venerdì 17 maggio 2019

Repubblica 17.5.19
L’intervista alla leader Cdu
Kramp-Karrenbauer "La Lega ci preoccupa la Germania sarà vigile"
di Tonia Mastrobuoni


Italia — uno dei Paesi fondatori della Ue e uno dei Paesi più grandi e più potenti in Europa — ci costringono e costringono la Germania ad essere molto vigili. Anche se alla fine sono i cittadini che decidono. E dobbiamo accettarlo, finché è chiaro che ci sono elezioni democratiche. E su questo non ci sono dubbi, finora».
Nella sua famosa risposta a Emmanuel Macron sulle riforme europee lei non sembra condividere il suo entusiasmo sull’Ue. Vuole anche lei un’Europa più piccola, come il cancelliere austriaco Kurz?
«Il mio entusiasmo per l’Europa è enorme. Penso anche, però, che non si misuri in quante competenze le si riconoscano. Sono convinto che abbiamo bisogno di un’Europa più forte, che agisca di comune accordo soprattutto nelle questioni cruciali.
Per me sono la sicurezza, la difesa, l’innovazione e l’obiettivo di mantenere il nostro benessere. È ciò che vogliono anche i cittadini, stando ai sondaggi. Insieme a una risposta comune ai cambiamenti climatici».
Lei ha proposto di spostare la sede del Parlamento da Strasburgo.
Perché provocare la Francia?
«Una delle critiche che torna nei confronti della Ue è che il Parlamento si riunisce in posti diversi.
Accoglierei la proposta di Manfred Weber: che sia il Parlamento stesso a decidere dove riunirsi. Ma in un posto solo».
La crisi finanziaria ha danneggiato i rapporti tra la Germania e il Sudeuropa. Che cosa farà per migliorare l’immagine del suo Paese in Grecia, in Italia o in Spagna?
«Il dibattito degli ultimi anni di crisi finanziaria ed economica è stato soprattutto sulle sue origini e su come superarla. Ho grande rispetto per ciò che è stato fatto in Grecia, in Spagna o in Portogallo: hanno fatto enormi sforzi. E molti sacrifici. Resto comunque della convinzione che i conti pubblici in ordine siano un presupposto essenziale per la stabilità finanziaria».
Uno dei temi che hanno fatto esplodere il populismo, ad esempio in Italia, è l’immigrazione. Dublino è uno scandalo, ma la riforma è morta. Come aiutare l’Italia e la Grecia?
«La crisi dei profughi del 2015 è nata proprio perché l’Europa non ha funzionato. Lo dobbiamo ammettere. Dublino non va. Siamo stati a guardare troppo a lungo e con troppa poca attenzione mentre i Paesi ai confini della Ue facevano i conti con numeri crescenti di profughi. Li abbiamo lasciati soli. È uno degli errori che abbiamo fatto nella politica tedesca. Anche nella Cdu: lo dico sinceramente. Perciò dobbiamo pensare a come riformare il sistema.
Ad esempio quali proposte su Dublino adottare. Potremmo dare più soldi ai Paesi che sono ai confini della Ue perché facciano i conti con i flussi. Ma qualcuno potrebbe anche dire: non voglio. Certamente è qu esta una delle maggiori sfide che il nuovo parlamento e la nuova Commissione Ue dovranno affrontare».
È giusto bloccare le navi delle Ong che salvano vite nel Mediterraneo?
«È una questione molto difficile. È giusto non lasciare affogare le persone in mare. Qualsiasi altra decisione tradirebbe l’ideale umanitario europeo. Ma voglio essere molto brutale: è chiaro che il modello di business degli scafisti e della criminalità organizzata è quello di provocare una situazione in cui degli esseri umani vengono messi in una situazione di rischio di vita perché contano sul fatto che saranno salvati».
Ci sono molte speculazioni sul fatto che Angela Merkel possa lasciare prima del 2021. Non sarebbe meglio anche per lei?
«È nell’interesse mio e di Angela Merkel fare una buona politica in Germania per i cittadini e il paese. C’è ancora molta strada. Nei prossimi mesi si porrà la questione della collaborazione nel governo. Alla luce di eventuali cambiamenti economici e finanziari, il Contratto di coalizione sarà ancora all’altezza? E questo governo sarà ancora in grado di rispondere a queste sfide? È una decisione che prenderemo insieme, e sottolineo insieme, nella Grande coalizione. Voglio dirlo con ancora maggiore chiarezza: voglio una legislatura stabile, anche guardando alle responsabilità che ci aspettano in Europa. L’idea che dopo le elezioni europee, quando nessuno sa come si alleeranno i partiti nel Parlamento, si crei una situazione in cui la Germania provochi in modo superficiale una crisi di governo o vada a elezioni anticipate, non è l’idea che ho di responsabilità. Che trascende i confini nazionali. La Germania è uno dei Paesi più potenti in Europa ed è importante che restiamo pronti ad agire. Per dirla in modo ancora più esplicito: non mi alzo tutte le mattine con una sega in mano per andare alla Cancelleria e segare la poltrona di Angela Merkel. Sono negata con le cose manuali e dico molto chiaramente: non è il mio stile».

