domenica 19 maggio 2019

Il Sole 19.5.19
Inchieste e politica
Umbria: la Marini dice no alle dimissioni, l’ira di Zingaretti


il Consiglio regionale umbro ha votato ieri contro le dimissioni della governatrice Catiuscia Marini, con il voto della stessa Marini, dopo che lei stessa aveva annunciato il passo indietro in seguito al coinvolgimento nell’inchiesta sulla sanità regionale. Quindi al momento la governatrice resta al suo posto. Forte irritazione da parte del leader del Pd Nicola Zingaretti, che aveva spinto in direzione delle dimissioni. L’altolà viene dal presidente del partito, Paolo Gentiloni, ieri in Umbria per una iniziativa elettorale: «Da certe scelte non si deve né si può tornare indietro». E lei? «Deciderò nei prossimi giorni», si limita a rispondere
Intanto, il sindaco leghista di Legnano, Gianbattista Fratus, arrestato nei giorni scorsi per corruzione e turbativa d’asta insieme con il vicesindaco, Maurizio Cozzi, e l’assessore Chiara Lazzarini (entrambi di Forza Italia), ha presentato ieri le sue dimissioni. Lo ha reso noto la sua legale, Maira Cacucci, che ha confermato la piena disponibilità «a chiarire la sua posizione davanti ai magistrati». Fratus è ai domiciliari come l’assessore Chiara Lazzarini, mentre il vicesindaco Maurizio Cozzi è in carcere. Per l’ormai ex primo cittadino c’è anche l’accusa di corruzione elettorale. Domani è previsto l’interrogatorio di garanzia.

Il Sole Domenica 19.5.19
I «senza voce». Adriano Prosperi ci riportain un contesto remotissimo che abbiamodel tutto rimosso, ma che ci riguarda: vitae miseria nelle campagne italiane dell’800
Il mondo scomparso dei contadini
di Massimo Bucciantini


«Chi preferisce vedere un’immagine sdolcinata dei contadini, vada per un’altra strada. Io sono convinto che alla lunga dia risultati migliori dipingerli nella loro rozzezza piuttosto che con la convenzionale leziosità. Un quadro di contadini non deve essere profumato». Era il 30 aprile 1885. Vincent Van Gogh aveva appena finito I mangiatori di patate, un quadro che ha segnato un momento di svolta nella sua vita e nel suo modo di dipingere. Theo, suo fratello, aveva appena terminato di leggere con entusiasmo Germinal di Zola e Vincent gli rispondeva da pittore-antropologo qual era, facendolo entrare in un altro mondo: un mondo di dolore e di sofferenza a lui del tutto estraneo. Questo quadro «volevo che facesse pensare a un modo di vivere del tutto differente rispetto al nostro, di persone civilizzate». «Bisogna dipingere i contadini come se si fosse uno di loro, come se si avessero i loro stessi sentimenti e pensieri».
Leggendo il nuovo libro di Adriano Prosperi mi sono tornate alla mente queste pagine, che fanno parte di quell’insuperata lezione di umanità che è la corrispondenza tra Vincent e Theo. Lui, «pittore di contadini», come si definiva in quegli anni, imparando alla perfezione la lezione di un suo maestro, Jean-François Millet. E mi sono tornate alla mente per contrasto, quando Prosperi sottolinea che nella pittura italiana dell’Ottocento i contadini restano quasi sempre sullo sfondo di bellissimi paesaggi agrari, oppure quando sono in primo piano, a piedi scalzi, vestiti di stracci, immersi nella loro fatica nei campi, hanno sempre qualcosa di monumentale che non gli appartiene.
Alcuni giorni fa, un giovane e brillante storico dell’arte fiorentino, Silvio Balloni, mi faceva notare come anche nelle immagini di vita contadina dipinte dai Macchiaioli – Odoardo Borrani, Giuseppe Abbati, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, lo stesso Giovanni Fattori con i suoi butteri della Maremma, fatte salve alcune litografie – sia attivo un filtro intellettuale e culturale molto sofisticato, dove i personaggi sono trasfigurati in un’aura quasi mitologica e circondati da un clima e una qualità della luce e del colore che predispone alla quiete e alla serenità. Nella pittura italiana dell’Ottocento, anche quella più sperimentale, s’intravede poco quella «selvaggità» e quel primitivismo che erano parte integrante di una vita contadina piena di stenti e di miseria, e che invece emergono con prepotenza dalla lettura di questo libro.
