lunedì 27 maggio 2019




L’Espresso 26.5.2019
E i cattolici si fanno strada...
l’Europa riparte da Danzica
Colloquio con Aleksandra Dulkiewicz
La memoria. L’accoglienza. La comunità. Nella città polacca simbolo della guerra mondiale la giovane sindaca costruisce l’alternativa ai nazionalismi
di Wlodek Goldkorn


L’Europa per me è il luogo dove le persone si incontrano e si guardano l’una negli occhi
dell’altra, per conoscersi e per cooperare nella costruzione di un avvenire. Nella mia Europa c’è spazio per tutte le diversità».
Aleksandra Dulkiewicz è da pochi mesi sindaco di Danzica («Mi raccomando, sindaco al maschile, così vogliono le regole della lingua polacca»). È stata eletta dopo l’assassinio di Pawel Adamowicz, che lei nel corso di questa conversazione continua a chiamare “signor sindaco”, oppure “il mio capo”. In una città densa di edifici sontuosi e che richiamano antica ricchezza e potenza, colpisce la sobrietà del suo studio. La stanza è piccola, arredata con una scrivania di dimensioni ridotte, un minuscolo tavolino da caffè e tre scomode poltrone. Dulkiewicz, 40enne, madre single, parla un polacco elegante, bello, scandisce le parole con lentezza, spesso si concede una pausa di riflessione, abbassa la testa, chiude gli occhi, sospira, cerca la frase giusta, conscia del fatto che l’uso della parola è una questione etica. Siamo andati a chiederle che fare per resistere all’ondata del populismo e all’ossessione identitaria sovranista. Il caso ha voluto che la conversazione ha avuto luogo alla vigilia delle elezioni europee decisive per il destino del Continente.
Dulkiewicz inizia con una premessa: «Sono passati appena quattro mesi dalla morte del mio sindaco. E solo ora comincio a capire le mie emozioni. Ma so qual è la mia idea della città. È una città dove ciascuno vive bene. E sottolineo: ciascuno».
Il giorno prima della nostra conversazione c’è stata qui a Danzica la festa delle diversità.
«Per me è questo il significato della parola solidarietà (che in polacco si dice solidarnosc, come il nome del movimento guidato negli anni Ottanta da Lech Walesa, ndr). Danzica è una città segnata dalla storia in un modo fortissimo. Qui è cominciata la Seconda guerra mondiale».
Danzica aveva lo status della città libera. Hitler la voleva annettere alla Germania. Il 1° settembre 1939, dalla nave Schleswig Hollstein ancorata nel porto, venne bombardata la postazione polacca su un lembo di terra chiamato Westerplatte. È l’inizio della catastrofe.
«E l’arrivo in Polonia dei totalitarismi. Con lo sciopero dell’agosto 1980, a Danzica siamo stati i primi a togliere il primissimo mattone del Muro di Berlino e abbiamo cambiato il mondo. Ora, abbiamo il dovere di tradurre il linguaggio di solidarietà in un idioma contemporaneo. E questo riguarda prima di tutto le azioni dal basso, nel quartiere, a livello municipale. È da lì che occorre cominciare».
Sta dicendo che il destino dell’Europa si è giocato qui. E allora cosa è per lei la memoria?
«La memoria è fondamentale. Ma non deve essere ridotta a cerimonie nelle scuole o all’issare le bandiere su alti pennoni. Le racconto una storia. Una ventina di anni fa, quando pochissimi volevano ricordarsi cosa sia successo qui, alle ore 4.45 del 1° settembre, e ho in mente l’episodio della nave che lei ha appena menzionato, per iniziativa del mio sindaco, abbiamo cominciato a organizzare commemorazioni dove c’erano i nostri boy scout assieme agli ultimi soldati polacchi difensori di Westerplatte ancora in vita, e qualcuno dei marinai tedeschi che avevano sparato su di loro».
Tutti insieme?
«La memoria serve alla riconciliazione. Danzica è sempre stata una città potente e ricca. E la sua potenza era frutto delle sue diversità, delle varie culture e fedi che hanno contribuito alla sua ricchezza. Certo, non sempre era una città tollerante e aperta. La storia è complessa, come è complessa la natura degli umani. Ma la memoria, la sua essenza, è stare dalla parte della verità e nella verità. Vorrei aggiungere una cosa».
Prego.
«I governanti della Polonia oggi, stanno facendo scempio della memoria e della verità, stanno facendo terra bruciata nelle relazioni, non facili, perché cariche di violenza e risentimenti, tra la Polonia e la Germania, tra Polonia e Israele, tra Polonia e Ucraina, tra Polonia e Lituania. Stanno distruggendo quello che è stato tessuto, con pazienza nella Polonia nuova, nata dopo il crollo del comunismo».
L’Europa cosa è?
«Permetta un ricordo personale. Il primo anno della nostra appartenenza all’Unione europea ho fatto l’anno di Erasmus a Salisburgo. Ecco, l’Europa è una comunità, di valori e delle radici».
Radici?
«Non come le declinano i populisti, ma radici classiche che risalgono alla Grecia e a Roma. Si tratta di un elemento esclusivo. L’abbiamo solo noi, in questo Continente. Poi ci sono le radici cristiane. I padri dell’Europa, persone sagge, Schuman, Adenauer, De Gasperi, erano cristiani che dopo la guerra hanno saputo trarre le conseguenze della tragedia appena conclusa. E così da oltre sette decenni viviamo in pace. Certo ci sono state cose terribili, la guerra nei Balcani, l’annessione della Crimea da parte della Russia. Ma da 70 anni non c’è stato un conflitto globale. Abbiamo trovato un modo per stare insieme. L’Europa per me significa inoltre: Stato di diritto, onestà, divisione dei poteri, indipendenza della magistratura. E sussidiarietà».
Sussidiarietà vuol dire costruire dal basso, lasciare alle comunità tutti i compiti possibili.
«È un’idea molto saggia. Ma bisogna metterla in atto. Sarebbe una società ideale».
Ha parlato di De Gasperi, Adenauer, Schuman. Tutti e tre venivano dalla periferia, da zone di confine. Per De Gasperi, da giovane, Vienna o Cracovia erano più vicine di Roma, Adenauer era più di casa in Francia che a Berlino. Esiste una mappa dell’Europa precedente alle due guerre mondiali, forse bisognerebbe far rivivere quella memoria.
