domenica 19 maggio 2019


Corriere 19.5.19
Padiglione Italia
Un guaio L’intellettuale senza ironia
Chiara Giannini: bastava leggerla per farsi quattro risate
di Aldo Grasso


L’ironia è un fiore che non può sbocciare nella rabbia e nello sdegno. Bastava leggerla, l’agiografia che Chiara Giannini ha scritto su Matteo Salvini per i tipi (i tipacci) di Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound. Al Salone del Libro, bastava leggerla per farsi quattro risate per la goffaggine con cui viene dipinto il Truce.
Salvini Stivalato: «È l’uomo più desiderato dalle donne dello Stivale, anche, di nascosto, da quelle di sinistra, malgrado non abbia propriamente la faccia del latin lover. C’è chi pagherebbe oro per vederlo nella quotidianità della vita privata o solo per prenderci un caffè». Salvini Stomacato: «Salvini ha la forza di chi sa parlare col cuore e tirare fuori l’energia dallo stomaco». Salvini Giustiziere: «D’ingiustizie, nella vita, ne ha subite anche lui, sin da piccolo, quando racconta ironicamente che all’asilo gli rubarono il suo pupazzetto di Zorro». Così via, senza sprezzo del ridicolo, nel Salone delle vanità.
Lingotto poliziotto. Bastava che Nicola Lagioia e Christian Raimo leggessero «Io sono Matteo Salvini» per usare l’ironia al posto dell’indignazione e dell’ostracismo, per non sollevare tutta quella cagnara che ha fatto solo il gioco di un brutto libro e di una casa editrice marginale.
Con una risata, l’ironista distingue e chiarisce quel che l’ideologo confonde.

Corriere 19.5.19
L’Onu chiede al governo di fermare Matteo Salvini
«Il decreto Sicurezza viola i diritti umani»
Lettera delle Nazioni Unite all’Italia. Sea Watch davanti a Lampedusa, Salvini: finché ci sono io non sbarcano
di Fabrizio Caccia


ROMA - Una lettera del capo delle Special procedures dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, Beatriz Balbin, indirizzata tramite l’ambasciatore all’Onu, è appena arrivata al ministro italiano degli Affari Esteri, Enzo Moavero. Contiene - ne dà conferma la Farnesina — richieste di chiarimenti e «rilievi di preoccupazione» con riguardo alla bozza del cosiddetto «decreto sicurezza bis» non ancora discusso a palazzo Chigi. La lettera è già stata trasmessa per competenza al ministero dell’Interno e riceverà «da parte del governo la dovuta attenzione — sottolinea la nota di Moavero — in coerenza con il tradizionale rispetto degli impegni internazionali e dell’assoluta tutela dei diritti umani». L’Onu, in sostanza, chiede al governo di fermare il decreto sicurezza bis di Matteo Salvini in quanto «potenzialmente in grado di compromettere i diritti umani dei migranti, inclusi richiedenti asilo e le vittime o potenziali vittime di detenzione arbitraria, tortura, traffico di esseri umani». E tutto questo mentre a un miglio da Lampedusa la nave ong tedesca Sea Watch 3, con 47 profughi ancora a bordo — dopo che famiglie con bambini (17 persone) e una donna con ustioni erano state fatte scendere venerdì dalle autorità italiane — si trova ora alla fonda. «Finché io sono ministro dell’Interno, quella nave non entra», ha ribadito ieri Salvini dopo che la Sea Watch3, sfidando il divieto di oltrepassare il limite delle acque territoriali, ha chiesto di entrare in porto per «ragioni umanitarie». Eppure l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, ieri sera sembrava possibilista sullo sbarco: «Sto sentendo il presidente del Consiglio...». Pronta la replica di Salvini: «Mi auguro che nessuno mi dica cosa fare, se qualcuno mi chiama per farli sbarcare io dico no. È giusto rispettare le competenze di ciascuno...». Da registrare anche le parole del ministro M5S delle Infrastrutture, Danilo Toninelli: «Chiedo ai sovranisti europei quanti migranti della Sea Watch vogliono prendersi». Il comandante della nave tedesca ha deciso di “sconfinare” dopo che alcuni migranti a bordo minacciavano il suicidio. Il Viminale, però, giudica «non inoffensivo» il passaggio in acque territoriali, espressione che secondo le convenzioni permette di vietare l’approdo. «Li consideriamo complici dei trafficanti», giurano al ministero. E al Papa che ieri ripeteva che «il Mediterraneo si sta trasformando in un cimitero», Salvini ha così risposto: «La politica di questo governo sta azzerando i morti, con spirito cristiano».

il manifesto  19.5.19
Marx per ripensare l’alternativa oggi
Marxismo. Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere
di Luciana Castellina


La sala più grande di Pisa, quella del Polo didattico Carmignani, a Piazza dei Cavalieri, proprio alle spalle della leggendaria Normale, è gremita già prima dell’inizio. “Esagerati”, avevano detto tutti a Marcello Musto, grande artefice dell’evento, che aveva insistito per quella localizzazione.
E invece c’è persino gente in piedi. Tutti lì per Carlo Marx a 201 anni dalla sua nascita: e se si trattasse di un nuovo vagito della sinistra? Potrebbe persino darsi, perché sono restati tutti tutti e tre i giorni in cui al microfono si sono susseguiti 25 relatori, provenienti da 14 paesi di quattro continenti.
I lavori aperti da una non programmata ragazzina che, a nome degli studenti, si felicita per questa occasione di confronto ( che – dice – ormai non c’è più nell’università) e poi attacca diretta il presidente della regione Enrico Rossi – lì per inaugurare la conferenza – perché ha finanziato un convegno di quelli delle famiglie e invece lesina i soldi per l’istruzione.
Un giusto inizio perché questa conferenza su Marx pur ad alto livello marxologo (salvo me e Landini) non è stata affatto un evento accademico. Il titolo, del resto, lo aveva annunciato: “Ripensare l’alternativa”. E cioè: andiamo a scovare quello che il nostro vecchio compagno di Treviri ha detto e si è spesso perso per strada e solo ora, grazie a Mega ( la strepitosa edizione che fin dai tempi della Germania est – è in corso a Berlino, in cui compaiono una quantità di sconosciuti inediti) viene fuori e vediamo a cosa ci può ancora servire. Insomma:non siamo qui per interesse archeologico ma per trovare argomenti per il che fare di oggi.
E in effetti da tanti inediti che i relatori ci hanno fatto conoscere è emerso un Marx solo sospettato, molto più ricco e vicino alle nostre attuali problematiche di quanto sia stato quello un po’ rozzo tramandatoci dalla vulgata del movimento operaio. Soprattutto un Marx molto politico. Non per caso fra i relatori c’è anche Maurizio Landini, accolto da tutti con grande entusiasmo, che ci legge Marx nel presente del lavoro, di cui fa una impietosa disanima.”Ho incontrato lo sfruttamento prima di avere incontrato Marx” – esordisce.
Non cercherò neppure di entrare nel merito di quanto è stato detto, sarebbe impossibile in un articolo di quotidiano. E però voglio riportare i titoli e almeno un concetto delle diverse sezioni in cui la conferenza si è articolata per dare un’idea dell’attualità della riflessione:
Dopo una prima seduta inaugurale che ha affrontato il tema generale “Capitalismo”, con Landini, appunto, e poi – prima oratrice – Silvia Federici (Hofstra University, Usa), che ha offerto il primo contributo da una prospettiva femminista; Bob Jessop (Lancaster University, UK) “Il capitale come relazione sociale: dall’analisi alla lotta di classe”, e cioè il rapporto fra persone viene mediato dalle cose, che lo nascondono ; e, infine, una preziosa relazione di Maurizio Iacono (Università di Pisa ma anche fra i fondatori de Il manifesto), intitolata “La merce entra in scena nel teatro del postmoderno”, in cui, richiamando i “tavoli danzanti” di Flaubert, ha ripercorso il processo che dal legno arriva al tavolo, e poi però nessuno cerca il loro autore come avrebbe fatto Pirandello, ma anzi nasconde il lavoro sociale collettivo che è servito a crearli, lo rende invisibile, merce separata. che incorpora lavoro transitato dalla soggezione al dispotismo aziendale a quello mascherato della merce.depurata dal lavoro nella camera oscura.
La seconda giornata è cominciata con tre contributi sul tema “nazionalismo” : di George Comninel (York University Toronto), il nostro Alberto Burgio (Università di Bologna, ex deputato di RC, autore fra i tanti di un libro su Gramsci dedicato a Lucio Magri): “Gli operai non hanno patria”, nazionalismi e internazionalismo tra XX e XXI secolo, una lucida e impietosa descrizione di come e perché sia andato emergendo l’attuale sovranismo. ( “Mentre il mercato globale si espande, si soffia sul fuoco dei particolarismi, nascondendone la gerarchia”).
Stesso tema – “Il nazionalismo nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Il primo contrattacco contro il socialismo”- trattato da un relatore un po’ speciale, perché il solo proveniente dall’est Europa e proprio da uno dei paesi oggi portabandiera del nuovo nazionalismo, l’Ungheria, dove insegna alla Central European University:Gaspar Tamàs. (“Il soggetto, individuale o collettivo, è sempre in sé plurale, contiene contraddittorietà ineliminabili; solo che oggi questo è più dirompente perché si è affievolita la coscienza di classe”).
A seguire “Democrazia”, con Mauro Buccheri, un ormai anziano siciliano da 50 anni alla York University di Toronto;Terrel Carver (University of Bristol,UK) e Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), alle prese con il complicato tema del rapporto democrazia e socialismo, “il filo del rasoio”, come l’ha definito Carver, o, più pessimisticamente Brie,“un compito irrisolto”.
Molto ricco di narrazioni ( e considerazioni ) il tema della Migrazione, dove Davud Smith, (Kansas Uniuversity Usa) ha riferito del pensiero di Marx su accumulazione e migrazione forzata quale appare nel Capitale ma soprattutto nei suoi ultimi manoscritti; Piero Basso (università di Ca’Foscari) sull’esercito di riserva, le migrazioni forzate iniziate con la tratta degli schiavi, la necessità oggi di battersi per il diritto a non dover emigrare, più che per quello di emigrare. E Ranabir Samaddar (gruppo di ricerca di Calcutta) , che ci ha parlato del passato e del presente: le migrazioni nell’era del globalismo.
E ancora il Lavoro, dove ho avuto l’onore di tenere anche io una relazione che ho intitolato “il becchino frantumato”, ma dove soprattutto è stato analizzato il lavoro moderno quale risulta essere quello di due paesi del Sud, le Filippine ( Sarah Raymundo, Dillman University Manila) e Ricardo Antunes (Unversità Campinas Brasile), che ha affrontato il tema del lavoro immateriale ( che, ha detto fra l’altro, presuppone quello materialissimo dei minatori che estraggono la materia prima con cui si fanno i nostri apparecchi digitali) caratterizzato in realtà da un modo di estrazione del plus valore del tutto simile a quello delle epoche più antiche. Anche in questo caso molte osservazioni di Marx su quanto oggi chiamiamo post-industria, che continua a produrre plus valore.
Oltre a due interessanti contributi sul tema Religione, uno di Stefano Petrucciani (Sapienza) e uno di Michael Loewy (Centre de la recherche scientifique, Francia) su aspetti del feticismo in Marx, ma anche su quello attualissimo della Teologia della Liberazione , la grande preziosa corrente della Chiesa sudamericana.
Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere.
Sul primo hanno parlato tre relatori venuti ciascuno da una diversa parte del mondo: Kohei Saito dal Giappone (Osaka University), Gregory Claeys (Royal Holloway University UK), Razmig Keucheyan ( nome palesemente armeno ma Università di Bordeaux). Tutti e tre hanno in qualche modo affrontato il tema dal lato dei bisogni, citando gli scritti dei due principali teorici dell’argomento, André Gorz e Agnes Heller, ma mettendoli in rapporto con le tantissime e quasi sempre ignorate riflessioni di Marx sulla rapina della natura, così come sulla liberazione del tempo (Manoscritti del ’44, Ideologia tedesca, Critica alla filosofia del diritto di Hegel, Grundrisse,lo stesso Capitale).
E dunque insistendo sul fatto che occorre sottrarsi al consumismo imposto dal modo di produzione capitalista ( l’imbroglio del capitalismo) e invece qualificare i propri bisogni ,non moltiplicarli. Un mutamento possibile tuttavia solo se si libera tempo dal lavoro per lo sviluppo della creatività, proprio quello che il capitale nega.
Greta è stata naturalmente molto citata, e però come ha detto Claeys, dobbiamo risponderle in fretta, ma non abbiamo ancora elaborato le linee della rivoluzione necessaria ad affrontare il problema.
L’ultimo round è stato per il Genere con Humani Bannerji (indiana ma York University Toronto) e di Elvira Concheiro (Unam,Mexico). Nel riprendere il più recente dibattito femminista molto si è insistito su quello che è stato definito “incontro possibile con Marx”, e cioè sulla connessione della battaglia delle donne con quella anticapitalista. E per questo molto si è parlato del lavoro non pagato di riproduzione e di cura.
Per questo più volte citato il nuovo manifesto femminista americano scritto da Nancy Fraser e Cinzia Arruzza ( giovane siciliana ma docente universitaria a new York), intitolato “Patriarcato e capitale, alleanza criminale”.
Il discorso di chiusura ha rappresentato un evento eccezionale. A pronunciarlo è stato Alvaro Garcia Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006, il paese altissimo sulle Ande presieduto dal leggendario indio Morales. Linera ha una storia diversa, è un raffinato intellettuale marxista, che ha trascorso come tanti nel suo continente molti anni in prigione. Ha tenuto una relazione lunga, argomentata e colta, spiegando come stanno provando a fare un socialismo diverso da quello che abbiamo chiamato “reale”.
Insistendo sulle necessarie forme di democrazia e sulla socializzazione dei beni (il famoso bencomunismo) al posto delle statalizzazioni. Non provo neppure a darne una traccia, ma spero si sarà in grado di pubblicarlo al più presto. Linera è venuto apposta a Pisa, per poche ore, fra un impegno a Barcellona e uno a Parigi. Voleva esserci, e noi della sua partecipazione siamo stati orgogliosi e commossi .(Particolarmente io perché mi ha parlato subito de Il Manifesto ).
Ringraziando tutti a nome dell’Università di Pisa a conclusione della Conferenza Maurizio Iacono ha detto: “Ricucire, pur mantenendo la necessaria tensione dialettica, tempo lungo della ricerca, della storia e dell’immaginazione, e tempo breve dell’azione civile, politica e della vita quotidiana, nella consapevolezza che non ci può essere libero sviluppo delle facoltà individuali senza la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura.E’ questo che abbiamo imparato da Marx e che deve presupporre ogni tentativo di ripensare l’alternativa e ogni lotta per la dignità e l’uguaglianza.”