Prosperi ci fa precipitare dentro un mondo perduto e remotissimo che abbiamo del tutto rimosso, ma che ci riguarda. Ci aiuta a gettare uno sguardo sui «contadini che siamo stati». E lo fa partendo da alcune domande che possono sembrare banali nella loro semplicità. Come si viveva e cosa si mangiava nelle campagne italiane nell’Ottocento e nel primo Novecento, quali erano le condizioni di vita dei lavoratori della terra, ovvero degli uomini, delle donne e dei bambini che erano costretti a lavorare per gran parte dell’anno dieci o dodici ore al giorno. Come si viveva in case sudicie e fatiscenti, piene di umidità, con muri formati di rottami e di cocci, con il tetto fatto di canne o paglia, spesso composte di due sole stanze, una per la famiglia e l’altra per gli animali. Sono domande che confliggono con l’immagine dell’altra Italia, con il Paese definito – e oggi pubblicizzato – delle «cento città». Qui c’è ben altro, c’è il basso popolo delle «cento campagne»: oltre quindici milioni di persone unite dal segno inconfondibile della miseria, delle malattie e della subalternità economica e culturale. Non i salotti, i caffè, le biblioteche, i circoli letterari, le redazioni di giornali, le accademie, i luoghi tipici della sociabilità borghese così bene ricostruiti da uno storico come Marino Berengo. E la frattura tra questi due mondi in Italia – a differenza di altri paesi come la Francia – è stata insanabile. Se le «cento città» sono servite a mettere in risalto il lato moderno e innovativo della nazione e della sua classe dominante, è altrettanto vero che questa immagine ha finito per nascondere l’altra faccia della medaglia: un paese non meno vero e reale, abitato da una classe contadina a cui è toccato di pagare il prezzo più alto e il cui sacrificio è stato completamente dimenticato.
In queste pagine Gramsci è richiamato più volte. Alcuni passaggi dei Quaderni diventano un punto visibile, concreto e ben saldo su cui Prosperi fa poggiare le proprie riflessioni: «Quella classe fu cancellata dalla cultura dominante anche perché priva dei mezzi per farsi conoscere al suo tempo e ai posteri. I suoi membri non ebbero né gli strumenti né l'occasione di parlare di sé».
I contadini d’Italia dell’Ottocento sono i senza voce, gli invisibili, i sommersi, il volgo disperso, appunto, che però assume un significato ben più tragico di quello manzoniano. Qui non c’è riscatto, o se alla fine del secolo comincia a farsi avanti, esso viene bollato dal nuovo Stato come pericoloso e sovversivo, e quindi da reprimere con le galere, i domicili coatti, i manicomi.
Non hanno avuto testimoni-portavoce che si sono assunti l’arduo compito di parlare per loro. Chi li ha descritti e rappresentati è stato quasi sempre mosso da altri interessi, con in comune però la scelta di ribadirne la posizione di sudditanza. Meno affamati e meno sporchi, più sani e più forti, ma sempre obbedienti e subalterni.
Come scrive Prosperi, l’Ottocento più che il secolo della storia «sarebbe più giusto definirlo il secolo della medicina». E non solo per i progressi compiuti nella lotta contro le epidemie, dal colera alla malaria alla tisi alla pellagra, quanto per il ruolo pubblico svolto dalla medicina nel campo dell’igiene e della medicalizzazione della società. Nella classe dirigente del giovane Stato italiano vi fu un progetto che tornò di continuo: quello di realizzare una «carta igienica» in cui fossero raccolte tutte le informazioni sullo stato sanitario della popolazione. Ecco dunque l'impiego di una nuova scienza, la statistica, e l'avanzarsi di una nuova figura chiave, il medico: e, in particolare, il medico condotto, «sacerdote della scienza», come amava presentarsi. Spesso in rivalità con i parroci, ogni giorno vedeva con i suoi occhi il nesso causale tra malattia e miseria, la dipendenza dal padronato, l’estrema povertà del cibo, i pericoli delle acque stagnanti come micidiali portatori di epidemie, l’incidenza altissima di malattie infantili.