Repubblica 17.5.19
Gli eroi dimenticati del bus
A due mesi dal rogo a San Donato, non si parla più della cittadinanza a Rami e Adam
E i 51 ragazzi presi in ostaggio, tra incubi e paure, sono tutti seguiti dagli psicologi
dalla nostra inviata Brunella Giovara


Crema — I bravi ragazzi sono piuttosto delusi, e anche arrabbiati. La cittadinanza italiana per meriti speciali è una chimera che non è mai arrivata, e lunedì fanno già due mesi dal giorno che sconvolse loro e anche tutta l’Italia. L’autista che prende in ostaggio il pullman con 51 studenti, due prof, una collaboratrice scolastica, lui vuole fare un grande gesto, dare fuoco a tutto sulla pista di Linate, ma i ragazzi sono svelti, veloci, furbi, pur nel dramma, nascondono un telefono e riescono a chiamare la mamma, e così arrivano i carabinieri, e il grande rogo che consuma il bus non brucia anche loro, anche se la cosa enorme che gli è successa quel giorno — era sulla strada per San Donato Milanese — resta «incollata nella mia testa, io non riesco a dimenticare niente di quel giorno. Io ricordo tutto perfettamente ».
Adam El Hamami ha 12 anni, sta seduto impaziente sulla sedia del Barber Shop di piazza Duomo, mentre il papà Khalid, cittadino marocchino residente in Italia, si fa tagliare i capelli dall’amico Iead, parrucchiere palestinese-cremasco che taglia anche Salah, e tutta la nazionale egiziana. Ma la scuola, come va? «Bene». E il resto, va tutto bene? «Non tanto. Di notte ho gli incubi». E che fai, allora. «Mi alzo e vado nel lettone con la mamma, così mi riaddormento ». Il padre invece è paziente: «Io dormo sempre sul divano, lo faccio perché Adam ha bisogno di riposare, deve studiare, andare bene a scuola». La settimana scorsa la sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, ha chiamato la prefettura di Cremona, un’altra volta: «Ci sono novità sulla cittadinanza a Rami e Adam?». «Non sappiamo ancora niente». Bonaldi: «Capisco la delusione dei ragazzi. Purtroppo non ci sono notizie certe, io stessa non ne ho. Più che chiamare…».
«Non si sono più fatti sentire…, io non so niente», così dice Rami Shehata, 13 anni, che in questi giorni è nella città della sua famiglia, Mansura, Egitto, e l’altra sera è stato ospite della televisione egiziana, «mi hanno anche dato un premio, una stella con il mio nome e i ringraziamenti», adesso aspetta che lo chiami il presidente, «sappiamo che mi riceverà, sono molto contento, è il presidente dell’Egitto!», l’altro suo Paese. Ogni tanto sogna fuoco e urla, «anche la settimana scorsa, e mi sento male». Un giorno «Salvini mi ha detto "sei come mio figlio", poi ha cambiato idea, ha detto che la legge non si tocca». Non pensa che sia giusto, bisogna mantenere le promesse fatte, e ai ragazzi, poi. «Tutto il mondo pensa che ormai siano cittadini italiani, ma non è vero!», dice suo padre Khaled, «logico che siano arrabbiati ». Sei arrabbiato, Rami? «Un po’». E tu, Adam. «Io non penso alla politica, penso solo a studiare e a giocare a calcio. Non so se mi importa