mercoledì 22 maggio 2019

il manifesto 22.5.19
Radio Radicale affossata. Si discute sul fondo editoria
Editoria. Le commissioni Bilancio e Finanze bocciano gli emendamenti per salvare l’emittente. Ammesse le correzioni al dl Crescita firmate dal deputato di Leu, Fornaro
di Eleonora Martini 


ROMA Il tentativo di trovare una mediazione con il Movimento 5 Stelle e con il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, attraverso alcuni emendamenti al decreto Crescita che potevano essere la precondizione per tenere in vita Radio Radicale, purtroppo non è andato a buon fine.
Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera hanno infatti respinto ieri sera il ricorso presentato da Lega e Pd contro la bocciatura degli emendamenti che contemplavano la proroga di sei mesi della convenzione di Radio Radicale con il Mise (scaduta il 20 maggio), fino a una nuova gara per il servizio pubblico. Emendamenti finiti tra gli oltre 540 dichiarati inammissibili perché non attinenti alla materia.
C’è però un colpo di scena che riaccende le speranze per il manifesto, l’Avvenire, Libero e molte altre cooperative editrici di periodici locali: sono stati riammessi invece gli emendamenti che prevedono una moratoria fino alla fine dell’anno dei tagli al fondo per il pluralismo, presentati dal deputato di Leu, Federico Fornaro. Una boccata d’ossigeno per gli editori puri come la cooperativa di giornalisti e poligrafici che ha ripreso in mano le sorti della vecchia cooperativa ed edita questo quotidiano senza soluzione di continuità dal 1971.
Per Radio Radicale invece non c’è stato nulla da fare: gli organismi parlamentari presieduti rispettivamente dai deputati Claudio Borghi (Lega) e Carla Ruocco (M5S) hanno respinto il provvedimento presentato dalla stessa Lega (a prima firma Massimiliano Capitanio) e quelli fotocopia del Pd e di Leu.
La decisione ultima è stata più rinviata nel corso della giornata, segno di una trattativa politica serrata. Sul tavolo della contrattazione tra i due contraenti del patto di governo ci sarebbe stato «uno scambio di emendamenti», secondo i rumors di palazzo.
Tanto che dopo lo stop definitivo agli emendamenti, nelle commissioni è scoppiata la bagarre, con tutti i gruppi politici contro il M5S, ma anche contro il presidente della commissione Bilancio, Claudio Borghi, accusato dalla dem Silvia Fregolent di fare il «Ponzio Pilato». Eppure tra i pentastellati c’era chi, come Primo Di Nicola ed altri parlamentari, avevano chiesto al sottosegretario Crimi un ripensamento sullo stop alla convenzione per la trasmissione delle sedute parlamentari. E lo stesso Luigi Di Maio qualche giorno fa aveva fatto girare la voce che per l’«organo della Lista Marco Pannella» si sarebbe trovata «una soluzione».
    Ma il «gerarca minore» (come lo chiamava Massimo Bordin) non si è spostato di un millimetro: «La mia posizione non è mai cambiata, se ci fossero state novità lo avrei annunciato. Questa è la posizione del governo e così rimane», aveva confermato Vito Crimi, malgrado da più parti si erano sollevati appelli alla “ragionevolezza”.
Ci aveva creduto anche l’onorevole Roberto Giachetti, dem iscritto al Partito Radicale, che è ricoverato per le conseguenze di uno sciopero della fame e della sete intrapreso da venerdì scorso. Inutile la raccomandazione – lanciata da Giachetti in collegamento telefonico dall’ospedale San Carlo di Nancy durante la conferenza stampa organizzata a Montecitorio dal direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio – di tenere «accesa la fiammella della speranza, tenendo conto anche delle indicazioni dell’Agcom», l’Autorità a garanzia delle telecomunicazioni che ha definito irrinunciabile il servizio pubblico garantito dall’emittente negli ultimi 40 anni senza interruzione di sorta.
«Allo stato delle cose pagheremo stipendi di maggio ma non di giugno -ha spiegato Falconio – E anche se volessimo lavorare gratis, abbiamo i costi fissi della rete. Parliamo di 285 impianti che coprono circa l’80% del territorio nazionale, che dovremmo continuare a pagare con elevati costi fissi, che siamo in grado di sostenere solo per pochissime settimane».
Nessuno, però, come Radio Radicale conosce l’«essere speranza» di pannelliana memoria. Si ritenterà ancora, in Parlamento. Ma anche nelle urne, E se ne riparlerà dopo il 26 maggio.