È impossibile dare conto qui di tutte le relazioni, le indagini, i progetti, le inchieste che in oltre cinquant’anni si susseguirono sulla questione igienica in Italia. A Cesare Lombroso e ad Agostino Bertani sono dedicati due tra i capitoli più belli. Il primo – ossessionato dalla ricerca e dalla separazione del mondo malato e deviante in tutte le sue forme (dai malati di cretinismo ai folli alle prostitute agli anarchici) – lavorerà incessantemente alla realizzazione di una grande mappa delle patologie e delle anomalie italiche; il secondo – anche lui medico, uomo politico della Sinistra Estrema e artefice del progetto di inchiesta agraria meglio noto con il nome del suo presidente Stefano Jacini – si batterà con tenacia per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, convinto che quella fosse la chiave di volta per il rinnovamento del Paese.
Un volgo disperso è un libro necessario. Che si apre con uno sguardo sulle campagne dell’Italia di oggi, dove sempre più di frequente tra vigneti e oliveti, tra agrumeti e campi di pomodoro, s’incontrano rumeni, senegalesi, nigeriani, pakistani e in cui non restano che poche tracce di quel mondo remoto. E si chiude, sospeso su una parola densa di significato: rimorso. «Un rimorso che non si riesce a cancellare».
Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento
Adriano Prosperi
Einaudi, Torino, pagg. 324, € 32.
In libreria dal 21 maggio

Il Sole Domenica 19.5.19
Memoria e pedagogia. Nei «Dialoghi» Fabio Levi indaga l’«ansia urgente di raccontare» dell’autore sopravvissuto a Auschwitz e mette in luce un aspetto ancora poco studiato del grande uomo
Primo Levi come educatore
di Fabio Levi


Scampato ad Auschwitz, Primo Levi provava «un bisogno urgente di raccontare queste cose. (…) Ero considerato quasi uno squilibrato perché parlavo e parlavo, parlavo addirittura in modo inopportuno, per alcuni». Leggendo queste righe, citate proprio all’inizio del saggio di Fabio Levi su Primo (di cui non è parente, in una Torino in cui c’erano più famiglie di Levi, e ho personalmente il torto di aver frequentato solo i parenti di Carlo), torna subito in mente l’inutile affannarsi del reduce Gennaro Iovine di Napoli milionaria, che si ostinava a voler raccontare le sue esperienze di guerra - ben meno terribili di quelle, reali, di Primo – a persone prese da altri problemi, dalla lotta per la sopravvivenza in tempo di pace e in mezzo alle macerie.
Quest’ansia di comunicare è in Primo, da subito, un’ansia di dialogo. Il suo modello, diciamo così, pedagogico, non è quello socratico, egli non vuol portare il prossimo a costruirsi una propria idea del mondo, vuol solo fargli capire la radicalità di un’esperienza, confrontandola con la normalità di quella di chi ascolta, in un rapporto che vuol essere nonostante tutto paritario. Egli si comporta da educatore, ma da educatore “alla pari”; sollecita, ma tenendo ben conto della disparità tra chi ha visto e vissuto e chi non sa, o sa poco e male. Il suo strumento è il dialogo, il racconto (scritto o orale non cambia) ha questa finalità.
Un Primo Levi educatore. È questa l’originalità della lettura di un aspetto centrale dell’azione leviana su cui riflette Fabio Levi, che con Anna Bravo (due “persuasi”, avrebbe detto Capitini) mi sembra il più compartecipe, il più vicino a Levi tra i molti che hanno, pur egregiamente, commentato le sue opere. L’ultimo di loro, uno dei più assidui, è Pier Vincenzo Mengaldo che ha raccolto i suoi molti interventi sullo scrittore torinese in Per Primo Levi, edito da pochissimo ancora da Einaudi.
Il titolo scelto da Fabio Levi è proprio Dialoghi. Al contrario di Gennaro Iovine, e pur essendo più ancora di quello tormentato dai ricordi, Primo - vicino in qualche modo nel “metodo” ai Calvino e agli Sciascia – non rinuncia a voler essere lucidamente dialogante, senza compromissioni di sorta, senza i trasporti sentimentali o politici (che operano talvolta da ricatti) che hanno tuttavia caratterizzato tante opere post-belliche, tanti pur necessari e doverosi racconti di esperienze brutte o terribili, talvolta estreme. Immagino le motivazioni della decisione einaudiana, a suo tempo, di non pubblicare Se questo è un uomo simili a quella della famiglia Iovine di Eduardo: la guerra è finita, c’è da guardare in avanti e ricostruire: ricordare conta meno che fare, è più importante stare nell’oggi e pensare al domani che non guardare indietro. Ma a guardare avanti si rischia di non tenere abbastanza conto di cosa c’è stato, di non difendersene (e difendere) come è necessario, come è indispensabile fare. La storia non ammaestra mai, d’accordo (l’Italia di oggi ne è un esempio brutale), e il passato può dunque tornare – ed è purtroppo tornato le mille volte in tanti Paesi di tutti i continenti.