ancora», ma si vede che gli importa. Il padre dice «non deve essere preso in giro. Io sono solo un gessista, lavoro con il cartongesso ma i cantieri sono fermi, al momento sono disoccupato. Però capisco che questa ricompensa se la meritano, 40 minuti di terrore, con la pistola e il coltello. Mio figlio è nato in un ospedale italiano, parla italiano, è italiano, ma non lo è». Il figlio sorride, ha grandi occhiali tondi e i pantaloni della tuta stretti con degli elastici, una moda nuova dei ragazzi, «è molto sensibile, molto intelligente », sa anche che il leone di San Marco proprio di fronte al negozio del barbiere significa che Crema era della Serenissima, un tempo. Studia la storia della sua città, è un cremasco.
«Io sogno sempre l’autista», racconta il ragazzo, sta sull’attenti come il calciatore da centrocampo che vorrebbe diventare, o un carabiniere che aspetta l’ordine. L’autista Ousseynou Sy, uno che sembrava un uomo tranquillo, «esce dalla prigione e mi viene a cercare». Allora lui si alza, sveglia la mamma e le dice «ho fatto un brutto sogno», come fanno tutti i bambini che hanno paura, la notte.
Anche gli altri quarantanove sognano il fuoco, l’uomo che grida «da qui non esce vivo nessuno», e «lo faccio perché non voglio più morti nel Mediterraneo», alle volte basta l’odore della benzina o sentire qualcuno urlare, e si torna alla mattina del 20 marzo, sulla strada Paullese. La sindaca Bonaldi: «Gli esperti lo avevano previsto», dopo l’euforia di essere vivi, e le interviste, le foto, «sono stati invitati di qua e di là», poi arriva il down, ci si sente soli, non si dorme, sono esperienze enormi per chi è grande, pensate a come la vive uno che fa la seconda media. Cinzia Sacchelli, responsabile del servizio di psicologia dell’Asst di Crema: «Ognuno ha un suo modo di rielaborare e reagire a quanto ha vissuto. I ragazzi sono ancora sottoposti a situazioni in cui viene loro chiesto conto di quanto successo, e il passato viene rivissuto continuamente. Molti hanno una paura forte rispetto alla loro sopravvivenza, sintomi di ansietà, nervosismo, maggiore reattività, disturbi del sonno, timore di stare soli», non è semplice uscire dal trauma, tanto che ci sono a disposizione anche esperti del metodo Emdr, nato dalle esperienze dei reduci di guerra, del Vietnam soprattutto. E gli psicologi dell’Asst, e quelli del ministero. «Io ci sono andato quattro volte », dice Rami, «due volte con il papà, poi a scuola». Adam, «una volta sola, c’era una dottoressa, vorrei tornarci ». E a scuola ne parlate? Adam: «No, mai», neanche con i compagni di classe. A casa? «Sì», ma poi la mamma si mette a piangere, pensa che quella volta non gli ha creduto subito, sembrava uno scherzo, si capisce che ha i sensi di colpa. Dopo, sono diventati eroi. In televisione, a Porta a Porta e da Fabio Fazio e nei talk show del pomeriggio, con i carabinieri, con il cappello da carabiniere, con Dybala allo stadio, con il ministro dell’Interno che gli ha offerto il gelato, e beh, non basta un gelato.