«Torno all’idea che sta dietro al progetto Erasmus. Non esiste un’idea né una possibilità di cooperazione senza un incontro. Per fare cose insieme, banalmente, due persone devono incontrarsi. Lo sguardo l’uno negli occhi dell’altro, la stretta di mano, pongono fine ai conflitti. Lo sguardo l’uno negli occhi dell’altro è il contrario del tweet, è un contatto fisico. È una cosa semplice ed elementare, eppure abbiamo difficoltà di metterla in atto. Aggiungo: per me essere una provinciale, una di periferia è un motivo di vanto. Lo dico spesso ai miei amici di Varsavia che spendono il loro tempo negli studi tv. Io sto in mezzo alle persone».
Danzica non è periferia. Schopenhauer e Fahrenheit, per citare due personaggi illustri, sono nati qui e lei ha appena detto che la libertà polacca e la fine del totalitarismo in Europa nascono da queste parti.
«Secondo la narrazione dei nostri governanti, trent’anni fa, i negoziati tra Solidarnosc e i comunisti che portarono alle elezioni libere del 4 giugno, erano un tradimento. Il mio sindaco invece ci teneva moltissimo perché si celebrasse a Danzica il trentesimo compleanno della nostra libertà. Le trattative tra Solidarnosc e il potere comunista nel 1989 erano l’esempio di come guardarsi gli uni negli occhi degli altri. Il più grande successo della storia della Polonia è stato il fatto che abbiamo cambiato il Paese e il mondo senza l’uso della violenza, senza spargere una goccia di sangue. Per me il patriottismo è questo».
Lei è nata e cresciuta come cattolica. Qual è il rapporto tra fede e politica? In Polonia il governo è clericale. In Italia Salvini bacia il rosario nei comizi.
«Mi chiede quale debba essere a mio avviso il ruolo della Chiesa nella vita pubblica? Rispondo: nessuno. Sono membro della Chiesa cattolica romana e far parte di questa comunità è un elemento molto importante della mia identità. Nello specifico, mi trovo vicina alla Chiesa di Francesco. Abbiamo, nella nostra comunità cattolica romana, mille problemi».
Un documentario sulla pedofilia tra sacerdoti in Polonia, visto da milioni di persone in Rete, ha scosso la pubblica opinione polacca, anche per la vicinanza tra il potere e l’altare.
«Non è il tema della nostra conversazione. Comunque, tutta la mia solidarietà va alle vittime e tutto il mio appoggio ai sacerdoti che si adoperano per ripulire la Chiesa e rinnovarla».
Spesso parla del Bene. Ma cosa è il Bene?
«Non fare a un altro quello che non vuoi sia fatto a te. Ama il prossimo tuo come te stesso. Dobbiamo vivere la nostra quotidianità coerentemente con le idee e i valori che professiamo in pubblico. Quando parlo di una Danzica in cui ognuno si sente bene, quando racconto questo sogno, ho in mente, ripeto, una comunità di persone che si guardano negli occhi». Concretamente?
«L’economia, gli investimenti. Il lavoro dà dignità, soldi, permette di crescere i figli, dar loro un’educazione e un’istruzione. Tempo fa, abbiamo deciso, con il mio sindaco, di fornire trasporti pubblici gratuiti a bambini e ragazzi. Ci siamo detti: certo, è un provvedimento costoso. Ma con il nostro duro lavoro abbiamo reso, noi tutti gli abitanti di Danzica, la nostra città be- nestante. E quindi possiamo redistribuire la ricchezza. Però lo dobbiamo fare con saggezza, mantenendo un certo equilibrio. Nello stemma di Danzica c’è scritto in latino “Nec temere nec timide”, non temerariamente ma neanche timidamente».
Della memoria tedesca della città co sa vuol fare?
«In che senso memoria tedesca?».
In questa città fino alla Seconda guerra mondiale si parlava in tedesco.
«Ma in tedesco parlavano non solo i tedeschi. Lo parlavano gli abitanti di Danzica, i danzichesi. Senta. Oggi, dopo la caduta del comunismo, abbiamo la possibilità di parlare liberamente di queste cose. Io sono cresciuta in una famiglia che faceva parte dell’ambiente dell’opposizione democratica liberale, l’ambiente di Donald Tusk. Per noi erano importanti i libri di Günter Grass, che qui è nato. Lui raccontava una città prussiana, con tutte le diversità delle sua culture: la tedesca, la polacca, l’ebraica e via elencando. La complessità è una ricchezza».
Porti aperti?
«I porti non si chiudono. Punto. Danzica è stata la prima città in Polonia a introdurre la Carta dei diritti degli immigrati. E questo documento (così come la convenzione sulla parità dei diritti e che riguarda le persone gay e lesbiche) è una risposta alla sfida della modernità, e non una dichiarazione atta a cercare applausi di chi la pensa come me. Gli immigrati sono qui, qualunque cosa voglia il governo polacco o altri governi».
Abbiamo parlato del Bene non del Male. Resta la domanda: perché amiamo odiare?
«Molti mi chiedono se sia stata la narrazione dell’odio ad aver portato all’assassinio del sindaco Adamowicz. Non lo so. Non voglio semplificare. Sicuramente il linguaggio dell’odio, e il consenso della pubblica opinione e dei governanti a questo tipo di linguaggio, fa sì che oggi la gente si sente libera di dire qualsiasi cosa e di compiere azioni che dovrebbero suscitare lo sdegno di qualunque persona decente. In un paesino, alla viglia di Pasqua, in una cerimonia pubblica, è stato picchiato e bruciato il fantoccio di Giuda con le sembianze di un ebreo. E la procura non ne ha visto elementi di reato. Per tornare alla sua domanda. Non so se ci piace odiare, ma la natura degli umani è tale da voler avere risposte semplici a questioni complesse. E poi, il Bene è difficile perché bisogna fare lo sforzo di aprirsi all’Altro, mentre espellere l’Altro è facile, perché è gratuito».

L’Espresso 26.5.2019
Divisi nel nome di un’identità fasulla
di Donatella di Cesare


L’offensiva sferrata dalla destra e dall’estrema destra contro l’Europa dà un nuovo senso alle elezioni che avrebbero forse rischiato di essere considerate un vuoto rituale. Mai come oggi è chiaro che il destino dei popoli europei è in mano ai cittadini, chiamati a una scelta decisiva. Ecco perché queste elezioni non sono come le altre.