Il Fatto 19.5.19
Alla fine che cosa resterà dell’Italia
di Furio Colombo


Se il governo-contratto scelto per cambiare l’Italia durerà altri quattro anni (presumibilmente simili al primo) che cosa dirà chi dovrà rispondere alla domanda: che Italia è? Non penso a ciò che diranno i governanti.
La lista di “cose fatte” da Di Maio viene ripetuta in quasi ogni intervento o intervista e forse si sarà un poco allungata, ma il metodo è lo stesso, inventato da Renzi, la perenne congratulazione con se stesso per avere cambiato tutto, in un paesaggio fermo. Il socio di contratto e nemico di vita Salvini continuerà a garantire ai cittadini la sicurezza contro immigrati che non ci sono, e intanto a Napoli, italiani contro italiani (detti camorristi ma radicati nella nostra fede, e nei nostri valori) sparano nelle strade (è ormai accettato anche l’inseguimento della vittima a piedi) davanti alle scuole e dentro il pronto soccorso degli ospedali, senza alcun cenno di intervento o anche solo di preoccupazione o di scusa del ministro dell’Interno, impegnato con i rom. Raccontata da Conte, il presidente del Consiglio part-time, completo blu sempre pronto in caso di apparizione di governo, la storia sarà più ordinata: tutti al loro posto.
Gli italiani fanno di mestiere gli italiani, anche perché gli altri mestieri scarseggiano, nessuna notizia di politica estera con cui disturbare i cittadini, anche se in Libia si combatte una brutta guerra, non si sa di chi, contro chi, per conto di chi, anche se è stata messa in piedi una rete di rapporti dell’Italia con Paesi europei che odiano l’Italia, la diffamano e, da sovranisti, non darebbero un euro in caso di aiuto, né accetterebbero un profugo in caso di emergenza. Dopo tutto sono sovranisti (oltre che suprematisti) e anche un po’ fascisti se la parola si potesse ancora dire senza che venga respinta con fastidio come il tic maniacale degli antifascisti (che sono il vero male del mondo, parola di editore del ministro dell’Interno italiano). E dunque chi sarà interpellato dirà che avevamo fatto alleanze con scrupolo e attenzione, con nuovi amici che, avendo le stesse idee lugubri del governo italiano (frontiere chiuse, porti chiusi, prima se stessi ), non possono e non vogliono esserci di aiuto. Ma nell’ipotesi (aggiungete voi l’aggettivo che esprime un giudizio) che il fitto dialogo Di Maio-Salvini (e quello aspro e incessante tra tutti i sottoposti di uno e dell’altro), provate a dire che cosa si può rispondere, adesso o fra quattro anni, alla domanda: che cosa è accaduto? E che cosa resta dell’Italia?
È accaduto che, mentre si pensava che i due progetti elettorali-chiave fossero l’aiuto ai poveri e il pensionamento liberato da limiti ingiusti, si è scoperto che i due veri obiettivi erano, da una parte, la libertà di stampa e, in generale, di espressione (si va da insulti feroci al mestiere di giornalista, tratti dalla vis comica di Beppe Grillo, fino al completo controllo della Rai e persino di palinsesti e compensi), e, dall’altra, il blocco totale dell’immigrazione equiparata a delitto e regolata da un decreto che ragionevolmente un gruppo di studenti di una buona scuola italiana ha trovato ispirata alle leggi razziali fasciste.
I nostri posteri dovranno inoltre segnalare uno dei fatti più strani, meno dignitosi e meno spiegabili del primo anno del “governo del cambiamento”: lo sradicamento di Radio Radicale. Prima di dire di questa emittente giudizi, che nel mio caso sono di affetto, rispetto e ammirazione (per fortuna non sono solo) e da altri saranno di critica, bisogna per forza tornare al senso dell’evento, che non dipende da una classifica, ma dall’idea, semplice e perentoria che si deve chiudere una radio che non controlli. Come si chiude una radio nel caso escogitato dai nostri “agenti di cambio”? Tagliando a metà la modesta sovvenzione statale (annuale) di 10 milioni, che è finora servita per trasmettere tutta la parte pubblica e ignota della vita italiana (Camera, Senato, commissioni, istituzioni), notiziari che arrivano fino alla stampa africana e turca, aggiornamenti continui sull’Europa di Bruxelles, l’America della Casa Bianca e delle Nazioni Unite, e un mare di documenti e di interviste. Quei pochi milioni rimborsavano le spese e il lavoro (il meno pagato al mondo) di chi fa funzionare Radio Radicale 24 ore al giorno, con un archivio unico e immenso (certo per i casi giudiziari italiani). La trovata di tagliare la sovvenzione a metà chiude tutto. E così avremo il primo governo europeo che potrà vantarsi di avere eliminato deliberatamente una radio libera, a basso costo e notevole lavoro di notariato. Ragioni? Eliminare una voce. Dicono: cercatevi pubblicità. Trovatela se parlate liberamente di ogni prodotto e di ogni impresa e dell’intreccio di interessi fra imprese e governo: la PBS (radio-televisione pubblica americana) non ha mai voluto cercare pubblicità. Per restare libera, dicono, produce tuttora, con il lavoro di grandi professionisti sottopagati, il miglior giornale radio e il migliore telegiornale nazionale e internazionale di quel Paese. La lista parlerà di migranti che sono tuttora in mare. Ma si dirà che si tratta di terroristi.

Corriere La Lettura 19.5.19
A confronto
Due atenei milanesi, Statale e San Raffele, hanno promosso una laurea magistrale per formare una classe dirigente proiettata nel futuro.
Quattro partecipanti all’iniziativa discutono il rapporto tra filosofia e scienze sociali
Dobbiamo inventare l’Illuminismo del 2019
conversazione di Maurizio Ferrare con Francesco Guala, Roberto Mordacci e di Francesca Mordacci


La scienza moderna ha scoperto che la natura è governata da leggi che la rendono in larga misura controllabile e prevedibile. Le scienze sociali novecentesche hanno a loro volta messo in luce le molte regolarità che caratterizzano la sfera politica, economica e sociale, nonché i meccanismi che le generano. Lo Stato di diritto — diventato poi liberale e democratico — ha stabilizzato i processi di interazione e di decisione collettiva. In questo contesto, l’immagine del tempo è radicalmente cambiata. In particolare, il futuro non appare più dominato dal caso, dal destino o dalla provvidenza. È diventato la dimensione del possibile: una fase temporale vincolata, certo, dal passato, ma più o meno liberamente plasmata nel presente, in base ai nostri scopi e valori. Insegnare ai giovani come «governare il futuro» è uno dei principali obiettivi di una nuova laurea magistrale promossa da due atenei milanesi: la Statale e l’Università Vita-Salute del San Raffaele. Abbiamo affrontato le tematiche al centro dell’iniziativa con tre studiosi di filosofia: Francesco Guala insegna Economia politica e si occupa di scienze sociali; Roberto Mordacci, preside al San Raffaele, è uno specialista di Filosofia morale e bioetica; Francesca Pasquali è docente di Filosofia politica.
MAURIZIO FERRERA — In un recente discorso, Emmanuel Macron ha lanciato un ambizioso percorso di riforme, nato da un «gran dibattito nazionale» che ha coinvolto più di due milioni di cittadini. Dibattito democratico e progetto di cambiamento: siamo gli eredi dell’Illuminismo, ha ricordato il presidente. Un richiamo che ben si presta a riflettere su come governare il futuro…
ROBERTO MORDACCI — Certamente. Fu l’Illuminismo a elaborare l’idea moderna di storia come orientata verso uno scopo. È l’idea di progresso scientifico ma anche morale e politico: vite meno infelici, istituzioni più giuste. La grande crisi attuale viene dalla sfiducia in questa possibilità, favorita dalla moda postmodernista della «fine» del sapere, della morale e dunque della storia. Ma il progresso è una responsabilità, non una necessità: esiste se lo facciamo accadere.
FRANCESCO GUALA — Un’impresa doverosa, ma non facile. Grazie alle scienze cognitive e sociali oggi siamo più consapevoli delle difficoltà che tutti noi, cittadini ed esperti, incontriamo quando cerchiamo di rappresentare e controllare i processi di cambiamento. La percezione esagerata del rischio, l’incapacità di pensare scenari alternativi a quelli dominanti sono ostacoli enormi, che possono impedirci di trovare soluzioni razionali e condivise. Ma Illuminismo vuol dire anche ottimismo: la riflessione filosofica e scientifica ci fornisce strumenti formidabili che non esistevano solamente qualche decennio or sono. Proprio perché sappiamo quali sono i nostri limiti, abbiamo più chance di superarli.
FRANCESCA PASQUALI — Come eredi dell’Illuminismo, riconosciamo che, non essendoci fini stabiliti da autorità esterne, il futuro è aperto e ognuno ha il diritto di contribuire a definirne la direzione. Per evitare fraintendimenti piuttosto diffusi, si deve chiarire però che questo non implica attribuire a tutte le opinioni la stessa validità. Al contrario, proprio perché non ci sono autorità esterne cui affidarci, per orientare il futuro verso il meglio dobbiamo sottomettere al vaglio della ragione le nostre opinioni, scartando quelle non fondate su solide argomentazioni o evidenze empiriche affidabili.
MAURIZIO FERRERA — Le nuove tecnologie, e più in generale quella che il filosofo Luciano Floridi chiama l’Infosfera, stanno rapidamente cambiando i modi di produrre, lavorare, comunicare, organizzare la vita associata, persino incrementare le nostre abilità naturali. Può davvero aprirsi la possibilità di un grande balzo in avanti dello sviluppo umano. L’Infosfera (e in particolare il progresso dell’intelligenza artificiale) solleva però anche enormi problemi di natura etica e sociale. Quali sono secondo voi le principali sfide e le strategie per affrontarle?
FRANCESCO GUALA — Sulle sfide c’è l’imbarazzo della scelta. Ne scelgo una che mina al cuore i fondamenti della democrazia: la necessità e insieme la difficoltà di vivere insieme nella diversità di pensiero. Si tratta di una sfida perenne, ovviamente, ma la tecnologia negli ultimi dieci anni ha enormemente facilitato la creazione di comunità alternative e «chiuse» — dai terrapiattisti ai no-vax — restringendo a sua volta lo spazio intermedio dove si stipulano i compromessi essenziali per il vivere comune. I gruppi che contrasteranno questo processo di isolamento e frammentazione potranno formare le coalizioni vincenti della politica del futuro.
FRANCESCA PASQUALI — Se gli scenari prevedibili in base agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e del potenziamento biologico — macchine intelligenti, individui sempre più resistenti alle malattie — sono perlomeno possibili, si tratta di capire se e come aggiornare il nostro resoconto circa le caratteristiche distintive degli esseri umani, che fa da sfondo alla riflessione morale. È sensato individuare la nostra specificità in certe facoltà cognitive, che forse condivideremo con le macchine, o in certe caratteristiche biologiche, che forse potremo modificare? Si tratta anche di valutare se simili scenari siano desiderabili e se vi siano soluzioni, magari distanti dalle nostre pratiche attuali, per bilanciarne al meglio vantaggi e svantaggi.
ROBERTO MORDACCI — In passato, le tecnologie generavano paure per la loro potenza distruttiva. Per questo Hans Jonas invocava responsabilità. Quelle attuali vivono di controllo e velocità. Chi ha accesso ai Big Data e quale potere acquisisce controllandoli? Quanta rapidità siamo in grado di gestire negli scambi di informazione? Abbiamo bisogno di un’etica per l’età digitale, che ne sappia affrontare la legge fondamentale, ovvero l’accelerazione costante e inarrestabile.
MAURIZIO FERRERA — Al di là delle oscillazioni e delle crisi cicliche dell’economia capitalistica, le società avanzate hanno oggi il potenziale di raggiungere sempre più alti livelli di «prosperità»: una nozione che evoca benessere quantitativo e qualitativo, pluralità e disponibilità (sperabilmente «equa») di chance di vita sempre più ampie e articolate. Il percorso è tuttavia irto di ostacoli: pensiamo alla sostenibilità ambientale e demografica, alla pressione migratoria, al logoramento dei legami di solidarietà, al rischio di ripiegamenti nazionalistici e di rigetto dei progetti di integrazione, in particolare in Europa. Quali sono le condizioni più propizie affinché il potenziale oggi esistente si possa realizzare in forme e modi «aperti, inclusivi, sostenibili»?
ROBERTO MORDACCI — Le condizioni essenziali dello sviluppo sono chiare: gli «obiettivi di sviluppo sostenibile» fissati dall’Onu mostrano che è il coordinamento la chiave di una crescita equilibrata. La minaccia alla vita viene dall’iniquità, dal conflitto sociale e dall’isolamento, che generano inquinamento, distruzione delle risorse, squilibri, discriminazioni e guerre. Nel mondo globalizzato, o si cresce insieme o si muore isolati.
FRANCESCO GUALA — L’etica economica si fonda su due princìpi universali: il principio secondo il quale chi produce un bene o un servizio ha diritto di goderne i principali benefici; e quello dell’uguaglianza, che si applica ogniqualvolta non è possibile identificare chiaramente chi ha prodotto il bene in questione. Questi due princìpi funzionano bene in comunità relativamente piccole e coese, nelle quali i rapporti di forza sono relativamente equilibrati. Quando si creano enormi disuguaglianze invece entrano in crisi. Credo che la redistribuzione oggi vada pensata in un’ottica nuova — politica invece che etica — proprio perché siamo in una situazione di questo genere. In pratica, significa che i «vincitori» di oggi devono smettere di porsi la domanda «è giusto redistribuire?» e chiedersi invece quale sistema di redistribuzione potrà salvare il patto sociale.
MAURIZIO FERRERA — Su scala globale il mondo resta attraversato da aspri conflitti e guerre locali, che minacciano pace e sicurezza, anche attraverso il terrorismo. Le radici di questi conflitti sono di natura sia «materiale» (diseguaglianze, accesso alle risorse e così via) sia «ideale» (cultura e religione). L’Europa è oggi l’area più pacificata, civilizzata e sviluppata del pianeta, ma questo esito è il risultato di secoli di guerre e scontri fra popoli. Non è detto che la via europea sia praticabile e replicabile a livello globale. E non è neppure detto che le dinamiche conflittuali che caratterizzano oggi il mondo possano gradualmente comporsi: potrebbero invece deflagrare nel famoso «scontro di civiltà» preconizzato da Samuel Huntington. L’ideale kantiano di una pace perpetua, sorretta da un ethos universale di civismo e assetti federali sul piano planetario, vi sembra oggi più vicino o più lontano?
FRANCESCA PASQUALI — Immanuel Kant è chiaro: una pace perpetua è possibile solo tra repubbliche, in cui le decisioni si fondano sul consenso dei cittadini che, consapevoli dei costi, rifiutano la guerra. Se è così, la tendenza attuale non è incoraggiante: i regimi autoritari non sono in diminuzione e, anzi, alcuni sono attori chiave a livello internazionale. Questo è un motivo in più per capire come mai regimi autoritari mantengano una notevole centralità e domandarsi come fare i conti con tali regimi senza contraddire i princìpi democratici.
ROBERTO MORDACCI — La tendenza odierna verso la barbarie è fortissima. Lo spettro dell’autoritarismo, dell’odio etnico e della regressione si aggira minaccioso per l’Europa e non solo. La pace perpetua va ripensata da capo, come fece lo stesso Kant nel proprio tempo. Ogni epoca deve vivere il suo Illuminismo, non ripetere quello passato. È ora che lo facciamo anche noi, prima che sia troppo tardi.
FRANCESCO GUALA — L’ideale kantiano della pace perpetua è un modello che deve guidare sempre il nostro agire politico. Ma non sono particolarmente ottimista riguardo alla progressiva integrazione degli Stati nazionali in entità federali planetarie. La difficoltà che sta incontrando il progetto europeo sono significative a questo proposito: dei popoli già profondamente integrati culturalmente ed economicamente non riescono a compiere il salto decisivo verso un assetto federale. D’altronde credo che lo «scontro di civiltà» sia uno spauracchio politico semplicistico utile a spaventare le persone, molto meno ad analizzare la realtà. È più probabile che la violenza si sviluppi in focolai relativamente marginali, dove le grandi nazioni non hanno l’interesse o la forza di intervenire.
MAURIZIO FERRERA — Torniamo ai giovani, che almeno dal punto di vista socio-demografico costituiscono il 100 per cento del nostro futuro. Quali sono le competenze che essi dovrebbero padroneggiare grazie agli studi universitari per apprendere dal passato, interpretare il presente e dare il proprio contributo, anche in ambito lavorativo, per costruire e governare il mondo di domani?
FRANCESCO GUALA — Sicuramente la capacità di integrare gli strumenti e le conoscenze provenienti da diverse discipline — economia, politica, filosofia. Ma anche la capacità di esprimere una sintesi in modo chiaro, comprensibile, e non conflittuale. Vorrei sottolineare quest’ultimo punto — non conflittuale — perché è forse il più difficile. Andare controcorrente non è difficile: basta dire il contrario di quello che dicono gli altri! Quello che è davvero difficile è trovare nuove soluzioni e convincere chi non la pensa come noi, spesso con ottime ragioni. Tornando a quanto detto prima, le nuove tecnologie non ci aiutano da questo punto di vista. Ma è appunto il motivo per cui è essenziale provarci, formando una generazione di giovani che siano in grado di farlo meglio di noi.
FRANCESCA PASQUALI — Serve una preparazione multidisciplinare che, producendo anticorpi contro specialismi fini a sé stessi, consenta di acquisire una prospettiva di ampio respiro e strumenti analitici, descrittivi e filosofici, per capire e valutare i rapidi cambiamenti politici e sociali e immaginare modalità di intervento efficaci e appropriate in termini valoriali.
ROBERTO MORDACCI — Sono d’accordo: preparazione multidisciplinare e capacità di «visione». Solo il futuro dà senso al passato e alla frammentazione presente. L’avvenire non è degli specialisti: per risolvere i problemi occorre sempre una visione complessiva. Per questo la filosofia ha un ruolo decisivo, purché si mescoli alle scienze sociali, alla ricerca e all’evoluzione delle imprese. Queste ultime stanno cambiando il capitalismo, sono più attente ai valori, ma hanno bisogno di giovani capaci di strategie vincenti sul piano sociale e politico, non solo economico.