Corriere 22.5.19
Il muro del M5S
No al salvataggio di Radio Radicale
Lite sulla proroga voluta anche dalla Lega
di Dino Martirano


ROMA Il M5S ha spento Radio Radicale. Ieri sera, il veto dei deputati grillini — soli contro tutti gli altri partiti — ha precluso alle commissioni Bilancio e Finanze della Camera la possibilità di votare gli emendamenti fotocopia presentati da Lega, Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Misto che puntano a prorogare di sei mesi (seppure con un finanziamento ridotto a 3,5 milioni) la convenzione, scaduta proprio ieri, tra il Mise e la storica emittente radicale: un’emittente che da oltre 40 anni assicura un servizio pubblico con la trasmissione quotidiana delle sedute parlamentari, dei comizi di tutti i partiti, di molti processi.
Inutili gli sforzi del presidente della commissione Bilancio, il leghista Claudio Borghi: la richiesta di poter votare gli emendamenti per Radio Radicale, presentati al testo del ddl di conversione del decreto legge Crescita, si è scontrata contro il muro eretto dai grillini che alla richiesta di un chiarimento avanzato da Silvia Fregolent (Pd), hanno risposto: «Dopo tanti anni di mangiapane a tradimento, basta con il finanziamento pubblico».
La delegazione grillina ha eseguito senza discutere le direttive impartite dal governo, nella persona del sottosegretario Vito Crimi,che ancora ieri ripeteva il suo mantra: «La nostra posizione non cambia». E così in serata — dopo un complesso tentativo di dichiarare ammissibili gli emendamenti sulla proroga della convenzione — è toccato al giovane grillino Raffaele Trano far mancare la necessaria unanimità e infliggere il colpo di grazia alla radio.
Non una parola da parte della presidente della commissione Finanze, Carla Ruocco (M5S) e dagli altri membri grillini riuniti in seduta congiunta della V e della VI commissione (tra gli altri Buonpane, D’Incà, Trizzino, Currò, Zennaro). A questo punto sono davvero a rischio 100 posti di lavoro: «In assenza di fatti nuovi possiamo andare avanti al massimo fino a metà giugno», ha detto il direttore Alessio Falconio.
Il Movimento ha dunque spento la fiammella di Radio Radicale ma sotto la cenere potrebbe esserci ancora un lapillo di salvezza. L’unico che può alimentarlo, ora, è il presidente della Camera Roberto Fico: per consentire al Parlamento di approvare (o di respingere) la richiesta di mantenere in vita una voce libera. Niente di più.

Corriere 22.5.19
Il processo sul depistaggio
Cucchi, parte civile anche il governo La sorella: emozionata
di Ilaria Sacchettoni


