanta morti nella giornata peggiore delle proteste di frontiera, in corrispondenza con l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme.
Oggi, un anno più tardi, l’industria edonistica di Tel Aviv si scatena per la nuova edizione dell’Eurovision, e una Gaza ancora più soffocata e impaurita prepara il settantunesimo anniversario della nakba. «Ci saranno manifestazioni in cinque diversi punti della frontiera», dice Moein Abu Oakal, un ufficiale di Hamas che fa parte del comitato organizzativo. «L’occupazione si illude che i vecchi muoiano e i giovani dimentichino», dice, parlando del presunto “diritto al ritorno” degli eredi dei 700mila fuggitivi palestinesi del 1948. «Dal tetto di casa mia a Beit Lahia vedo i coloni di Zikim occupare il villaggio di Herbia, da dove venivano i miei genitori: ho le carte inglesi e ottomane che comprovano la proprietà di quella terra. I diritti non si lavano via col tempo » .
Alla marcia non ci sarà però Jamal, 19 anni, un ragazzo con gli occhi vivaci seduto in attesa sulla sua valigia al valico di Rafah, fra la striscia e l’Egitto. «Ho deciso di andarmene e non tornare più, la vita a Gaza è diventata insopportabile», dice, «la situazione è pessima, non c’è lavoro, voglio studiare ingegneria al Cairo e rimanere lì», spiega, aggiustandosi i capelli col gel. Non potendosi permettere di corrompere gli ufficiali, il suo permesso di uscita è scivolato sulla lista d’attesa per dieci mesi, ma c’è chi lascia Gaza anche in pochi giorni. Da quando l’Egitto ha aperto il confine lo scorso anno sono decine di migliaia i palestinesi che hanno deciso di andare via. «Non si tratta ancora di un esodo, ma è senza dubbio un nuovo fenomeno », dice un rappresentante della Ue a Gerusalemme.
Passeggiando fra i poster di martiri e combattenti che ricoprono tutta la striscia di Gaza anche Riwad e Bashar Ashour, 38 e 45 anni, fanno sapere di avere messo la loro casa in vendita. È spaziosa, con vista mare nel quartiere di Rimal, il più di lusso di Gaza City. Prezzo: 80.000 dollari. «Faccio l’insegnante di fisica al liceo, ma da quando il ministero dell’Istruzione è nelle mani di Hamas non posso essere promossa e vengo trattata in maniera orribile», racconta Riwad. «La vita qui è miserabile, c’è sempre la guerra, voglio andare in Turchia», dice. L’emigrazione ha colpito anche la comunità cristiana, che contava 3000 fedeli nel 2009 ed è scesa ormai a poco più di mille: «Per i cristiani è più facile avere permessi d’uscita e quindi emigrare», spiega George Antone nella graziosa chiesa cattolica di Zeitoun, un quartiere di Gaza City.
La striscia di Gaza si percorre in un’ora e mezza a piedi da Est a Ovest e in un’ora scarsa di macchina da Nord a Sud. Dappertutto gli abitanti ricordano con spavento l’escalation di dieci giorni fa, ma mantengono la vitalità considerata tipica dei palestinesi “Ghazawi”. «Alle 5.30 di sabato 5 maggio ricevo una chiamata. Un israeliano mi dice: evacuate il palazzo perché fra pochi minuti bombardiamo», racconta Mohamad Doghmash di fianco a un edificio di molti piani distrutto a Gaza City. «Avevo negozi e appartamenti ma non ho potuto portare via nulla: dopo il missile di avvertimento, è arrivato il bombardamento vero e proprio », dice.
Non è andata meglio a Hussam El-Haddad, 40 anni, che ha avuto la cattiva idea di aprire un negozio di vestiti e giocattoli per bambini in un palazzo in cui c’erano anche degli uffici della Jihad islamica. Gruppo armato più attrezzato dopo le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio armato di Hamas, la Jihad è spesso presa di mira dai raid israeliani.
