Il Sole Domenica 12.5.19
Il filo tra Martin ed Emanuele
Scoperte. Severino aveva dedicato ad Heidegger la sua tesi di laurea pubblicata nel 1950. Testi e testimonianze dimostrano che il filosofo tedesco seguì il lavoro del pensatore italiano
di Armando Torno
Heidegger ha riflettuto sul pensiero di Emanuele Severino, e non sporadicamente, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. O meglio, una prima nota reca la data 1958. Altre annotazioni sul filosofo italiano risalgono agli anni Sessanta (1968-69). Ora sono stati diffusi testi e testimonianze che provano tale interesse. La notizia è stata resa nota in una conferenza stampa a Milano il 10 maggio, dedicata appunto alle «Nuove scoperte nei manoscritti inediti di Martin Heidegger», dai quali sono emersi passaggi in cui il pensatore tedesco commenta l’italiano. Altro si saprà in occasione del convegno di Brescia, dal 13 al 15 giugno, intitolato «Heidegger nel pensiero di Severino».
Il celebre e discusso maestro tedesco, che morì il 26 maggio 1976 (e nel necrologio Nicola Abbagnano lo ricordò come «Il pastore dell’essere»), negli anni in cui prende in considerazione Severino è riferimento di primo piano della filosofia. Basterà ricordare un evento che cambiò gli atteggiamenti nei suoi confronti: lo straordinario successo che riscosse la conferenza «La questione della tecnica», che Heidegger tenne all’Accademia Bavarese di Belle Arti il 18 novembre 1953. Tutta l’élite colta di quel periodo lo applaudì entusiasta, da Werner K. Heisenberg (Nobel per la fisica nel 1932) a Ernst Jünger a José Ortega y Gasset. Heinrich Wiegand Petzet , autore di una dettagliata biografia del pensatore tedesco (Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976), pubblicata a Francoforte nel 1983, scriverà dell’avvenimento: «Quando concluse con la frase divenuta famosa “Il domandare è la pietà del pensiero” dalla marea di bocche si levò un’ovazione senza fine. Ebbi la sensazione che finalmente il muro di sfiducia e di astio che si erigeva davanti al maestro e amico si fosse infranto. Fu forse il suo più grande successo pubblico» (tali parole si leggono alle pagine 81-82).
I periodi in cui il filosofo tedesco si occupa di dell’italiano seguono la pubblicazione dell’opera Heidegger e la metafisica, tesi di laurea di Severino (prefata da Gustavo Bontadini, suo maestro all’Università di Pavia), pubblicata dall’Editrice Giulio Vannini di Brescia nel 1950; e poi quella del saggio Ritornare a Parmenide, uscito nella Rivista di filosofia neoscolastica nel 1964. Del resto, di quel periodo va tra l’altro ricordato il viaggio che Heidegger compie in Asia minore nel 1965: visita le rovine di Troia, Efeso, Pergamo, raggiunge Istanbul.
A questi due testi di Severino ha fatto dunque riferimento Heidegger; inoltre in una lettera che Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ultimo assistente del pensatore tedesco, ha scritto al filosofo italiano e che è stata letta all’incontro del 10 maggio, si ricorda con precisione quanto accadde. Usiamo direttamente le parole di von Hermann: «Posso affermare che il nome di Emanuele Severino era costantemente presente nella mente di Martin Heidegger, quando negli anni ’60 fui l’assistente di Eugen Fink prima e di Martin Heidegger poi». E ancora, tra significativi ricordi: «Le visite di lavoro settimanali a casa di Martin Heidegger mi permisero non solo di conoscere le sue opere non ancora pubblicate, ma anche il suo modo di rapportarsi con le opere di altri pensatori. Il fatto che Heidegger abbia inserito nelle sue Annotazioni tre osservazioni sul percorso di pensiero di Emanuele Severino, è secondo me eloquente. Inoltre, durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spesso di Emanuele Severino – e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisamente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli».
C’è di più. Von Hermann in questa lettera aggiunge precisazioni che mostrano la stima della filosofia tedesca nei confronti dell’italiano. Vale la pena lasciargli di nuovo la parola: «Ma il nome di Emanuele Severino era ben noto anche nella cerchia attorno al filosofo Hans-Georg Gadamer, con cui intrattenni un contatto molto confidenziale sino alla morte di Gadamer. Poiché fui scelto da Martin Heidegger quale responsabile scientifico dell’edizione integrale delle sue opere, intrattenevo una fitta corrispondenza con Gadamer e lo incontravo spesso personalmente. Tra i fenomenologi di Friburgo le opere Heidegger e la metafisica e Ritornare a Parmenide erano ben note, e Heidegger era molto impressionato da entrambe. Ciò significa che l’originalità del percorso di pensiero di Emanuele Severino s’inserisce a pieno titolo nella serie dei grandi pensatori del XX secolo, assieme a Husserl, Heidegger, Fink e Gadamer».
È il caso di aggiungere che Heinrich Heidegger (sacerdote, figlio del fratello Fritz), in una missiva scritta a Severino e ora resa nota aggiunge altre conferme: «Mio padre, che aiutava suo fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il Suo nome e non si stancava di evidenziare quanto era impressionato Martin Heidegger del modo in cui lei interpretava i suoi testi».
Padre Francesco Alfieri, già collaboratore di Oriana Fallaci (da cui ha ereditato la tenacia), vero segugio di archivi e assistente personale di von Hermann (c’è un loro libro, a quattro mani, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, edito da Morcelliana) ha partecipato alla conferenza stampa parlando di Heidegger interprete di Severino. Ci ha confidato: «Le tre frasi riguardano sia l’opera sulla metafisica sia il saggio su Parmenide. In particolare colpisce la frase di von Hermann, in calce alla lettera a Severino, nella quale dichiara che “Lei è riuscito dove molti hanno fallito”». Che dire? Innanzitutto che la prima nota inedita di Heidegger è questa: Überwindung, das Nichts eröffnet die mataphysische Frage. – Severino über die Metaphysik (1958); ovvero: Oltrepassamento, il nulla apre alla domanda metafisica – Severino sulla Metafisica (1958). Le altre due si conosceranno al convegno di giugno.
Aggiungiamo che nella ricordata prefazione di Bontadini a Heidegger e la Metafisica, dell’agosto 1950 e non può ripubblicata, si legge: «La fatica del Severino, anche indipendentemente dai suoi interessi e dalle sue convinzioni teoretiche, dovrà essere apprezzata da ogni studioso di Heidegger».
Il Sole Domenica 12.5.19
Sylvia Townsend Warner
«Amore e psiche» in una bella favola vittoriana
di Teresa Franco
Nel 1978, lo stesso anno della sua morte, la scrittrice inglese Sylvia Townsend Warner accompagnava la nuova edizione del suo secondo romanzo, The True Heart (1929) con una breve nota in cui spiegava che la storia, ispirata alla favola di Amore e Psiche, le era venuta in mente durante un soggiorno nella zona paludosa dell’Essex, una contea fino a quel momento a lei ignota. Da quel paesaggio il romanzo avrebbe preso i colori dominanti; mentre dal desiderio di conoscenza dell’autrice sarebbe nato il personaggio candido e audace di Sukey Bond, che tra lunghe distese di acqua e prati si muove come un’esploratrice alla ricerca del mare.