Sebbene molti sostengano l’irreversibilità dell’unificazione, per la prima volta l’avvenire di questo ambizioso progetto politico è incerto e oscuro. Implosione, scissione - o anche solo lento smembramento? Un’ultradestra aggressiva e senza scrupoli, capace di mimetizzarsi dietro una miriade di maschere, abile nel trarre profitto da tutte quelle difficoltà globali, effetto in gran parte delle politiche liberali, ha lanciato una sfida che dal dopoguerra non ha precedenti.
Proprio in Italia, dove governano i neofascisti della Lega coalizzati con i 5 Stelle, questa sfida è andata assumendo, a partire dal 2018, toni sempre più espliciti, irruenti, rissosi. D’altronde non è un mistero: il fronte sovranista, Bannon in testa, vede in questo paese il laboratorio che potrebbe preparare la svolta autoritaria. Così un regime apertamente razzista, che erode i diritti umani e intacca le libertà democratiche, finendo per violare impunemente la Costituzione, che non risolve nessun problema sociale, dalla precarietà alla corruzione, perché anzi da stallo e depressione trae alimento, potrebbe essere esportato altrove. In mancanza di definizioni politiche più precise - sovranismo, nazionalismo autoritario, neofascismo? - il nome di «Salvini» è diventato emblema di questo fenomeno che sconvolge lo scenario europeo.
Solo qualche mese fa la Brexit sembrava il modello da seguire per la politica delle nazioni contro «Bruxelles». Adesso le cose sono cambiate. Smarrita nel suo ottocentesco mito imperiale, l’Inghilterra non rappresenta più il sogno dell’uscita, bensì l’incubo di una fuga che minaccia di tradursi in autodistruzione. Il ritiro dall’Europa è un ritiro dalla Storia.
Che cosa vogliono allora i sovranisti? «Indietro tutta!» era solo uno slogan. Se la fuga regressiva è impraticabile, l’obiettivo tuttavia non cambia: promuovere la decomposizione dell’Europa, frantumata in nazionalismi economici, paralizzarne con veti e minacce le istituzioni, svuotarle del tutto. Il che consentirebbe di farne un semplice meccanismo di scambio dove, oltre ad un’eurozona forte accanto ad una debole, sarebbero tollerabili - o magari auspicabili - regimi politici illiberali e parademocratici. L’asse del nord-est, capeggiato dal gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Slovacchia), che raggruppa il governo italiano, quello austriaco, settori della destra tedesca, insieme ai molti partiti xenofobi, francese, svedese, olande- se, guida questo allarmante piano che intende alla fin fine disarmare la politica.
Che ne sarebbe allora dell’Europa, stretta fra America e Cina, ostaggio della Russia, in un contesto globale dove l’ultradestra va affermandosi anche oltreoceano - basti pensare al neofascista Bolsonaro in Brasile - mentre la sinistra si rivela ovunque stanca, scialba, irresoluta, inefficace? È questa la domanda che ciascuna cittadina e ciascun cittadino oggi devono porsi.
Se l’Europa è un progetto incompiuto, la responsabilità va attribuita alle classi dominanti che, anziché persegui- re una strategia unificatrice, hanno coltivato i propri interessi disputandosi per proprio conto il mercato mondiale. I patronati europei hanno imposto l’austerità, preteso il basso costo del lavoro, e hanno soprattutto smantellato poco per volta tutti i diritti conquistati dal movimento operaio, sostenendo che il «vecchio continente» fosse troppo sociale. Così queste élite economiche e tecnocratiche, che oggi strizzano l’occhio all’ultradestra, sono andate a conquistarsi fette del mercato infischiandosene dell’unità europea.
Nel disorientamento complessivo i partiti socialdemocratici hanno finito per assecondare in modo acritico le scelte neoliberiste. Ecco perché il progressismo non può essere oggi sbandierato come argine contro le forze populiste e neofasciste. Non meno inquietante è quella deriva sovranista che, quasi come in un ralenti degli anni Trenta, spinge parti della sinistra ad abbracciare il nazionalismo autoritario della destra.
L’alternativa all’orizzonte c’è ed è un’Europa democratica, internazionalista, anticapitalista, ecologista. È tempo di rovesciare la prospettiva e difendere l’idea sociali- sta della solidarietà europea. Non il ritorno alle frontiere nazionali, ma la rivendicazione di un’altra Europa, quella dei popoli, capace di riorganizzare l’economia, salvaguardare l’ambiente, difendere i migranti. La costruzione neoliberale è fallita dando luogo a esiti autoritari.
Per questo non è più possibile richiamarsi semplice- mente ai “padri fondatori”. Il mondo non è più quello di allora; il paesaggio attuale è radicalmente diverso e inediti sono i problemi da affrontare. È indispensabile, anzi, un nuovo progetto che, senza cadere nelle trappole giuridicocostituzionali, realizzi una nuova forma politica postnazionale. Forse questa crisi pretotalitaria sarà l’opportunità per rilanciare un’altra Europa. Le elezioni possono essere un primo passo.
La perdita d’orientamento non è casuale. Nel mito greco Europa è una giovane donna straniera, un’immigrata involontaria, rapita da Zeus e poi abbandonata sull’isola di Creta. Altre varianti della leggenda restano fedeli all’estraneità, per nascita e nome, di questa figura femminile. Lì si annuncia la sua futura vocazione. L’accoglienza è inscritta nella sua eccentricità. È questo che l’ha resa ben più che l’erede della tradizione greca. Molteplici sono le sue fonti e alcune - a cominciare da Gerusalemme - sono addirittura fuori dai suoi confini geopolitici. Così l’ha pensata la filosofia, a cui è intimamente legata. Non un luogo, non una terra, non un continente, ma la direzione del sole.
Questo orientamento si è perso da quando si è preteso che fosse “bianca e cristiana”, da quando l’Europa attuale è stata violentata, rapita e già abbandonata da economie predatorie e interessi nazionali. La gabbia di una fantomatica identità l’ha mutilata.
È molto europeo non sentirsi europei. Ed è un enorme privilegio che rischia di essere riconosciuto troppo tardi. La coabitazione con l’altro è quel che insegna sin dall’inizio quella giovane straniera, giunta suo malgrado su un’isola, abitante al confine, relegata al margine, madre dei diritti umani, che tutte e tutti dovremmo difendere.