Corriere La Lettura 19.5.19
Un’allergia alla libertà più antica del fascismo
Si continua a ripetere, come ha fatto Antonio Scurati, che il regime mussoliniano «è dentro di noi». Ma la visione pseudo-antropologica che richiama una sorta di peccato originale degli italiani non appare convincente. Il vero problema è la scarsa attenzione verso i diritti individualiche ha caratterizzato le principali correnti politiche, compreso il movimento operaio di matrice marxista
di Fulvio Cammarano


Perché mai in Italia, quando si parla di fascismo, si finisce sempre per parlare dell’«inconscio», della «natura», delle «caratteristiche di fondo» degli italiani? Perché si evoca il «fascismo dentro di noi», come ha fatto Antonio Scurati? Probabilmente perché è il modo più semplice per evitare di fare i conti con la storia, immergendosi nel mare magnum della psico-antropologia dove ognuno trova modo di spiegare, con poche icastiche affermazioni, le ragioni per cui l’Italia non solo ha generato il fascismo, ma gli ha anche assicurato un rilevante consenso.
A chi si chiede come mai a un secolo dalle prime manifestazioni fasciste ci troviamo ancora a commentare fatti di cronaca che riportano alla ribalta vocaboli, gesta, riti ispirati allo squadrismo dei primi anni Venti del Novecento, non si può rispondere chiamando in causa il «fascismo eterno» di Umberto Eco, quasi un peccato originale costitutivo, ma neppure far finta di nulla, considerandoli irrilevanti o inevitabili.
Guardando la storia non sembra azzardato affermare che gli italiani, più che nostalgici del fascismo in quanto tale, siano semplicemente privi di un forte radicamento sul terreno delle libertà civili e dei diritti. Forse si dovrebbe dire che il facile attecchimento del fascismo, al di là delle note contingenze politiche e connivenze istituzionali, fu il risultato di un implicito «contratto» tra il regime e gli italiani, i quali più che dal fascismo furono conquistati da una prospettiva di ordine, identità sociale e una sorta di autarchico welfare in cambio della rinuncia alle libertà verso le quali, peraltro, durante i precedenti sessant’anni, i nostri avi non avevano mai mostrato un particolare entusiasmo.
Infatti, se si escludono i conflitti risorgimentali e insurrezionali tra il 1848 e il 1878, la storia d’Italia conosce poche grandi lotte di massa in cui non siano in gioco rivendicazioni economiche dei lavoratori, e quasi tutte incentrate attorno al conflitto tra nazionalisti e internazionalisti avviato dopo la guerra di Libia. Il socialismo aveva infatti occupato le piazze con sempre maggiore frequenza, rivendicando quasi esclusivamente migliori condizioni materiali per i milioni di salariati dell’industria e delle campagne. Se inizialmente la grave arretratezza da industrializzazione ritardata rendeva tali lotte comprensibili, in seguito la loro persistente separazione dalla domanda di estensione dei diritti divenne deleteria per la democrazia italiana.
Un esempio paradigmatico in questo senso ci viene dall’analisi del ruolo giocato dalle pressioni popolari per estendere il diritto di voto in un regime a suffragio ristretto come la Gran Bretagna, dove si verificarono enormi manifestazioni pubbliche che sin dall’inizio dell’Ottocento misero sotto pressione la classe dirigente. Il massacro di Peterloo del 1819, ad esempio, ebbe origine da un raduno organizzato per assicurare a Manchester la rappresentanza politica. Soprattutto però va ricordato come il Second Reform Act del 1867, che garantì l’accesso al voto di un milione di lavoratori, fu adottato urgentemente sotto la spinta di un’insoddisfazione di massa foriera di seri pericoli per la stabilità del sistema politico britannico. Lo stesso movimento cartista nel 1842 presentò una petizione di tre milioni di lavoratori in cui si chiedeva il voto segreto per ogni maschio adulto.
In Italia, su questi temi, il clima è esattamente l’opposto: nessuna pressione popolare per l’estensione del suffragio, tanto che la riforma del 1882 fu concessa al rallentatore dalla Sinistra storica, dopo estenuanti dibattiti, senza che dal basso provenisse la benché minima lamentela. La stessa cosa si può dire per il suffragio universale maschile, calato dall’alto da Giovanni Giolitti nel 1912 e accolto persino con perplessità da alcuni socialisti. Significativo, a tale proposito, anche il silenzio delle donne, assordante se paragonato con il protagonismo delle suffragette britanniche.
Al di là dell’ovvio diverso grado di maturazione politica delle classi popolari, frutto dei differenti percorsi storici, la questione elettorale in Italia funge da cartina di tornasole dell’assenza di sensibilità per i temi della partecipazione civica, proprio a partire dalle forze politiche di massa: socialisti e cattolici. Emarginata a sinistra la componente mazziniana, riformisti e massimalisti si contesero il primato mettendo in ombra il problema della cittadinanza e al centro o i modelli produttivi e i miglioramenti materiali o la rivoluzione proletaria: nel 1919 durante un dibattito a Bologna sulla proporzionale, i socialisti fecero fallire l’iniziativa al grido di «altri e più impellenti problemi urgono oggi il proletariato al quale non interessa affatto la questione elettorale».
Così, mentre i nazionalisti brandivano il rivendicazionismo economico operaio per spaventare i ceti medi, diffondendo nuovi scenari dove ordine, disciplina e potenza nazionale mettevano fuori gioco il cittadino, i dirigenti socialisti continuavano a rifiutare di prendere in considerazione il lato politico delle rivendicazioni economiche in vista di «ben altri» traguardi, nel timore che ciò avrebbe prodotto un’integrazione della classe operaia nel sistema. Non è un caso che la questione delle libertà come fondamento di una nuova, consapevole, cittadinanza sia stata la parola d’ordine lanciata dal liberale eretico Piero Gobetti e raccolta da spezzoni minoritari e perdenti dell’azionismo, del radicalismo e del socialismo liberale. Il fascismo, scriveva Gobetti, è «tutela paterna prima che (…) dittatura»: mantenendo gli italiani in stato di minorità, Mussolini li ha sollevati dalla fatica di lottare per i diritti e dall’onere di esercitarli.
Lo scarso significato attribuito dalle masse alle conquiste della democrazia liberale è dunque il risultato sia dei timori di una parte consistente degli eredi di Cavour (non tutti) di trattare con le «plebi» (i «ventri», come diceva Francesco Crispi), sia, dopo il 1945, dell’estraneità al tema che ha caratterizzato le antiche culture «antisistema», socialista e cattolica, una volta giunte al potere. Un’estraneità che spiega l’ampiezza dell’impatto liberatorio del Sessantotto nel nostro Paese con la nuova percezione dei diritti, ma anche paradossalmente la scarsa profondità di tale percezione, che ne ha impedito la trasformazione in cultura civica. Se dunque per capire l’avvento del fascismo dobbiamo ricordare l’uso spregiudicato della violenza e la debolezza delle istituzioni, per comprenderne la permanenza, ma soprattutto per fare i conti, senza ricorrere alla metafisica, con l’inquietudine che ancora oggi quella realtà continua a suscitare (nonostante la modestia dei numeri e della rilevanza politica), è necessario riflettere su quanto oggi sia salda e radicata la cultura della cittadinanza repubblicana.

il manifesto19.5.19
Un palco nero aggressivo ma fragile
Salvini a Milano. Proprio di fronte al palco su cui sfilavano i campioni dell’ondanera, era srotolato un lungo striscione con su scritto «Restiamo umani». Sullo stesso balcone uno Zorro in perfetto costume disegnava nell’aria a colpi di fioretto. Era la sintesi dell’alternativa che c’è, e cresce nel Paese: umanità e ironia.
di Marco Revelli