Corriere 17.5.19
Il corsivo del giorno
Lo «sciopero del sesso» delle femministe usa per difendere l’aborto
di Gianluca Mercuri


L’attrice Alyssa Milano è una femminista splendidamente battagliera: tra le massime artefici del successo di #MeToo, ora ha lanciato l’hashtag #SexStrike. Incita le donne allo «sciopero del sesso» in segno di protesta contro la legislazione anti-abortista che sta dilagando nell’America trumpiana. A indurla all’iniziativa è stata in particolare la legge della Georgia che vieterà l’aborto ai primi segni di battito cardiaco fetale. L’Alabama è andata oltre, mettendolo al bando «in ogni stadio e anche nei casi di stupro o incesto». Sostiene Milano: «Finché le donne non avranno il controllo sui loro corpi non possiamo rischiare la gravidanza. Unitevi a me e non fate sesso finché non riavremo l’autonomia del nostro corpo».
Robert Shrimsley, sul Financial Times , nota una contraddizione, visto che «donne pronte ad aderire a una campagna del genere difficilmente vanno a letto con uomini cui vanno spiegate queste cose». A quel punto, ironizza, «le contestatrici dovrebbero lasciare i loro fidanzati progressisti e mettersi con politici antiabortisti, in modo che la loro mossa abbia un vero effetto». Più seriamente, Shrimsley trova che lo sciopero dia l’idea che le donne «trattino il sesso come qualcosa che fanno (anzitutto) per gli uomini più che per se stesse». E aggiunge che questo tipo di battaglie «sono una delle ragioni per cui i progressisti perdono così spesso». Il politicamente corretto estremizzato che allontana la gente comune, insomma, e finisce per distrarre dal merito della questione.
Però è vero anche il contrario: la pioggia di restrizioni antiabortiste negli Usa e la voglia di rovesciare la sentenza del 1973 che legalizzò l’aborto stavano diventando routine poco mediatica. Col suo sciopero, Alyssa Milano ci ha costretti a riparlarne.

Il Fatto 17.5.19
Armi, da Leonardo 171 milioni di intermediazioni. Ma non si sa a chi
Commerci - È la cifra pagata da Leonardo nel 2017 per i caccia Eurofighter al Kuwait. Ma la legge non rivela i nomi dei “sensali”
di Salvatore Cannavò