Sukey Bond è un’orfana e nel luglio del 1873 ottiene il diritto di crearsi un destino. Per le ragazze senza famiglia questo significa andare a servizio in qualche casa benestante e dimostrare di meritarsi ogni giorno il proprio lavoro. Grazie a una benefattrice, l’affascinante e temibile Mrs Seaborn, Sukey si sposta da Londra in una fattoria a Southend. La lista dei doveri è presto fatta: «non le si chiedeva altro che onestà, industria, pulizia, sobrietà, ubbidienza, puntualità, modestia, fedeltà ai principi della Chiesa anglicana, buona salute e una conoscenza generale dei lavori di casa e della latteria, oltre all’impegno di lavare, rammendare e cucinare semplici pietanze». L’autrice accumula con divertita ironia i principi della morale vittoriana, e concede alla sua protagonista un rispettabilissimo curriculum: nell’orfanotrofio, infatti, Sukey è stata più volte premiata per le sue doti domestiche e per la sua condotta; anche se ha spesso la tentazione di paragonare quello che le succede a un romanzo, l’unico libro che conosce bene è la Bibbia. Il suo cuore è puro; l’amore le appare soltanto nella forma punitiva dei sermoni o in quella chiacchierata e bigotta delle ragazze più grandi. Eppure, quando incontra il signorino Eric, un giovane misterioso che tutti considerano un idiota, se ne innamora perdutamente.
Seguendo il ritmo della favola antica, proprio nel momento di maggiore tensione, gli amanti sono costretti a separarsi. E per Sukey Bond iniziano le peripezie alla riconquista di Eric, con prove al di sopra dei suoi umili mezzi, e aiutanti inaspettati come moderne divinità. In un crescendo di avventure Sukey si troverà persino al cospetto della Regina Vittoria, la sovrana piccola e cortese, così diversa dall’effigie che la ritrae sulle monete. Nella trasposizione ottocentesca del mito, Vittoria è Persefone, anche se Buckingham Palace è una soglia meno inaccessibile e remota del regno dell’Ade. Il gioco di similitudini e travestimenti si arricchisce di piccoli indizi: Miss Bond è destinata al suo futuro sposo dal “legame” indistruttibile iscritto nel suo nome; Mrs Seaborn, invece, è Venere, “nata dalle acque del mare”, le sue vesti ondeggiano emettendo quasi un canto sonoro. Allo stesso modo, Mrs Oxey, la direttrice di un bordello, è Giunone, che nella parodia rimane pur sempre la protettrice dei matrimoni. Il suo ruolo è confermato ancora una volta dall’etimologia: il nome rimanda al mito di “Io” la ninfa da lei trasformata in vacca (ox in inglese), e sottoposta al controllo di Argo e dei suoi cento occhi (qui finiti sulle piume di un meraviglioso pavone che la donna custodisce come una reliquia nella sua casa). Ma le allusioni sono diverse, e talvolta ambiguamente interpretabili, come per esempio, le mele che Eric lancia a Suckey all’inizio del suo corteggiamento: sono quelle del giardino delle Esperidi o dell’Eden?
Sylvia Townsed Warner riscrive la favola di Apuleio cospargendo la sua prosa di luci e ombre, enigmi e rivelazioni, ma anche di una modernissima sensibilità estetica. Su un impianto antico, sa costruire un intreccio degno di un Dickens, con giovani sfortunati, eppure fiduciosi nell’impossibile. Se la storia scorre rapida verso un lieto fine, non mancano irrequietezze e duplicità. Ogni personaggio si muove fragile davanti all’amore, e almeno due monologhi ci restituiscono la profondità dei suoi eccessi: la dolcezza di abbandonarsi all’altro, la crudeltà dell’essere abbandonati.
Educazione sentimentale e ricercatezza stilistica convivono in queste pagine secondo una precisa intenzione poetica. In saggio critico del 1932, accompagnando una selezione di brani tratti dai romanzi di Dickens, Sylvia Townsend Warner si pronunciava in una difesa appassionata di colui che, a differenza dei suoi contemporanei, considerava un maestro. Nel lodare la forza dell’ immaginazione, ricorreva a metafore tipiche della sua epoca: la materia dei romanzi vittoriani si trasformava così nel «profumo insinuante dei fiori». Era un modo di coniugare la prosa di Dickens con un gusto già Woolfoniano. La denuncia sociale con l’arte.
Da una scrittrice poliedrica, poetessa, critica, musicologa e femminista ci giunge, con questa favola semplice e raffinata, il dono prezioso del suo cuore vero.
Il cuore vero, Sylvia Townsend Warner
traduzione di Laura Noulian, Adelphi, pagg. 222, € 16
Il Fatto 12.5.19
È ora di distruggere Facebook
L’appello del co-fondatore - Instagram e WhatsApp devono essere scorporate: “L’azienda, così, minaccia democrazia e concorrenza”
di Virginia Della Sala
“Mark è la stessa persona che ho visto abbracciare i suoi genitori , che procrastinava lo studio, che si è innamorato della moglie in fila per il bagno e che ha dormito su un materasso per terra in un piccolo appartamento anni dopo che avrebbe potuto permettersi molto di più. In altre parole, è umano. Ma è la sua stessa umanità a rendere così problematico il suo potere incontrollato”: inizia magistralmente così l’editoriale del New York Times firmato da Chris Hughes, co-fondatore di Facebook che nel 2012 ha lasciato la società per seguire Obama. Un testo denso e lungo, che ripercorre con dovizia l’ascesa del social e le distorsioni (sue e della storia) per affermare un concetto: Facebook è pericoloso e deve essere “smembrato”.
Hughes è meticoloso. Ricorda che Zuckerberg, con il 60% delle azioni con diritto di voto, ha il pieno dominio del gruppo che a sua volta controlla le tre principali piattaforme di comunicazione digitale del mondo (Facebook, Instagram e WhatsApp). “Solo lui può decidere come configurare gli algoritmi”. Si dice arrabbiato: “Mark è una persona buona. Ma il suo interesse per la crescita lo ha portato a sacrificare sicurezza e civiltà” circondato da “una squadra che ne rafforza le convinzioni invece di sfidarle”. Un pericolo per la democrazia e la concorrenza.
Le accuse. L’editoriale è infatti la nemesi della guerra al monopolio dei giganti del web, che deve approfittare dell’assist dello scandalo Cambridge Analytica. “Bisognava chiedergli di fare davvero i conti con i suoi errori – dice – invece i legislatori che lo hanno interrogato sono stati derisi come troppo vecchi e fuori dal mondo per capire la tecnologia. È esattamente l’impressione che Mark voleva che gli americani avessero”.
