lunedì 13 maggio 2019

Repubblica 13.5.19
Attacco al Papa
A chi non piace Francesco
di Alberto Melloni


Alberto Melloni, ordinario di storia del cristianesimo, è segretario della fondazione per le scienze religiose. Ha diretto nel 2017 il Meridiano di don Milani e i tomi su Benedetto XV e su Lutero del Mulino
Sulla chiesa di Roma e il suo vescovo si combatte una battaglia politica, spirituale, teologica di vasta portata. Non per caso o per una distorsione mediatica: ma per ragioni teologiche, spirituali e politiche di cui queste ore forniscono diverse evidenze. L’amalgama reazionario (anti)europeo che da anni cerca di impadronirsi del tradizionalismo cattolico per farne il collante ideologico delle destre, sceso dalla Polonia lungo le terre asburgiche fino a Milano, non poteva che puntare su Roma. Ma a Roma, dove contava di sedurre un sistema ecclesiastico con obliqui messaggi fondamentalisti, ha trovato Francesco. E ha scatenato contro di lui una lotta che vuole colpire nella sua persona tutta la Chiesa.
Francesco, gesuita da combattimento, nella lotta non si è piegato e non si è spaventato davanti al silenzio dei vescovi: ha affrontato a viso aperto una campagna fatta di strumentalizzazioni, dubbi, memoriali, pseudo epigrafi, perfino accuse di eresia. E ha vinto portando gli avversari sul suo terreno: che è quello dell’autenticità evangelica sulla quale muove i suoi uomini — Krajewski è uno di questi — con implacabile leggerezza.
Nel discorso del 9 maggio scorso alla diocesi di Roma — degno di Gregorio Magno — ha spiegato che la chiesa non deve risistemare le sue magagne: deve invece "reggere lo squilibrio" e liberarsi dal funzionalismo ascoltando il "grido della gente". Cosa che il Papa ha fatto ricevendo la famiglia di Imer Omerovic e Senada Sejdovic (i "rom di Casal Bruciato") con un amore che non si può simulare. La parola e il gesto papale hanno avuto due risposte. Una è stata quella del cardinale Krajewski che — palesemente dotato di coraggio e cacciaviti di marca rigorosamente bergogliana — è andato a ricollegare rocambolescamente la luce a uno stabile occupato da famiglie che già conosce e frequenta da quando Francesco gli ha affidato il compito di portare ai poveri non i quattrini del Papa, ma il suo amore.
Non dunque un gesto teatrale o imbeccato dal caso, ma un buon esempio "pontificio": che in teoria lo espone al rischio di un procedimento penale che se arrivasse avrebbe un valore epocale. Dopo tante denunce di preti e prelati per violenze, omertà e misfatti, avere un cardinale denunciato per aver portato ai bambini la corrente necessaria a vedere i cartoni animati e conservare il latte in frigo sarà un miracolo di don Di Liegro e comunque una grazia per il cattolicesimo.
Per ora è arrivata una dose standard della propaganda salviniana: che attacca Krajewski, pur sapendo che insolentire lui vuol dire insolentire il Papa in persona. Ma, come ha mostrato il caso Arata, c’è un sistema di relazioni "corte" con i gruppi antibergogliani ai quali evidentemente una parte della Lega non può permettersi di disobbedire: e se c’è l’ordine di attaccare il Papa, cosa che in Italia non si fa mai, mettendo nel mirino Krajewski, deve farlo.
L’altra risposta l’ha data Forza Nuova con una manifestazione che ha disturbato l’Angelus del Papa in piazza San Pietro. Un gesto grave che non si riduce a una pagliacciata fascista. Perché profanare un tempio di preghiera dopo la serie di attentati che hanno colpito i fedeli in sinagoga, in moschea, in chiesa, vuol dire o essere pericolosamente ignari di ciò che si fa e dunque manipolabili da qualunque burattinaio o esserne pericolosamente consapevoli e dunque partecipare della lenta progressione.
Additare la persona del pontefice come meritevole di una vendetta suprematista in territorio italiano (tutta via della Conciliazione e la piazza sono sotto giurisdizione italiana) richiede gesti inequivocabili delle autorità preposte all’ordine pubblico e della magistratura. Altrimenti rischiano che il Papa mandi Krajewski a staccargli la luce.