Le industrie belliche pagano fior di milioni di intermediazione sulle commesse. Solo Leonardo, nel 2017, ha pagato 171 milioni per le forniture di Eurofighter al Kuwait. Ma, pur essendo in regola con la legge 185, questi compensi sono oscuri. Non si riesce a sapere a chi vengano pagate le somme, piuttosto rilevanti, né chi sono i soggetti abilitati né che tipo di attività viene effettivamente svolta. Si prenda il caso Leonardo discusso ieri all’assemblea annuale degli azionisti (in cui è stato approvato un bilancio in utile di 510 milioni). Alla riunione ha preso parte, avendo acquistato una quota simbolica, Finanza Etica, per conto della Rete Disarmo, chiedendo conto proprio di queste somme. “Pur non essendo possibile collegare esplicitamente alle aziende le singole intermediazioni – scrivono le associazioni pacifiste – è molto probabile che una di esse per un controvalore di 171 milioni riguardi Leonardo e il contratto di vendita dei caccia Eurofighter al Kuwait”.
Nel chiedere conferma del dato, Finanza Etica domanda se sia possibile “conoscere che tipo di attività di ‘negoziazione od organizzazione di transazioni’ è stata effettuata dagli intermediari”, di conoscere “i nomi e gli status” di questi soggetti per capire come sia possibile “arrivare a un controvalore così alto di remunerazione”. Inoltre, nella domanda posta ai vertici della società, si chiede anche di ottenere “un dettaglio di tutti gli altri compensi per attività di intermediazione pagati da Leonardo, anche per casi che non sono elencati”. Una richiesta di trasparenza a cui purtroppo non è dato riscontro. Nella risposta scritta della società, che abbiamo potuto leggere, è ovviamente ammessa l’intermediazione “di 171.345.825 euro riferita al velivolo Efa in Kuwait”.
Dopodiché Leonardo rivendica la liceità delle operazioni compiute in nome delle “autorizzazioni all’intermediazione ex lege 185/90” e che “permettono a una azienda italiana regolarmente iscritta al Registro nazionale delle imprese di emettere un ordine nei confronti di un fornitore di materiali di armamento”. Non offre nessuna luce sulle altre intermediazioni perché implicherebbe “la disclosure di dati riservati”, trattandosi “di informazioni estremamente sensibili per l’azienda”.
Insomma, nessuna risposta grazie alla contrattazione secretata e a una legislazione che nonostante la legge 185 è ancora opaca. La relazione annuale – che a norma di legge il governo presenta ogni anno al Parlamento – offre molti dati, ma rende molto difficile andare in profondità. In particolare nel caso delle intermediazioni.
Questa voce tratta “delle forniture di materiali di armamento o di servizi effettuate ‘estero su estero’ da società iscritte al Registro nazionale delle imprese presso il segretariato generale della Difesa, senza che vi sia movimentazione fisica dall’Italia del materiale o dei servizi oggetto della fornitura”. Insomma, i “sensali” tra l’azienda costruttrice e il paese di destinazione. Un mondo oscuro e interessante al tempo stesso.
L’andamento di questa voce è piuttosto anomalo. Nel 2016 ammontava a 37,5 milioni a fronte di 14,6 miliardi di autorizzazioni per esportazioni di armi. Nel 2017 c’è un boom incredibile: a fronte di minori autorizzazioni, il cui importo scende a 9,5 miliardi, il valore delle intermediazioni schizza a 531 milioni, +1315%. Nel 2018 le autorizzazioni scendono di molto, a 4,77 miliardi e le intermediazioni tornano al livello del 2016, 39,8 milioni.
Chi beneficia del pagamento, in che forme, per quali tipi di armamenti, non è dato sapere. Quello che si desume dalla relazione annuale riguarda solo grandi importi per grandi commesse.
Così nel documento si può leggere che “sul valore complessivo del 2018 incide un’autorizzazione di circa 1,6 miliardi di euro per 12 elicotteri NH-90” prodotti da Leonardo, la ex Finmeccanica. Sul valore del 2017 influiva un pacchetto contrattuale di 4,2 miliardi per la fornitura di navi e batterie costiere al Qatar costruite da Fincantieri. Sul valore complessivo del 2016, invece, “influiva una commessa di 7,3 miliardi per la cessione di 28 aerei Eurofighter Typhoon al Kuwait, ancora di produzione Leonardo.
Per capire meglio la situazione occorrerebbe scorrere l’elenco dei soggetti abilitati iscritti al Registro nazionale delle imprese tenuto dal ministero della Difesa che, però, non divulga i dati.
“Non capiamo a chi si paghino queste intermediazioni – dice Francesco Vignarca della Rete disarmo – visto che le trattative per la vendita di armi le fanno i governi. E comunque crediamo che su una materia come questa i segreti non dovrebbero mai essere posti”.

Il Fatto 17.5.19
Silvia Romano doveva sparire
Cinque mesi e nessun colpevole
di Massimo A. Alberizzi