A poca distanza dall’ex negozio di Hussam c’è Palestine Square, il cuore pulsante di Gaza City. I due monumenti dello slargo sono un carro armato israeliano risalente alla guerra del 2008-2009, con un grande pugno chiuso di metallo simbolo di resistenza, e poi una fenice scolpita, simbolo di rinascita. La Grande Moschea Omari, incastonata coi suoi tappeti blu nel vecchio mercato, offre alcuni dei rari scorci graziosi della striscia. Tutto intorno la città vecchia è affollata di persone che fanno compere in vista degli iftar. Salim Al-Rayes tiene un negozio di vecchi libri, giornali da collezione e oggetti antichi: «Si vede un turista una volta al mese, con le frontiere sigillate c’è poco da fare». dice. Sulle trattative fra Israele e i militanti si mostra scettico: «Il peggio deve ancora venire». Per ora l’unico risultato concreto, a parte la tregua, è stato l’arrivo degli aiuti finanziari del Qatar. I poveri di Gaza City si spintonano nelle code alle poste per ritirare 100 dollari ciascuno: un aiuto prezioso in uno dei posti più poveri del pianeta.
Repubblica 15.5.19
Normalità del fascismo 2.0
di Ezio Mauro
Incredibilmente, non basta ancora quel che sta succedendo. La discussione sul fascismo 2.0 sta imboccando una tangenziale che la porta lontano dal cuore del problema, come se la questione oggi fosse un ritorno della forma dittatoriale che ha deformato l’Italia per vent’anni. E poiché quel ritorno è impossibile, si salta immediatamente alla conclusione assolutoria: tutto questo allarme attorno al pericolo fascista è inutile, sproporzionato, ideologico. Meglio parlar d’altro e far finta di niente, e ancora una volta non vedere, non sentire, rifiutandosi di capire.
La novità dell’Italia di oggi, invece, è questo emergere di una cosa che chiama se stessa fascista, rivendica quell’identità e agisce di conseguenza, con incursioni e intimidazioni. Il problema dunque, per chiunque eserciti una responsabilità istituzionale, ma anche soltanto politica e intellettuale, è domandarsi dove nasca questo fenomeno, come mai torni a manifestarsi proprio oggi, e perché ritrovi forma, spazio e consenso. Vorrei aggiungere un punto che a me pare decisivo: non è il problema di una parte, e cioè esclusivamente della sinistra italiana. È un problema della democrazia e della cultura, e negarlo non è soltanto un’ambiguità, ma qualcosa di più: una manifestazione di corrività.
L’altro elemento di svalutazione di questo neo-post-fascismo è l’area circoscritta in cui si manifesta, e il suo peso politico ridotto: tanto rumore — dicono i nuovi negazionisti — ancora una volta per nulla. La risposta a questa obiezione è semplice.
l continua a pagina 39
segue dalla prima pagina P erché le manifestazioni di segno fascista si sono moltiplicate nell’ultimo anno, le organizzazioni che si richiamano a quell’impronta crescono e complessivamente questa espressione di irriducibilità più testimoniale che nostalgica ha preso un suo spazio abituale e addirittura un suo ruolo consolidato nel paesaggio politico febbricitante del nostro Paese. Fino a trasformare il 25 aprile in un elemento di contrasto identitario al vertice dell’esecutivo, con una divisione polemica tra grillini e leghisti. Col risultato che non sappiamo più qual è oggi il pensiero sul fascismo del governo della Repubblica nata dalla Resistenza.
Naturalmente le differenze dal passato sono molto forti: e ci mancherebbe altro, visto che viviamo in una democrazia, in mezzo all’Europa, nel 2019. Queste differenze non vanno sottaciute, ma al contrario evidenziate per capire la natura e la portata del fenomeno. Che nasce non in continuità, ma prescindendo dal tragitto del regime, dal suo progetto di sopraffazione, dalla sua conclusione: in una parola, dalla tragedia nazionale che ha determinato. Ciò che oggi si definisce fascismo è fuori dalla storia, perché solo così può rivendicare un’identità senza farsi carico del peso di un’eredità, al riparo dal giudizio del secolo. Si tratta di una presenza situazionista, che nasce e si spegne nell’azione, con il gesto che torna a riassumere una politica, come estrema semplificazione del populismo.