È contro questa concreta eventualità che bisogna agire: non si deve dimenticare, si ha il dovere di testimoniare. Ma in modi che non possono essere ricattatori e sentimentali, in modi che devono far leva sulla ragione nonostante l’irrazionalità degli eventi, nonostante la cupa ferocia di cui purtroppo l’uomo si è dimostrato e si dimostra capace (di cui sono capaci coloro che, autorizzati o votati dai popoli o da una loro parte decisiva, gestiscono il potere organizzandone la macchina).
Primo Levi, scrive Mengaldo, «usa sempre la bilancetta del chimico, anzitutto perché oppone razionalità e ordine mentale all’irrazionalità e al caos del mondo quale gli si è presto mostrato, e al quadrato, in Auschwitz. (…) Il carattere tipico del linguaggio leviano è di essere nello stesso tempo limpido e complesso». Limpido e complesso: ecco una scommessa difficilissima da vincere, e che Primo ha straordinariamente vinto, imparando a raccontare l’indicibile a partire dalle impressioni e dalle risposte degli ascoltatori, ragionando con loro.
Se ne hanno le prove nella prima parte di Dialoghi, per esempio nei bellissimi capitoli su I primi interlocutori e su Gli studenti. Le altre parti - cominciando dall’analisi del terzo capolavoro scritto da Primo Levi in ordine di tempo, I sommersi e i salvati, che fu il frutto di una riflessione durata anni e, si può ipotizzare, gli venne suggerito da quanto aveva appreso dal rapporto diretto con tanti studenti, meglio che con tanti adulti italiani o stranieri – sono attentissime e utili, ma tornano, in modo acuto e documentato, su cose che Fabio Levi e altri hanno già analizzato. È il confronto con i giovani, volutamente e ostinatamente paritario, a dimostrarci secondo un’angolatura insolita quella che è stata la “vocazione” (non so chiamarla altrimenti) di Primo Levi: il dovere di comunicare. E di conseguenza di aiutare a capire, a ragionare. Ma non secondo quel che si intende oggi per comunicazione, quando la comunicazione è diventata una cosa a senso unico: dal potere e dai suoi impiegati alle masse, nell’ “era del narcisismo” analizzata dai Christopher Lasch, tra masse che si illudono di pensare con la propria testa “comunicando” per il tramite dei nuovi mezzi tecnologici a disposizione mentre pensano quel che si vuole essi pensino, e “comunicano” quel che gli si propone o impone di “comunicare”, da monadi che non sono mai state così solitarie, e drogate. La comunicazione che praticava Levi, documentata nei due capitolo citati, è invece ancora un confronto tra due parti, è dialogo. Nasce dalla volontà e la capacità di ascoltare.
Fabio Levi cita Calvino: «non ho insegnato delle certezze, forse ho insegnato un modo di porsi dei problemi». E cita Sciascia: «io non voglio insegnare nulla. Voglio soltanto rappresentare, mi accontento di rappresentare». Gli studenti di Pesaro ebbero la fortuna di confrontarsi anche con Volponi e Rigoni Stern in incontri altrettanto memorabili, ma forse il più “educatore” di tutti perché il meno interessato a trattare di una vocazione di scrittore (e questo vale per Rigoni e aggiungo, per Nuto Revelli, i più vicini a Primo per le loro esperienze della guerra anche se non hanno vissuto l’estremo orrore dello sterminio) fu proprio Primo. «Quando dialogava in prima persona con gli studenti o con altri, sapeva parlare a ciascuno e a tutti», Primo Levi sapeva ben distinguere tra conoscenza ed esperienza, mai dimenticando, è ancora Fabio a dirlo, che «un conto è la realtà, una cosa diversa è la realtà per come la percepiamo», e che «la realtà è piena di contraddizioni». Saper ascoltare (e capire così qualcosa dell’altro) è la base per ogni comunicazione, e solo su questa base si può realizzare un dialogo che permette di lasciare qualcosa di decisivo nella mente, e magari nelle azioni di chi sa meno di chi parla e racconta. Nel caso di Levi: la conoscenza del male della Storia al fine di trovare i modi in cui difendersene, proponendo ben altro e con gli altri.