In Piazza Duomo a Milano ieri è andata in scena la rappresentazione fisica dell’«onda nera». All’insegna della peggior forma di comunicazione politica: la blasfemia e la menzogna. Blasfema è infatti l’immagine di Matteo Salvini con la corona del rosario in mano.
Che così si affida «al cuore immacolato di Maria che ci porterà alla vittoria»: una vittoria che, se ottenuta, significherebbe la chiusura dell’Europa al resto del genere umano sofferente e minacciato («Se fate di noi il primo partito europeo la nostra politica sui migranti la portiamo in tutta Europa e non entra più nessuno» ha detto testualmente).
Blasfema è la menzogna con cui ha risposto polemicamente a papa Francesco che ancora una volta invocava la «necessità di ridurre il numero dei morti nel Mediterraneo» e che si è sentito rispondere che questo è già stato fatto, da lui, «con spirito cristiano», con la chiusura dei porti, la persecuzione delle Ong che salvano e i patti scellerati con i tagliagole libici, come se eliminare i testimoni scomodi e lasciar crepare le persone nei lager di Tripoli e Bengasi significasse risparmiare vite umane. Blasfemo, infine, è il tentativo di sfidare il papa in carica (fischiato dalla piazza) con l’evocazione apologetica dei suoi predecessori, Ratzinger e Woytila, nel tentativo di allargare a colpi d’ascia la spaccatura della Chiesa.
Menzognera è, d’altra parte, l’immagine apparentemente rassicurante che nel contempo il Capitano ha voluto dare, negando che su quel palco sfilasse la «destra radicale» europea («qui non c’è l’ultradestra, c’è la politica del buonsenso») quando era del tutto evidente, dai nomi dei convenuti e dai toni dei loro discorsi, che così non era.
Che lì erano stati convocati i leader di un estremismo di destra del Terzo millennio che, ognuno a casa propria, lavorano per scardinare il sistema di valori che la modernità democratica aveva elaborato, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo alle Carte costituzionali dei principali paesi occidentali, per sostituirli con una visione del mondo egoista e feroce, suprematista e razzista, ostile ai principii di eguaglianza e solidarietà.
C’erano un po’ tutti i campioni di questo nuovo credo inumano, dalla Marine Le Pen («la nostra Europa non è quella nata sessanta anni fa») all’olandese Geert Wilders («Basta immigrazione, basta barconi», punto!), dai tedeschi di Alternative fur Deutschland (sempre più aperti alle frange neonaziste dopo la rottura con la precedente leader) a quelli dell’Ukip (con cui lo stesso Farage ha rotto a causa delle loro eccessive simpatie fascistoidi). Mancava l’austriaco Strache, è vero, ma solo perché travolto dallo scandalo che l’ha coinvolto direttamente. Peccato, perché sarebbe stato interessante sentire cosa aveva da dire sull’idea del suo collega italiano di sforare il limite del 3% del debito, vista la posizione ferocemente ostile appena espressa dal suo premier.
E questo ci introduce a una seconda riflessione: la sostanziale fragilità di quel fronte andato in scena sul palco nero di Milano, in qualche modo direttamente proporzionale alla sua aggressività. Uniti nei confronti dei più deboli, quei muscolari esponenti dell’ultradestra continentale sono in intimo, inevitabile conflitto tra loro quando si tratta di ascoltare le ragioni l’uno dell’altro, sia che siano in gioco le dimensioni del debito (e il nostro è enorme) o la redistribuzione per quote dei migranti.
Ognuno, appunto, padrone a casa propria, e prima i rispettivi «nostri». È la maledizione che colpisce ogni populismo sovranista, per sua natura segnato da una forte carica di nazionalismo che gli rende impossibile ogni forma di reale cooperazione politica e finisce per riprodurre la logica amico/nemico verso chi dovrebbe essere un proprio alleato. Non è un fattore rassicurante, vorrei essere chiaro, perché storicamente questa maledizione ha portato alla guerra. Ma ci dice quanto velleitario ed effimero sia il fronte presentato a Milano in una giornata di pioggia.
Proprio di fronte al palco su cui sfilavano i campioni dell’onda nera, era srotolato un lungo striscione con su scritto «Restiamo umani». Sullo stesso balcone uno Zorro in perfetto costume disegnava nell’aria a colpi di fioretto. Era la sintesi dell’alternativa che c’è, e cresce nel Paese: umanità e ironia. Lo si è visto nella bella – colorata e viva – contro-manifestazione parallela che ha messo in campo una generazione antropologicamente refrattaria al cupo contagio nazional-populista.
Se un futuro c’è, è rappresentato da loro.

Corriere 19.5.19
Cgia di Mestre
Povertà: giovani a rischio più degli over 65


In 20 Paesi europei su 28 il rischio povertà tra gli under 16 (media Ue 24,4%) è nettamente superiore a quello riferito agli over 65 (18,2%), rileva la Cgia di Mestre, secondo la quale la situazione in Italia è ancor più drammatica. La percentuale di minori che si trova in una situazione di disagio economico è al 31,5% contro una media tra gli ultra 65enni del 22%. Nell’Ue a 28 solo in Grecia, in Romania e in Bulgaria la quota di minori a rischio povertà è superiore al dato riferito al nostro Paese. In Italia, la popolazione a rischio povertà o esclusione sociale con meno di 18 anni ha un’incidenza più elevata nel Mezzogiorno. In Sicilia, ad esempio, i minori in difficoltà sono il 56,8%, in Calabria il 49,5% e in Campania il 47,1%. Sono 3,1 milioni i giovani in Italia con disagio economico: tra questi, 498 mila circa sono campani e 488 mila circa siciliani.

Corriere 19.5.19
La vedova D’Antona
«Io e Massimo prima delle Br»
di Giovanni Bianconi


Olga D’Antona ricorda il marito Massimo ucciso vent’anni fa.
La casa è sempre la stessa, all’ultimo piano di un palazzo umbertino che affaccia su via Salaria, dalle parti di Porta Pia. Qui Olga D’Antona salutò suo marito Massimo, la mattina del 20 maggio 1999, mentre usciva con due borse gonfie di libri e carte, dopo avergli preparato e portato il caffè. Di solito era lui a farlo, ma quella mattina no. «Erano giorni in cui sembrava stanco e stressato — ricorda —, e lo aspettava un’altra giornata di intenso lavoro. Gli dissi ciao sulla porta, mentre entrava in ascensore». Arrivato in strada, centodieci passi più in là, fu abbattuto da cinque colpi di pistola, assassinato da un commando delle Brigate rosse per la costruzione del partito comunista combattente. Le nuove Br, furono ribattezzate, ma ormai sono vecchie pure quelle: uno sparuto gruppo di terroristi che tre anni più tardi uccise il professor Marco Biagi, smantellato nel 2003 dopo il conflitto a fuoco in cui morirono il poliziotto Emanuele Petri e il neobrigatista Marco Galesi, l’esecutore materiale degli omicidi. In prigione oggi ne sono rimasti quattro (tre ergastolani al 41 bis), una agli arresti domiciliari. Gli altri sono tornati liberi per fine pena. Comprese la «pentita» e la «dissociata» che parteciparono all’omicidio; la prima, condannata a dodici anni di reclusione, vive da tempo con un programma di protezione; la seconda, scontati vent’anni, è stata scarcerata due settimane fa.
«Quando ho potuto vederli in faccia mi sono apparsi non all’altezza del male che hanno provocato», ha detto Olga D’Antona lo scorso 9 maggio, durante la celebrazione della Giornata in memoria delle vittime del terrorismo. E ora ribadisce: «Hanno distrutto le nostre vite, ma anche le loro. Nadia Lioce segregata in prigione, Galesi ammazzato e sepolto senza nessuno, a parte un frate compassionevole, Diana Blefari Melazzi suicida in cella…».
Un piccolo nucleo di persone quasi tutte identificate dagli investigatori, decisi a riportare in auge il marchio brigatista che negli anni Settanta e Ottanta aveva mietuto decine di vittime, ma in tutt’altro clima. Un tentativo di riaccendere pretese rivoluzionarie senza più il contesto del passato, senza alcuna prospettiva. Ma che pur consumandosi in fretta ha ucciso quattro persone (brigatista compreso) e deviato molti altri destini.
La vita di Massimo D’Antona fu spezzata vent’anni fa, quella di sua moglie da allora è cambiata per sempre: «Io sono rimasta ancorata a quel giorno; tutto ciò che è venuto dopo è in qualche modo legato alla memoria di Massimo, compreso il mio impegno in Parlamento, sebbene non abbia mai pensato di potermi sostituire a lui». Vent’anni dopo, un faticoso album di ricordi che parte dal primo incontro e si snoda fino al marciapiede di via Salaria dove una lapide indica il luogo dell’agguato «a ricordo e monito», ci rammenta che il terrorismo uccide i simboli calpestando le persone. Senza riuscire a cancellarle, però.
Massimo e Olga si conobbero nell’estate del 1966, alla rotonda di Anzio, lui appena diciottenne e lei di un anno più grande, frequentando lo stesso gruppo di amici sul litorale romano. Lui suonava la chitarra, a lei piaceva cantare. «Ma Massimo doveva pure studiare, perché l’avevano rimandato in storia —racconta Olga — sebbene il suo punto debole fosse la matematica. Dopo abbiamo cominciato a frequentarci, all’inizio sempre con la scusa della musica che piaceva a tutti e due». S’innamorarono, si scelsero, e non si sono lasciati più. Si sposarono nel 1972, nel 1974 nacque Valentina. Massimo, laureato in Giurisprudenza, s’avviò alla carriera universitaria, Olga cominciò a lavorare nel settore delle assicurazioni, e poi nel sindacato.
«La musica è rimasta una costante della nostra vita, dopo pranzo ogni volta che ce n’era il tempo lui imbracciava la chitarra, si sedeva sul divano e cominciava a suonare, e io a cantare». Accordi e testi che hanno segnato la loro generazione: i Beatles, Bob Dylan, Joan Baez, ma anche composizioni classiche come i Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, l’ultimo disco ascoltato da D’Antona. Una passione coltivata insieme ad altri usi di quella gioventù vogliosa di conoscere e cambiare il mondo: «Partivamo per le vacanze con la sua moto Bsa, zaini e tenda legati sul portabagagli, viaggi senza mete prefissate ma decise sul momento. Una volta prendemmo il traghetto per la Jugoslavia e scendemmo lungo la costa fino all’Albania, dove allora non si poteva entrare; per tornare salimmo su un mercantile che ci sbarcò a Bari».
Col passare degli anni, una figlia e un’attività professionale sempre più intensa - D’Antona cominciò a insegnare Diritto del lavoro a Catania dove rimase 7 anni, poi a Napoli per altri 11, fino al traguardo della Sapienza a Roma — la voglia di viaggiare non si attenuò. Ultime destinazioni il Portogallo e la Turchia: «Era l’unico modo che Massimo contemplava per riposarsi, perché se stava a casa finiva immancabilmente per mettersi a leggere o scrivere. Anche quando ci vedevamo con gli amici, dopo un po’ sulle sue gambe compariva il computer per lavorare. E se stavamo soli, io mi mettevo davanti alla tv e lui a studiare su libri o documenti. Per questo molte sere mi chiedeva di andare a cena fuori, oppure al cinema. A proposito di film e musica volevamo vedere Buena vista social club di Wim Wenders, ma non abbiamo fatto in tempo».
Dal 1995, all’università s’era aggiunta la collaborazione con i governi: «Noi eravamo stati militanti politici, iscritti al Pci e legati alla Cgil, e lui non s’è mai considerato solo un accademico, un intellettuale racchiuso nei suoi studi. Ha sempre interpretato il proprio ruolo come forma di impegno anche pubblico, per contribuire a gestire i cambiamenti della società salvaguardando i diritti e la dignità dei lavoratori. Quando l’economista Giovanni Caravale, nostro amico, fu nominato ministro dei Trasporti nel governo Dini, gli chiese di affiancarlo e Massimo fu contento di mettere a disposizione le sue idee per risolvere i problemi; un’esperienza proseguita con Burlando e Bassanini, durante il governo Prodi, e poi con Bassolino ministro del Lavoro del governo D’Alema».
Fu l’incarico che gli costò la vita. Un professore che cercava di comporre i conflitti sociali — attraverso la regolamentazione degli scioperi nel settore pubblico, i protocolli sulla concertazione con i sindacati o la riforma della pubblica amministrazione — divenne il bersaglio dai neobrigatisti interessati solo a far esplodere le contraddizioni del sistema. «Hanno letto tutti i suoi scritti, hanno selezionato con cura l’obiettivo», dice la moglie guardando la libreria che raccoglie gli articoli e le monografie del marito.
Dopo D’Antona spararono a Biagi. Come i loro predecessori che negli anni Ottanta avevano ucciso Roberto Ruffilli, dedito a disegnare nuove architetture istituzionali, ed Ezio Tarantelli, che cercava vie d’uscita dalla crisi economica attraverso modifiche alla scala mobile; o ferito Antonio Da Empoli, consigliere economico di Palazzo Chigi, e Gino Giugni, padre dello Statuto dei lavoratori: «Anche se non era un suo allievo, Giugni considerava Massimo il suo successore, e quando subì l’attentato (nel 1983, ndr ) lo andammo a trovare in clinica. Vivemmo la lunga stagione del terrorismo come un pericolo per la democrazia, costellato da attentati ma anche da grandi manifestazioni popolari contro la cecità della lotta armata».
La violenza politica degli anni Settanta aveva varcato i cancelli delle università. Alla Sapienza, nel ’77, il Gran Capo della Cgil Luciano Lama fu costretto alla ritirata dagli autonomi dopo duri scontri con il servizio d’ordine del sindacato e del Pci. L’anno seguente le Brigate rosse sequestrarono e uccisero Aldo Moro, che oltre ad essere presidente della Dc era professore alla facoltà romana di Scienze politiche. E nel 1980 l’omicidio di Vittorio Bachelet, vice-presidente del Consiglio superiore della magistratura ma anche lui docente, assassinato al termine di una lezione sulle scale di quell’ateneo. Lo stesso in cui insegnava Massimo D’Antona. Domani, ventesimo anniversario del delitto, a Scienze politiche gli verrà intitolata un’aula che si trova tra le due dedicate a Moro e Bachelet.
Un tributo che indica la continuità fra i terroristi della Prima Repubblica e quelli della leva successiva, che dopo oltre un decennio di silenzio hanno ricominciato esattamente dal punto in cui erano stati fermati gli altri: colpire non più i politici o altre figure simboliche del potere da abbattere, bensì i riformisti delle seconde linee, professori al servizio delle istituzioni per farle funzionare meglio e offrire soluzioni alle crisi provocate dai nuovi assetti: «Massimo era convinto che non si potesse fermare il cambiamento, ma che bisognasse governarlo per non alimentare disparità e ingiustizie. Che fosse necessaria una coraggiosa modernizzazione del Paese, mantenendo però la coesione sociale e la solidarietà fra generazioni». A questo scopo continuò a impegnarsi fino alla fine, senza avere mai manifestato segni di allarme: «Ma io non so, né saprò mai, se lui percepì qualche minaccia. Negli ultimi giorni lo vedevo più stanco del solito, pensieroso. Era sovraccarico di lavoro, e io attribuii a quello la sua apparente preoccupazione, ma dopo m’è venuto il dubbio che potesse aver intuito qualcosa di ciò che l’aspettava. Non me l’avrebbe detto comunque, per la sua discrezione e per non farmi preoccupare. E io, vent’anni dopo, mi porto dentro questo cruccio».

il manifesto  19.5.19
L’estrema destra in Europa, un mischione che faticherà a essere determinante
Interessi contrapposti. Rigoristi e nemici dell’austerità, grisaglie e croci uncinate, pro Putin e russofobici
di Anna Maria Merlo