ROMA Il presidente del Consiglio, il Viminale, il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri si dichiarano parti lese al processo per i presunti depistaggi sul caso della morte di Stefano Cucchi. La famiglia la definisce un’iniziativa «senza precedenti» e Ilaria Cucchi si dice «emozionata» da quanto ha appena saputo, fuori dall’aula della gip Antonella Minunni, che si è riservata di decidere sul rinvio a giudizio degli otto carabinieri accusati dal pm Giovanni Musarò di falso, calunnia, favoreggiamento e omessa denuncia.
Quella di Ilaria Cucchi è una vittoria importante dopo anni di incomprensioni con il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Era il 2017 quando lei stessa pubblicò un post sui carabinieri indagati per il pestaggio di Stefano. E l’allora segretario della Lega commentò così: «Ilaria Cucchi? Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma è un post che mi fa schifo. Mi ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi». In tempi più recenti l’impegno a invitare la Cucchi al Viminale. «Il ministro dell’Interno deve chiedere scusa alla famiglia Cucchi», aveva detto la sorella di Stefano. Ora la decisione del Viminale: anche il ministero dell’Interno sarà parte lesa al processo nei confronti di quei militari accusati di depistaggio. «Gli imputati — si legge nel documento della costituzione di parte civile — nel commettere i reati contestati, hanno cagionato un grave danno patrimoniale e morale alle Amministrazioni su indicate». Ma è lo stesso ministro Salvini a spiegare il perché dell’iniziativa: «Per colpa di poche mele marce non possiamo accettare che vengano infangate tutte le divise. È questo che ha motivato la costituzione di parte civile del Viminale nel processo Cucchi: mi auguro finiscano gli attacchi e le insinuazioni contro tutte le donne e gli uomini che tutti i giorni vigilano sulla sicurezza degli italiani». Mentre il premier Giuseppe Conte invita a «preservare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni».
Quanto agli agenti di polizia penitenziaria assolti al primo processo per la morte di Cucchi, l’avvocato Diego Perugini che li assiste ha depositato a sua volta la richiesta di costituirsi parte lesa: un milione di euro la richiesta di risarcimento.

Corriere 22.5.19
«Per noi il futuro non c’era più»
Il pianto e la verità di Deborah
Roma, rilasciata la 19enne che ha ucciso il padre: «Eccesso di legittima difesa»
La madre: «Vivevamo nel terrore, lei si chiudeva in camera pur di non vederlo»
di Fulvio Fiano


