Corriere 20.5.19
L’alleanza sovranista
Il paradosso di un’Europa al servizio del nazionalismo
di Nadia Urbinati
Quale modello di Europa propongono gli «estremisti di buon senso» contro gli «estremisti che stanno a Bruxelles»? La kermesse milanese dell’Internazionale di destra ha cercato di dare una risposta a questa domanda. Simboli cristiani, anzi cattolici, e riferimenti ad alcuni padri nobili da Chesterton a Thatcher a Fallaci. Piazza Duomo ha offerto una parata da campagna elettorale. Ma l’idea che dell’Europa hanno i nazionalisti l’ha delineata Marine Le Pen nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 15 maggio scorso. La leader del Rassemblement National ha pennellato un modello antifederalista di continente. La coalizione delle destre condivide una «stessa visione di Europa fondata sulla sovranità, sul diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla cooperazione volontaria». Il termine «cooperazione volontaria» è centrale: prospetta un modus operandi che rifiuta il potere di «coercizione» esercitato da autorità sovrannazionali o federali.
Il vecchio radicalismo della proposta di smantellare l’Ue è lasciato cadere, Brexit ha avuto un effetto deterrente sui progetti anti-europei. Anche ai sovranisti di destra è chiaro che una politica di respingimento dei flussi migratori ha bisogno di coordinamento tra gli Stati e, soprattutto, di risorse europee. Ma la loro «cooperazione volontaria» corrisponde al rallentamento del processo di «governo comune» europeo. Il loro post-Maastricht assomiglia in effetti a un pre-Maastricht. Sono oggi due i modelli europei sul tappeto e che dividono la destra sia dal centro (Ppe) che dal centro-sinistra (Pse). Lo dice la stessa Le Pen: il modello dei nazionalisti è «totalmente incompatibile con i principi difesi dal Ppe basati sull’accelerazione del federalismo attraverso trasferimenti di sovranità e governo comune». Fin qui, la costruzione europea ha cercato di attuare la quadratura del cerchio tra chi sostiene un processo di democratizzazione sovrannazionale, con istituzioni direttamente autorizzate dai cittadini, e chi propone una integrazione di governance retta sui trattati. L’alleanza Pse e Ppe ha rappresentato questo compromesso. Un assaggio delle potenzialità del potere politico sovrannazionale lo si è avuto con la recente decisione del Parlamento europeo sul copyright e, soprattutto, con l’approvazione della mozione per avviare un procedimento contro l’Ungheria, accusando il governo di Viktor Orbán (che non era in Piazza Duomo) di avere indebolito lo stato di diritto e le istituzioni democratiche. La decisione del Parlamento europeo è stata resa possibile dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che punisce gli Stati che non rispettano i valori fondanti dell’Ue. Se l’Europa caldeggiata dall’Internazionale nazionalista avesse successo, il Parlamento europeo non potrebbe più prendere questo tipo di decisioni ed interferire sulle riforme istituzionali degli Stati-membri.
Dall’Unione all’associazione, dunque, secondo uno schema che non dovrebbe dispiacere ai sovranisti d’oltreManica. Del resto, il pensiero sovranista ha largo credito tra studiosi e leader inglesi, convinti che la strada presa dall’Unione negli Anni 90 sia troppo ambiziosa; che dare legittimità democratica a organismi di governo sovrannazionale sia velleitario. Lo schema anti-federale non dovrebbe dispiacere nemmeno ai sovranisti di sinistra, convinti che il processo di unione sia figlio di piani neoliberisti. Il paradosso è che la destra confezioni un argomento che potrebbe attrarre sovranisti di ogni colore (ecco il senso di presentarsi in Piazza Duomo come «estremisti moderati») perché difeso nel nome di più democrazia: con la cooperazione volontaria tra Stati i cittadini, ecco l’argomento, potrebbero riappropriarsi del loro potere decisionale. L’ideale di Ventotene di lavorare ad una più «perfetta unione» viene messo in retromarcia. Sembra di riandare al dualismo tra federalisti e antifederalisti che oppose i Padri fondatori americani nel Settecento. Quella della destra è una soluzione confederata funzionale a politiche nazionaliste — come il blocco dell’immigrazione. Un’Europa al servizio del nazionalismo degli Stati.
Repubblica 20.5.19
Se decidono gli indecisi
di Ilvo Diamanti
Domenica prossima si voterà per il Parlamento europeo. Un voto che ha e avrà significato politico "nazionale". E i sondaggi condotti prima del "silenzio demoscopico" hanno indicato tendenze chiare. La Lega in vantaggio, anche se in leggero calo. Il M5s: molto indietro. Anche se le polemiche con la Lega, probabilmente, lo stanno aiutando. E, comunque, davanti al Pd. Gli altri: lontani. A giocare un’altra partita.
Comunque, importante, in prospettiva futura. In vista degli equilibri "instabili" di una maggioranza "instabile". Che, difficilmente, verrà "stabilizzata" dalle prossime elezioni. Dagli esiti, peraltro, incerti. Perché l’incertezza è divenuta la cifra degli elettori. In Italia e non solo.