L’Espresso 26.5.2019
Giustizia sociale e ambiente: appunti per un’agenda antisovranista
di Fabrizio Barca


Siamo a una biforcazione, in Italia e in tutto l’Occidente, in cui l’ansia e la rabbia di vaste parti di popolo possono alimentare una dinamica autoritaria involutiva - è già in corso - o possono trasformarsi in una nuova fase di emancipazione. A decidere sarà la capacità di costruire e attuare azioni pubbliche e collettive radicali che perseguano assieme giustizia sociale e giustizia ambientale. Solo convincendo “vaste parti di popolo” che questi due obiettivi possono essere raggiunti e che devono e possono esserlo assieme, torneremo indietro dal dirupo in cui stiamo cadendo. Questo è il tema centrale delle elezioni europee: si doveva convincere che l’Unione Europea, spronata da un’alleanza innovativa nel suo Parla- mento, possa cambiare rotta e dare un contributo decisivo in questa direzione. Con rare eccezioni, non è ciò che abbiamo ascoltato in queste settimane. L’arena politica è stata dominata da temi-truffa, come la favola che la vittoria dei nazionalismi allenterebbe le regole di bilancio - quando essa produrrebbe invece l’irrigidimento a-solidale e punitivo verso di noi - o promesse nostrane di “ordine” e “sanzioni” che servono a distrarre e coprire provvedimenti contro gli interessi popolari - come la redistribuzione di reddito ai ceti abbienti insito nella “flat tax”. Su questo campo di gioco è restato inchiodato il pubblico dibattito. I candidati che credono in un’Europa motore di pace e di emancipazione sociale avrebbero dovuto dirci con voce forte per quali obiettivi chiedevano il nostro voto. Su quali dossier costruiranno ponti con gli eletti di altri paesi.
Non mancano le analisi e le proposte a cui fare riferimento. Ne richiamo due, pronte all’uso. Il Documento Uguaglianza sostenibile redatto da una Commissione indipendente su iniziativa dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al Parlamento Europeo e il Rapporto 15 Proposte per la giustizia sociale, costruito dal Forum Disuguaglianze e Diversità (ForumDD).
La diagnosi dei due Rapporti è simile. L’origine dell’ansia e della rabbia sta nella gravità delle disuguaglianze: l’arresto e spesso la ripresa delle disuguaglianze di reddito, la violenta crescita delle disuguaglianze di ricchezza, i gravi divari territoriali nell’accesso a servizi fondamentali di qualità e al patrimonio comune, il venir meno per molti del riconoscimento dei propri valori e del proprio ruolo (i cittadini delle aree interne e di altre aree fragili, gli operai, gli insegnanti). In assenza di un riferimento politico e culturale convincente che apra uno scenario di emancipazione, la rabbia e il risentimento che discendono da queste ingiustizie si stanno traducendo in una “dinamica autoritaria”. E poiché i ceti deboli percepiscono spesso che le politiche ambientali sono in primo luogo pensate dai ceti forti per i ceti forti e sono finanziate prima di tutto a loro carico, di questa dinamica perversa fa par- te anche un’avversione alle politiche di sostenibilità ambientale, e un’implicita alleanza con le forze produttive legate a un modo di produrre insostenibile. Ecco perché giustizia ambientale e giustizia sociale hanno un comune desti- no. Perché l’una influenza l’altra: nelle nostre degradate periferie o nelle “aree fragili” l’assenza di mezzi diventa l’impossibilità di prendersi cura del territorio, mentre il degrado urbano diventa l’impoverimento delle opportunità economiche personali; assieme diventano erosione di identità. E comunque si avrà consenso popolare alla giustizia ambientale solo se la transizione energetica assicurerà di beneficiare prima di tutto i più vulnerabili.
E poi vengono le proposte concrete dei due Documenti, che mirano a redistribuire poteri, a modificare i meccanismi di formazione della ricchezza, a configurare un’Unione Europea rinnovata che lavori con i cittadini e per i cittadini.
La riallocazione di potere perseguita dalle proposte mira in primo luogo a ridare forza negoziale e di controllo al lavoro: promuovendo la partecipazione strategica dei lavoratori, riconoscendo al lavoro pseudo-autonomo diritti oggi negati, promuovendo il rafforzamento dei sindacati. E al tempo stesso si prefigge di dare potere ai cittadini nei processi attraverso cui, territorio per territorio, si disegnano i pubblici servizi, si ha cura delle persone, si tutela e si rende accessibile la ricchezza comune. Una delle 15 proposte del ForumDD, che ha fondamenti in esperienze europee, propone, poi, la costituzione dei Consigli del lavoro e della cittadinanza. Accanto ai Consigli di amministrazione di singole imprese o di sistemi territoriali d’impresa, si avrebbe un Consiglio che valuti in anticipo, e in alcuni casi abbia potere di veto, su decisioni strategiche e che sia composto da rap- presentanti eletti dai lavoratori (qualunque sia la natura del loro contratto) ed eletti dai cittadini che risentono del- le ricadute ambientali delle decisioni aziendali: un modo per ricercare prima la convergenza di obiettivi, anziché patire dopo del loro conflitto.
Molte proposte mirano a dare una for- ma diversa al capitalismo. C’è in questo obiettivo il rigetto di quell’assunto “non c’è alternativa” che ha dominato a lungo il pensiero occidentale, distorcendo l’azione pubblica. Le proposte avanzate vanno dalla promozione di forme di impresa (esistenti) che non soggiacciono all’imperativo unico della massimizzazione del “valore patrimoniale”, incorporando obiettivi sociali e ambientali, a un insieme di misure che blocchino l’elusione e l’evasione delle imposte sulle imprese. In particolare, poi, nelle 15 Proposte del ForumDD si propone di introdurre obiettivi e criteri di giustizia sociale e ambientale nel- la missione delle imprese pubbliche, nella valutazione delle Università, nel finanziamento pubblico della ricerca privata, negli appalti pubblici. Si pro- pone inoltre di partire dalla forte base delle 1000 infrastrutture di ricerca di base europee per costruire tre hub-tecnologici nell’innovazione e vendita dei prodotti che competano con le grandi
corporations private, nei campi demografico/salute, della transizione energetica e digitale. Si
propone infine di dare forza al movimento in atto, a partire da città come Barcellona o Amsterdam, per costruire piattaforme digitali a sovranità collettiva per i principali servizi urbani Infine, assieme a un gruppo di proposte espressamente dirette alla giustizia sociale, il Rapporto Uguaglianza Sostenibile avanza una proposta che serve a portare gli obiettivi sociali e ambientali dentro il meccanismo del “semestre europeo”, quello che indirizza i processi decisionali delle politiche di bilancio dei singoli Paesi membri. È un meccanismo dominato finora dall’obiettivo di evitare squilibri di bilancio. Nella proposta, a questo obiettivo si affianca con pari rango, un sistema di obiettivi ambientali e sociali codificato in un “Patto di sviluppo sostenibile multi-annuale”. Nell’istruire questo processo, oltre alla Direzione Affari economici e finanziari assumerebbero un ruolo le Direzioni competenti per quegli obiettivi, riportate finalmente su un piano di parità. In questo contesto, la politica di coesione diventa lo strumento per declinare la nuova politica europea sulla base delle esigenze dei singoli territori.