Corriere 13.5.19
Fascisti e democrazie
Lezioni (storiche) da Torino
di Ernesto Galli della Loggia


È noto che la XII delle Disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione vieta la ricostituzione «sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista». Assai meno noto però è il secondo comma di quella disposizione (anche perché ormai decaduto). In esso si disponeva che a dispetto del riconoscimento della qualità di elettori a tutti i cittadini, ai «capi responsabili del regime fascista» il diritto di voto e l’eleggibilità fossero negati: ma non per sempre. Per non più di cinque anni, solo per cinque anni: poi basta (praticamente dunque solo per le elezioni politiche del ’48).
Lo ripeto: si trattava non di fascisti in generale bensì dei «capi responsabili del regime fascista», vale a dire di coloro che avevano presumibilmente organizzato lo squadrismo e le spedizioni punitive, contribuito in modo decisivo all’instaurazione della dittatura, che avevano occupato le più alte cariche del governo e del partito, erano stati membri del Gran Consiglio, plaudito alla guerra d’Abissinia, all’alleanza con Hitler e alla guerra, avevano approvato le leggi razziali. Ebbene, neppure gente di questa risma la Repubblica volle mettere politicamente al bando: dopo un breve intervallo di tempo (solo cinque anni) li restituì ad una normale condizione di cittadini nella totale pienezza dei diritti politici.
C ome mai questa indulgenza? Forse perché l’ispirazione antifascista di quelli che con una certa enfasi ci siamo abituati a chiamare i nostri padri costituenti conobbe un momento di momentanea debolezza? Niente affatto naturalmente, la ragione è un’altra. È che l’Assemblea costituente ritenne saggiamente che la nascente democrazia italiana, reduce tra l’altro da una guerra civile, avesse tutto da guadagnare in termini di legittimazione e quindi di solidità nel mostrarsi verso i suoi nemici anziché rigidamente (e seppur giustamente) sanzionatoria, il più inclusiva possibile. Pensò quindi che bisognasse avere fiducia nel fatto che le norme che regolano lo spazio pubblico democratico all’insegna del confronto e della libera discussione fossero capaci di avere la meglio su qualunque radicalismo (e quale spazio pubblico più rappresentativo di quello costituito dalle elezioni?). Ovviamente ad una condizione: che entro il suddetto spazio pubblico ci si muovesse sempre in modo pacifico.
Un presupposto essenziale della democrazia è che gli esseri umani siano esseri mediamente assennati e ragionevoli e che di conseguenza basti il libero dibattito delle opinioni a far emergere tra di loro l’orientamento più conveniente e giusto facendolo risultare vincente. A patto per l’appunto che non intervenga la violenza ad alterare le cose. È per questo che un principio cardine della democrazia liberale è che tutte le opinioni devono essere libere di esprimersi, anche le più sciocche, crudeli o antidemocratiche. Ciò che è essenziale è che chi professa tali idee si limiti a divulgarle con la parola o con lo scritto senza far ricorso a mezzi violenti. In questo modo, infatti, quelle idee, per quanto funeste, urteranno infallibilmente sempre, alla fine, contro il buon senso della maggioranza e non avranno mai la meglio. È precisamente per ciò che in tutte le democrazie vi sono leggi che puniscono con la necessaria durezza l’uso della violenza politica, cioè della violenza volta ad alterare il processo politico o ad aggredire chi la pensa diversamente. E infatti, non a caso, i medesimi autori della Costituzione, pochissimi anni dopo l’entrata in vigore di questa, ritennero opportuno approvare in aggiunta ai numerosi articoli del codice penale adatti allo scopo una legge che sanzionava in modo particolare oltre l’apologia di fascismo tutta una serie di gesti e di comportamenti ispirati ai modi e alle pratiche del fascismo.
In società complicate e frantumate come le nostre è assolutamente inevitabile che vi sia, diciamo, l’uno per cento della popolazione che crede che la terra sia piatta, che Auschwitz non sia mai esistita, che i vaccini siano dei veleni o che il fascismo sia stato una bellissima cosa. Pensare che non possa o non debba essere così è da illusi o da sciocchi. Pertanto, supporre che in Italia possa non esserci un certo numero di nostalgici di Mussolini e del suo regime significa supporre qualcosa di inverosimile. Ebbene, che cosa bisogna farne allora di questi nostri concittadini? Impedirgli di riunirsi, di parlare e di tenere un comizio? Vietargli di scrivere un manifestino o un giornale, di pubblicare un libro? Mandarli al confino? Arrestarli tutti per attuare tali divieti, con il bell’effetto magari che qualcuno di loro decida allora di entrare in clandestinità e di mettersi a sparare?