I monopoli. L’analisi ripercorre l’impianto economico americano. “Dagli anni 70 – scrive – un piccolo gruppo di economisti, giuristi e responsabili delle politiche ha finanziato una rete di think tank, riviste, centri accademici per insegnare che gli interessi privati dovrebbero avere la precedenza su quelli pubblici”. Poi la politica fiscale e normativa favorevole alle imprese ha inaugurato un periodo di fusioni e acquisizioni. Le dimensioni medie delle aziende sono triplicate. Anche nel digitale.
I social. “Fin dai primi giorni – racconta Hughes – Mark ha usato la parola ‘dominazione’ per descrivere le ambizioni, senza ironia o umiltà”. Prima la gara con Myspace, Friendster, Twitter, Tumblr, poi l’acquisizione di altre società, tra cui Instagram e WhatsApp nel 2012 e 2014. “Ora che impieghiamo così tante persone, non possiamo proprio fallire” avrebbe detto Zuckerberg una notte. “Avevamo circa 50 impiegati – dice Hughes – Ho pensato: non si fermerà mai”.
La crescita.E così è stato. Instagram gli ha garantito il predominio nel photo networking, Whatsapp nella messaggistica mobile. Entrambi guidano la crescita della società. “Facebook ha usato la sua posizione di monopolio per chiudere società concorrenti o ha copiato la loro tecnologia” dice Hughes . Ha dato priorità ai suoi prodotti sulla sua piattaforma, impedito l’uso dei suoi servizi. Nessuna importante azienda di social networking è così nata dal 2011 mentre sono cresciute nei settori del lavoro e dei trasporti. E nessuno l’ha fermato. Dagli anni 70, spiega Hughes, i tribunali sono sempre più riluttanti a bloccare le fusioni se non portano a un aumento dei prezzi per i consumatori. E Facebook è gratis per gli utenti. Il soffocamento dell’innovazione e del controllo non sono più considerati motivi validi per fermare le mega aggregazioni. E così, se gli utenti non sono d’accordo con il modo in cui i loro dati sono trattati, non possono neanche cambiare piattaforma.
Controllo.Facebook ha poi un immenso controllo. “Le regole (degli algoritmi, ndr) sono proprietarie e così complesse che molti dipendenti non le capiscono” spiega Hughes, che ricorda un altro passaggio: la decisione di bloccare (e quindi anche intercettare) i messaggi privati che incitavano al genocidio in Myanmar. “Non è più una piattaforma neutrale ma prende decisioni sui valori”, dice.
Le soluzioni. Commenta poi le ultime scelte di Facebook, dall’aumentare la crittografia alla richiesta di più regole governative. Zuckerberg “non ha paura di regole in più – dice Hughes – ma di un caso antitrust e del tipo di responsabilità che la vera supervisione del governo potrebbe portare”. Lui, che non ha mai avuto né voluto capi. Hughes ricorda che quando Yahoo aveva offerto 1 miliardo per Facebook, Zuckerberg rifiutò. “Non so se voglio lavorare per Terry Semel”, avrebbe detto.
La proposta. Per il co-fondatore, dunque, bisogna annullare le acquisizioni di Instagram e WhatsApp, vietare acquisizioni per diversi anni, sostenere la proposta di legge della senatrice Elizabeth Warren (una task force per monitorare la concorrenza tra le società tecnologiche), unirsi al movimento di intellettuali e politici che si stanno impegnando su questo fronte, dar vita a un’agenzia che tuteli la privacy. O almeno provarci per mettere paura a Facebook&C. come successo in passato per Microsoft e Ibm. Ma serve velocità: “Fino a poco tempo fa, WhatsApp e Instagram venivano amministrati come piattaforme indipendenti. Facebook sta lavorando rapidamente per integrarle”.
Il Fatto 12.5.19
Commercio d’armi. L’Italia vende ancora le bombe dello Yemen
Esclusivo - La relazione del governo sulla 185: il traffico con Ryad è di 108 milioni. Il M5S vuole bloccarlo ma deve vedersela con la Lega e con l’eredità di Renzi
di Salvatore Cannavò
L’Italia continua a esportare verso l’Arabia Saudita quote consistenti di bombe Rwm fabbricate nello stabilimento di Domusnovas in Sardegna e utilizzate nella guerra in Yemen contro i civili. E questo nonostante il governo avesse assicurato che, sulla base della legge 185, che regola il commercio di armi, non sarebbero più state rilasciate autorizzazioni verso Ryad. Scorrendo la relazione annuale del governo al Parlamento sul commercio di armi, che il Fatto ha potuto leggere in anteprima, le autorizzazioni in effetti non ci sono più e l’Arabia Saudita, che nel 2016 era il sesto Paese per esportazione, non compare più. Ma nel 2018 verso l’Arabia Saudita sono comunque state effettuate 816 esportazioni del valore complessivo di 108.700.337,62 euro, di cui 42.139.824,00 per bombe aeree classe Mk80 prodotte dalla Rwm Italia (la cui autorizzazione all’esportazione per 411 milioni di euro, è bene ricordarlo, risale al 2016, governo Renzi). Il problema è che un conto sono le autorizzazioni concesse, che quest’anno ammontano a 5,246 miliardi di euro, un altro è quanto effettivamente transita tramite l’Agenzia delle Dogane: 2,225 miliardi di cui, appunto, 108 milioni riguardano l’Arabia Saudita. Gli effetti delle autorizzazioni, infatti, si realizzano su più anni e le bombe verso Ryad, che questo governo non ha autorizzato, potrebbero però viaggiare ancora per 7-8 anni.
Il problema delle esportazioni verso la monarchia saudita, in cui il dominus assoluto è Mohamed bin Salman, riconosciuto pubblicamente come il regista dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, potrebbe allora costituire un nuovo terreno di scontro nel governo tra Lega e M5S. La prima, con il suo sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, ha la delega sulla 185: è infatti alla Farnesina, sotto il controllo del ministro, che è collocata l’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento diretta dal ministro plenipotenziario, Francesco Azzarello. Il secondo, con un altro sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano e con il senatore Gianluca Ferrara, sta cercando di modificare la legge 185 per garantire una revoca delle autorizzazioni pregresse. Un assaggio del confronto si potrebbe avere la settimana prossima visto che nel M5S si sta studiando la possibilità di un’interrogazione parlamentare che avrà come destinatario proprio il sottosegretario Picchi. Oggetto: se e come modificare l’iter previsto dalla 185.
Il tema è delicato e le imprese degli armamenti sono in fibrillazione tanto da aver segnalato le proprie preoccupazioni allo stesso Azzarello. Fonti diplomatiche spiegano che in caso di modifica degli orientamenti del ministero ci saranno annunci pubblici da parte del governo e questo basta a far ritenere, chi lavora nell’industria della Difesa, che qualcosa in effetti potrebbe cambiare.