La nostra Unione ha bisogno di un forte rinnovamento e di persone decise ad attuarlo.

L’Espresso 26.5.2019
Jasmine
Con “Aladdin”, la Disney lancia il contrordine: basta principesse remissive, ora le ragazze conquistano la leadership. Come accade alle eroine della Marvel. Merito di una nuova generazione di creativi: donne
di Sabina Minardi


Che qualcosa non torni si intuisce subito: che fine hanno fatto il top turchese e i pantaloni in stile harem, iconografia inconfondibile, e a dire il vero già potenzialmente femminista, del classico dell’animazione Disney?
Nel mondo del live action dove Jasmine è catapultata, per il remake di “Aladdin” appena arrivato al cinema, una collezione di abiti mai vista prima - colori insoliti come il magenta; accostamenti arditi, l’arancio col verde malachite; tessuti costrittivi via via sempre più morbidi e meno claustrofobici, - racconta una metamorfosi ben più profonda di un semplice upgrade di guardaroba.
E poi lei, la protagonista, Naomi Scott: non è la stessa dei“ Power Rangers”, Pink power che contagia una nuova generazione di supereroi, e una delle intrepide “Charlie’s Angels”, in uscita a fine anno?
«Jasmine è sempre stata la mia principessa preferita: forza da combattente e spirito da leader. È una figura politica», esulta l’attrice nata a Londra, da madre di origine indiana e ugandese. «Come tutte noi ragazze di oggi, Jasmine è tante cose contemporaneamente: ciò che amo in lei è che può essere forte, ma può anche permettersi di piangere».
La rivoluzione è compiuta. Dopo anni di manovre di avvicinamento, principesse che si fingono uomini (Mulan), ribelli che sfidano le regole e le aspettative (Merida), baci di passione soppiantati dall’amore insostituibile tra sorelle (Elsa e Anna), e figure sempre più indipendenti (Vaiana che affronta il mare in solitaria, la bibliofila Belle, che sa vedere oltre le apparenze della Bestia), è finalmente arrivata la principessa-sultano. La fanciulla che non ha bisogno di sposare Aladino per ottenere il regno del padre, come l’originaria principessa era costretta a fare. Semmai che l’amato Aladino sostiene, e accompagna - in un ulteriore, rivoluzionario, cambio di passo - perché ottenga ciò che le spetta: per eredità, ma soprattutto per la sua spiccata leadership.
Hanno coniato una parola per raccontare il contrordine di Disney rispetto a un immaginario di principesse sognanti e remissive: “feminisney”. Un fenomeno visibile ormai da qualche anno, anche nella scelta degli interpreti, appunto: vedi il ruolo di Belle ne “La Bella e la Bestia” affidato a Emma Watson, ex Hermione di Harry Potter ora convinta femminista e icona di impegno per la parità di genere (“Le principesse sono cambiate” è il titolo della sua biografia, edita da Piemme). E i colpi di scena, sparsi qua e là a sorpresa, hanno ribadito il concetto: come il pigiama party in “Ralph Spacca Internet”: un intero pantheon di principesse stravaccate su pouf e vestite nel modo più comodo possibile, sneaker, canotte e felpe, e patatine e frappè in mano, come ragazzine comuni in vena di ore piccole fuori casa.
Ma l’effetto, in questo ultimo capitolo, immerso in un Medio Oriente da Mille e una notte accuratamente liberato dai cliché, è dirompente per gli immaginari globali: Jasmine, la principessa che vuole il regno, perché lo conosce più di tutti; che ama il po- polo e intende colmare la distanza che si è creata col sultano; che ha studiato per diventare capo, e si merita il trono ben più della parata di banali pretendenti che sfilano all’inizio del film (la questione sta per esplodere: goffi, insignificanti, rozzi: non sarà nociva ai maschi una rappresentazione simile?), ha una voce nuova, convincente, carismatica, autorevole. E tutta sua, letteralmente: non si era mai vista una principessa esalta- re la presa del potere con una canzone che è come un ruggito: “Speechless”, musica di Alan Menken e testi del duo Benj Pasek-Justin Paul di “La la land”. Eseguita, ha detto l’attrice Naomi Scott, pensando a tutte quelle donne che alzano la voce in difesa della loro dignità. E interpretata, in italiano, dalla grintosa Naomi di X- Factor.
La realtà, certo, è decisamente più complessa. Su Disney piovono ciclicamente le polemiche: e vuoi che Aladino non riaccenda quelle sulla tentazione del “whitewashing”? O che il cast, così accuratamente multietnico – l’afroamericano Will Smith nei panni del genio, Aladdin-Mena Massoud, attore canadese di origini tunisine, Jafar-Marwan Kenzari olandese di origini tunisine - non induca il sospetto di un artificio politically correct? Non solo. Dalla California arriva ora anche l’accusa all’azienda di discriminare le donne, sottopagandole rispetto agli uomini, in un divario retributivo di genere considerato, riporta The Guardian, “radicato e diffuso” . E poi c’è l’America: quella disneyana è la stessa di Trump, che calpesta i diritti di molte minoranze deboli, come quelli delle madri separate dai figli alla frontiera. E dove la clamorosa retromarcia di uno Stato, l’Alabama, riporta indietro i diritti delle donne e spedisce il loro corpo, e il diritto all’aborto, al centro della campagna elettorale. Maschile.
Ma un fatto è innegabile: il vento di cambiamento che un team di autentici influencer, consapevoli della forza straordinaria del brand Disney, sta imponendo alle sue produzioni.
“Aladdin”, diretto da Guy Ritchie, uno che ha avuto l’empowerment delle donne in carne e ossa dentro casa, per essere stato il marito di Madonna, è stato scritto insieme con John August, apertamente gay e in prima linea in molte battaglie contro le discriminazioni, oltre che collaboratore del visionario Tim Burton (sue sono le sceneggiature di “Big Fish”, “La fabbrica di cioccolato” e “La sposa cadavere”).