Dialoghi-Dialogues
Lezioni Primo Levi
Fabio Levi
Einaudi, Torino, pagg. 156, € 19

Il Sole Domenica 19.5.19
Quando in Kenya i villaggi furono fatti sparire
di Lara Ricci


Un ragazzino torna a casa, è finito il trimestre nella prima scuola secondaria per africani del Kenya dove lo hanno ammesso per i suoi risultati brillanti. Ma la casa non c’è più. Scomparse la capanna della madre e quella su palafitte del fratello, l’intero villaggio di fattorie. Restano solo detriti, il pero e la siepe. Le vecchie abitazioni indipendenti sparse tra diversi crinali sono state riunite in fondo alla valle in un unico villaggio di concentramento.
È il 1955, e con questa scena Ng?g? wa Thiong’o apre Nella casa dell’interprete, racconto storico, dettagliato e lucido dei suoi quattro anni di college durante la fase terminale del dominio britannico nel Paese(1895-1963). Quella che descrive è «la villagizzazione, il nome innocuo che lo Stato coloniale diede ai trasferimenti interni forzati. (...) L’intero Kenya centrale fu deportato e il sistema tradizionale di vita distrutto, con l’obiettivo di isolare e ridurre alla fame la guerriglia anticoloniale sulle montagne».
Ng?g? wa Thiong’o, il cui fratello maggiore combatteva con i nazionalisti Mau Mau, racconta come il dislocamento fu seguito da un forzoso accorpamento della terra. «Una frode di massa che spesso trasferiva la terra da chi era già povero a chi era relativamente ricco, e dalle famiglie dei guerriglieri a coloro che sostenevano lo Stato coloniale». Una divisione, quella tra i lealisti e tutti gli altri, che si rifletteva nell’architettura del nuovo villaggio: ai primi case d’angolo con il tetto in lamiera e ampi spazi fra loro, agli altri capanne rotonde dai muri di fango e il tetto di paglia, ammassate l’una contro l’altra. «I nuovi villaggi - scrive - erano l’equivalente rurale dei campi di concentramento dove erano ancora detenute migliaia di persone». Casa diventerà allora, per Ng?g? e sua madre, il vecchio albero di Mugumo, più antico della colonizzazione.
La notizia della villagizzazione non era arrivata alle orecchie del ragazzino, nei suoi primi tre mesi nella scuola di élite. La Alliance High School, risultato di una breve alleanza fra diverse missioni protestanti, si ispirava a due scuole statunitensi per nativi americani e afroamericani che avevano «visioni educative quasi opposte: la nozione di autonomia e l’obiettivo di produrre neri dotati di senso civico che avrebbero lavorato entro i parametri dello Stato razziale esistente». Per il preside, Carey Francis, quella di educare gli africani più dotati era «un’enorme opportunità - scrive in una lettera -. La maggior parte dei futuri leader del Paese passeranno per le nostre mani».
Così - mentre nel Paese si gonfia l’entusiasmo per l’indipendenza del Ghana, sulle montagne vengono cacciati i Mau Mau e nelle campagne sono continui i rastrellamenti, le incarcerazioni (compresa quella di sua madre e sua cognata) e le torture di chi è accusato di aiutare i ribelli - a scuola la vita scorre relativamente protetta, con le sue quotidiane rappresentazioni di potere e misericordia, gli inni liturgici con cui i neri imploravano «lavami, Redentore, e sarò più bianco della neve», le lezioni di storia europea o degli europei in Africa e quelle di letteratura, dominate da Shakespeare, «che dava prova dell’immortalità delle creazioni letterarie», appassionando i kenyoti con i suoi drammi scritti da qualche parte a Londra nel 1600.
«Mio fratello è un uomo buono. Tutto quello cui aspira è il diritto di essere libero. Forse che Churchill non ha combattuto Hitler per impedire che il suo popolo fosse governato dai tedeschi?» si lascia sfuggire Ng?g? con il preside. Che sorprendentemente taglia corto. Questo, pur vedendo nei Mau Mau il male assoluto - scoprirà poi Ng?g? nel suo archivio - non poteva non riconoscere che fossero un movimento di resistenza, e che si poteva sconfiggerli solo dimostrando che i britannici non erano nemici invasori.