Come realizzare le modifiche non è però chiaro e sarà su questo punto che dovrebbe vertere l’interrogazione del M5S. Oggi il potere delle autorizzazioni è nelle mani del ministero degli Esteri che lo esercita tramite l’Uama, istituita dopo la soppressione del Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa (Cisd). La legge, nonostante la soppressione del Cisd sia avvenuta nel 1993, prevede ancora che le revoche siano “disposte con decreto del ministero degli Affari esteri sentito il Cisd”. Che però non c’è più e che il pentastellato Ferrara vuole restituire in modo da “assegnare maggiori poteri di indirizzo e controllo al Parlamento e responsabilizzare nuovamente il governo sulla materia”.
Ma prima che si possa avviare la modifica legislativa le vecchie autorizzazioni continueranno a fare il loro corso. La Rete Disarmo, con Francesco Vignarca e Paolo Beretta, propone un iter più veloce, conferendo immediatamente il potere di revoca al ministro, come previsto dall’articolo 15 della legge, e ignorando il riferimento al Cisd oppure, dice Vignarca, “facendo valere il Cipe che fu indicato come sostituto del Cisd”. Nel M5S dubitano che questa strada sia legalmente percorribile e ricordano che il problema vero sono i contratti secretati cosicché non è chiaro a quali condizioni procedere con la revoca.
Resta il problema, come nota ancora la Rete Disarmo, dell’opacità complessiva della relazione sulla 185 che non aiuta a capire dove le singole commesse vengono realmente esportate. E che conferma lo scambio con Paesi compromessi.
Nel 2018, ad esempio, i primi quattro destinatari di armi italiane sono il Qatar, il Pakistan, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. Il Paese di Erdogan è il più democratico. E, a parte la commessa, molto vistosa, degli elicotteri NH-90 ottenuta da Leonardo in Qatar per 1,6 miliardi, è difficile ricostruire gli altri legami.
Le prime 25 società esportatrici pesano per il 97,18% sul valore esportato ma sono i primi quattro – Leonardo, Rwm, Mbda e Iveco Defence – a rappresentare l’83% del totale.
La Stampa 12.5.19
Wole Soyinka
Sul destino dell’Africa lo spettro del ritorno alla schiavitù razziale
di Wole Soyinka
Il continente africano ne ha passate tante e a tanto è sopravvissuto - schiavitù, ripartizioni imperiali, occupazioni, un esodo umano senza precedenti di cittadini che a fiotti si incamminano nel deserto e attraversano il mare, fuggendo da alluvioni, siccità, carestie, guerre civili ed epidemie. Adesso arriva anche un orrore accecato dal credo, deciso a prolungare l’agonia del continente. Si tratta di una nuova variante di dominio, che sostiene di trarre ispirazione dalla volontà di una Divinità Suprema. Il presunto fervore trasformativo che in teoria la contraddistingue metterebbe i suoi seguaci in una posizione di autorità assolutistica sull’intera gamma umana. La maniera in cui si manifesta sbandiera un trascendentalismo che cerca di superare le traiettorie storiche del jihadismo islamico o del suo equivalente cristiano, la crociata. È dunque una collaborazione tra credi rivali che fornisce una presunta base spirituale onnicomprensiva a sistemi di pensiero considerati ormai antiquati. Si solleticano così visioni apocalittiche nelle menti delle nuove generazioni, che pure fanno i conti con un’epoca sempre più dominata dalla tecnologia.
Prima o poi, la sfida risulta inevitabile: come può rispondere il resto dell’umanità a un delirio talmente imperioso? La risposta da cui, ahimè, si cerca sempre di svicolare è la seguente: l’unica è estirpare alla radice tutti i mezzi capaci di fare il lavaggio del cervello in maniera straordinariamente efficace, utilizzando i meccanismi più persuasivi a portata di mano, compresi quelli tecnologici. La risposta prevede una campagna potente di riorientamento mentale che agisca al livello più profondo possibile. Purtroppo molte nazioni preferiscono optare per l’alternativa di coprirsi gli occhi con una mano, guardando di tanto in tanto fra le dita finché il contagio di massa non sia, come auspicano, del tutto passato. A dirla tutta, vi sono nazioni che addirittura smentiscono la realtà dei fatti. O che eludono il problema. Le società hanno sviluppato un rispetto così empio delle religioni che, persino quando l’abuso e le atrocità indicibili a danno degli esseri umani sono riconducibili senza alcuna ambiguità a dottrine religiose, la lingua con cui si esprime ogni forma di condanna risulta debole, quasi apologetica, persino viscida, il prodotto insomma di una tendenza sociopolitica senza spina dorsale meglio nota come il Politicamente Corretto. [...]
Ci troviamo dunque davanti a un problema di vita o di morte che, con brutalità inusuale, si è ritorto contro un continente che non è estraneo al disprezzo, se non addirittura alla negazione, della natura umana. Non si tratta solo di una questione di sopravvivenza, bensì di esistenza – ma in che forma? La questione è particolarmente pertinente sul fronte africano perché il nostro è un continente le cui popolazioni hanno subito ondate di disumanizzazione nel corso dei secoli, operate a cuor leggero da forze esterne. È triste constatare come la maggior parte dei leader africani si siano assicurati che il continente potesse continuare ad alimentare con gioia la superstizione della natura ciclica della storia, specialmente nelle sue manifestazioni più negative. Aleggia sul destino del continente lo spettro del ritorno all’era tetra della schiavitù razziale, sebbene sotto mentite spoglie.
Corriere La Lettura 12.5.19
Croce, lo strazio dentro
E la rottura con Gentile
di Giancristiano Desiderio
Le lettere che Benedetto Croce e Giovanni Gentile si scambiarono nel corso della loro trentennale amicizia sono state sempre pubblicate separatamente: prima le missive di Gentile, edite con Sansoni e poi con Le Lettere, quindi le epistole di Croce in un volume Mondadori. Il lettore non ha mai avuto il carteggio completo dei due filosofi, prima amici e poi nemici, secondo la sua cronologia. Come se il «dissidio politico» che si consumò tra i due con il fascismo e l’ascesa di Mussolini avesse continuato a pesare sulla loro opera non solo dopo la fine della dittatura, ma anche dopo la loro morte.
Un’anomalia alla quale l’editore Aragno sta ponendo fine pubblicando il Carteggio completo in cinque volumi che costituiscono un capitolo importante sia di storia della filosofia sia di storia d’Italia. Dei cinque tomi curati da Cinzia Cassani e Cecilia Castellani è apparso ora il quarto, che ricopre il periodo dal 1910 al 1914. Il testo presenta delle novità: lettere inedite, soprattutto di Croce, che nella prima pubblicazione furono omesse o «tagliate» per motivi di carattere privato.