PARIGI L’alleanza sovranista euroscettica di estrema destra, che Salvini ha voluto celebrare a Milano a pochi giorni dalle europee del 23-26 maggio, è già ammaccata ancora prima di concretizzarsi. Il colpo è venuto dall’Austria, con le dimissioni forzate del numero due del governo di Vienna, Heinz-Christian Strache. L’Fpö ha mandato a Milano una figura di secondo piano, Georg Mayer, al posto della testa di lista per le europee, Harald Vilimsky. Il nuovo scandalo ha rivelato un elemento ben presente anche in altre formazioni di estrema destra: le relazioni poco chiare con la Russia di Putin. E più in generale la grande disinvoltura con i soldi, che sono uno dei grandi interessi dell’estrema destra tant’è che molti partiti di questa affollata galassia non sono sfuggiti a derive disoneste. Ma il caso austriaco, con lo smascheramento del «retrobottega» assai poco pulito mette in crisi il modello dominante della strategia dei sovranisti: l’alleanza tra destra classica e estrema destra, che è l’obiettivo in diversi paesi. Anche se ieri molti hanno cercato di minimizzare il colpo ricevuto in Austria, «affare interno» secondo Marine Le Pen.
Nell’Unione europea, già in sette paesi l’estrema destra è al governo e in altri i nazionalisti sperano di essere alle soglie del potere. Nel prossimo parlamento europeo, l’estrema destra punta ad essere determinante, ma è accreditata di circa un quarto dei seggi e la manovra può non riuscire. Steve Bannon, che è stato consigliere di Trump e in questi giorni è a Parigi, lavora per una alleanza al Parlamento europeo dei partiti nazionalisti, oggi divisi in tre gruppi. «Le elezioni europee saranno un terremoto», prevede Bannon, «sarete sorpresi di vedere che questi partiti possono lavorare assieme». Ma i nazionalisti avranno molte difficoltà a unirsi. Già ieri a Milano, mancavano alcuni nomi-chiave: non c’era Viktor Orbán, primo ministro ungherese e leader di Fidesz, che contende a Salvini la leadership nazionalista in Europa, né il Pis polacco di Kaczynski, e nemmeno il Brexit Party, il nuovo partito di Nigel Farage in Gran Bretagna. Orbán conserva un piede nel Ppe (popolari), che hanno sospeso ma non espulso Fidesz, e contemporaneamente pensa a una possibile alleanza con il Pis e altri minori, ma con un volto più presentabile, meno estremista degli ospiti di ieri a Milano. Farage, che con il suo ex partito Ukip nel parlamento uscente è alleato con il Movimento 5 Stelle, segue logiche proprie, in prospettiva del Brexit.
Dopo aver già riunito lo scorso aprile, sempre a Milano, i danesi del Dfp, l’Afd tedesca e i Veri Finlandesi, ieri Salvini ha portato sul palco anche Marine Le Pen del Rassemblement National, il Vlaams Belang dal Belgio, il Pvv olandese, Ekre dall’Estonia, Spd della Repubblica ceca, la slovacca Sme Rodina, Volya bulgara, oltre agli austriaci del Fpö. La spagnola Vox entrerà a far parte di questo schieramento, dopo il voto delle europee. L’ipotesi di un unico gruppo dei nazionalisti si scontra con le troppe differenze: tra gli austriaci, i finlandesi, i tedeschi che non vogliono sentir parlare di debito italiano e di eventuali solidarietà, tra gli statalisti francesi e i regionalisti belgi, tra gli olandesi che propongono un «edonismo securitario» e gli spagnoli che vogliono le donne a casa, tra gli italiani più anti-europei e gli austriaci più accomodanti con Bruxelles, tra chi resta ancorato a un passato inquietante, come la greca Alba Dorata e chi cerca rispettabilità, nascondendo i tatuaggi con le croci uncinate sotto un abito da bancario, come il Jobbik ungherese, tra gli amici di Putin e gli anti-russi dell’est, tra chi non rinnega l’antisemitismo e chi invece lo nasconde, tra il nord Europa più anti-tasse e la Francia più sociale, tra i liberisti e i corporativisti.
A pochi giorni dal voto, la propaganda evita di entrare nei dettagli. I partiti nazionalisti si concentrano su due temi: il rigetto del trio Merkel-Juncker-Macron e una violenta retorica anti-islam e anti-immigrati. I tre dirigenti di Germania, Francia e Commissione sono accusati di aver aperto le frontiere all’immigrazione e all’islam, di negare radici e identità tradizionali per favorire la mondializzazione.

Il Fatto 19.5.19
Giulia, l’avvocato che si fece ministro (e ancora avvocato)
di Pino Corrias


Non lo sa quasi nessuno, ma l’avvocato Giulia Bongiorno fa anche il ministro, sebbene nel Consiglio dei ministri, spesso faccia anche l’avvocato. Precisamente l’avvocato difensore della Lega, cioè di Matteo Salvini.
Il suo dicastero è quello per la Pubblica Amministrazione, con più o meno gli stessi titoli del suo autorevole predecessore, Marianna Madia, che un giorno sorrise ai microfoni, dicendo: “Porto in politica la mia straordinaria inesperienza”. Ma Giulia è molto più sveglia, non ha usato le morbidezze preraffaellite per scalare il potere, semmai i nervi, la velocità, il tempismo. È stata pupilla di Gianfranco Fini quando era Fini. Poi pupilla di Mario Monti, ai tempi d’oro del loden. E ha infine folgorato Salvini con un solo slogan: “La difesa è sempre legittima!” al punto da farlo rotolare da cavallo e convincerlo, alle ultime elezioni, a donarle il cuoio rosso dei senatori, e lo scettro ministeriale.
Tutti si aspettavano quello della Giustizia. Ma siccome la politica funziona come nei sequestri di persona, attraverso lunghe trattative con le armi e il telefono sul tavolo, il riscatto alla fine toccherà pagarlo ai travet del pubblico impiego che lei vuole sottoporre a controlli biometrici – iride o impronte digitali per entrare e uscire dall’ufficio – cinque giorni alla settimana, dall’assunzione alla pensione, senza condizionale.
Per farsi concava con ogni leader temporaneamente prescelto, ha semplificato il suo codice di procedura politica a un paio di articoli convessi: guai a voi colpevoli è il primo. E: guai a voi colpevoli è il secondo.
Il resto lo ha affidato alla più encomiabile delle battaglie, quella contro la violenza alle donne, alla quale ha dedicato tutte le sue energie politiche oltre che novantanove delle sue cento interviste. Dal 2007, in compagnia di Michelle Hunziker, ha fondato l’associazione Doppia difesa, per tutelare le donne maltrattate, elaborando un pacchetto di provvedimenti legislativi appena approvato alla Camera, intitolato Codice rosso, a dire l’urgenza con cui polizia e magistrati dovranno sempre reagire alle denunce di maltrattamenti, “non oltre le 72 ore”. È un “tempo perentorio”, visto che è proprio il tempo il complice più crudele dell’uomo che picchia, minaccia, assale e tante volte uccide.
Come talvolta fa il destino, fu proprio una donna minacciata la sua prima cliente di giovane avvocatessa, anno 1990. E quella donna venne uccisa prima di essere ascoltata dai giudici, prima di essere protetta da chi doveva. Un crimine mai dimenticato, con l’aggravante del “tradimento dello Stato”, come ancora oggi Giulia Bongiorno ricorda, con lacrime e furore in tv, per una ferita che non passa.
Quella violenza è il punto di raccordo delle sue due vite, con una curiosa intersezione che transita nel nero della Repubblica, dentro la clamorosa leggenda – anche giudiziaria – dell’uomo che più a lungo incarnò lo Stato e la sua ombra, Giulio Andreotti. Ma andiamo con ordine.
Giulia Bongiorno nasce alto borghese a Palermo tra i libri di Giurisprudenza, anno 1966. Il padre, Girolamo, è professore emerito di Diritto processuale alla Sapienza. Lei studia da prima della classe e non scende mai dal podio. Non è alta, ma gioca a basket e punta dritto a canestro. D’estate nuota nel mare di Mondello che con una granita al gelso resterà per sempre la sua vacanza ideale. A 23 anni si laurea con lode e toga d’oro. La indossa nel più prestigioso degli studi, quello di Gioacchino Sbacchi, palermitano anche lui, re dei penalisti e poi con Franco Coppi, l’inarrivabile decano.
Dopo un po’ di riscaldamento a bordo ring, entra nel quadrato della Storia, sedendosi accanto a Giulio Andreotti inquisito a Palermo e a Perugia per mafia e per l’omicidio di Mino Pecorelli, due accuse da ergastolo, una dozzina di magistrati schierati contro, cento pentiti, tutti i riflettori puntati, compresi quelli della tv giapponese. Lei ha 27 anni. E invece di fare un passo indietro e darsela a gambe, ne fa due in avanti: non è un retore, ma una spugna, anche se fatta con la limatura di ferro. Per cinque volte legge l’intero malloppo del processo, 1,2 milioni di pagine, stesa sul pavimento, usando ogni volta un evidenziatore di colore diverso. Quando ha imparato, punta il dito sinistro, carica il destro e attacca. Va al tappeto due volte, vince alla terza. E siccome le piace stravincere, grida tre volte in aula la mezza bugia del verdetto (“Assolto! Assolto! Assolto!”) facendola diventare una rotonda verità per i distratti posteri.
Passa dieci anni in quel labirinto. Ne esce pronta per la gloria. Andreotti è il suo mentore. Maria Angiolillo il suo divano da sera. Ci si siede due volte la settimana e si gode lo spettacolo di tutti i burattini ammalati di potere che le passano davanti genuflessi. Vincendo nelle aule giudiziarie, brilla di luce propria. Difende Pacini Battaglia, il banchiere “un gradino sotto dio”. Difende Sergio Cragnotti, quello del crack. Difende Raffaele Sollecito, intrappolato nel delitto di Perugia. E persino il grande Francesco Totti, colpevole di sputo in campo, ma anche assolto. Tutti la vogliono, tutti la cercano. A lei piace il sangue e l’inchiostro della battaglia. Quando esce “il Divo” di Paolo Sorrentino, si rimbocca le maniche, pronta a chiedere il sequestro del film per lesa maestà. Ma sua maestà Andreotti la dissuade.
Credendo di avere imparato il necessario, entra fatalmente in politica, dopo averlo escluso per tanti anni. Al primo giro, siamo nel 2006, punta sulla destra di Fini. Che dopo un po’ va a sbattere sugli scogli di Futuro e libertà e dei Tulliani. Lei si salva dal naufragio. La scialuppa gliela offre Monti, ma anche la nuova rotta si inzuppa e si ammoscia. Prova a candidarsi governatore del Lazio, respinta. Piange al funerale di Andreotti: “Era una persona unica. Non rara: unica”. Salta una legislatura. E quando agguanta Salvini, anno 2018, è la festa che aspettava. Il ministero che governa la bellezza di 3 milioni di impiegati pubblici suggella la nuova sintonia col Capitano che semplificando significa: pugno di ferro con gli immigrati, castrazione chimica per gli stupratori (“un atto di civiltà giuridica”), armi ai disarmati. Più una raffica di consigli legali gratis. Per esempio quello di “non rinunciare all’immunità per il caso Diciotti” che sventatamente Matteo aveva annunciato in tv (“processatemi pure”) offrendo il petto ai magistrati. E quello al sottosegretario Armando Siri, altro campione della Lega inquisito per corruzione: “Deve restare al suo posto!”; parola chiave “deve!”, purtroppo ignorata dal premier Giuseppe Conte.
La sua vita privata resta privatissima. Guadagna una fortuna, 2,8 milioni di euro lo scorso anno, ma senza indossare diademi, solo giacche, pantaloni, camicette bianche. Un tempo giocava a calcetto, ora preferisce sedersi nel consiglio di amministrazione della Juventus. Va in chiesa tutti i giorni e siccome è celiaca il prete ha una scorta di ostie senza glutine per lei. Non le piace mangiare, esibirsi, raccontarsi. Ha qualche amica, molte ammiratrici. Nessun fidanzato: “Gli uomini mi annoiano”. Dopo anni che desiderava un figlio, l’ha fatto da sola. Il bimbo ha sette anni e lei lo guarda continuamente “grazie alle telecamere che ho installato in tutta la casa e che controllo con il telefonino. Guardarlo mi fa star bene”. Se faccia star bene anche il pupo non sappiamo, glielo dirà lui tra qualche anno. Per il momento è la sua perentoria volontà che conta: “Lui è il mio angolo di paradiso”. Intendendo per paradiso proprio quello che vede, la casa, e la sua ricercata solitudine. La stessa che frequenta ogni mattina all’alba nell’ora di jogging intorno a via del Corso, prima del caffè in San Lorenzo in Lucina, proprio dove Andreotti aveva lo studio e il potere. È in quella piazza che il suo passato e il suo presente si toccano. Per il suo futuro da ministro restiamo in attesa.