Lo scrittore e dissidente kenyota - sempre nella lista dei possibili Nobel per la letteratura dei raccoglitori di scommesse - con spirito analitico porta alla luce tutte le contraddizioni di quegli anni di formazione e indottrinamento, in un’epoca in cui la retorica imperialista cominciava a essere sfidata da giovani africani formati alla scuola dei bianchi. Contraddizioni di cui però mai tira le fila. Comprese quelle della sua inaspettata conversione al cristianesimo, descritta nei dettagli delle tecniche psicologiche e di intimidazione che la favorirono e del suo fare della fede uno scudo. Al lettore non resta che chiedersi se sia una scelta. Una scelta di sobrietà forse, dettata dalla convinzione che, come dice il proverbio gikuju, «la pioggia battente comincia con una goccia».
Nella casa dell’interprete
rad. di Maria Teresa Carbone, Calabuig, pagg. 236, € 20

Il Sole Domenica 19.5.19
Piero Ignazi. La documentata indagine dello studioso comincia dalla questione delle parti politiche nella Grecia e nella Roma dell’età classica sino alle organizzazioni di massa, per arrivare alla crisi di fiducia (irrisolta) di oggi
Dentro e oltre il partito
di Paolo Pombeni


È un lungo viaggio intellettuale quello che Piero Ignazi affronta in questo libro: non si tratta solo della ricostruzione di una istituzione, il partito politico, che è presente in varie forme in tutta la storia dell’Europa occidentale, ma anche di una navigazione lungo la letteratura, storiografica e politologica, che nei decenni del Novecento e anche oggi ha cercato di misurarsi con l’interpretazione di questa fenomenologia. Un lavoro davvero imponente sia per la vastità del panorama preso in considerazione (quasi tutti i Paesi europei) sia per l’ampiezza degli studi di cui ha tenuto conto.
L’analisi è presa alla lontana: si inizia con la questione delle parti politiche nella Grecia e nella Roma dell’età classica e si procede poi per i casi emblematici anche del Medioevo e dell’età moderna, sino al passaggio topico delle rivoluzioni settecentesche. Ovviamente però l’analisi comincia a mordere quando si entra appieno nel quadro del rapporto fra il costituzionalismo moderno e i partiti. Sebbene per lungo tempo questo sia stato problematico e guardato anche con sospetto, a un certo punto arriva la svolta: in maniera convincente Ignazi la colloca in due tornanti, il primo negli anni 10 e 20 del Novecento, quando sorge e si afferma il modello del “partito massa” (quello che sarà definito in un certo senso “alla socialista”); il secondo negli anni 40 e 50 quando, dopo la temperie dello scontro con le grandi dittature, i partiti si affermeranno protagonisti e garanti del ritorno alla libertà e al pluralismo.
Sebbene siano molto interessanti anche le pagine dedicate all’imporsi dei partiti fra fine Ottocento e Seconda guerra momdiale, giustamente viene sottolineato che è a partire da quel secondo tornante che il partito politico si afferma come un elemento essenziale e non eliminabile per far funzionare una democrazia costituzionale. Se nella fase odierna si tratta di una centralità che è messa radicalmente in discussione, ciò nondimeno, concluderà Ignazi, siamo ancora in presenza di una funzione e di un rapporto forte fra i partiti ed un costituzionalismo per il quale, per quanto in crisi, non si è ancora trovato una sostituzione alternativa.
Per giungere a questo approdo il politologo dell’università di Bologna scandisce un percorso di grande interesse. Nella età dell’oro dei partiti, che durerà per certi versi sino alla mitica svolta del 1968, a dominare sarà ancora il modello del partito di massa, che viene sottolineato come non sia proprio solo dei partiti “alla socialista”, ma sia condiviso anche dai partiti di matrice confessionale (prevalentemente cattolica). Ignazi si sofferma sulla loro trasformazione da partiti di Weltanschauung a partiti di ampia e generalizzata inclusione sociale, i famosi catch-all-party teorizzati da Kirchheimer a metà degli anni Sessanta (ma, ci permettiamo di notare, in verità il politologo tedesco aveva coniato il termine già ad inizio anni Cinquanta). Questa pretesa di inclusività generale al di là delle divisioni darà vita da un lato ad una età del grande consenso politico allargato e dall’altro susciterà l’opposizione per la nostalgia dello scontro fra opposte visioni del mondo (che tanto affascinavano i giovani del ’68).