Il volume è significativo proprio per il tempo che si racconta e per i fatti che accadono, fra loro intrecciati: la scelta di Croce di rendere pubblico il «dissenso filosofico» tra il suo storicismo e l’attualismo di Gentile, la morte di Angela Zampanelli, la vigilia della Grande guerra. Furono proprio l’amore e la morte della «bella Angelina» — «donna di imperiale bellezza, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna», secondo la descrizione che ne fece Giuseppe Prezzolini — a dettare i tempi della filosofia e indurre Croce a prendere le distanze dall’idealismo attualistico di Gentile: infatti, la Zampanelli morì a Raiano in Abruzzo il 25 settembre 1913 e il celebre articolo di Croce Intorno all’idealismo attuale, con cui si rendeva pubblico il dissenso che c’era tra Croce e Gentile a riguardo della loro stessa cultura filosofica, che aveva negli ultimi dieci anni sbaragliato il campo avverso del positivismo, uscì su «La Voce» nel mese di novembre.
Naturalmente, tra i due fatti non c’è un semplice nesso causale; tuttavia, con altrettanta semplicità si può dire che non ci sia nemmeno casualità. Erano la vita e la morte che facevano irruzione nella filosofia, scombussolandone idee e piani.
Nel testo della Mondadori (1981), non ci sono le lettere del settembre 1913 che riguardano la malattia e la fine di Angela Zampanelli. Nel Carteggio, invece, le lettere ci sono e il dolore che si portano dentro — «la più angosciosa lotta interiore», dirà il 16 ottobre 1914 Croce a Gentile nella lettera parzialmente inedita di cui pubblichiamo un estratto — contribuisce a dare un senso più umano e più intellegibile alla vita di Croce e al rapporto tra i due filosofi dell’idealismo.
Il 25 settembre 1913 Gentile, che ancora non sapeva della morte della Zampanelli, scriveva al suo amico parlandogli di Spaventa e Spinoza, ma era solo uno schermo per parlare di lei e sapere: «Carissimo Benedetto, ho avuto confortanti notizie della salute di Donna Angelina dal nostro Ruta e spero che tu presto possa dirmi che è completamente guarita e che tu sei tornato tranquillo. Ti prego di scrivermi un rigo». E Croce il giorno dopo gli scrisse un rigo, uno solo: «Caro Giovanni, ieri ho perduto la mia diletta Angelina».
Ma perché il destino della donna dovrebbe influenzare la filosofia? Prima di tutto perché la relazione di Croce con Angelina non fu un capriccio, ma un’autentica storia d’amore. Croce visse con Angela Zampanelli vent’anni: dal 1893 al 1913 ossia gli anni in cui Croce divenne Croce. Non si sposarono, ma furono una «coppia di fatto»: la donna gli diede stabilità d’affetti e, come ebbe a dire Augusto Guzzo, il filosofo innamorato fu anche il più creativo. La filosofia dello spirito nacque quando Croce aveva al suo fianco la sua Angela e quando la donna morì Croce non poté fare altro che aggrapparsi al lavoro svolto e così fu spinto dalle lacrime a far emergere la differenza, che sentiva ormai nella stessa carne, tra la sua concezione del pensiero e della vita e quella di Gentile, che per lui sfociava facilmente nel misticismo, generando confusione tra pensiero e azione. Per Croce l’attualismo di Gentile è una «filosofia della storia» che non distingue giudizio e volontà: essa determina così un «tradimento degli intellettuali» che pone le premesse per portare la filosofia al potere, come sarebbe accaduto con il fascismo.
Il dibattito che ne seguì è, forse, tra le cose più alte della filosofia europea e Gentile — come si può leggere nella lettera inedita del 3 dicembre 1913, di cui riportiamo un brano — si preoccupò di mantenere il confronto sul piano ideale. Scriveva: «Intanto, sta pur sicuro che il mio animo è e sarà sempre quello d’una volta: perché non potrebbe essere mai altro. Tu mi parli di gratitudine tua verso di me; e che dovrei dire io? a quali espressioni ricorrere?». Ma la spaccatura tra le due filosofie era profonda perché riguardava il rapporto tra il pensiero e la vita e ciò che vi era in gioco era ciò che era stato «aperto» dalla morte della donna.
Croce lo scrisse ancora una volta in una lettera, il 6 ottobre 1913, ma questa volta a Renato Serra: «Ma mi permetta, caro Serra, di raccomandare a Lei, a Lei che ha il cuore buono, di raccomandarle in questa ora in cui il dolore mi strazia e sconvolge, la serietà della vita. Noi non possiamo vivere di affetti per cose o persone: dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere. E, per non cadere, non c’è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita. Altrimenti che cosa resta? Il lurido suicidio o il lurido manicomio».
Ciò che vi era in ballo tra i due massimi filosofi italiani del Novecento era né più né meno che l’esistenza del male. La diversa filosofia che Croce e Gentile ebbero rispetto al problema del male determinò anche il loro diverso atteggiamento politico verso la guerra mondiale che era, ormai, alle porte (Gentile fu interventista e anti-giolittiano, Croce era sulle posizioni di Giolitti e per la neutralità attendista) e poi verso il fascismo: dal «dissenso filosofico» si passò al «dissidio politico».
Questa differenza di vedute nel concepire la filosofia e la politica, il pensiero e la vita è tutta leggibile nelle ultime parole dell’articolo di Croce ospitato dalla «Voce». Ma se si rileggono quelle parole si sentirà, ancora una volta, il dramma esistenziale del filosofo per la perdita della donna amata: «A me, insomma, la vita appare non come una commedia di equivoci, di gente che si crede malvagia ed è buona, di lagrime versate per isbaglio e che si possano asciugare presto con un sorriso e una carezza come si usa verso i ragazzi che si disperano credendosi grandemente colpevoli e non sono; ma come una tragedia, nella quale, attraverso l’onta e il dolore, si crea faticosamente il bene e il vero, e, attraverso la distruzione della felicità individuale, si crea una serenità dolorosa, che sarà anche felicità (anzi, la vera felicità), ma che quasi si sdegna di essere chiamata con questo nome, che le suona troppo idillico».
Corriere La Lettura 12.5.19
Detesto i faziosi e ho perso la gioia
di Benedetto Croce
Le lettere che Benedetto Croce e Giovanni Gentile si scambiarono nel corso della loro trentennale amicizia sono state sempre pubblicate separatamente: prima le missive di Gentile, edite con Sansoni e poi con Le Lettere, quindi le epistole di Croce in un volume Mondadori. Il lettore non ha mai avuto il carteggio completo dei due filosofi, prima amici e poi nemici, secondo la sua cronologia. Come se il «dissidio politico» che si consumò tra i due con il fascismo e l’ascesa di Mussolini avesse continuato a pesare sulla loro opera non solo dopo la fine della dittatura, ma anche dopo la loro morte.
Un’anomalia alla quale l’editore Aragno sta ponendo fine pubblicando il Carteggio completo in cinque volumi che costituiscono un capitolo importante sia di storia della filosofia sia di storia d’Italia. Dei cinque tomi curati da Cinzia Cassani e Cecilia Castellani è apparso ora il quarto, che ricopre il periodo dal 1910 al 1914. Il testo presenta delle novità: lettere inedite, soprattutto di Croce, che nella prima pubblicazione furono omesse o «tagliate» per motivi di carattere privato.