Né è un caso che la Jasmine del ventunesimo secolo arrivi mentre è direttore creativo della Walt Disney Animation, al posto del geniale John Lasseter, Jennifer Lee, regista e sceneggiatrice di “Frozen”, già salutato come il film Disney più femminista di sempre. La nomina di Lee è stata inserita dagli osservatori americani per la parità tra i momenti più significativi del 2018 a favore delle donne, in un elenco che includeva, per capirci, la vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez su Joseph Crowley alle primarie democratiche e di Marina Hierl al vertice di un plotone di fanteria dei Marines.
Donne che fanno squadra. Generazione - qualche anno in meno, qual- che anno in più - di cinquantenni, che ribadiscono l’impegno per una rappresentazione di eroine sempre più autentiche. E deliberatamente attente alle scelte sessuali di tutti.
Nel novembre scorso, l’Lgbt Center ha attribuito il Vanguard Award alla Marvel Comics per la sua attenzione nel ritrarre personaggi e trame che contribuiscono alle battaglie antidiscriminazioni. Vice presidente esecutivo della Marvel, sussidiaria di The Walt Disney Company, è oggi Victoria Alonso, dichiaratamente lesbica. “Black Panther” ha aperto gli sce- nari a una maggiore inclusione, dopo decenni di eroi solo bianchi ed etero. E “Capitan Marvel”, diretto da una donna (Anna Boden, col marito Ryan Fleck), è stato un successo di Marvel Studios, distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures, con una ragazza supereroe per protagonista, e un’ amica per alleata. Come in “Aladdin”, dove fa la sua apparizione Dalia, amica complice e autentica di Jasmine, nell’originale del 1992 soltanto con la tigre Rajah a farle compagnia.
Donne capaci di esercitare forza fisica e gentilezza, e di concepire la politica e il potere in modo nuovo: «L’ambizione di Jasmine non è finalizzata a progredire da sola, ma a farlo per il bene del suo popolo», ha notato l’attrice protagonista su Entertainment Weekly, che al remake di Aladino ha dedicato un intero numero. Proprio come le “ireniste” richiamate sull’Espresso (n. 21 del 19 maggio 2019) dalla filosofa Donatella Di Cesare, che cercano la pace ed edificano la polis: «In attesa di una nuova politica pensata dalle donne, che spezzerà il lugubre nesso con la guerra, le ireniste preferiscono vedere nel nemico un avversario con cui si am- mette di dover condividere un mondo, con cui si ha dunque un rapporto di rivalità, ma anche allo stesso tempo di coesistenza».
«C’è una grande confusione sul significato di talento: le ragazze pensano che significhi solo saper cantare o ballare, o primeggiare in uno sport. Le storie giuste possono insegnare come riconoscere il proprio “dáimon”, il genio ispiratore, come allenarlo e trasformarlo nella propria arma più forte», dice Veronica Di Lisio, direttore editoriale di Giunti, che pubblica i libri con i mar- chi Disney , e che ha appena lanciato la collana “Storie di talenti”, per lettori dai 6 anni in su. Si comincia con il coraggio e con la gentilezza, attraverso le storie delle principesse Belle e Cenerentola. A settembre arriverà il secondo volume dedicato alla gratitudine e all’unicità, con l’aiuto di Jasmine e Aurora. Spin off delle storie originali, editate in Italia, che hanno per protagoniste le principesse da piccole, per raccontare l’incanto della scoperta di sé.
«Certamente avrei potuto scegliere figure più moderne. Ho preferito le principesse più classiche perché i loro gesti, le loro emozioni, i sentimenti, non sono manifestazioni di una femminilità passiva e tradizionale, ma nascondono atteggiamenti rivoluzionari da mettere in luce. Cenerentola bullizzata dalle sorellastre è una figura ben più complessa della semplice fanciulla in attesa del principe azzurro. E riscoprire il valore della gentilezza non significa adeguarsi a una prerogativa sociale delle donne: oggi più che mai, una persona gentile sa ascoltare e ottiene cose straordinarie».
Creative, ribelli, audaci. Le ragazze in libreria hanno solo l’imbarazzo della scelta, tra principesse dei ghiacci, dei deserti, dei coralli, con scarpe da corsa o tra i grattacieli di Manhattan. Tra le biografie di donne straordinarie - i due bestseller delle “Storie della buonanotte per bambine ribelli” di Francesca Cavallo ed Elena Favilli (Mondadori) restano un successo insuperato - imperdibile è anche il graphic novel che Sinnos ha realizzato da un suo classico, “Cattive ragazze” di Assia Petricelli e Sergio Riccardi. “Post Pink. Antologia di fumetto femminista” a cura di Elisabetta Sed- da (Feltrinelli Comics) mette in campo alcune delle disegnatrici più incisive per narrare il corpo delle donne e le battaglie che vi si sono combattute. Perché il sessismo è ancora assai resistente nel mondo occidentale, e una priorità delle battaglie femminste nelle società richiamate dal film “Aladdin”: generico Oriente che evoca l’Arabia e gli Emirati, ma anche l’India e la Cina. Jasmine, proclamata sultano (nel film al maschile) dell’immaginario regno di Agrabah (in italiano la voce del padre è quella di Gigi Proietti), parla soprattutto a loro: alle ragazze che hanno ancora bisogno di un uomo a fianco per un riconoscimento sociale, alle spose bambine, alle lotte da compiere per un’emancipazione non di facciata, a un diritto di famiglia ancora patriarcale.
Al momento, c’è solo un posto dove modernità e tradizione sono alla prova definitiva: nel regno di Yogyakarta, in Indonesia. Qui, il sultano ultra- settantenne Hamengkubuwono, che non ha eredi maschi, è deciso a lasciare il regno alla figlia, Gusti Kanjeng Ratu, studi all’estero e cariche sintetizza l’anima giavanese, sta lottando per realizzare il sogno di Jasmine.