Tivoli La vita di Deborah Sciacquatori non è mai stata diversa da così: «Papà ci ha sempre picchiato. Facevo gli incubi e temevo che ci uccidesse nel sonno. L’unica cosa che mi ha lasciato è la passione per la boxe e il ricordo di quando, avevo tra i sei e gli otto anni, mi portava con lui in palestra». Chiusa in camera a studiare la 19enne non ne parlava con le amiche o con il centro di ascolto a scuola. Rassegnata, quasi. «Il futuro per noi non esisteva più e per questo non siamo neanche più andate al pronto soccorso o a denunciarlo».
Il giorno in cui decide di ribellarsi a quasi 20 anni di violenze subite in prima persona o a cui ha assistito impotente, c’è un gesto che fra tanti colpi, soprusi e insulti fa scattare in lei qualcosa. L’aggressione quotidiana di Lorenzo, suo padre, alla mamma Antonia comincia alle 5. Due ore dopo l’uomo manda la moglie a comprare due birre e dopo la pausa riprende. Pugni al volto, spintoni, minacce. Poi le stringe l’avambraccio attorno al collo, un segnale che la 19enne sa riconoscere e che significa, anche in quel terribile campionario, il superamento di una soglia ancora più pericolosa. È allora che Deborah prende uno dei coltelli della collezione del nonno e lo punta alla nuca del genitore: «Papà, lasciala andare!». Lui è appoggiato alla parete dell’androne dove ha raggiunto la moglie in fuga. La ragazza è aggrappata a loro e sferra pugni per fargli mollare la presa. Poi un movimento, un urto e il coltello ferisce il 41enne. Antonia è libera, il marito cade a terra. Deborah capisce subito che è grave. Solo l’autopsia dirà se è morto per quella ferita, ma intanto lei torna dentro casa, prende del ghiaccio, prova a rianimare il padre: «Non volevo, perdonami, ti voglio bene! Oddio mamma che ho fatto!». Poi non ricorda più nulla.
I vicini
La Procura: «In molti hanno sentito spesso le urla e non si sono mai voluti impicciare»
Le circostanze, raccontate tra i singhiozzi, quell’urlo udito dai vicini «Papà non mi lasciare!» quando vede il genitore a terra in fin di vita, sono gli elementi in base ai quali la Procura di Tivoli decide di derubricare l’accusa di omicidio, ipotizzata a caldo come atto dovuto, nel più lieve eccesso di legitima difesa e ordina la liberazione della ragazza (era agli arresti domiciliari a casa di una zia) già ieri mattina. In via Aldo Moro a Monterotondo, affacciati alle finestre delle case popolari con i muri grigi scrostati, in tanti ora si dicono felici per lei, spiegano che è giusto così. Il procuratore Francesco Menditto annuncia che presto chiederà l’archiviazione del caso e sottolinea però che quelle stesse persone tante volte hanno sentito le urla e non si sono mai volute impicciare perché «sono cose di famiglia». «E invece — dice il magistrato — aggressore e vittima non erano sullo stesso piano, c’era una sottomissione della donna all’uomo violento».
La mamma di Deborah, Antonia, descrive un’esistenza fatta di paura e violenza: «Le cose sono peggiorate nel 2002 quando Lorenzo ha perso suo padre. La nostra vita era un inferno, mia figlia viveva nel terrore e cenava in camera pur di non vederlo. Ancora mi fanno venire il mal di schiena i pugni che lui mi ha dato mentre la allattavo, ma io preferivo che se la prendesse con me, pensavo di salvarlo e recuperare la situazione. Non volevo rovinarlo e poi temevo che mi levassero Deborah perché non ero una buona madre».
Nella ricostruzione di quell’inferno fatta dai carabinieri rimaneva un ultimo buco di quattro anni. L’uomo violento che tutti i giorni picchiava le donne di casa nel marzo 2015 esce dal carcere in cui ha trascorso pochi mesi per i maltrattamenti e le denunce per rissa, rapina e resistenza a pubblico ufficiale. Un «vuoto» sul quale gli investigatori si interrogano, dato il soggetto in questione (servizi sociali e Tso nel suo passato, famiglia rifugiata in Abruzzo per un periodo), ma che solo Deborah riesce a spiegare con quella rassegnazione a cui infine si è ribellata: «Dopo il carcere papà era cambiato, beveva meno, ci trattava meglio. Ma è durato poco. Ha ripreso a picchiarci, al punto che mamma faceva sparire ogni oggetto pericoloso da casa per paura che ce lo lanciasse contro. Lui la chiamava “put...”, le diceva “ti sgozzo come un maiale”, ogni pretesto era buono per colpirla. La cena, i soldi, la casa in disordine. E la obbligava ad avere rapporti che lei accettava per paura del peggio. Il mio unico rifugio è stato lo studio, volevo darmi una speranza».

Corriere 22.5.19
Libera la ragazza che ha ucciso il padre
Quella vita di odio e amore con il nemico dentro casa
di Dacia Maraini