Proprio l’atmosfera di grande consenso sulle sorti del sistema politico spingerà i partiti ad incentrarsi sempre più nella professionalizzazione del loro rapporto con la sfera del governo, iniziando quella trasformazione che secondo i politologi porterà alla preminenza di una nuova tipologia, il cartel-party. La svolta arriverà negli anni 80: sebbene esteriormente si mantengano le sembianze del partito di massa (con le sezioni, i congressi, la militanza continua, ecc.), in realtà i partiti funzioneranno sempre più come agenzie che producono professionalità per l’azione nelle sfere decisionali e di intervento dello Stato. Certo saranno contestati in questa che appare una deviazione, ed ecco sorgere le due novità, i “verdi” e i nuovi movimenti di estrema destra.
È la dialettica che connota una società che diviene post-moderna e post-industriale, ma che pone anche esigenze nuove: una riscoperta del valore della decisione partecipata dal basso e al tempo stesso un emergere di leadership autoritarie, ma che si pretendono, e talvolta sono effettivamente anche, carismatiche.
L’affermarsi negli anni 90 tanto del neoliberalismo quanto del neoconservatorismo segnano la fine di un mondo che univa consenso e corporativismo, ma spinge i partiti ad inserirsi ancor di più nello Stato aumentando la concentrazione e la verticalizzazione delle risorse e delle funzioni. Ciò genera in tutta Europa una crisi della fiducia pubblica verso i partiti, con il venir meno della identificazione dei cittadini nei loro recinti ed una caduta della partecipazione elettorale, fino ad approdare in molti casi ad un peculiare disprezzo verso la stessa forma partito.
Facile dunque riscontrare un rigetto diffuso verso la realtà attuale dei partiti, spesso nutrito da una nostalgia romantica per la mitologia del vecchio partito di massa. Ignazi si chiede però se davvero oggi in Europa i partiti siano messi così male. La risposta è che la realtà è assai variegata. In termini di risorse materiali i partiti, ormai incentrati sul rapporto con lo Stato, rimangono abbastanza forti e tentano anche di rispondere alle crisi di fiducia inventandosi qualche marchingegno per dare almeno la sensazione di essere ancora capaci di aprire spazi di partecipazione dal basso, anche se spesso si tratta di un po’ di plebiscitarismo retorico.
Insomma la caduta dei partiti è congruente con lo spostarsi del loro baricentro dall’essere una agenzia che produce simboli, identificazione collettiva, obiettivi non materiali, ad una agenzia che distribuisce benefici selettivi e materiali. Ed è così che essi sono riusciti a mantenere in buona misura un controllo sul sistema politico.
La conclusione a cui giunge l’autore in questo ampio e assai articolato e documentato studio è che andando sempre più verso lo Stato i partiti hanno perso il rapporto con la società. In quella relazione ferrea con lo Stato sta di conseguenza tanto la loro forza quanto la loro debolezza. Rimane però che la delegittimazione dei partiti mette in discussione la legittimazione stessa del sistema costituzionale democratico.
Una problematica che sfiderà inevitabilmente questo complicato inizio del XXI secolo.
Partito e democrazia.
L’incerto percorso della legittimazione dei partiti
Piero Ignazi
Il Mulino, Bologna,
pagg. 440, € 38

Il Sole Domenica 19.5.19
Dialoghi sull’uomo. A Pistoia il Festival di antropologia del contemporaneo affronta il difficile tema della convivenza in un’epoca di condivisioni virtuali, di muri e razzismo
Il senso perduto di comunità

di Marco Aime

C’era un bambino, che amava sedersi sulla sponda del fiume, dopo un temporale e guardare, con occhi sognanti l’arcobaleno. Un gioco di acque riflesse nel sole, un nastro di pioggia e colori, una seta lunga e sottile dalla vita breve. Il bambino chiudeva gli occhi perché non svanisse nel cielo morbido con il primo sole. Lo guardava specchiarsi nell’acqua senza patria del fiume, un riflesso diviso tra due mondi a metà.
Quel bambino divenne uomo e studiò architettura. Si chiamava Mimar Hayruddin e fu lui a pensare che quell’arco doveva diventare realtà, non svanire a ogni sole. Così progettò un arcobaleno di pietra, che unisse le due parti della città: quella musulmana e quella cristiana. Era il 1566 e per ordine del sultano Solimano Mimar costruì quel ponte sulla Neretva, che ancora oggi dà il nome alla città di Mostar, nel sud della Bosnia-Erzegovina. Non so se sia andata davvero così, ma mi piace pensarlo e quel ponte divenne un simbolo: per secoli quel sottile ed elegante arco di pietra che univa due mondi, due modi di pregare dio, due storie diverse fu la testimonianza di come sia possibile convivere nella diversità.