Il volume è significativo proprio per il tempo che si racconta e per i fatti che accadono, fra loro intrecciati: la scelta di Croce di rendere pubblico il «dissenso filosofico» tra il suo storicismo e l’attualismo di Gentile, la morte di Angela Zampanelli, la vigilia della Grande guerra. Furono proprio l’amore e la morte della «bella Angelina» — «donna di imperiale bellezza, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna», secondo la descrizione che ne fece Giuseppe Prezzolini — a dettare i tempi della filosofia e indurre Croce a prendere le distanze dall’idealismo attualistico di Gentile: infatti, la Zampanelli morì a Raiano in Abruzzo il 25 settembre 1913 e il celebre articolo di Croce Intorno all’idealismo attuale, con cui si rendeva pubblico il dissenso che c’era tra Croce e Gentile a riguardo della loro stessa cultura filosofica, che aveva negli ultimi dieci anni sbaragliato il campo avverso del positivismo, uscì su «La Voce» nel mese di novembre.
Naturalmente, tra i due fatti non c’è un semplice nesso causale; tuttavia, con altrettanta semplicità si può dire che non ci sia nemmeno casualità. Erano la vita e la morte che facevano irruzione nella filosofia, scombussolandone idee e piani.
Nel testo della Mondadori (1981), non ci sono le lettere del settembre 1913 che riguardano la malattia e la fine di Angela Zampanelli. Nel Carteggio, invece, le lettere ci sono e il dolore che si portano dentro — «la più angosciosa lotta interiore», dirà il 16 ottobre 1914 Croce a Gentile nella lettera parzialmente inedita di cui pubblichiamo un estratto — contribuisce a dare un senso più umano e più intellegibile alla vita di Croce e al rapporto tra i due filosofi dell’idealismo.
Il 25 settembre 1913 Gentile, che ancora non sapeva della morte della Zampanelli, scriveva al suo amico parlandogli di Spaventa e Spinoza, ma era solo uno schermo per parlare di lei e sapere: «Carissimo Benedetto, ho avuto confortanti notizie della salute di Donna Angelina dal nostro Ruta e spero che tu presto possa dirmi che è completamente guarita e che tu sei tornato tranquillo. Ti prego di scrivermi un rigo». E Croce il giorno dopo gli scrisse un rigo, uno solo: «Caro Giovanni, ieri ho perduto la mia diletta Angelina».
Ma perché il destino della donna dovrebbe influenzare la filosofia? Prima di tutto perché la relazione di Croce con Angelina non fu un capriccio, ma un’autentica storia d’amore. Croce visse con Angela Zampanelli vent’anni: dal 1893 al 1913 ossia gli anni in cui Croce divenne Croce. Non si sposarono, ma furono una «coppia di fatto»: la donna gli diede stabilità d’affetti e, come ebbe a dire Augusto Guzzo, il filosofo innamorato fu anche il più creativo. La filosofia dello spirito nacque quando Croce aveva al suo fianco la sua Angela e quando la donna morì Croce non poté fare altro che aggrapparsi al lavoro svolto e così fu spinto dalle lacrime a far emergere la differenza, che sentiva ormai nella stessa carne, tra la sua concezione del pensiero e della vita e quella di Gentile, che per lui sfociava facilmente nel misticismo, generando confusione tra pensiero e azione. Per Croce l’attualismo di Gentile è una «filosofia della storia» che non distingue giudizio e volontà: essa determina così un «tradimento degli intellettuali» che pone le premesse per portare la filosofia al potere, come sarebbe accaduto con il fascismo.
Il dibattito che ne seguì è, forse, tra le cose più alte della filosofia europea e Gentile — come si può leggere nella lettera inedita del 3 dicembre 1913, di cui riportiamo un brano — si preoccupò di mantenere il confronto sul piano ideale. Scriveva: «Intanto, sta pur sicuro che il mio animo è e sarà sempre quello d’una volta: perché non potrebbe essere mai altro. Tu mi parli di gratitudine tua verso di me; e che dovrei dire io? a quali espressioni ricorrere?». Ma la spaccatura tra le due filosofie era profonda perché riguardava il rapporto tra il pensiero e la vita e ciò che vi era in gioco era ciò che era stato «aperto» dalla morte della donna.
Croce lo scrisse ancora una volta in una lettera, il 6 ottobre 1913, ma questa volta a Renato Serra: «Ma mi permetta, caro Serra, di raccomandare a Lei, a Lei che ha il cuore buono, di raccomandarle in questa ora in cui il dolore mi strazia e sconvolge, la serietà della vita. Noi non possiamo vivere di affetti per cose o persone: dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere. E, per non cadere, non c’è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita. Altrimenti che cosa resta? Il lurido suicidio o il lurido manicomio».
Ciò che vi era in ballo tra i due massimi filosofi italiani del Novecento era né più né meno che l’esistenza del male. La diversa filosofia che Croce e Gentile ebbero rispetto al problema del male determinò anche il loro diverso atteggiamento politico verso la guerra mondiale che era, ormai, alle porte (Gentile fu interventista e anti-giolittiano, Croce era sulle posizioni di Giolitti e per la neutralità attendista) e poi verso il fascismo: dal «dissenso filosofico» si passò al «dissidio politico».
Questa differenza di vedute nel concepire la filosofia e la politica, il pensiero e la vita è tutta leggibile nelle ultime parole dell’articolo di Croce ospitato dalla «Voce». Ma se si rileggono quelle parole si sentirà, ancora una volta, il dramma esistenziale del filosofo per la perdita della donna amata: «A me, insomma, la vita appare non come una commedia di equivoci, di gente che si crede malvagia ed è buona, di lagrime versate per isbaglio e che si possano asciugare presto con un sorriso e una carezza come si usa verso i ragazzi che si disperano credendosi grandemente colpevoli e non sono; ma come una tragedia, nella quale, attraverso l’onta e il dolore, si crea faticosamente il bene e il vero, e, attraverso la distruzione della felicità individuale, si crea una serenità dolorosa, che sarà anche felicità (anzi, la vera felicità), ma che quasi si sdegna di essere chiamata con questo nome, che le suona troppo idillico».
Corriere La Lettura 12.5.19
I comunisti e via Rasella
L’attentato inspiegabile
Restano molte zone d’ombra sull’azione compiuta a Roma il 23 marzo 1944 dai Gap, che uccise 33 militari tedeschi ma anche un ragazzino e un partigiano di un gruppo rivale del Pci.