La risposta dovrebbe essere evidente. Eppure ogni volta che come per il Salone del libro a Torino si rende visibile la sparuta presenza di qualche gruppuscolo fascista nel nostro Paese, ogni volta che qualche decina di energumeni di CasaPound mette fuori la testa, nessuno del fronte antifascista si attiene all’aurea regola liberale secondo la quale le parole e le idee sono sempre permesse e che solo le azioni se incarnano una fattispecie penale, quelle sì vanno invece impedite e duramente perseguite e sanzionate. No, in Italia questa regola sembra non valere. Di conseguenza, anziché prendersi la briga di indicare e denunciare se ci sono le azioni suddette — ripeto tutte previste e sanzionate dal codice penale — anziché chiedere alla magistratura di intervenire, si preferisce evocare le vacue genericità di Umberto Eco sull’ur-Faschismus, lanciare il milionesimo allarme sul ritorno del fascismo, la milionesima deprecazione sull’«onda nera» che monta. Spacciando alla fine per chissà quale luminosa vittoria della libertà aver fatto chiudere lo stand di una scalcagnatissima casa editrice di serie zeta, diretta da un signor nessuno che travolto da un’inaspettata notorietà non gli è parso vero di poter far sapere al mondo che lui è ancora fascista.
Va detto con chiarezza. Tutto ciò, oltre ad essere intimamente poco serio, è anche ben poco in armonia con i principi di una democrazia liberale. E agli occhi di chi invece vorrebbe che l’antifascismo non si scostasse mai da tali principi appare solo come un parossismo ideologico e una povera strumentalizzazione politica. Qualcosa di assai diverso da quanto pensarono e fecero settant’anni fa i padri della nostra Costituzione: i quali tra l’altro, a differenza degli odierni settari, che cosa fosse il fascismo lo sapevano bene.

Il Fatto 13.5.19
“Caro Salvini, ecco perché sulla canapa ti sbagli”
La pianta della discordia - Polemiche tra il M5S e il Carroccio sull’erba light (mercato da 40 milioni) e su quella medica. Il Movimento fermato dal ministero dell’Agricoltura
La crociata della Lega ccontro i negozi che vendono canapa a basso contenuto psicotropo, sono circa un milione
di Virginia Della Sala


“Non avevo un lavoro, non sapevo come pagare le bollette. Oggi, con il mio piccolo negozio, certo non sono diventato ricco ma almeno insieme a mia moglie riesco a badare alla casa e a quello che serve a mia figlia”: Giovanni gestisce un piccolo Cannabis shop a Roma, la città con la maggiore densità di negozi di questo tipo in Italia. Partecipa alla manifestazione di protesta che si è tenuta a Roma sabato, in piazza San Giovanni. Racconta che gli introiti maggiori arrivano dalla vendita dei fiori della pianta. “Certo, chi compra i fiori a volte è anche attratto dagli altri prodotti e li prova – spiega – ma alla fine quasi tutti cercano le infiorescenze”. Gli oli, i lecca lecca, gli infusi, sono per intenditori (la pasta a base di cannabis, iperproteica, è utilizzata soprattutto da chi frequenta le palestre).
Tecnicamente, i fiori della canapa a basso contenuto di sostanze psicotrope (per legge se ne può produrre con un Thc tra lo 0,2 e lo 0,6% mentre di solito quella che si compra in strada ne ha per circa il 12%) sono definite infiorescenze. Mentre parliamo con Giovanni, un’oretta circa, nel suo negozio entrano almeno tre persone. Non ci sono ragazzini, hanno tutti tra i 30 e i 40 anni, spendono intorno ai 30 euro. “Credere che questi negozi aiutino a diffondere le droghe tra i giovani è assurdo – dice il titolare –, qui vengono soprattutto adulti, con molti soldi da spendere e che hanno magari deciso di smettere con le canne illegali perché hanno messo su famiglia o perché l’erba spacciata ha cominciato a fargli male, ma non vogliono rinunciare al sapore e alla sensazione di relax. Inutile dirlo, poi: l’erba illegale costa molto, molto meno”.