L’Espresso 26.5.2019
Luciana Castellina
Rossana, Lucio, Luigi ed io. Gli scomunicati che il Pci voleva mandare in una trattoria
A 90 anni la comunista che fu espulsa dal Partito insieme ai compagni eretici è tornata alla politica candidandosi in Grecia. E racconta il suo ’ 69. Che sarebbe potuto finire tra i fornelli
90 26 maggio 2019
di Carmine Fotia


Fu un cambiamento radicale delle nostre vite: eravamo tornati ai nostri vent’anni, a quel ’48 di lotte e di speranze che era stato il ’68 della mia generazione. E così tra noi e i ragazzi del movimento scoccò la scintilla». Nel pomeriggio di una quieta domenica romana, Luciana Castellina, 90 anni appena compiu-ti, orgogliosamente comunista, candidata con la Lista Tsipras in Grecia alle prossime elezioni europee, nella penombra della sua bella e silenziosa casa nel quartiere Parioli, dove vive da sempre, con il piccolo cane Fefè accovacciato accanto a me, un bicchiere di vino bianco e qualche fetta di salame, ricorda i fatti che cinquant’anni fa portarono lei e un altro gruppo di pazzi a fondare la rivista “il manifesto” che ha segnato, comunque la si giudichi, la storia della sinistra e del giornalismo italiani. Del gruppo dei fondatori sono rimasti lei e Rossana Rossanda. Due straordinarie ragazze del secolo scorso, per citare il titolo dell’autobiografia di Rossana. In quel fatale 1969 la scintilla che aveva dato vita al ’68, dalle università, dalle fabbriche, dalla Cecoslovacchia invasa dai carri armati sovietici, portò l’incendio nel cuore del più grande partito comunista dell’Occidente, aprendo una discussione non solo sulla necessità di rompere ogni legame con il regime sovietico, ma an- che sui caratteri del capitalismo italiano e sulla strategia del partito comunista di fronte alle nuove lotte operaie e studentesche.
Quella discussione era cominciata anni prima ed era culminata nell’11° congresso del Pci, nel 1966, con la sconfitta della sinistra ingraiana che si contrapponeva alla destra amendoliana. Attorno a Pietro Ingrao, che era stato uno dei giovani su cui Togliatti all’indomani della Resistenza si era poggiato per lanciare il partito nuovo emancipandolo dal controllo e dall’impostazione militarista dello stalinista Pietro Secchia, si aggrega un gruppo composito di dirigenti-intellettuali, di estrazione borghese, colti e cosmopoliti, molto critici, ma anche molto moderni. Da Bruno Trentin, formazione azionista e leader dei metalmeccanici Fiom, a Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale, a Luigi Pintor, gigante del giornalismo, condirettore dell’Unità, ad Alfredo Reichlin, figlio di un avvocato pugliese, direttore dell’Unità, che era stato sposato con Luciana Castellina, giornalista militante, statuaria e conturbante, con la sua bellezza mediterranea, così diversa da quella Santa Maria Goretti che negli anni ’50 il giovane Enrico Berlinguer, segretario della Fgci, aveva indicato quale modello alle ragazze comuniste. Luciana ora sta con Lucio Magri, ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo (tanto che nel 1962 Jean Paul Sartre, che dirige la rivista Les Temps Modernes, gli chiede di collaborare), bello co-me un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi. Poi c’è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l’inchiesta de L’Espresso “Capitale Corrotta, Nazione Infetta” e Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti.
«Dopo il congresso», racconta Luciana Castellina, «veniamo tutti esiliati: Pietro diventa capogruppo alla Camera, lontano dal vero potere del partito. Rossana viene rimossa dalla carica e “promossa” in Parlamento; Luigi viene mandato in Sardegna come vicesegretario regionale e responsabile della Commissione agricoltura e sarà poi mandato anche lui in Parlamento; io, in quel momento lavoravo con Nilde Iotti e vengo chiamata da Giorgio Napolitano, che mi propone di tornare a fare la giornalista a Paese Sera, dal quale provenivo ed io rispondo di no: “O sono ancora comunista o non lo sono più”, esclamo. A quel punto Nilde, che non era stata avvertita, va su tutte le furie e in Direzione mi difende con veemenza, ottenendo che venga mandata a lavorare alla presidenza dell’Unione donne italiane. Lucio invece si licenzia da funzionario, prendendo le sue 30.000 lire di liquidazione».
Forse è in questo preciso momento che in quel gruppo, che era stato essenzialmente poli-
imperfezioni e le sue gioie, con la forza dirompente del suo scorrere che il rigido apparato comunista non è più in grado di irreggimentare e controllare. La condizione di sconfitti ed emarginati rinsalda le relazioni umane, il prezzo pagato per la propria libertà è alto, ma mette questo gruppo in sintonia con quel che sta avvenendo nel mondo: dalle lotte studentesche delle università americane parte la contestazione della guerra in Vietnam, la Cina contesta l’egemonia dell’Urss, mentre la piccola Cuba tiene testa alla potenza americana. In Italia il centro- sinistra perde lo slancio riformista dei primi anni, le lotte operaie si fanno più dure, cominciano le prime occupazioni delle università, nel mondo cattolico l’apostolato di Giovanni XXIII ha generato una nuova leva di cattolici impegnati nelle lotte dei diseredati.
Vivono un po’ da bohémien, squattrinati ma arsi dalla passione politica e da una febbrile ricerca delle nuove vie per la “rivoluzione”. Racconta Luciana Castellina: «Lucio va a vivere all’Argentario nella casa che io prendevo in affitto per tutto l’anno. In casa non c’era neppure la televisione, per cui per guardarla andava al bar dove, non avendo una lira, consumava due caramelle mou. Furono anni preziosi, nel corso dei quali si cementarono i nostri rapporti, ma non fummo mai una frazione. Certo, ci vedevamo, a casa mia o di Rossana, che abitava di fronte a me, con Bruno Trentin, con il mio ex-marito Alfredo Reichlin, con Aldo Natoli, con Pietro Ingrao. Lucio, che aveva scelto la libertà, ogni tanto andava da Luigi in Sardegna e trascorreva del tempo con lui. Nel frattempo irrompe il ’68, con i movimenti studenteschi ma per noi soprattutto con l’invasione della Cecoslovacchia». ’69 si apre con un’altra giovane S
e il ’68 si chiude con la morte dello studente Soriano Ceccanti alla Bussola di Viareggio, il
vita sacrificata: è quella di Ian Palach, lo studente che si dà fuoco a Praga in piazza San Venceslao un anno dopo l’invasione sovietica, ben presto dimenticata: «A quel punto, come scrivemmo sul secondo numero della rivista, “Praga è sola”. È in quel momento che decidiamo di fondare la rivista, il cui primo numero uscirà il 23 giugno. Il nome della rivista lo trovammo seduti sul muretto qui sotto casa mia. Eravamo io, Rossana, Lucio, Luigi. Dapprima Lucio pensava a un nome raffinato, “Il Principe”, con l’evidente richiamo a Machiavelli, ma poi ci venne in mente il manifesto, anche se ci sembrava un po’ arrogante prendere il nome del libro simbolo del comunismo. Poi però pensammo, ma sì facciamolo! Anche perché manifesto voleva dire anche Tazebao, ovvero lo strumento di propaganda usato nella rivoluzione culturale cinese, e rappresentava anche la nostra richiesta che il dissenso fosse, appunto, manifesto».