Ma nello stesso tempo questa presenza-spot che appare e scompare, senza più una teoria perché tutto si riassume, si giustifica e si consuma nella violenza della prassi, trova un radicamento nel sociale, pescando nel disagio e ancor più nell’emarginazione, entrando di periferia in periferia nei territori abbandonati dalla politica tradizionale, perché considerati perduti. Qui si impianta un welfare nero alla rovescia, all’insegna dell’egoismo invece che della solidarietà, dell’esclusiva invece che della condivisione, separando gli “italiani” (o addirittura “i romani”, direbbe Di Maio) dagli altri, dai maledetti.
Tutto questo, com’è evidente, nasce da un vuoto di radicalità della proposta politica abituale di fronte alle aree estreme del Paese, alla loro richiesta di una rappresentanza che è già immediatamente una protesta, forse una domanda di vendetta sociale, comunque una denuncia di abbandono, in ogni caso una proiezione di antagonismo. Emarginazione, disagio, vendetta, confisca privatistica del welfare, ribellismo: se ci aggiungiamo l’ideologismo fascista, di per sé alternativo a tutto il sentimento repubblicano (istituzioni, Costituzione, tradizione democratica), dobbiamo prendere atto che la miscela è pronta, e c’è da stupirsi che non esploda.
Cosa c’entra, a questo punto, ripetere che il fascismo non tornerà? È sicuramente vero. Ma è altrettanto vero che è già tornato, in quest’altra forma disadorna e spuria, che dovrebbe bastare per domandarci dove abbiamo sbagliato, qual è la falla della nostra democrazia da cui questo fenomeno è riuscito a transitare ricoagulandosi, ritrovando voce, forza, legittimazione.
Ecco, questo è il punto. Preoccupati di non vedere questa risorgenza che pure si riferisce ostinatamente al fascismo, di non sopravvalutarla, di non chiamarla per nome per non riprendere una pratica e una cultura antifascista, noi stiamo legittimando questa espressione estemporanea ma ormai sistemica, episodica ma sempre meno casuale, di destra estrema ideologicamente connotata. La lunga e insistita banalizzazione che negli ultimi vent’anni è stata fatta del fascismo storico, unita a una costante svalutazione dell’antifascismo, si è tradotta in uno sdoganamento delle forme spontanee e irrituali in cui quel segno politico torna in tutt’altre dimensioni e con tutt’altre ambizioni a manifestarsi: dicendoci tuttavia che c’è uno spazio fascista, orgogliosamente fascista, nell’Italia di oggi.
La questione dovrebbe preoccupare in primo luogo la destra cosiddetta moderata, se vuole esistere e se pensa di farlo con quella cultura.
Perché rischia di essere non solo sfidata dal radicalismo fascista, ma contagiata, macchiata, mutilata e infine impedita. Dovrebbe inquietare i liberali, impegnati almeno in teoria nella manutenzione della democrazia italiana, e dei suoi capisaldi: cosa direbbero, cosa avrebbero già detto, se a sinistra riemergesse uno stalinismo organizzato e ramificato, capace di negare il gulag o di giustificarlo, prescindendo dal giudizio della storia, o ignorandolo?
Infine, la questione interpella Salvini, al punto che non può più evitarla. Ha strisciato la suggestione fascista, l’ha evocata ritraendosi e ritornando ad alludere, ha richiamato dalle tenebre il tabù nazionale e lo ha lasciato a mezz’aria, come un incantatore di serpenti dilettante.
Da vicepresidente del Consiglio dovrebbe chiarire il suo pensiero sul fascismo storico, da ministro dell’Interno dovrebbe giudicare e valutare la sua ultima e attuale reincarnazione.
Non penso a misure di polizia: ma a un giudizio politico, che finora è mancato. Col sospetto e il risultato che alla ferocia xenofoba e alla fobia securitaria di questo governo il fascismo 2.0 serva come retroterra, retrogusto, retropensiero: una cornice nera per condizionare il Paese, giustificando il governo della paura.
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