La polemica sulla cannabis light va avanti da mesi ed è una guerra combattuta sin dall’emanazione della legge che ne ha dato il via. La coltivazione di quella che in realtà è definita “canapa industriale” in Italia è prevista dalla legge 242 del 2016. La norma regola la coltivazione delle piante, ne descrive tipologie ammesse e limiti, ma non parla di vendita né della produzione dei fiori, la parte che viene fumata. Vulgata vuole che questo riferimento sia assente per volere del centrodestra che lo ha fatto escludere durante la discussione della legge in commissione. È infatti solo una circolare del ministero dell’Agricoltura del 22 maggio 2018 a specificare che “pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242 del 2016 né tra le finalità della coltura né tra i suoi possibili usi, le infiorescenze rientrano tra le coltivazioni destinate al florovivaismo, purché derivino da una delle varietà ammesse”. I negozi possono quindi venderle ma “ad uso tecnico”. Cosa poi ne faccia il consumatore è un problema suo.
A luglio dello stesso anno, però, il ministero dell’Interno tenta un’altra mossa e fa la guerra alle percentuali: spiega che se la legge prevede che i coltivatori possano produrre canapa con Thc fino allo 0,6% a patto che abbiano piantato semi da 0,2, lo stesso non vale per il venditore che invece deve rimanere sotto il limite più basso. Un’altra interpretazione. La norma , infatti, è bacata: tanto che le sentenze arrivate finora sulla questione e sui sequestri effettuati in tutta Italia sono contrastanti. A fine maggio dovrà essere la Corte Costituzionale a sezioni riunite a mettere chiarezza.
Intanto, però, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha inviato una direttiva ai prefetti con indicazioni precise su come procedere nei controlli ai negozietti. Sostiene che in generale la vendita delle infiorescenze sia illegale, ordina una stretta sui controlli, prevede “un’approfondita analisi del fenomeno”, “una puntuale ricognizione di tutti gli esercizi e le rivendite presenti sul territorio”, “una verifica del possesso delle certificazioni su igiene, agibilità etc” e poi la vicinanza a “luoghi sensibili” come scuole, ospedali, parchi giochi e così via. Una mossa che sa di propaganda: se un canapa shop ha in vendita prodotti che rispettano le soglie di legge (che dovranno essere confermate dalla Cassazione) e rispetta le certificazioni di igiene, come si potrà vietarne l’apertura dove vuole? Su quali basi?
Nel balletto politico, che vede sull’altro fronte il Movimento 5 Stelle (che ha più volte ribadito che negli shop non si vende droga e che è promotore di una legge sulla legalizzazione) ha preso posizione in questi giorni anche il Partito Democratico: “Critico la guerra che Salvini ha iniziato a fare contro i canapa shop – ha detto sabato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, intervistato da Maria Latella su Sky tg24 – la lotta allo spaccio va fatta alla mafia, per le strade, combattendo il traffico di droga”. Nella stessa giornata, a Roma e a Torino, in centinaia sono scesi in piazza. “Salvini continua a ripetere che chiuderà i negozi – spiega Giovanni Foresti, referente del Coordinamento piemontese unitario per la legalizzazione della canapa – ma con queste affermazioni rovina un mercato legale”. Un mercato da 40 milioni in Italia, con oltre mille shop aperti negli ultimi due anni e 10mila tabaccai che vendono i prodotti (la community italiana è ben raccontata nel libro di Matteo Gracis, “Canapa, una storia incredibile”, Chinaski Edizioni con la prefazione di Beppe Grillo). A Torino, dopo le parole del ministro, è stato annullato il “Salone internazionale della canapa”. Salvini lo aveva definito “uno scempio”. E in molti hanno rinunciato al proprio stand.

Il Fatto 13.5.19
La parola ai greci: prima e dopo la cura della Troika
L’incontro con lavoratori e cittadini avvenuto quando Syriza stava per salire al potere, nel gennaio 2015. Quattro anni dopo, quale è la loro situazione? L’economia va meglio ma resta la delusione
di Amelie Poinssot


Li avevamo incontrati quando Syriza stava per salire al potere, nel gennaio 2015. All’epoca Irini, Dimitris, Maria, Christos, Yannis, Annita, Diana, Vanguélis e Katerina ci avevano raccontato le difficoltà a cui dovevano far fronte, ma anche le loro convinzioni e aspettative. Quattro anni dopo, quale è la loro situazione? Siamo andati dunque ad Atene e in regione per incontrarli di nuovo. Dai loro racconti emerge che la loro situazione sul piano economico è globalmente migliorata, ma tante sono le delusioni e le difficoltà che talvolta persistono.