Nasce così la rivista, sobria ed elegante, disegnata da Giuseppe Trevisani, che era stato il successore di Abe Steiner al Politecnico di Elio Vittorini, con quella testata tutta in minuscolo e con quel particolare carattere che, diremmo oggi, diventa un brand di successo. Troppo successo, forse. Il primo numero, diffuso in edicola dall’editore Dedalo, vende più di 50.000 copie. La rivista è diretta da Magri e Rossanda, scrivono Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S. Karol, Michele Rago e Lucio Colletti, tra gli altri. Jean Paul Sartre concederà una lunghissima intervista a Rossana Rossanda.
Nel partito si apre un processo che ricorda gli anni bui dello stalinismo: coloro che rifiutano l’abiura, vengono cacciati, dal Comitato centrale fino all’ultima sezione. Non li difende neppure Ingrao, il leader con cui avevano rotto al dodicesimo congresso. Se ne pentirà amaramente, come anche Enrico Berlinguer che favorì poi il rientro nel partito a metà degli anni ’80, gestito proprio da quell’Alessandro Natta che aveva presieduto il tribunale dell’inquisizione comunista (per una ricostruzione più accurata “Unire è difficile” di Guglielmo Pepe e “Da Natta a Natta” di Aldo Garzia).
Rossana Rossanda ha ricordato così la rottura: «L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, il meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ’68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ’69. Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in questo scenario? Esso avrebbe favorito un avanzamento del movimento operaio o costituiva un pericolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vecchio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammodernato anch’esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva?». Ricorda Luciana Castellina, che allora militava nella storica sezione romana di Ponte Milvio, quella di Berlinguer: «Fui radiata anche con il voto favorevole di Giuliano Ferrara che mi chiede ancora scusa. Ero stata mandata via dal partito nel quale avevo militato per 25 anni, fu come se mi avessero buttato dalla finestra, ma invece di sfracellarmi al suolo atterrai sul ’68. E il ’68 ci accolse. Fu un tempo straordinario e il rimpianto è che allora di quella storia il Pci non capì nulla».
Il cambiamento però non riguarda solo la politica, ma anche il modo di vivere, che comporta la rinuncia dei pur modesti “privilegi” di cui godevano i rivoluzionari di professione: «Eravamo tutti ex-funzionari di partito, ci trovammo squattrinati e sopravvivemmo con i soldi dei compagni che erano parlamentari. Io vivevo a casa mia, ma alla salita del Grillo, che affaccia sui Fori, c’era un grande appartamento che costava poco perché era di proprietà del Pio Istituto di Roma, e che era stato trovato da Giuliana Giorgi, l’ex-moglie di Giancarlo Pajetta. Lì, in un grande salone dove si tenevano le riunioni e in tre stanze, viveva una specie di comune di maschi: Lucio Magri, Filippo Maone, Eliseo Milani, cui poi, fino ai primi anni ’80, si aggiunsero altri compagni. Nel dicembre del 1969, ricordo Dario Fo che gioca a scacchi con Lucio quando arriva la notizia della strage di Piazza Fontana mentre a poche centinaia di metri, all’Altare della Patria, scoppiavano le bombe. Lì si insedia la redazione della rivista, retta dalla segretaria di redazione, Ornella Barra, che lo era stata anche a Critica Marxista».
Un gruppo di comunisti liberi e critici, che pagarono di persona la loro scelta, rinunciando a ruoli importanti e a un futuro brillante, si avventura dunque nell’impresa pazzesca di fondare prima una rivista e poi un quotidiano senza soldi, senza partito, senza padroni. Cinquant’anni dopo, in questi tempi di sinistre senz’anima, di politica senza passioni, di rancore iniettato nelle vene del Paese, i protagonisti di quell’impresa, al di là del giudizio politico e storico, ci appaiono avvolti dall’aura del mito. E non solo a chi, come me, da giovane militante prima e da giornalista poi, ha avuto la fortuna di formarsi alla loro scuola, anche se poi ha preso, com’è naturale e com’è accaduto a tanti altri, strade diverse. Forse era tutto sbagliato? Si trattò, come si usa dire oggi, di ubriacatura ideologica?
Luciana Castellina risponde così: «Mi ha detto Paolo Mieli: “Sono stato felice perché sono uscito dalla solitudine, ho trovato gli altri e abbiamo fatto insieme delle cose”. È la scoperta della politica: uscire dalla solitudine, incontrare gli altri e diventare insieme protagonisti. Cinquant’anni dopo, ho il rimpianto perché quel grande patrimonio comunista fatto di passione, di moralità, di militanza, è stato poi gettato via».
Sarebbe certo assurdo cercare in quelle pagine le risposte ai problemi dell’oggi, ma ci sarà una ragione se quel modo di vivere la politica, così distante dall’attuale narrazione progressista, così esangue e avara di sé, riesce ancora a farsi strada dal basso, nella vita, tra i giovani, fuori dal Palazzo, in uomini come Mimmo Lucano, nei tanti e tante che mettono in gioco i loro stessi corpi in difesa dei più deboli, così pienamente politici perché radicalmente umani.
Le storie, tutte le storie, hanno le loro sliding doors e anche questa che vi abbiamo appena raccontato avrebbe po- tuto finire diversamente, rivela Luciana Castellina: «C’era un piano B, se fosse andata male con la rivista: dal momento che Lucio e Rossana erano molto bravi a cucinare, avevamo individuato un posto, alle cascate di Saturnia, dove avremmo aperto un ristorante. Chef sarebbe stato Lucio, sous-chef Rossana, terzo chef  Valentino, Luigi avrebbe fatto il sommelier, e io avrei curato i rapporti internazionali e le pubbliche relazioni. Come l’avremmo chiamato? Che domanda: il manifesto, ovviamente».

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