Sono quasi sei mesi che Silvia Romano è stata rapita a Chakama e di lei non si sa più nulla. Notizie provenienti da sciacalli sono state diffuse senza alcuna verifica. Comportamenti sciagurati che hanno fatto traballare le speranze della famiglia – madre, padre e sorella – oscillate tra il desiderio di rivedere Silvia viva e vegeta e terrore di non poterla abbracciare mai più. Ora si apre uno spiraglio, che fa intravedere una soluzione del grave episodio criminale. La ragazza milanese potrebbe essere stata testimone di un episodio di violenza e qualcuno avrebbe potuto farla rapire per evitare le gravi conseguenze provocate da una sua possibile denuncia. Ma Silvia ha scritto tutto in un suo memoriale. È bene che resti in vita perché un eventuale suo omicidio su commissione potrebbe avere effetti ancora più gravi per i mandanti del suo rapimento.
Nei mesi scorsi più volte sono state messe in giro notizie inventate secondo cui Silvia sarebbe stata portata dai suoi rapitori in Somalia. Il contesto somalo è complicato e difficile, ma nell’ex colonia italiana dove tutto è distrutto e Mogadiscio ridotta a un cumulo di macerie, gli attentati sono continui, ci si muove solo con una buona scorta armata facendo attenzione ai banditi e alle gang di tagliagole islamici, dove la vita non vale niente e si può essere ammazzati per una bottiglietta di Coca Cola, una cosa funziona a dovere: le telecomunicazioni. Non è quindi difficile parlare con qualche leader governativo, qualche signore della guerra o addirittura qualche capo islamico (c’è perfino qualcuno che incarna tutte e tre le figura assieme). Bene, un’indagine in proposito porta a una sola conclusione: Silvia Romano non è mai stata portata in Somalia.
Per parlare invece di Chakama, occorre conoscere il contesto del villaggio in cui il 20 novembre dell’anno scorso Silvia è stata portata via da un commando armato. “Si tratta di un territorio completamente a economia rurale lontano dalle vie di comunicazione – spiega qualcuno che conosce molto bene la zona ma che non vuole sia reso pubblico il suo nome – è un grande comprensorio che abbraccia 17 villaggi e sotto villaggi (da noi si parlerebbe di frazioni, ndr), anche in Kenya piuttosto sconosciuto. A Chakama occorre andare apposta, non è un punto di passaggio, dove si capita per caso. È lontano da tutto, non arrivano i giornali, non si riesce a captare neppure la radio. Non ci sono negozi se non piccole botteghe, si vive di agricoltura e si campa ancora con il baratto. Non si vedono facce estranee e i pochi forestieri che arrivano vengono immediatamente notati dai locali. Insomma un modus vivendi senza alcuna relazione con il terrorismo organizzato. Quando è stata rapita, Silvia è stata caricata in spalla e portata verso il fiume, piuttosto che su un mezzo verso la strada più comoda e agibile”.
Uno scenario che apre numerose ipotesi ma che lascia anche spazio a parecchie domande. Per esempio, nessuno conosce le ultime telefonate di Silvia perché non si sa dove sia finito il suo telefono che era rimasto nella sua stanzetta di Chakama al momento del suo rapimento. È rimasto spento e bloccato per 40 giorni, poi qualcuno l’ha acceso e i messaggi whatsapp che le erano stati indirizzati sono stati ricevuti. Quindi il cellulare è rimasto inattivo ed è rimasto così per settimane. Altro mistero: che fine ha fatto la scheda telefonica italiana di Silvia. Non era installata su nessun telefono perché lei in Kenya non la utilizzava. Riposta da qualche parte in camera sua nel villaggio dove soggiornava, è sparita.
Gli inquirenti italiani si sono recati in Kenya e a Nairobi, la capitale dell’ex colonia britannica, hanno avuto colloqui con i loro omologhi locali. Si è discusso delle indagini senza grande soddisfazione. I poliziotti kenioti mostrano una sorta di reticenza a parlare della vicenda di Silvia Romano. Perché? Hanno commesso qualche errore nelle ricerche? Hanno battuto realmente tutte le strade? Oppure è coinvolto qualche pezzo grosso? Il Paese non è certamente un esempio di trasparenza, ma di solito su queste cose, da qualche anno, si mostra assai collaborativo con i nostri investigatori. Proprio qualche mese fa dalle parti di Malindi sono stati arrestati alcuni italiani che dovevano sanare i loro conti con la giustizia del nostro Paese.
Forse qualche forte pressione diplomatica potrebbe portare a una chiara definizione della questione e non è detto che la ragazza non possa tornare finalmente a casa. Perché nessuno ha pensato di stanziare una ricompensa seria (non i risibili 8.000 euro messi a disposizione delle autorità keniote) per chi darà notizie certe sulla sorte di Silvia?