Così nasce una comunità, dalla volontà di non pensarsi diversi, di volere condividere spazi e tempi, di pensare insieme a un domani comune. «Comunità» è una parola calda, che evoca intimità, la pronunciamo con una certa nostalgia. Infatti, mai questo termine è stato usato come da quando ne sentiamo la mancanza. Perché? La dilatazione delle aree urbane e la frammentazione del lavoro hanno inferto un primo colpo a quei rapporti «faccia a faccia» che ci facevano sentire parte di una comunità. Il cittadino è progressivamente diventato più solo e isolato. La città finisce così per frammentare il suo spazio e i legami tra le persone, dando vita ad aggregazioni ridotte, che non si trasformano mai in comunità vere e proprie.
A questo si aggiunga che la crescente rapidità di movimento. L’accelerazione impressa alle nostre esistenze e ai flussi di informazione che quotidianamente ci avvolgono, ci hanno portato a vivere in un eterno presente, privo di passato e di memoria. L’ora e il qui diventano preponderanti rispetto al tempo passato e a quello futuro. È la surmodernità, un’accelerazione della storia in cui la rapidità ha annullato le distanze, e pertanto il tempo prevale sullo spazio. Il progressivo venire meno di quei rituali collettivi, che contribuivano a mettere in scena una società, induce una progressiva perdita della memoria e del senso di appartenenza. I rapporti si fanno più fugaci e meno durevoli.
La sempre più massiccia presenza di tecnologia mobile di comunicazione interferisce non poco nella formazione delle relazioni umane. La sola presenza di telefoni mobili inibisce lo sviluppo della vicinanza e della fiducia e riduce l’estensione entro cui gli individui provano empatia e comprensione per i loro partner. Il medium digitale priva la comunicazione della tattilità e della corporeità e questo rischia di condurre a una sorta di progressiva scomparsa della controparte reale. La conversazione richiede tempi e spazi, che siamo sempre meno disposti a concedere. L’individualismo della società urbano-industriale ci ha spinti a rinchiuderci sempre di più nella nostra bolla, senza però rafforzare quella capacità di introspezione, utile a comprendere noi stessi e gli altri e il mondo fuori. Dal face to face si è passati allo screen to screen.
«Condivido dunque sono», questo sembra essere il nuovo slogan, ma condividere è convivere? Per convivere occorre avere un orizzonte comune, dialogare, costruire legami e amicizie durature. I legami tra le persone, che stanno alla base di ogni comunità, si fondano sullo scambio e sulla fiducia reciproca ed entrambi hanno bisogno di parole e sentimenti condivisi. Quando tali legami si sfilacciano, si erodono, allora si cerca la chiusura, ci si rifugia nell’identità, si comincia a escludere gli “altri”. Quando ai ponti si sostituiscono i muri e le porte, la comunità si chiude e muore.
«La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo» ha detto Nietzsche e non a caso nel 1993 quel piccolo ponte sulla Neretva, insignificante dal punto di vista strategico, è stato distrutto dalle artiglierie nemiche. Perché era un simbolo troppo forte per chi invece, e oggi sono molti, vuole dividere. Eppure di ponti abbiamo bisogno anche per guardare avanti. Il futuro, il nostro e quello degli altri, è su un’altra sponda: come raggiungerla? Con la coscienza. Con la coscienza e la responsabilità che dovremmo provare per chi viene dopo di noi. Sono questi i materiali che dobbiamo usare per costruire quel ponte.
Se non riusciamo a costruire ponti allora facciamoci contrabbandieri, come diceva il compianto Alexander Langer. Se al mondo c’è chi traccia confini disegnati su presunte identità, su false razze, sul colore della pelle allora dobbiamo cercare di attraversare quelle frontiere, di frodo magari, per portare al di là della linea ciò che manca. È questo che facevano i contrabbandieri. Il contrabbando è un’attività illegale, che si muove ai margini, ma che spesso risulta necessaria alla sopravvivenza di una comunità. La storia dell’umanità intera è fatta di contrabbando: come si è diffusa la scrittura, l’agricoltura, la scienza? Grazie al contrabbando di idee da una comunità all’altra.
Oggi è il tempo di contrabbandare la coscienza, la coscienza di essere tutti umani.
«Comunità»
Marco Aime

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