Quando il nemico si trova in casa i sentimenti che suscita la violenza sono contraddittori. Come non amare un padre che ti ha portata in braccio, che ti ha accompagnata a scuola tante volte, che ti ha fatto ridere giocando a nascondino con te bambina?
L’ amore, la confidenza, le abitudini familiari, hanno radici profonde e non è facile strapparle dalla memoria di un corpo che cresce. Eppure quel padre che tante volte ti ha abbracciata e baciata, che tante volte ti ha sorriso con amore, quel padre può trasformarsi in un nemico pericoloso. Lo raccontano le cronache.
Quel padre amoroso può diventare, per un accumularsi di frustrazioni, di stanchezze, di delusioni, di rabbie, di paura, in un alcolizzato che alza volentieri le mani su moglie e figli.
Come difendersi? Come fermare quella mano diventata improvvisamente nemica ? E non sono solo le bambine a subire le aggressioni di un padre manesco ma spesso anche i bambini. Ricordo che Pier Paolo Pasolini ha raccontato di avere assistito a una simile trasformazione e di essersi alleato con la madre, moltiplicando le rabbie e le frustrazioni del padre.
La violenza comunque, una volta innestata in un cuore impaurito e debole, non torna indietro. Ci saranno parole di pentimento, ci saranno giuramenti di mai più usare le mani, ma purtroppo gli abusi torneranno dopo qualche bicchiere di alcol e saranno sempre più ciechi e rabbiosi. Le donne spesso non denunciano, perché credono a quelle promesse, perché il sentimento che una volta hanno provato, le porta verso una indulgenza ingenua e dolorosa.
La conseguenza più brutta della violenza in famiglia è la morte della fiducia, la nascita del sospetto e il bisogno di affidarsi a strategie da prigionieri. I bambini picchiati crescendo, o tendono a ripetere i gesti paterni su quelli che a loro volta diventano più deboli o si trasformano nei peggiori nemici di se stessi. Non stimandosi, fanno sì che neanche gli altri li stimino.
Nel caso della ragazza di Monterotondo, tutto questo è saltato. Per la semplice ragione che lei ha studiato pugilato e quindi sapeva dare pugni in modo da fare male.
Certamente non voleva uccidere il padre ma solo fermarlo. E non è colpevole se l’uomo non ha resistito alla forza di un suo pugno. È già molto che la ragazza non lo abbia fatto prima.
Ora lei piange sul padre morto. E la capiamo, perché nonostante tutto, quell’uomo ha condiviso tante esperienze certamente anche belle con la figlia bambina e lei non riesce a dimenticare.
Non è un estraneo che si affronta con indifferenza ma carne della tua carne e certamente, nonostante le devastanti trasformazioni, un nocciolo di amore e tenerezza è rimasto in quel cuore ferito.
Nello stesso tempo qualcuno potrà pensare che lui se l’è meritato. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Non immaginava che la figlia l’avrebbe superato in fatto di pugni.
Verrebbe da dire alle tante mogli e ai tanti figli che vengono quotidianamente picchiati in famiglia: andate in palestra, imparate a dare pugni. Non per uccidere, ma per spaventare chi crede solo nel linguaggio dei muscoli.

Corriere 22.5.19
Il problema dei migranti è sul territorio, non in mare
Diminuzione
Tra giugno 2018 e aprile 2019 i rimpatri sono calati del 5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente
Aumento Secondo i dati dell’Ispi di questo passo nel dicembre 2020 gli irregolari nel nostro Paese saranno 718 mila
di Goffredo Buccini