Il Fatto 17.5.19
“Ci sfruttiamo da soli” A colloquio con Ken Loach
“Sorry, We Missed You” – La pellicola potrebbe consegnare a Ken Loach la terza Palma d’Oro in carriera
di Anna Maria Pasetti


Ken Loach si presenta con un braccio rotto perché “stavo combattendo i fascisti!” scherza con la consueta ironia. E con altrettanta consuetudine è invitato col suo nuovo film al Festival di Cannes, dove già vanta due Palme d’oro. “Non penso certo a una terza, già sono stati troppo generosi con me” ma Sorry We Missed You è un’opera che, vincesse un ulteriore premio, nessuno si scandalizzerebbe. Perché ci porta ancora una volta nei territori della verità più vera, quelli che Loach governa con maestria tuttora inarrivabile. Ambientato nella Newcastle dove già aveva situato I, Daniel Blake nel 2016, il film è un’esplorazione del mondo del lavoro, di come è cambiato, laddove i precari non sono più sfruttati dal “padrone” ma arrivano addirittura a sfruttare se stessi, spesso autodistruggendosi. “Una situazione totalmente intollerabile che naturalmente nasce da scelte politiche” chiosa il cineasta da sempre vate dei labour.
“Se c’è da trovare un colpevole contingente quello risponde al nome dei social democratici su base internazionale e non solo britannica: hanno perseverato rompendo ogni promessa, mentre il loro compito era di interrompere il meccanismo perverso della competizione fra corporazioni, sì proprio quello, il capitalismo selvaggio nel peggiore dei termini”. Se è vero il tema non sia nuovo, “nuove sono invece le istanze che l’hanno peggiorato e vedo poca speranza a breve termine” chiosa il quasi 83enne regista inglese. Dunque come se ne esce? “Un passo in avanti, paradossalmente, lo stava facendo il mio Paese quando tre anni fa fu eletto Jeremy Corbyn a guidare i social dem: sotto la sua spinta il partito si è spostato notevolmente a sinistra tentando in ogni modo di ostacolare privatizzazioni e creare nuovi posti di lavoro specie a tutela dell’ambiente. I lefties britannici l’hanno capito e da 100mila iscritti sono arrivati a mezzo milione; poi però sono arrivati i problemi nel momento in cui il partito si è diviso, con Corbyn ostacolato dai parlamentari del suo stesso colore, per non parlare dei media che non l’hanno mai sostenuto”. E gli effetti sono quelli che vediamo negli scenari dei suoi film, fra cui appunto Sorry We Missed You: poveri (lavoratori) sempre più indigenti. La pillola è amara e Loach non intende addolcirla: “Da una statistica recente fatta dall’Onu risulta che nell’ultimo anno le banche del cibo in Regno Unito sono aumentate del 18%: un numero spaventoso. In altre parole – aggiunge il regista – siamo quasi dentro a una catastrofe sociale, economica e ovviamente politica”. Impossibile, parlando di politica Uk, non affrontare il tema Brexit sul quale Ken il Rosso offre una disamina precisa. “È un tema delicato, specie per la sinistra. Se fosse nata da accuse squisitamente economiche, ovvero quale critica ai sistemi capitalistici perpetrati dalla Ue, allora avrebbe avuto un senso, ma non è mai stata intesa così, è sempre stata un dibattito delle due destre contrapposte, una moderata che non vuole cedere alle richieste anche minime dell’Unione e l’altra estrema che vuole lasciare l’Europa per intensificare le pratiche capitalistiche, quelle alla Trump”. E rispondendo a una domanda identitaria Loach non ha dubbi: “Stare nell’Europa degli europei, delle persone, e non dei sistemi di sfruttamento economico: questo sì che è il sogno di chi crede nella ‘vera’ Unione”. In una Cannes che già si presenta ancor più “social-politica” delle edizioni precedenti – anche se è presto fare bilanci – le parole del grande cineasta britannico tuonano quanto le guerriglie dei ragazzini nelle banlieue parigine, i protagonisti di un altro esplosivo film del concorso dall’emblematico titolo Les Misérables. “La gente è furiosa, si sfoga sui più deboli, sui migranti ad esempio. La rabbia non si contiene più: what’s next?”.