Repubblica 19.5.19
Il commento
Salviamo gli spazi sociali patrimonio della nostra città
di Christian Raimo


Senza gli spazi occupati e gli spazi sociali, Roma semplicemente sarebbe un posto mostruoso. Avete presente cos’è diventato il centro storico senza il teatro Valle? Quanta vitalità, quanta gioia abbiamo perso! Il problema fondamentale rispetto questi spazi è che molte delle persone che ne parlano non ci sono mai state. E che quando si evoca il loro sgombero, si combatte contro un nemico fantasmatico. I luoghi, soprattutto quelli urbani — è perfino banale dirlo — sono fatti dalle persone che li attraversano. E allora capiamo chi sono queste persone. Sono tutti coloro che hanno immaginato in questi anni un’idea veramente diversa di città.
Accogliendo le famiglie senza casa in degli alloggi dignitosi, i ragazzini che non possono permettersi di fare ripetizioni in una scuola popolare, i migranti in un corso di italiano gratuito, i teatranti che non avevano un posto dove esibirsi in una sala, le donne che hanno subito violenza e che hanno bisogno di un centro di professionisti che gli dia una mano, e ancora i dispersi, i curiosi, i soli. Da queste comunità impreviste sono nate tante cose, spesso bellissime. Al Nuovo cinema palazzo, per fare solo l’esempio di uno dei luoghi in cima alla lista degli obiettivi nel mirino di questa direttiva sugli sgomberi, negli ultimi anni ho partecipato a festival di storia, grandi spettacoli di teatro, presentazioni di libri, assemblee, dibattiti. Ogni volta con me c’erano diverse centinaia di persone, spesso migliaia. Perché erano lì? Perché ogni giorno una marea di persone abita, attraversa, s’inventa questi spazi?
La ragione è che non si arrendono all’idea la città debba essere un luogo privato, immobile, noioso, costoso e inattingibile. Le città — da Buenos Aires a Berlino, da Barcelona a Città del Messico, sono fatte perché ogni giorno possiamo possederle a pieno e reinventarci un’identità: sono luoghi trasformativi, ci avvicinano a persone che possono essere il nostro opposto, ci mostrano i rischi e le sorprese. E pensare che chi le vive basti la retorica della sicurezza, è un’idiozia. Le persone vogliono che le città siano città, non una serie di comprensori protetti da telecamere, le luci spente dopo le otto di sera. Il punto è un altro: le persone vogliono che quei luoghi siano loro, che siano fruibili, che la città sia di tutti. E perché questo accada, è necessaria una soluzione normativa che dia la possibilità agli spazi sociali di fare programmazione, di lanciare lo sguardo oltre l’incubo di uno sgombero che potrebbe arrivare domattina. Questi spazi non solo vanno lasciati vivere, ma vanno presidiati e valorizzati. Altrimenti Roma somiglierà sempre di più a una landa popolata solo di negozietti di souvenir, palazzi sfitti, e gente molto triste.
(l’autore è scrittore e assessore alla Cultura del III municipio)

Il Fatto 19.5.19
La mia Africa è di popoli liberi
Mentre i Dogon, agricoltori, si sistemavano ai piedi delle falesie, la tribù dei Bozo, pescatori, si attestava sul Niger. In zona c’erano anche i Tuareg, nomadi, poi popolazioni di religione islamica. Alla fine però sono arrivati i francesi -
di Massimo Fini


Domenica ho partecipato a Erbusco (Brescia) a un convegno organizzato da una piccola associazione culturale, Sirio B, intitolato “Alle radici dell’ospitalità”, spalmato su quattro giornate. Il tema che mi era stato affidato riguardava l’identità, “il diritto dei popoli a filarsi da sé la propria storia” come io declino il principio all’autodeterminazione sancito a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo e regolarmente violato negli ultimi decenni.
Ho riassunto nel modo più sintetico possibile la mia posizione, perché la cosa più interessante era la presenza di sette esponenti dell’etnia Dogon, che vive attualmente nel Mali del Nord. Uno sforzo notevole per questa piccola organizzazione farli venire qui, sia per ovvi motivi economici, sia per farli uscire dal Mali dove da cinque anni è in atto una guerra.
I Dogon, sia pur con molti sforzi, sono riusciti a conservare intatte le loro tradizioni che risalgono, si può dire, alla notte dei tempi. In un certo senso è stato come ripercorrere la straordinaria esperienza vissuta negli anni Trenta da Karen Blixen (La mia Africa) e dei suoi rapporti con popoli allora altrettanto tradizionali, i Kikuyu, i Somali, i Masai e della difficoltà per un occidentale di comprendere il senso che danno alla vita queste popolazioni. I Dogon hanno una cosmogonia complicata e raffinatissima che sarebbe impossibile sintetizzare qui se non dicendo l’importanza magica che vi assume il ‘feticcio’ che è il loro modo e mezzo per rapportarsi con il dio creatore, Amma. Ma ancora più interessante è il modo con cui i Dogon sono riusciti a convivere con altre etnie del posto che c’erano prima di loro o che sono arrivate dopo. Nelle loro migrazioni hanno dovuto spostarsi verso le falesie dove viveva un’altra etnia, i Tellem. Per non entrarvi in conflitto si sono spostati ai piedi di queste falesie e fare i conti con una foresta fittissima che hanno dovuto disboscare, con un certo rammarico come ci ha detto il loro portavoce Ihogodolo, guaritore, indovino della Volpe e cacciatore, perché istintivamente, e non per motivi ideologici, hanno un grande rispetto della natura e riluttano a modificarla. Mentre i Dogon tendenzialmente agricoltori si sistemavano ai piedi di queste falesie, un’altra tribù, quella dei Bozo, tendenzialmente pescatori, si attestava sul Niger. In zona c’erano anche i Tuareg, nomadi, e successivamente sono arrivate popolazioni di religione islamica. Insomma un bel pot-pourri. Eppure fra queste genti in parte molto diverse c’era sempre stata, prima della guerra, una convivenza pacifica. Ci si limitava, come ha raccontato Ihogodolo, a qualche ironico sfottò. È una conferma di ciò che già si sapeva e di quanto scrive, con l’autorità dell’antropologo, John Reader (Africa) e cioè che in Africa Nera i conflitti, pur con qualche inevitabile eccezione in una storia bimillenaria, sono stati rari, sostituiti con le integrazioni fra le mille etnie. Scrive Reader parlando proprio della regione del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici classici il delta del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche. Con ciò non si vuol dire che non vi siano mai stati contrasti fra i gruppi, ma solo che, quando scontro vi fu, non si concluse con la sottomissione dei vinti… il messaggio che ne discende è di tipo adattivo: prevalenti modelli di accordo interetnico. Nei racconti la vittoria non era il valore supremo e i vincitori assumevano talvolta l’identità dei vinti”. Questa concezione è stata rappresentata nel piccolo teatro di Erbusco da una danza Dogon in cui le armi, bastoni e spade, non erano utilizzate per l’offesa, ma solo a simularla.
Questa pacifica convivenza è stata spezzata nel 2014 quando i francesi, già padroni del Mali del Sud la cui capitale Bamako è guidata da un loro fantoccio, hanno attaccato il Nord del paese per impadronirsi delle sue risorse. Ciò ha scatenato la reazione degli elementi più combattivi della regione, gli islamici collegati all’Isis (che i Dogon chiamano ‘rebelles’) e i Tuareg. I rebelles, foraggiati dall’Arabia Saudita ma in possesso anche e soprattutto delle armi dell’arsenale di Gheddafi che si sono sparse in tutta la regione, combattono prevalentemente i francesi ma non si fanno certo scrupolo di attaccare anche i Dogon che con i loro vecchi fucili da caccia hanno poche possibilità di difendersi, se non con qualche stratagemma come il blocco dei ponti e altre vie di passaggio. Ho chiesto a Ihogodolo come pensano di uscire da questa situazione che rischia di travolgere le loro tradizioni e perché non si sono uniti ai rebelles. “Noi vogliamo solo conservare il nostro territorio”. “E allora?” ho chiesto ancora. “Contiamo sulla difesa da parte del governo di Bamako”. Una risposta molto ingenua perché Bamako è in mano ai francesi che sono proprio quelli che hanno messo sottosopra il Mali del Nord rompendo l’equilibrio che fino ad allora c’era stato fra le diverse etnie e anche con gli islamici fino a quel momento non ancora radicalizzati e legati all’Isis.
Un’annotazione in finale. Non credo che in Italia si abbiano molte occasioni di avere un contatto diretto con una tribù africana, in più non si fa altro che parlare da parte delle nostre Istituzioni e dei nostri giornali del pericolo delle migrazioni che provengono dall’Africa subsahariana e che, per quanto riguarda il Mali, sono state causate dall’attacco francese al pacifico Nord di quel paese. Così come l’attacco franco-americano ha dissestato, con le conseguenze che ben conosciamo, la Libia del colonnello Gheddafi che in quanto presidente dell’Unione Africana proteggeva, come ci ha confermato lo stesso Ihogodolo, anche i Dogon. Eppure in sala c’era pochissima gente e nessun rappresentante delle Istituzioni.

Corriere La Lettura 19.5.19
Antichità
Annibale sfuggì ai Romani con un suicidio assistito
Ormai anziano, tradito dal re di Bitinia di cui era ospite, il grande condottiero si avvelenò per non cadere nelle mani dei nemici. E chiese a uno schiavo di strangolarlo per accelerare la fine
di Giovanni Brizzi


Aveva 64 anni Annibale nel 183 avanti Cristo, quando — al capo opposto del mondo dove da Cartagine era infine approdato esule al suo ultimo rifugio, sulle sponde dell’Asia Minore — venne a raggiungerlo il rancore di Roma, che aveva inviato una missione diplomatica formalmente per dirimere un contrasto tra greci, di fatto per chiedere la consegna del più grande dei suoi nemici. Era l’estremo, sarcastico scherzo di divinità beffarde, viene da dire, poiché Libyssa, il phrourion Bithynias, il «paesino bitinico» in cui il Cartaginese si era fermato, riecheggiava nel nome quella terra natale (l’antica Libia) che non avrebbe rivisto mai più.
Sul punto di darsi la morte per non cadere nelle mani di Roma, amarissime dovettero essere le ultime riflessioni di Annibale ripensando alle vicende di una vita segnata da un fallimento totale, seppur nobilissimo. Certo assai mutato era il costume romano, e proprio lui poteva constatarlo per esperienza diretta. I discendenti di coloro che avevano ammonito Pirro, in armi sul suolo d’Italia, a guardarsi dal veleno, si mostravano ora incapaci di attendere la morte di un vecchio solo, impotente e lontano dalla patria; e scomodavano un legato consolare per indurre Prusia, l’indegno re di Bitinia, al tradimento dell’ospite.
Per ciò che accadeva, però, Annibale sapeva ormai di dover biasimare solo sé stesso. Soltanto sua era, infatti, la responsabilità prima degli sviluppi politici recenti. Era stato lui a mettere il nemico romano alla frusta, stimolandone oltre ogni limite i requisiti bellici e le virtù civiche; e, imponendogli sofferenze inaudite, aveva finito per stravolgerne i costumi e l’etica stessa. Era stato lui, infine — e questo dovette essere il cruccio più lancinante in quegli ultimi giorni —, a indirizzarlo sulla via di conquiste che temeva irresistibili. Aveva risvegliato dal letargo il mostro che, mosso dalla paura da lui stesso ispirata, stava divorando il bacino del Mediterraneo; e non era stato poi capace di fermarlo. Reso topico dai Romani con l’eloquente appellativo di Punicus, quello stesso metus, quella «paura», avrebbe da ultimo — e almeno questo strazio la morte lo risparmiò ad Annibale — decretato la tragica fine della sua Cartagine.
Poiché ben sei tra le sette fonti antiche che ne descrivono la fine (Cornelio Nepote e Livio, Plutarco e Appiano, Eutropio e lo Pseudo-Aurelio Vittore) concordano sul fatto che a ucciderlo sia stato un veleno da lui stesso volontariamente ingerito, si trattò senz’altro di un suicidio; e a provocarlo fu l’assunzione di una sostanza tossica. Vale la pena di chiedersi come, ascoltando la voce della scienza medica che ha qualche cosa da dire…
Da respingere sembra la versione del solo Pausania, secondo cui Annibale sarebbe morto per l’infettarsi di una ferita accidentale causata dalla sua stessa spada, sguainata nell’atto di montare a cavallo. Pur teoricamente possibile da un punto di vista clinico nell’era pre-antibiotica, quella proposta dall’autore greco è l’unica variante a discostarsi da una sequenza di testimonianze che paiono formare una vera e propria vulgata; non solo, ma diviene ancor più sospetta per il valore che assume nel contesto di un ragionamento volto a dimostrare quanto vitale sia dare ascolto agli oracoli.
Suicidio, dunque; e per veleno. Solamente? Tre dei sette autori (Nepote, Livio e lo Pseudo-Aurelio Vittore) affermano che Annibale soleva portare costantemente un tossico celato su di sé, mentre altrettanti (Livio, Plutarco ed Eutropio) specificano che lo bevve; ma nessuno precisa in alcun modo la natura di questo veleno. Se forse qualche dubbio suscita l’annotazione, tarda e in qualche modo romanzesca, dello Pseudo-Aurelio Vittore, secondo cui il veleno era celato nel castone di un anello portato al dito dal Cartaginese, assai più interessante appare l’altra versione, 0 in certo qual modo eccentrica, offerta da Plutarco. Annibale, che già aveva assunto il veleno, sarebbe stato aiutato a morire da un servo; il quale avrebbe avvolto una corda attorno al collo del suo padrone e, facendo pressione contro la sua colonna vertebrale, ne avrebbe accelerato la morte.
Da una prospettiva medico-legale il meccanismo è non solo interessante, ma perfettamente plausibile. È noto infatti come basti meno di un minuto per interrompere il flusso sanguigno carotideo che porta ossigeno al cervello, provocando la perdita dei sensi; e come dai due ai quattro minuti di questa interruzione siano sufficienti per causare danni neurologici irreversibili e, potenzialmente, la morte di chi la subisce.
Di questa teoria non potremo mai, ovviamente, aver piena conferma: perduti irreparabilmente i resti del grande Cartaginese, nessun esame autoptico ci permetterà di individuare fratture a carico del rachide cervicale o dell’osso ioide (spesso riscontrate, inter alia, nella morte per impiccagione o strangolamento); ma la lente biomedica consente di rileggere sotto una luce nuova le fonti storiche. Ad avvalorare questa ipotesi, piuttosto suggestiva, concorrono poi anche le possibili ragioni della scelta compiuta dal Cartaginese. È indubbio che i veleni «naturali» dell’antichità avessero un’efficacia e una rapidità d’azione assai minore degli odierni prodotti sintetici; e può darsi che Annibale, oltre ad auspicare evidentemente una fine più rapida possibile, volesse anche prevenire un’irruzione dei nemici che forse riteneva imminente.
Altre volte, nella storia, si è verificato il contemporaneo ricorso a strumenti diversi: nel caso celeberrimo, ad esempio, del ben più recente suicidio di Adolf Hitler, che combinò l’assunzione di una capsula di cianuro con un colpo di pistola alla tempia. Se questa scelta, pur oggi dimostrata, venne inizialmente smentita da Stalin, che voleva accreditata solo la morte per veleno, fine da codardo in quanto priva della componente «marziale» costituita dall’arma da fuoco, nessun biasimo, secondo i princìpi propri del mondo antico (non staccandosi, come nell’impiccagione, i piedi dal suolo), ricadrebbe invece su Annibale per avere richiesto il concorso di un servo onde affrettare il trapasso. Al suicidio, per così dire, «assistito» fece ricorso, ad esempio, non solo Nerone; ma, figura assai più di lui degna di stima, il più nobile tra coloro che uccisero Giulio Cesare, quel Marco Bruto che — pare — ricorse all’aiuto dell’amico Stratone a reggergli la spada.
Colui che figura a buon diritto tra i vinti più nobili dell’antichità si sottrasse così, come prima e dopo di lui altri Cartaginesi celebri (tra cui ben tre donne, la leggendaria Elissa-Didone; Sofonbaal, figlia di Asdrubale Gisconio; la moglie di Asdrubale il Boetarca, difensore e poi traditore della città natale nell’ultima ora…), all’onta della prigionia e dell’ignominia.