Maria, 46 anni, impiegata
Quando l’abbiamo incontrata nel gennaio 2015, Maria era molto arrabbiata. Dopo cinque anni di crisi finanziaria, aveva raggiunto Syriza e cominciato a militare nel sindacato dell’Olpe, l’azienda leader in Grecia nella raffineria di petrolio dove Maria lavora. Lo stipendio le era stato tagliato del 15% e diversi dipendenti erano stati licenziati. Oggi l’azienda è diventata una gallina dalle uova d’oro. La direzione è cambiata, siamo riusciti a recuperare gli stipendi di prima della crisi e stiamo anche negoziando nuovi aumenti. Sono molto fiduciosa per i miei figli e il loro futuro”.
Sul futuro dell’Olpe resta tuttavia un punto interrogativo: il governo riuscirà a impedire che venga interamente privatizzata? Maria ha scritto due lettere al primo ministro per difendere la partecipazione statale nell’azienda. Penso che il governo farà il possibile. Nel 2015 non avevo capito perchè aveva trasformato il No al referendum in un Si ai creditori, invece, ha seguito la strada giusta”.
Vanguélis, 30 anni, cuoco
Dopo aver aperto un’osteria con la zia, nel 2014, Vanguélis ha dovuto cedere l’attività che non andava bene e, dopo un breve periodo di disoccupazione, durante il quale ha cercato attivamente lavoro, due anni e mezzo fa, ha finalmente trovato un posto in un ristorante di Psyri, nel centro di Atene. “Sul piano economico, la mia situazione è migliorata molto. Non ho più lo stress dell’imprenditore e per me è meglio così. Ma se riesco a cavarmela non è certo per merito dei nostri dirigenti che non hanno fatto niente per le classi popolari”. Se il governo ha di recente preso delle misure per aumentare il salario minimo, non ha modificato invece la soglia del reddito imponibile, che resta sempre molto basso, secondo Vanguélis. “Tsipras aveva promesso che avrebbe soppresso l’imposta fondiaria sulla prima casa e non lo ha fatto. Segue le istruzioni del Fondo Monetario Internazionale e di Angela Merkel e cura gli interessi dei grandi gruppi”. Nel 2015, Vanguélis era andato alle urne per la prima volta e aveva dato il suo voto a Syriza. Quest’anno non voteròper le elezioni europee né per le municipali”
Annita, 44 anni, giornalista
Una delle prime promesse elettorali di Alexis Tsipras a essere stata mantenuta una volta al potere è stata la riapertura dell’Ert, la radiotelevisione pubblica greca, chiusa dal governo Samaras, nel 2013. Anche Annita, giornalista nell’azienda pubblica, ha ritrovato il suo lavoro. Ma dopo essersi battuta per quasi due anni per salvare la sua tv, ha deciso di cambiare posto di lavoro. Da redattrice web è passata a occuparsi della produzione e realizzazione delle trasmissioni. Lavora tanto, fino allo sfinimento, per uno stipendio inferiore a quello che prendeva prima della crisi. Sola con tre figli a carico, ha bisogno di aiuto per pagare l’affitto. “L’incubo ora, per quanto mi riguarda, è Kyriakos Mitsotakisa”. Ovvero il leader della destra, e presidente del partito Nuova Democrazia, che sta adottando una linea politica sempre più dura e potrebbe vincere su Syriza alle prossime elezioni.
Christos, operaio, 41 anni
Christos risponde con entusiasmo al telefono quando riprendiamo contatto con lui dopo quattro anni. “La mia situazione non ha più niente a che vedere con quella del 2015”, esclama. Christos era stato licenziato nel 2009 all’inizio della crisi. Dopo sette anni di disoccupazione, aveva ricominciato a trovare qualche lavoretto nel 2016. Dall’inizio del 2018 lavora in un’azienda di calcestruzzo. Si tratta di contratti alla giornata, come spesso accade in Grecia nel settore delle costruzioni, ma il lavoro è in regola: Christos versa contributi per la pensione e ha di nuovo la copertura sanitaria. Nel frattempo si è anche allontanto dal collettivo in cui militava prima dell’arrivo di Syriza al potere e che aiutava numerose famiglie in difficoltà con la colletta e la distribuzione di prodotti alimentari. Ormai ha meno tempo a disposizione e ritiene inoltre che la gente ha meno bisogno dell’aiuto delle associazioni. Christos e la compagna, che invece è ancora disoccupata, possono permettersi ormai di andare al cinema o al teatro di tanto in tanto. Quest’anno sono riusciti a prendere dei giorni di vacanza che hanno passato sull’isola di Egina, una delle più vicine da Atene. Hanno anche di nuovo voglia di fondare una famiglia, un’idea abbandonata quattro anni fa.