Corriere 17.5.19
Cannes 2019 Il regista britannico in concorso con «Sorry We Missed You»
Le famiglie fragili di Loach
«Il lavoro precario rovina anche i sentimenti
No allo sfruttamento. Un’altra Palma? I fulmini non cadono mai nello stesso posto»
Ormai è intollerabi le la lotta tra poveri innescata dal sistema capitalistico
Le nuove generazioni sembrano confuse: c’è chi si ribella ai genitori e chi subisce
di Paolo Mereghetti


I fulmini non cadono mai nello stesso posto» risponde ironico a chi gli profetizza una terza Palma d’oro con Sorry We Missed You (Ci dispiace non averla trovata, la frase standard con cui chi consegna i pacchi lascia al destinatario assente un avviso). E in quella battuta c’è più sincerità che scaramanzia: a 83 anni (che compirà il 17 giugno), Ken Loach non ha perso la lucidità politica e la rabbia socialista ma con un braccio al collo («ho fatto a botte coi fascisti» scherza) sembra meno combattivo di un tempo. Soprattutto meno retorico. E forse per questo il suo nuovo film, ieri in concorso a Cannes, conquista e commuove, lontano dalle intemerate contro la Thatcher o i suoi epigoni e più attento al privato e ai suoi temi.
«Per documentarmi sul mio film precedente — Io, Daniel Blake — avevo frequentato molte mense per poveri e sono stati colpito dal numero crescente di persone che le frequentava. Persone che magari avevano un lavoro ma non sufficiente per sfamare la famiglia. Negli ultimi anni il precariato ha assunto un nuovo volto, quello dell’auto-sfruttamento. Per guadagnarti da vivere devi accettare tipi di lavoro che ti negano qualsiasi garanzia — malattie, ferie, riposi — e sottoporti a una continua incertezza».
È la scelta che decide di fare Rocky (ci sarà qualche parallelo con l’eroe di Stallone?) quando si indebita (e vende l’auto della moglie) per comprare un furgone e accettare un lavoro come autista-fattorino per una società che consegna i pacchi delle multinazionali. Massima libertà e autonomia, gli dice il minaccioso manager, basta rispettare tempi e ordini. Il che vuol dire un orario di lavoro che inizia alle 7 e finisce alle 21, con una bottiglia per non perdere
Loach ci mostra tutto con puntigliosa precisione, senza dimenticare la concorrenza fratricida che si insatura tra i vari autisti, ma poi dedica buona parte del film a raccontarci cosa succede agli altri membri della famiglia: la moglie Abbie, che assiste vecchi non autosufficienti e non avendo più l’auto passa troppo tempo aspettando gli autobus; il figlio maggiore Seb, che non capisce le scelte dei genitori e preferisce saltare la scuola per seguire i suoi amici graffitari; e la più piccola Lisa Jane, la più fragile e quindi la più esposta alle tensioni familiari. Loach è molto lucido nell’analizzare la realtà. «La concorrenza che il sistema capitalistico ha innescato tra i più poveri per sopravvivere è intollerabile, non si può definire altrimenti. Così come le nuove generazioni sembrano confuse e pronte a perdersi, chi ribellandosi all’autorità dei genitori come Seb, chi subendo e introiettando le inquietudini e le ansie dei genitori». Ma il conseguente invito all’impegno politico («dobbiamo lottare per cambiare, con il voto ma anche con lo sciopero») finisce per passare quasi in secondo piano nel film, che sembra prudentemente ottimista sulla forza della famiglia nell’assorbire e stemperare i problemi.
Forse è merito del suo sceneggiatore Paul Laverty, forse il regista Loach è meno arrabbiato del militante Loach (che ironizza su Salvini, ammette gli errori della sinistra sulla Brexit — che era diventata «un referendum tra destra moderata e destra estrema» — e stigmatizza le politiche xenofobe di Ungheria, Polonia, Usa e Brasile), fatto sta che il film sorprende e conquista proprio per il modo in cui i problemi lavorativi ed educativi finiscono per confrontarsi intorno alla tavola familiare.
Sia Rocky che Abbie dovranno fare i conti con i prevedibili (e tragici) inconvenienti di lavoro, con i problemi scolastici (e non solo) di Seb, con l’ingenuità un po’ fanciullesca di Lisa Jane, eppure per una volta il regista inglese evita di trarne materia per un comizio cinematografico. Preferisce scavare nel fragile rapporto tra impiego e vita privata e offrire allo spettatore un cinema che non vuole più convincere ma solo far riflettere.

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