Essa provocò la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine, in cui morirono i dirigenti più in vista della Resistenza monarchica, di quella azionista e del gruppo marxista dissidente Bandiera rossa
di Federigo Argentieri
Maurizio Giglio era nato a Parigi nel 1920 da famiglia italiana. Diplomato al liceo Mamiani di Roma e laureato in giurisprudenza, seguì un corso per allievi ufficiali e nel 1940 fu mandato al fronte francese, poi a quello greco-albanese. Ferito, rientrò a Roma e l’8 settembre 1943 partecipò alla battaglia di Porta San Paolo contro i nazisti, al termine della quale si rifugiò a Napoli non appena cadde in mano agli Alleati, con cui prese subito contatto: lo inserirono nell’Office of Strategic Service (precursore della Cia), dandogli il nome in codice di «Cervo». Rientrato a Roma con grandi difficoltà il 28 ottobre, con l’aiuto del padre, che lavorava al ministero dell’Interno, si arruolò nella polizia come tenente ausiliario. Aveva portato con sé una radiotrasmittente di fabbricazione americana e ricevuto l’incarico di stabilire una rete d’informazione tra la Resistenza e gli Alleati. Il 17 marzo 1944, dopo quattro mesi e mezzo di attività utilissima svolta con l’agente americano Peter Tompkins, fu catturato dai fascisti della banda Koch e brutalmente torturato per una settimana, senza dire una parola sulla sua rete di contatti. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto il 23 marzo, fu ucciso alle Fosse Ardeatine.
Sua sorella Giulia Adriani racconta che negli anni Cinquanta ricevette la visita di alcuni esponenti del Pci, i quali le chiesero se era disposta a dichiarare pubblicamente che Maurizio Giglio era un simpatizzante di quel partito: rispose di no, che le dispiaceva, ma suo fratello era un liberale moderato mantenutosi fedele fino all’ultimo al giuramento fatto al re.
Adriana Montezemolo, figlia di Giuseppe, il capo di tutta la Resistenza militare e la vittima più illustre della rappresaglia nazista, ha dichiarato tempo fa di non aver mai sentito nominare pubblicamente suo padre come figura fondamentale della Resistenza fino all’aprile del 1965: nel caso di Giglio, ignoto ai più benché anch’egli insignito di medaglia d’oro alla memoria, l’attesa si protrasse per altri trent’anni, quando una lapide fu inaugurata sul muro del palazzo romano dove abitava e dove la famiglia continua ad abitare. Armando Giglio, padre di Maurizio, nei primissimi anni del dopoguerra presiedette l’Associazione delle famiglie dei martiri, ma fu sostituito senza apparenti motivazioni da esponenti di maggiore rilievo e affidabilità politica.
Il dottor Attilio Ascarelli era un medico legale che nel luglio 1944 fu incaricato di esaminare i resti delle 335 vittime della rappresaglia, cinque delle quali restano tuttora non identificate. Svolse una perizia scrupolosa, al punto che una lapide lo ricorda nel mausoleo costruito sul luogo dell’eccidio: non si limitò a descrivere lo stato dei resti, ma ricostruì con cura le biografie essenziali dei caduti, compresa la loro affiliazione politica. Quest’ultima però appare soltanto nel volume pubblicato pochi anni fa dagli allievi di Ascarelli in occasione del cinquantennale della sua morte, mentre Alessandro Portelli non ne fa alcuna menzione nel suo pur pregevole saggio L’ordine è stato eseguito. Da queste schede si desume che delle 330 vittime identificate, i gruppi più numerosi erano i cittadini di religione ebraica (circa 75), quasi tutti razziati poco prima della rappresaglia e uccisi come tali, e gli appartenenti al Movimento comunista d’Italia (rivale del Pci), più noto come Bandiera rossa (68). Seguivano il Partito d’Azione con 52 vittime e gli appartenenti alle Forze Armate, soprattutto esercito e carabinieri, con un numero quasi uguale; infine, gli appartenenti al Pci (tra i 25 e i 30) e al Partito socialista, una ventina. Le rimanenti trenta salme circa erano di esponenti di partiti minori, o di persone senza affiliazione.
È opportuno precisare che, mentre le vittime di religione ebraica — come anche gli appartenenti ai partiti comunista e socialista — erano tutte di modesta estrazione sociale e/o di poco peso politico, i caduti degli altri gruppi — ossia Bandiera rossa, azionisti e militari, circa 170 in tutto — erano un’élite importante, sia dal punto di vista dell’estrazione sociale che da quello del ruolo svolto nella Resistenza; non solo, ma pur intrattenendo rapporti di solidarietà e collaborazione, rivendicavano a ogni possibile occasione la propria autonomia e indipendenza, nei confronti sia delle grandi potenze sia delle forze politiche di massa ricostituitesi a partire dal 25 luglio 1943.
L’attentato di via Rasella e la rappresaglia che ne seguì hanno compiuto 75 anni e sono diventati uno degli emblemi più evidenti della discordia che c’è nel Paese in materia di memoria storica. Nonostante vari processi sempre arrivati all’ultimo grado di giudizio, una memorialistica abbondante, l’esistenza di un museo — quello fondato oltre sessant’anni fa a via Tasso, dove si trovavano i quartier generale e la prigione delle SS — il cui obiettivo istituzionale è trasmettere la conoscenza dei fatti storici e vincolare il più possibile la popolazione, in particolare i giovani, ai valori fondanti della Repubblica italiana, il peso di gravi omissioni, reticenze, errori compiuti sia in ambito politico che storiografico è ancora plumbeo e ciò facilita non solo il diffondersi dell’ignoranza, ma anche i proclami fascisti che avrebbero dovuto essere sepolti tre quarti di secolo fa.
Il giornalista Pierangelo Maurizio, che da oltre vent’anni cerca con paziente opera di «cronista», come ama definirsi, di alleggerire il peso di cui sopra, ha dovuto pubblicare tutti i suoi libri (molto spesso citati) in proprio, come i dissidenti dell’Est sotto il comunismo, per il rifiuto opposto da numerose case editrici. Alcuni lo hanno accusato di «fascismo», ma ha continuato ad andare avanti. Gabriele Ranzato, nel volume La Liberazione di Roma (Laterza), lo definisce «confuso», ma ricava molti dati dai suoi studi e non giunge a conclusioni definitive su via Rasella.
La verità è che l’attentato e la rappresaglia aspettano ancora di essere ricostruiti in modo convincente. Le 33 vittime erano dei coscritti di etnia tedesca trentini, altoatesini e bellunesi, quasi tutti cattolici, ma la bomba uccise anche un ragazzino innocente, Piero Zuccheretti, e un partigiano di Bandiera rossa, Tommaso Chiaretti, la cui presenza sul luogo rimane senza spiegazione. L’azione fu decisa in ambito comunista senza consultare gli altri partiti del Cln. La rappresaglia era prevedibilissima e decapitò la componente della resistenza filo-monarchica, e della sinistra non comunista o non affiliata al Cln. Adriana Montezemolo racconta che una sola volta incontrò Carla Capponi, la partigiana medaglia d’oro corresponsabile dell’attentato, che le venne incontro sorridendo e la salutò con calore: fu ricambiata con cortese freddezza e non si rividero mai più.