Corriere La Lettura 19.5.19
Il culto di Hitler
Una feroce e gentile divinità dell’odio
Una nuova biografia indaga sulle ragioni che indussero il popolo tedesco a seguire il Fuhrer
Era un bravo attore che certe volte appariva brutale e altre ammaliante
Ma soprattutto riuscì a suscitare intorno alla sua persona un culo diffuso e itenso di natura religiosa
di Sergio Romano


Dopo avere scritto l’ultima delle 936 pagine (con note e bibliografia) di Hitler. L’ascesa 1899-1939 (Mondadori), Volker Ullrich, storico e giornalista della «Zeit», ha deciso di aggiungere una introduzione in cui ha spiegato perché il suo lavoro è diverso da quello dei suoi principali predecessori. Nelle biblioteche tedesche le opere su Hitler sono 120 mila, ma i maggiori biografi del Führer, prima di Ullrich, sono stati almeno quattro, di cui due (Konrad Heiden e Joachim Fest) tedeschi e due (Alan Bullock e Ian Kershaw) inglesi.
Bullock lavorò principalmente sulla documentazione prodotta dal processo di Norimberga, pubblicò la sua biografia (Hitler. Studio sulla tirannide) nel 1952, e disegnò il ritratto di uno spregiudicato opportunista, affamato di potere. Heiden, corrispondente da Monaco per la «Frankfurter Zeitung» dal 1923 al 1930, descrisse principalmente il primo atto dell’ascesa politica di Hitler. Fest, condirettore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», si servì largamente della testimonianza di Albert Speer, con cui aveva stretto un rapporto amichevole quando l’architetto del Führer stava scrivendo le sue memorie nella prigione berlinese di Spandau, dove trascorse i venti anni della sentenza inflittagli nel 1946 dal tribunale di Norimberga. Il grande libro di Kershaw (due volumi apparsi nel 1998 e nel 2000) ha largamente approfittato di nuovi documenti, fra cui i diari del ministro della Propaganda del Reich Joseph Goebbels. Ed è fra le biografie di Hitler quella che ha prestato maggiore attenzione al contesto internazionale e al clima sociale della Germania negli anni del suo potere.
Tutti i biografi di Hitler si sono posti le stesse domande. Tutti hanno cercato di capire perché un uomo così orribile abbia conquistato la cieca obbedienza di una delle nazioni più colte d’Europa. Conosciamo il suo fascino oratorio, sappiamo con quale abilità sapesse fingere, mentire e sfruttare le umilianti condizioni che i vincitori di Versailles avevano imposto ai suoi connazionali. Sappiamo anche che le vittorie fanno sempre proseliti e che quelle delle forze armate tedesche nella prima metà della Seconda guerra mondiale furono effettivamente sbalorditive. Ma nessuna giustificazione è convincente e nessuna tesi ha completamente soddisfatto la nostra curiosità.
In uno dei migliori capitoli del suo libro Ullrich cerca di spiegare l’impenetrabilità e il successo di Hitler descrivendo lungamente la sua continua doppiezza. Poteva sembrare capace di nobili sentimenti, ma in altre occasioni dava prova di una spietata ferocia. Poteva discutere e argomentare con finezza, ma parlare in altre circostanze con una primitiva banalità. Poteva essere un «demagogo urlante» e, in altri momenti, mostrarsi cortese, persuasivo, ammaliante. I suoi baffi sembravano a prima vista ridicoli, ma le persone, quando lo incontravano, erano affascinate dall’azzurro dei suoi occhi e dalla bellezza delle sue mani.
Era certamente un grande attore, pronto a indossare la maschera che meglio si adattava alle esigenze del momento. Ma una natura così abilmente camaleontica rende il caso Hitler ancora più misterioso. Possiamo comprendere che queste doti lo rendessero tatticamente imbattibile. Ma è difficile comprendere come questo manipolatore di idee e sentimenti fosse anche oggetto di culto e devozione. Per dare una spiegazione a queste contraddizioni Ullrich, in un altro capitolo, ricorre alla religione.
Gli incontri annuali di Norimberga non erano tradizionali congressi di partito. Approfittando dell’abilità scenografica di Albert Speer e di una grande sacerdotessa (la regista cinematografica Leni Riefenstahl), Hitler trasformò Norimberga in una specie di Lourdes marziale visitata da legioni di pellegrini armati, dove il redentore della patria appariva ai fedeli con i tratti di un nuovo Messia. Il rapporto dei tedeschi con il loro Führer ha tutte le caratteristiche dei rapporti di culto e devozione. I suoi connazionali parlano di lui come di uno «strumento nelle mani di Dio», sommergono la cancelleria del Reich con lettere che gli chiedono di essere il padrino dei loro figli. Nel Paese dove il saluto abituale, in alcune regioni, invoca il nome di Dio (Grüss Gott, Dio ti saluti), quello universalmente adottato durante il Terzo Reich (Heil Hitler) sostituisce il nome di Dio con quello del Führer. I suoi busti di gesso troneggiavano in tutti i luoghi pubblici: bar, scuole, ristoranti, uffici. Gli archivi dell’anagrafe registrano casi grotteschi come quello dell’uomo che voleva dare a sua figlia il nome di Hitlerine (l’ufficiale di stato civile gli consigliò di chiamarla Adolfine). Hitler se ne compiace e osserva che soltanto Martin Lutero, nella storia tedesca, è stato oggetto di tanta venerazione.
Conviene ricordare, tuttavia, che il fenomeno non è soltanto tedesco. Quando cominciarono a promettere salvezza e felicità, le ideologie politiche divennero religioni civili e i loro leader altrettanti profeti. Mussolini, Lenin, Stalin, Mao e i loro imitatori hanno riempito le piazze, incantato le folle, dato il loro nome a migliaia di bambini e, quando parlavano al popolo, erano circondati da «sacerdoti» dei rispettivi partiti che assicuravano la solenne esecuzione delle liturgie con cui erano accolti. Ma il culto di Hitler in Germania ha toccato vette più alte e ha avuto una più spiccata connotazione religiosa.
Nel suo libro Ullrich racconta il caso di un uomo che, durante una visita di Hitler ad Amburgo, era riuscito a scavalcare il cordone della polizia e aveva toccato la mano del Führer. Subito dopo «prese a ballare qua e là come impazzito continuando a gridare “Gli ho stretto la mano! Gli ho stretto la mano”». Un diplomatico tedesco che fu aiutante personale di Hitler, Fritz Wiedemann, commentò la scena scrivendo: «Se quell’uomo avesse dichiarato che prima era paralitico e che ora riusciva di nuovo a camminare non mi sarei meravigliato, e la folla gli avrebbe certamente creduto».

Il Fatto 19.5.19
Anche il rivale Tarantino plaude Yinan: la Cina è vicina alla Palma
Già Orso d’Oro a Berlino, il regista di Xi’an firma un gangster-movie raffinato: “The Wild Goose Lake”. Viceversa non convincono i criminali del rumeno Porumboiu
Anche il rivale Tarantino plaude Yinan: la Cina è vicina alla Palma
di Federico Pontiggia


Palma d’Oro, abbiamo il primo serio candidato, a tal punto da meritarsi uno spettatore d’eccezione: Quentin Tarantino. Il regista ha forse dimenticato per un attimo di concorrere egli stesso a Cannes 72 con Once Upon a Time in Hollywood, e da insaziabile voyeur qual è ha preso posto tra i comuni mortali al Grand Théâtre Lumière per assistere alla première di The Wild Goose Lake del cinese Diao Yinan. Onore al merito cinefilo.
Passati nove dei ventuno titoli, tra cui Il traditore di Marco Bellocchio, del Concorso, il dire-fare-baciare-lettera-testamento di Pedro Almodóvar Dolor y gloria deve spartirsi i favori della critica con il quinto lungometraggio del cinese classe 1969. Dal penultimo Fuochi d’artificio in pieno giorno (Black Coal, Thin Ice, Orso d’Oro a Berlino nel 2014), vengono gli attori Gwei Lun mei e Liao Fan, cui si affianca Hu Ge, star televisiva e inedito protagonista sul grande schermo: ha una faccia d’angelo, e come tradizione impone Diao l’ha voluto per incarnare un gangster, a capo di una banda di ladri di motociclette. Ferito dalla gang rivale, uccide un poliziotto e attira su di sé una caccia all’uomo imponente: riparato in una zona lacustre, vorrebbe farsi raggiungere dalla moglie, ma sarà una prostituta (Lun-Mei Kwei) a occuparsi di lui. Vendere cara la pelle – letteralmente – e se possibile redimersi, questo l’obiettivo, ma i tradimenti si sprecano, le vendette si incrociano, la giustizia reclama: Diao ha scelto le oche selvagge del titolo quale simbolo di libertà e possibilità, dato che sanno sia volare che nuotare, e sarà anche la peiyongnv (prostituta che esercita sull’acqua) a farsene carico. The Wild Goose Lake, per dare un’idea, è come un film di Jia Zhangke (Still Life, I figli del fiume giallo in sala), ma girato meglio, con più stile, più fascino: nell’alveo del gangster-movie contemporaneo, Diao travasa tanta storia del cinema, da M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang a Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, ogni inquadratura sa di antico e nuovo insieme, è colta e personalissima. Ci sono soluzioni magistrali, quali gli animali che fanno da contrappunto a una sparatoria allo zoo, l’incontro sessuale tra questo bullo gentile e la disarmante peiyongnv, l’esecuzione con l’ombrello, e non da meno è il retroterra socio-politico-economico della Cina oggi che senza precetti né preconcetti Diao rivela. Non ne avrebbe alcun bisogno, ma fronte Palma anche strategicamente The Wild Goose Lake è messo bene: le donne vi fanno bella e migliore figura; la Cina è sempre più importante nel cinema globale, e vanta una sola vittoria a Cannes, peraltro dimezzata: Addio mia concubina di Chen Kaige, ex-aequo nel 1993; dovrebbe essere pane fragrante per i denti del presidente di giuria Alejandro González Iñárritu.
Assai meno entusiasmante è La Gomera, prima volta in Concorso di Corneliu Porumboiu: sfruttando con intenti criminali la lingua fischiata (El Silbo) sull’omonima isola delle Canarie, il regista romeno molla l’abituale realismo (Politist, adjectiv) e attorno a un poliziotto ambiguo ordisce una trama di doppigiochi, inganni, femme fatale e materassi imbottiti di soldi. L’intenzione metalinguistica è smaccata, la tensione poetica lasca: al più, un esercizio di stile, la versione europea d’autore del recente, hollywoodiano e tristo 7 sconosciuti a El Royale.
Doppia cittadinanza creativa sventolano Monica Bellucci, nel cast di Les Plus Belles Années d’une vie, il seguito di Un uomo, una donna di Claude Lelouch: “Oggi c’è un tabù sociale sull’amore degli anziani”, nonché Nicolas Winding Refn. Fuori concorso con due dei dieci episodi della sua prima serie, Too Old To Die Young, disponibile su Amazon Prime dal 14 giugno, il regista danese trapiantato a Los Angeles ne fa un vanto: “È un film di 13 ore in streaming, il futuro è lo streaming: fosse vivo, la penserebbe così anche mio suocero Fritz Lang”.


Corriere 19.5.19
Le stelle del Mereghetti
Cina e Romania: due storie noir fuori dalle regole


Due noir fuori dalle regole hanno tenuto banco ieri al festival. Il cinese Diao Yinan con Nan fang che zhan de ju hui (Il lago delle oche selvatiche) usa la più classica delle storie — un bandito braccato dalla polizia e dai membri di un’altra gang — per raccontare un mondo sotterraneo fatto di tradimenti, di fughe, di doppi giochi e di violenza. E anche se la storia è ambientata nel 2012, il ritratto della Cina che ne esce è dei più desolati e pessimisti. Solo nella solidarietà femminile il regista sembra ritrovare un pizzico di speranza, ma dopo che la protagonista ha tradito lei pure, ha subito ogni tipo di violenza maschile e si è spogliata del fascino con cui si era presentata. Diao aveva già fatto qualcosa di simile con il film che aveva vinto nel 2014 l’Orso d’oro (Fuochi d’artificio in pieno giorno) introducendo sprazzi fantastici in un quadro realistico; qui preferisce rispettare i luoghi canonici del genere (con la polizia e la malavita che usano gli stessi metodi e vanno ugualmente per le spicce), concedendosi ogni tanto qualche «parentesi» visionaria (l’inseguimento notturno in uno zoo) o antropologica (i balli in piazza, le intrusioni nelle case della gente comune) per guidare lo spettatore dentro una Cina misconosciuta, cupa, dove neppure gli ombrelli riparano dal tanto sangue che gocciola. All’opposto, l’atmosfera del film romeno di Corneliu Porumboiu La Gomera (è un’isola delle Canarie) sembra voler trasformare un noir in una commedia. Qui i personaggi tradizionali ci sono tutti — il poliziotto disilluso, la sua superiore integerrima ma fino a un certo punto, la femme fatale, i killer, i doppi giochi — dentro un meccanismo narrativo che fa leva sull’avidità e l’illusione di poter ingannare gli altri. Un gioco di scacchi, scandito in tanti capitoli quanti sono i personaggi, dove le persone comunicano anche attraverso uno strano linguaggio fischiato (il che innesca qualche scena comica), condito da citazioni cinefile, che però finisce per sembrare un divertimento un po’ troppo fine a se stesso.