Irini, 36 anni, analista
Nel 2014 , Irini e il compagno, Yorgos, avevano partecipato alla creazione di una cooperativa per la vendita diretta di prodotti alimentari a Exarchia, il quartiere di Atene culla della sinistra e dell’anarchismo e vivaio di artisti. Ma l’attività non ha funzionato come speravano. Irini e Yorgos oggi hanno due figli. Entrambi continuano a lavorare nel settore informatico che non è stato colpito dalla crisi e che è in gran parte finanziato da sovvenzioni europee. Un tempo Irina era vicina a Syriza. Ma l’evoluzione della società greca degli ultimi anni le ha lasciato l’amaro in bocca. “Fino al 2015 speravo che la Grecia sarebbe diventata il paese della mobilitazione sociale, che la popolazione avrebbe mantenuto un atteggiamento radicale. Invece oggi la mobilitazione è inesistente, la sinistra è frantumata e a Exarcheia si vedono solo turisti! L’esperienza di Syriza al potere ha rivelato quanto lo spazio per una politica di sinistra nei fatti resta limitato”.
Dimitris, 35 anni
Dimitris non lavora da quattro anni. Nella cittadina del Peloponneso dove vive, Aigio, sente di girare a vuoto. Si occupa degli ulivi di famiglia, ma quest’anno la raccolta è scarsa. Ha anche lavorato in nero a giornata in alcuni ristoranti, ma a un certo punto ha deciso di smettere: “Non voglio più lavorare senza versare contributi per la disoccupazione”. In tanti, tra le conoscenze di Dimitris e della moglie, si sono esiliati, chi nelle isole per lavorare nel turismo, chi ad Atene o all’estero. L’ultimo, lo scorso settembre, ha preso un volo per la Germania per andare a lavorare come infermiere in un ospedale. Dimitris però non ha perso le speranze.
Katarina, 57 anni, ingegnere
Katarina, ingegnere specializzata nell’alimentazione, non ha mai perso il suo lavoro, neanche negli anni dell’austerità. Ma la crisi ha risvegliato in lei una coscienza militante e politica. Nel 2011 ha partecipato al movimento degli Indignati. Poco tempo dopo ha raggiunto Syriza. A inizio 2015, quando l’avevamo incontrata per la prima volta, militava in un caffè associativo che tentava di ricreare il legame sociale in un quartiere difficile di Atene. “Quando Syriza è arrivato al potere, pensavamo che le iniziative basate sulla solidarietà sarebbero scomparse. Invece c’è ancora bisogno di aiuto e molte persone restano mobilitate”. Katarina ritiene che, nonostante i compromessi a cui ha dovuto piegarsi, il governo Tsipras sia rimasto fedele ai suoi valori.
Oggi è candidata al consiglio municipale di Atene sulla lista di Syriza. “Non per essere eletta – precisa -, ma per apportare il mio sostegno”.