Dai numeri non si scappa. E l’ennesima puntata della saga della Sea Watch si rivela, pur nella sua consueta disumanità, solo un’arma di distrazione di massa. Il problema migratorio dell’Italia, legato alla nostra sicurezza, non è in mare ma sulla terraferma, come testimonia anche l’ultimo drammatico episodio, il rogo di Mirandola. Ancora una volta le stime e i dati dell’Ispi, un istituto di studi con quasi un secolo di reputazione, ribaltano la narrazione del marketing politico. Mentre si combatte una battaglia meramente figurativa sugli ultimi 50 o 60 disperati trasportati da una nave umanitaria sulle nostre coste, con grancassa tv sui malumori di Matteo Salvini, e mentre il titolare del Viminale picchia i pugni sul tavolo del Consiglio dei ministri per far passare il suo secondo decreto Sicurezza, si delineano, proprio nei numeri, gli effetti assai controversi del suo primo decreto, varato a ottobre scorso e poi diventato legge dello Stato.
Il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, basandosi proprio su dati del ministero dell’Interno, evidenzia come tra giugno 2018 e aprile 2019 circa 51 mila stranieri siano «diventati nuovi irregolari in Italia»: di questi, tra gli 11 mila e i 13 mila sarebbero conseguenza diretta del decreto. Le ragioni sembrano evidenti. Cardine del provvedimento voluto da Salvini è l’eliminazione della protezione umanitaria, quella alla quale più frequentemente (forse troppo) negli anni hanno fatto ricorso le commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo dei migranti. All’aumento dei dinieghi corrisponde un aumento degli allontanamenti dai centri di accoglienza cui, attenzione, non corrisponde affatto un eguale aumento di rimpatri. In parole semplici, al migrante che non ha più i requisiti per restare sul nostro territorio viene normalmente messo in mano un foglio di via con l’ingiunzione di lasciare il Paese: è facile capire che, senza controlli, solo una piccola porzione ottempera all’obbligo, la maggioranza finisce per strada, allo sbando, accrescendo paradossalmente la nostra insicurezza. I rimpatri sono peraltro costosi e complicati, quelli non volontari presuppongono un accordo con il Paese d’origine: noi di accordi del genere ne abbiamo solo quattro, Salvini aveva promesso un tour africano per implementarne il numero (servono contropartite da offrire, va da sé) ma del tour s’è persa ogni traccia in questa convulsa fase preelettorale.
I rimpatri vanno dunque assai a rilento. L’Ispi rileva che il governo Conte, tra giugno 2018 e aprile 2019, ha fatto peggio del governo Gentiloni tra giugno 2017 e aprile 2018, scendendo da 6.293 a 5.969 rimpatri, con un calo del 5 per cento. Salvini, prima delle elezioni del 4 marzo, aveva promesso di rispedire velocemente a casa 500 o 600 mila «invisibili», ovvero gli irregolari presenti sul nostro territorio (per effetto della pregressa mala accoglienza) secondo stime quasi coincidenti degli esperti, dall’autorevole fondazione Ismu sino alla Commissione sulle periferie. Non riuscendo a rimpatriarne che una ventina al giorno (tempo previsto con questo ritmo: quasi un secolo) e trovandosi sotto il tiro dell’alleato-competitor Di Maio all’approssimarsi delle elezioni europee, il leader leghista aveva tentato di ridurne «d’ufficio» il numero, dichiarandone 90 mila, ma ricevendo correzioni un po’ da tutte le fonti accreditate in materia.
Il tema è rovente. Non solo perché l’Ispi spiega, grafici alla mano, che di questo passo a dicembre 2020 gli irregolari in Italia saranno 718 mila. Ma perché la questione sicurezza tracima dai numeri e diventa sangue e paura. Il rogo di Mirandola, appiccato da un giovane marocchino in attesa di espulsione, può pesare sulle elezioni di domenica. Salvini, lesto a intuirne pericolosità e potenziale, rilancia subito il mantra dei porti chiusi. Ma i Cinque Stelle sembrano attribuire proprio al ministro degli Interni la responsabilità di spiegare cosa facesse quel ragazzo, che vagava in ipotermia come uno zombie lungo una strada della bassa Modenese, prima del suo raptus criminale. E da dove venisse. Era uno degli invisibili sfuggiti al nostro sistema zoppo? Un nuovo fantasma prodotto proprio dal decreto Salvini?
La sicurezza in politica è a doppio taglio. Ce lo insegna un mito assai radicato nella nostra sinistra: quello di Mechelen, la cittadina belga che, pur ospitando 128 nazionalità e 15 mila islamici su 87 mila residenti, è riuscita, in 15 anni, in un miracolo di integrazione (che tra l’altro ha abbattuto la destra dal 30 all’8 per cento). Ciò che la gauche italiana tende un po’ a sottacere è che il sindaco (liberale e centrista) di Mechelen, Bart Somers, proclamato tre anni fa «miglior primo cittadino del mondo», prima di integrare ha dato una bella stretta ai bulloni: i furti sono scesi del 41%, i furti violenti del 69, gli scippi del 94, lo spaccio di droga azzerato, i poliziotti sono stati triplicati, la città riempita di telecamere, ai nuovi arrivati vengono imposti l’uso del fiammingo, l’adesione a regole comuni di laicità e corsi per imparare cosa sia la democrazia, come ci si comporta con le donne, come funziona la polizia.
Il menu di Mechelen, sicurezza e solidarietà, andrebbe insomma preso tutto insieme. Ma in un Paese come il nostro, molti sceglierebbero à la carte.

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