Corriere 19.5.19
La televisione in numeri
«Propaganda Live»: su La7 la scelta vincente di Zoro è la satira


La politica italiana continua a «tirare» in tutte le sue forme, anche in quelle dell’ironia e della satira (visto il tanto materiale servito sul piatto d’argento dai partiti al governo…). La serata dell’umorismo sulle «classi dirigenti» è decisamente quella del venerdì: Propaganda Live, l’appuntamento con Diego «Zoro» Bianchi è cresciuto quest’anno in modo deciso, facendo un po’ di male al suo avversario diretto, Fratelli di Crozza (superato, venerdì 10 maggio, sia in share che negli ascolti medi). Il programma di La7 è partito a inizio stagione da 723.000 spettatori medi, per una share del 4,3%. Nella penultima puntata il picco (e il sorpasso di Crozza): 1.143.000 spettatori, per una share del 6,3%. Più combattuta invece la sfida lo scorso venerdì: Zoro raccoglie 1 milione di spettatori e il 5,5% di share (con oltre tre ore in palinsesto «coperto»), Crozza 1.235.000, per una share del 5,2% (e un programma molto più breve).
Un po’ come accadeva a Crozza quando era su La7, Zoro si identifica bene in una rete tutta votata all’approfondimento. Il pubblico di La7 è molto informato e attento alla politica, e dunque anche pronto a scherzarci su: è un’audience oggi composta tanto da uomini (5,5% di share) che da donne (4,8%), che s’addensa sulla fasce d’età intermedie. La share migliore è raccolta sui cinquantenni (7,3%), ma si allarga bene alle fasce più giovani, fino ai 25-34enni (5,5%). L’elemento dirimente però, come spesso accade per i programmi di La7, è il livello di istruzione: fra i laureati Propaganda Live è preferito dal 13,2%, e dal 6,2 dei diplomati, insomma dalla classe socio-economica Auditel più elevata (9,3% di share).
A due anni dall’approdo sulla rete, Propaganda si è così ben inserita nell’offerta di canale e ha catalizzato il pubblico più raro e infedele al piccolo schermo. (A. G.)

Repubblica 19.5.19
La eco polpetta. Il ristorante Paulpetta a Monza serve anche la carne verde
Sa di carne anche se è totalmente vegetale
Abbatte il consumo di acqua e CO2
Per molti è il cibo del futuro ed è arrivata anche in Italia. Siamo andati ad assaggiarla
di Ettore Livini


Monza — La guerra contro il cambiamento climatico sfodera anche in Italia l’arma finale: le polpette. Viste così — chiuse in un bagel, con contorno di patate e salsa di cavolo sul tavolo del Bistrot Paulpetta (nome omen…) di Monza — quelle cinque palline dorate fresche di frittura hanno l’aria innocua. Ma basta mettersi il tovagliolo e attaccare la prima con la forchetta per capire che il riscaldamento globale ha le ore contate: la crosta si spezza al momento giusto. L’interno ha il colore rosato di un Big Mac, l’umidità e la consistenza sono quelli tipici della perfetta cottura al sangue. E una volta al palato le cose vanno ancora meglio: morbide, con un retro- gusto di carne che — inghiottita la prima — ti obbliga ad attaccare subito le quattro superstiti. Senza rimorsi — e questo è il bello — per la salute del pianeta: quelle del ristorante brianzolo sono le prime polpette- fake ed ecologicamente corrette sbarcate sulle tavole d’Italia.
L’apparenza, come capita spesso, inganna: negli ingredienti — non c‘è traccia di carne. Il rosso del sangue, simile in tutto e per tutto a quello di una fiorentina, è succo di barbabietola. E nessuna mucca — malgrado l’innegabile sapore di polpetta doc — ha perso la vita per quel piatto. Gli ingredienti? Tutti vegetali: «Proteine di piselli, olio di cocco, fibre di bambù», ride soddisfatta Viviana Veronesi, la vulcanica titolare che ha mosso mari e monti per fare arrivare dagli Usa in Brianza la finta carne 4.0 destinata, scommettono gli ambientalisti, a salvare il pianeta e la vita di milioni di bovini.
La loro bontà, eticamente parlando, non è in discussione: «Per produrle si consuma il 99% di acqua e il 93% di terra in meno e si riducono del 90% le emissioni di CO2 rispetto a una polpetta tradizionale», snocciola Veronesi. Anche sul gusto, però, niente da dire. E oltre alla prova regina — il nostro piatto vuoto e la voglia di chiedere un bis — c’è la parola (che vale oro) di un’ex-carnivora: «Non tocco una bistecca da dieci anni — conferma Rita Riboni — . Sono venuta qui apposta per assaggiarle con un po’ di scetticismo. E appena ho messo in bocca la prima, glielo assicuro, mi ha fatto impressione. Sono nata in Umbria, si può immaginare quante bistecche ho mangiato in gioventù. Queste polpette hanno lo stesso sapore. Tanto che ho chiesto al cameriere se era sicuro di avermi dato la portata giusta! ».
L’esperimento sul campo di Monza conferma quello che Wall Street aveva già intuito: la carne "verde" non è un fuoco di paglia ma è qui per restare. I numeri — in Brianza e a New York (dove il titolo di Beyond Meat, il produttore delle polpette, è triplicato di valore dopo due settimane di quotazione) — raccontano di un boom annunciato. «È stata una scommessa che ha funzionato — racconta Veronesi — . Ho lanciato le polpette vegane il primo maggio e già ora il 30% dei clienti me le chiede ». La carne made in Usa le costa un po’ di più («4 euro al kg contro i 20 della carne biologica che uso per quelle tradizionali») ma l’investimento paga «visto che in molti tornano per il bis». Grassi e calorie, a voler essere pignoli, sono gli stessi — a parità di porzione — di un hamburger a base di bovini. Ma il contenuto di ferro, fosforo e vitamina C, manna per i salutisti, è decisamente superiori. E anche lo chef Francesco di Paulpetta è contento: «Cuoce nella metà del tempo, tre minuti, e assorbe molto meno olio», assicura. La prova provata sono le tovagliette di carta da pacco su cui sono servite, decisamente meno unte di quelle delle "Monza" a base di luganega e persino delle Thai al pesce bianco. Decine di altri ristoranti italiani, non è un caso, stanno bombardando l’ufficio commerciale di Beyond per seguire l’esempio del ristorante di Monza. E l’Esselunga — fiutato l’affare — ha già fatto le pratiche per la vendita al dettaglio.
La coda per assaggiare le polpette vegane in Brianza è la stessa che fanno gli investitori in queste settimane sui mercati finanziari per accaparrarsi azioni delle aziende che producono la carne che sa di carne ma non è carne. Beyond Meat (che lo scorso anno ha fatturato "solo" 88 milioni) vale alla Borsa di New York circa 4 miliardi di dollari. Il rivale Impossible Burger ha appena raccolto 300 milioni di capitale in pochi minuti per finanziare la sua espansione. La catena britannica Greggs, un antico tempio per carnivori, ha guadagnato il 15% in un giorno alla City dopo aver reso pubbliche le vendite boom dell’hot-dog vegetariano che ha appena messo nel menu. Una moda come le bolle della new economy? Difficile. Anche i big delle bistecche tradizionali come Tyson ormai si sono rassegnati e hanno iniziato a investire per farsi le loro linee di prodotti vegani. Il futuro della carne, nell’era di Greta Thunberg e per la gioia di tutte le mucche del pianeta, arriverà dalle piante invece che dalle stalle.
Corriere 19.5.19
La televisione in numeri
«Propaganda Live»: su La7 la scelta vincente di Zoro è la satira


La politica italiana continua a «tirare» in tutte le sue forme, anche in quelle dell’ironia e della satira (visto il tanto materiale servito sul piatto d’argento dai partiti al governo…). La serata dell’umorismo sulle «classi dirigenti» è decisamente quella del venerdì: Propaganda Live, l’appuntamento con Diego «Zoro» Bianchi è cresciuto quest’anno in modo deciso, facendo un po’ di male al suo avversario diretto, Fratelli di Crozza (superato, venerdì 10 maggio, sia in share che negli ascolti medi). Il programma di La7 è partito a inizio stagione da 723.000 spettatori medi, per una share del 4,3%. Nella penultima puntata il picco (e il sorpasso di Crozza): 1.143.000 spettatori, per una share del 6,3%. Più combattuta invece la sfida lo scorso venerdì: Zoro raccoglie 1 milione di spettatori e il 5,5% di share (con oltre tre ore in palinsesto «coperto»), Crozza 1.235.000, per una share del 5,2% (e un programma molto più breve).
Un po’ come accadeva a Crozza quando era su La7, Zoro si identifica bene in una rete tutta votata all’approfondimento. Il pubblico di La7 è molto informato e attento alla politica, e dunque anche pronto a scherzarci su: è un’audience oggi composta tanto da uomini (5,5% di share) che da donne (4,8%), che s’addensa sulla fasce d’età intermedie. La share migliore è raccolta sui cinquantenni (7,3%), ma si allarga bene alle fasce più giovani, fino ai 25-34enni (5,5%). L’elemento dirimente però, come spesso accade per i programmi di La7, è il livello di istruzione: fra i laureati Propaganda Live è preferito dal 13,2%, e dal 6,2 dei diplomati, insomma dalla classe socio-economica Auditel più elevata (9,3% di share).
A due anni dall’approdo sulla rete, Propaganda si è così ben inserita nell’offerta di canale e ha catalizzato il pubblico più raro e infedele al piccolo schermo. (A. G.)

Repubblica 19.5.19
La eco polpetta. Il ristorante Paulpetta a Monza serve anche la carne verde
Sa di carne anche se è totalmente vegetale
Abbatte il consumo di acqua e CO2
Per molti è il cibo del futuro ed è arrivata anche in Italia. Siamo andati ad assaggiarla
di Ettore Livini


Monza — La guerra contro il cambiamento climatico sfodera anche in Italia l’arma finale: le polpette. Viste così — chiuse in un bagel, con contorno di patate e salsa di cavolo sul tavolo del Bistrot Paulpetta (nome omen…) di Monza — quelle cinque palline dorate fresche di frittura hanno l’aria innocua. Ma basta mettersi il tovagliolo e attaccare la prima con la forchetta per capire che il riscaldamento globale ha le ore contate: la crosta si spezza al momento giusto. L’interno ha il colore rosato di un Big Mac, l’umidità e la consistenza sono quelli tipici della perfetta cottura al sangue. E una volta al palato le cose vanno ancora meglio: morbide, con un retro- gusto di carne che — inghiottita la prima — ti obbliga ad attaccare subito le quattro superstiti. Senza rimorsi — e questo è il bello — per la salute del pianeta: quelle del ristorante brianzolo sono le prime polpette- fake ed ecologicamente corrette sbarcate sulle tavole d’Italia.
L’apparenza, come capita spesso, inganna: negli ingredienti — non c‘è traccia di carne. Il rosso del sangue, simile in tutto e per tutto a quello di una fiorentina, è succo di barbabietola. E nessuna mucca — malgrado l’innegabile sapore di polpetta doc — ha perso la vita per quel piatto. Gli ingredienti? Tutti vegetali: «Proteine di piselli, olio di cocco, fibre di bambù», ride soddisfatta Viviana Veronesi, la vulcanica titolare che ha mosso mari e monti per fare arrivare dagli Usa in Brianza la finta carne 4.0 destinata, scommettono gli ambientalisti, a salvare il pianeta e la vita di milioni di bovini.
La loro bontà, eticamente parlando, non è in discussione: «Per produrle si consuma il 99% di acqua e il 93% di terra in meno e si riducono del 90% le emissioni di CO2 rispetto a una polpetta tradizionale», snocciola Veronesi. Anche sul gusto, però, niente da dire. E oltre alla prova regina — il nostro piatto vuoto e la voglia di chiedere un bis — c’è la parola (che vale oro) di un’ex-carnivora: «Non tocco una bistecca da dieci anni — conferma Rita Riboni — . Sono venuta qui apposta per assaggiarle con un po’ di scetticismo. E appena ho messo in bocca la prima, glielo assicuro, mi ha fatto impressione. Sono nata in Umbria, si può immaginare quante bistecche ho mangiato in gioventù. Queste polpette hanno lo stesso sapore. Tanto che ho chiesto al cameriere se era sicuro di avermi dato la portata giusta! ».
L’esperimento sul campo di Monza conferma quello che Wall Street aveva già intuito: la carne "verde" non è un fuoco di paglia ma è qui per restare. I numeri — in Brianza e a New York (dove il titolo di Beyond Meat, il produttore delle polpette, è triplicato di valore dopo due settimane di quotazione) — raccontano di un boom annunciato. «È stata una scommessa che ha funzionato — racconta Veronesi — . Ho lanciato le polpette vegane il primo maggio e già ora il 30% dei clienti me le chiede ». La carne made in Usa le costa un po’ di più («4 euro al kg contro i 20 della carne biologica che uso per quelle tradizionali») ma l’investimento paga «visto che in molti tornano per il bis». Grassi e calorie, a voler essere pignoli, sono gli stessi — a parità di porzione — di un hamburger a base di bovini. Ma il contenuto di ferro, fosforo e vitamina C, manna per i salutisti, è decisamente superiori. E anche lo chef Francesco di Paulpetta è contento: «Cuoce nella metà del tempo, tre minuti, e assorbe molto meno olio», assicura. La prova provata sono le tovagliette di carta da pacco su cui sono servite, decisamente meno unte di quelle delle "Monza" a base di luganega e persino delle Thai al pesce bianco. Decine di altri ristoranti italiani, non è un caso, stanno bombardando l’ufficio commerciale di Beyond per seguire l’esempio del ristorante di Monza. E l’Esselunga — fiutato l’affare — ha già fatto le pratiche per la vendita al dettaglio.
La coda per assaggiare le polpette vegane in Brianza è la stessa che fanno gli investitori in queste settimane sui mercati finanziari per accaparrarsi azioni delle aziende che producono la carne che sa di carne ma non è carne. Beyond Meat (che lo scorso anno ha fatturato "solo" 88 milioni) vale alla Borsa di New York circa 4 miliardi di dollari. Il rivale Impossible Burger ha appena raccolto 300 milioni di capitale in pochi minuti per finanziare la sua espansione. La catena britannica Greggs, un antico tempio per carnivori, ha guadagnato il 15% in un giorno alla City dopo aver reso pubbliche le vendite boom dell’hot-dog vegetariano che ha appena messo nel menu. Una moda come le bolle della new economy? Difficile. Anche i big delle bistecche tradizionali come Tyson ormai si sono rassegnati e hanno iniziato a investire per farsi le loro linee di prodotti vegani. Il futuro della carne, nell’era di Greta Thunberg e per la gioia di tutte le mucche del pianeta, arriverà dalle piante invece che dalle stalle.

Robinson supplemento di Repubblica 19.5.19
Chi cancella la Storia

In un Paese in cui ritornano gli spettri neri del Novecento ecco come, da una prova eliminata all’esame di maturità, è nata una grande mobilitazione civile Perché senza memoria del passato, non può esserci un progetto per il futuro
con Repubblica un inserti di 48 pagine

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