Yannis, 62 anni
Dal 2015 Yannis alterna contratti a tempo e periodi di disoccupazione. Ha lavorato come imbianchino in un municipio, poi a giornata sul cantiere navale di Perama, nella periferia del Pireo. Ora è senza lavoro ma, rispetto alla prima volta che lo abbiamo incontrato, dice che economicamente sta meglio. Grazie agli assegni di disoccupazione che riceve nei mesi di inattività e le sovvenzioni sociali instaurate dal governo Tsipras, riesce a mantenere la famiglia: la moglie, i tre figli, di cui due vivono ancora con i genitori e una nipote. Ci mostra con un certo orgoglio le due card a cui ha diritto, una per gli acquisti alimentari, l’altra per i prodotti di altro genere. Tutti i mesi le carte vengono ricaricate di 250 euro ognuna. Come disoccupato, Yannis ha anche diritto alla gratuità dei trasporti ad Atene e provincia e, poiché non è proprietario, riceve un sussidio casa che copre quasi la totalità dell’affitto. “Ormai mi avvicino alla pensione, che non sarà superiore ai 600 euro”
(traduzione Luana De Micco)

Repubblica 13.5.19
La storia
Alla vecchia stazione Sud
Da Freud a Brecht un museo a Berlino per i grandi esiliati
Mezzo milione di tedeschi e austriaci scapparono dal nazismo. La Germania li ricorda con un omaggio ai geni in fuga
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO Thomas Mann lo chiamava "l’asma del cuore". È il dolore dell’esilio, il destino che colpì innumerevoli ebrei e oppositori del regime costretti dai nazisti a scappare, ad abbandonare i loro Paesi d’origine. Secondo alcune stime, si trattò di mezzo milione di persone — 360mila tedeschi, 140mila austriaci. C’è ormai un’ampia letteratura su Marlene Dietrich e Billy Wilder e la Hollywood dei tedeschi e degli austriaci. O sulla colonia dei Brecht, dei Mann, dei Feuchtwanger e degli Adorno che trascorsero il dodicennio più buio della storia tedesca sulla costa californiana, tra Pacific Palisades e Santa Monica. E tra quelle centinaia di migliaia di esuli, fuggiti non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, ci sono ovviamente geni come Walter Gropius, Hannah Arendt, Hedy Lamarr, Albert Einstein o Siegmund Freud.
In Germania, Paese attentissimo alla memoria storica e soprattutto alla ricostruzione dei crimini del nazismo, mancava finora un museo dedicato all’"asma del cuore", alle sofferenze e alle vite gli esuli — come dimenticare Stefan Zweig che si tolse la vita all’estero o Willy Brandt che fu meschinamente accusato di aver trascorso gli anni del nazismo in Norvegia. E così la capitale che più di ogni altra è abituata a mostrare al mondo le cicatrici del Novecento, Berlino, ha deciso di dedicare finalmente un museo a questo importante pezzo di storia tedesca e austriaca.
La scintilla è una lettera del 2011 di un’illustre esule, il Nobel della letteratura Herta Mueller, ad Angela Merkel. Allora la scrittrice scappata a Berlino trent’anni fa dalla Romania di Ceaucescu, scrisse alla cancelliera che «in nessun luogo di questo Paese esiste un posto che possa spiegare il significato dell’esilio attraverso il racconto di singoli destini. I pericoli della fuga, la vita sofferta nell’esilio, l’estraneità, la paura e la nostalgia di casa». Secondo la grande scrittrice cresciuta nella minoranza tedesca in Romania, «un Museo dell’Esilio potrebbe aiutare i giovani a capirne il significato. Sarebbe un esercizio di educazione alla partecipazione».
Entro il 2025 i terreni intorno all’Anhalter Bahnhof, la vecchia stazione sud di Berlino da cui partivano i treni per l’estero ma anche quelli per Auschwitz, ospiterà 4.000 metri quadri di video e documenti, comprese interviste che gli organizzatori stanno svolgendo in questi mesi agli esuli ancora vivi.
Finora al progetto per un Museo dell’Esilio si sono messi a lavorare a testa bassa soprattutto i privati.
Il fondatore della casa d’aste Villa Grisebach, Bernd Schultz, che lo ritiene «un progetto del cuore» e ha già investito sei milioni di euro per avviare la fondazione. E la squadra che si è buttata a capofitto nel progetto, e che, a parte Schultz, conta altri cervelli illustri. C’è l’ex direttore del meraviglioso museo della Storia tedesca ed ex assessore alla Cultura della capitale, Christoph Stoelzl e le note curatrici Meike-Marie Thiele e Cornelia Vossen.
Schultz ha raccontato al quotidiano Tagesspiegel che dal 1965 colleziona arte e che «in centinaia di viaggi a New York, in California, a Londra e ovunque nel mondo ho incontrato esuli, le loro collezioni, le loro perdite, i loro destini — e il debito che abbiamo nei loro confronti. L’esilio fa parte della memoria collettiva di questo Paese. Chi può ricordare al giorno d’oggi, ad esempio, che Lucian Freud era nato a Berlino?».

https://spogli.blogspot.com/2019/05/repubblica-13.html