Corriere La Lettura 12.5.19
Jesi (Ancona)
Tina Modotti: l’obbiettivo rosso
«Tina Modotti, sorella non dormi, no, non dormi:/ forse il tuo cuore sente crescere la rosa/ di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa./ Riposa dolcemente sorella». Con questi versi Pablo Neruda onorò e difese la memoria della grande fotografa: l’incipit della poesia è inciso sulla sua tomba nel Pantheon de Dolores a Città del Messico, dove la Modotti si spense nel 1942.
Nata a Udine nel 1896, Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini divenne una delle più famose fotografe della prima metà del Novecento e visse una vita da attivista comunista che la portò in Spagna e in Messico, dove nel 1929 fu ucciso davanti ai suoi occhi il suo compagno Julio Antonio Mella.
A questa affascinante figura di donna che fu anche attrice (a sinistra: nel ruolo di Maria de la Guardia nel film The Tiger’s Coat, 1920) è dedicata la mostra Tina Modotti fotografa e rivoluzionaria, aperta nella rinascimentale sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi fino al 1° settembre (fondazionecrj.it), in cui sono esposte sessanta fotografie che raccontano in sei tappe i luoghi, le immagini, gli amici, gli amanti che caratterizzarono il percorso biografico e artistico di Tina: comunista, attivista, attrice e (soprattutto) fotografa.
Il Sole Domenica 12.5.19
La Ue e il fattore «identità»
Thierry Vissol. Di fronte all’affermazione di populisti e sovranisti, le istituzioni comunitarie devono essere capaci di costruire un modello fondato sulla solidarietà sociale e sullo sviluppo competitivo a livello globale
di Valerio Castronovo
Di questi tempi, in cui il discorso pubblico sulla governance e il futuro dell’Unione europea ha finito, nel nostro Paese, per essere dominato dalle irruenti sortite polemiche di sovranisti e populisti, risulta istruttiva un’analisi ponderata come quella condotta da Thierry Vissol. Oltre a contare sulla sua lunga esperienza di ex funzionario della Commissione europea, egli è uno storico ed economista, abituato quindi a valutare determinati eventi e fenomeni in base a metri di giudizio aderenti alla complessità del reale e non circoscritti al breve periodo.
Pertanto Vissol sottolinea, da un lato, quale importanza hanno avuto le conseguenze dei mutamenti strutturali prodotti dalla triade globalizzazione neoliberista-turbocapitalismo finanziario-quarta rivoluzione industriale nell’innesco della ventata nazional-populista. Dall’altro, pone l’accento sull’impatto di un vettore multimediale ambivalente come i social network, ossia uno strumento di comunicazioni e relazioni largamente accessibile ma proprio per questo tale da generare anche effetti incongrui e distorsivi.
Per comprendere quale grave grado di pericolosità sia insito in una congerie di teoremi ed enunciati trasmessi in Rete dai social, basti pensare al fatto che essi possono influenzare gli orientamenti di una vasta platea di cittadini e di mobilitarli sulla spinta di slogan e messaggi predittivi tanto più accattivanti e seducenti quanto di facile maneggio.
Sovranisti e populisti hanno fatto, per l’appunto, un uso crescente di questa leva sia per la loro opera di proselitismo che per il consolidamento della loro audience servendosi non solo delle armi classiche della dialettica politica ma, all’occorrenza, anche di tesi semplificatorie, di narrazioni non documentabili o prive di adeguate argomentazioni, di informazioni parziali e subdole.
D’altronde, nell’età digitale, non sono necessari consistenti apparati di propaganda e di orchestrazione della psicologia di massa, poiché le tecnologie infotelematiche offrono ampie possibilità di conseguire risultati analoghi, se non superiori, a quelli raggiunti in passato nell’organizzazione dall’alto del consenso.
Sta di fatto che l’utilizzo in chiave strumentale dei nuovi mass media, tanto più col supporto di piattaforme in esclusiva, ha un’incidenza politica rilevante, dato che la questione dell’identità riveste oggi un ruolo centrale agli effetti del rilancio o meno della causa europeista.
A questo proposito ben sappiamo come l’indirizzo dell’austerità perseguito dalla Ue, dopo la Grande crisi esplosa nel 2008, al fine di scongiurare il rischio di un’instabilità sistemica di conti e debiti pubblici, sia prevalso rispetto ad adeguate misure volte alla crescita dell’economia e a sostegno dell’occupazione. Col risultato che ciò ha determinato un’ondata a raggiera di paura e disorientamento, di rabbia e protesta nei confronti delle élite politiche e dell’establishment di Bruxelles. Di qui la ricerca di motivi e fattori di rivalsa e rassicurazione che ha portato tanta gente a vedere nel nazionalismo il massimo garante dell’interesse collettivo e di protezione sociale, e nel populismo l’espressione per eccellenza delle istanze dei ceti più deboli o più vulnerabili contri i “ricchi” e i cosiddetti “poteri forti”.
In questo contesto sovranisti e populisti, anche in quanto mirano all’avvento di una democrazia diretta, sostenendo che al popolo spetta esercitare il potere senza bisogno di alcuna forma di rappresentanza e intermediazione, sono divenuti promotori di un genere d’identità imperniato non solo sull’appartenenza a una determinata comunità nazionale, ma anche su un insieme di tradizioni etnico-religiose e di consuetudini autoctone, riportate quindi in auge e opportunamente reinterpretate. E ciò al fine di farne delle risorse fondamentali di cui assumere la tutela nei riguardi di minacce sociali e culturali esterne, date per certe e assodate.
Di qui la propagazione di un duplice assunto come l’ostracismo in blocco contro l’immigrazione e la restrizione dei diritti delle minoranze, quale antitesi a un’Europa aperta, liberale e pluralista.
Come Vissol rileva giustamente, è perciò cruciale la posta in gioco per le istituzioni comunitarie, in quanto devono essere oggi capaci di costruire un modello d’identità, a presidio della causa europeista, che abbia per asse portante un nuovo robusto assetto istituzionale e un nuovo sistema di congegni sia di solidarietà sociale sia di sviluppo competitivo a livello globale. Altrimenti l’Unione europea, qualora rimanga bloccata allo stadio di una compagine retta dal metodo intergovernativo, rischia di disintegrarsi. Perché resterebbe esposta sia a tendenze nazionalistiche autarchiche che a eterogenee suggestioni populiste, tali da costituire pesanti ipoteche a validi processi decisionali multilaterali di ordine strutturale, e destinata pertanto, prima o poi, a cedere terreno di fronte alla forza d’urto di colossi come Usa, Cina e India, ma pure di una risorgente Federazione russa. Di qui il paradosso e la contraddizione dei sovranisti, in quanto la “nuova Europa” che essi vagheggiano risulta in sostanza quella attuale, rappresentata dal Consiglio dei capi di Stato e di governo, dotati di un potere di veto che ognuno di loro detiene in misura paritaria.
Europa matrigna. Sovranità, identità, economie
Thierry Vissol
Donzelli, Roma, pagg. 231, € 19
https://spogli.blogspot.com/2019/05/il-sole-domenica-12.html