Il sondaggio di Demos, pubblicato su Repubblica il 10 maggio, ha fornito indicazioni eloquenti al proposito.
Poco più di un terzo degli elettori, infatti, dichiarava di aver deciso come e per chi voterà. Di conseguenza, la quota degli in-decisi appare largamente maggioritaria.
Certo, si tratta di elezioni "europee", che non suscitano lo stesso interesse di quelle politiche e amministrative.
Come confermano gli indici di partecipazione, tradizionalmente più ridotti. Nel 2014, in Italia, ha votato circa il 57% degli aventi diritto. L’incertezza, peraltro, ha sempre accompagnato il voto europeo. Alle elezioni europee del 2014, infatti, il peso degli elettori che affermavano di non aver mai nutrito dubbi sulla scelta di voto raggiungeva il 50% (sondaggio post-voto, Demos).
Mentre 10 anni fa, nel 2009, gli incerti erano un terzo. Si tratta, dunque, di una tendenza che dura da tempo.
Come abbiamo già osservato, in occasione di precedenti elezioni, la grande maggioranza degli elettori non vota più per "atto di fede", ma in base ad altre valutazioni. Più contingenti. Che spostano sempre più avanti il momento della decisione. Fino alla vigilia, anzi: al giorno stesso del voto. La componente del voto last minute (come l’ha definita Luigi Ceccarini), alle elezioni politiche del 2018, ha costituito oltre il 10% degli elettori. Come, del resto, si era già osservato nel 2013. In altri termini: oltre quattro milioni di votanti hanno deciso "se" e "per chi" votare il giorno prima o il giorno stesso delle elezioni. Magari nel tragitto da casa ai seggi. Talora, in cabina.
Peraltro, le nostre indagini hanno rilevato come circa un quarto, se non oltre, degli elettori, abbia maturato la propria decisione negli ultimi 7 giorni. In base a diverse ragioni. Con effetti rilevanti. Come in occasione delle elezioni politiche del 2013. Quando tutti i sondaggi ponevano il centrosinistra, guidato da Bersani, oltre il 30%. Mentre il M5s veniva stimato al 16-17%. E il centrodestra (Pdl-Lega) di Berlusconi, allora il vero avversario del Pd, intorno al 26-28%. Era una fase turbolenta, nel Pd. Come (quasi) sempre, dal momento della sua costituzione. Ma forse in misura anche maggiore. Perché alle primarie, svolte a fine 2012, si era imposto Pier Luigi Bersani, su Matteo Renzi. Producendo una divisione profonda fra i militanti, ma, soprattutto, fra gli elettori. Per questo, è probabile che, al momento del voto, una quota di elettori del Pd si sia spostato sul M5s. Strumentalmente. Per "indebolire" Bersani. In fondo, nessuno poteva immaginare che il Partito di Grillo potesse costituire una seria minaccia, nella competizione elettorale. Così, in base a ragioni ragionevoli, si determinò un risultato imprevisto. E dalle conseguenze imprevedibili. Perché il centrosinistra e il centrodestra si allinearono, intorno al 29%. Mentre il M5s raggiunse il 25%. Ne emerse un paesaggio incerto e instabile. Che segnò la storia politica seguente. Fino ad oggi. Anche se molte altre cose sono successe, in seguito. Tuttavia, alcune indicazioni suggerite da quegli eventi restano valide. È per questa ragione che Salvini, vincitore annunciato, ha assunto un atteggiamento prudente. Tanto più dopo che Salvini stesso, in un recente e affollato comizio a Sanremo, ha paragonato il voto europeo a un referendum sulla Lega. Cioè, su se stesso. Difficile non evocare il precedente di Renzi, che trasformò un "referendum costituzionale" in un "referendum personale". Con esiti ir-reparabili. Per il suo PdR.
Ma la questione vera è che la partita elettorale è ancora, in gran parte, da giocare. Perché, se una larga parte degli elettori è ancora incerta e deciderà come e chi votare nell’ultima settimana, l’esito del voto è ancora da decidere. D’altronde, gli "indecisi", in occasione delle elezioni europee, sono di più, rispetto alle politiche. E attraversano tutti gli elettorati. In particolare, a sinistra e a centrosinistra. Mentre, sul piano sociale, l’incertezza pervade maggiormente i settori più "periferici". Le casalinghe, i pensionati, gli operai. Le donne, più degli uomini. Così, è probabile che, per intercettare il voto last minute, dell’ultimo minuto, si assista a una campagna last minute. Soprattutto: in televisione. Il "mezzo" di comunicazione maggiormente seguito dai settori sociali più incerti. In quanto contribuisce a orientare la discussione e i dialoghi nelle cerchie interpersonali. In famiglia e fra gli amici. L’ambito più influente sulle scelte politiche. Così è lecito attendersi giorni di spettacolo pre-elettorale. "In attesa di risultati" che potrebbero "risultare in-attesi". Perché se (una) gran parte degli elettori non ha ancora deciso, allora tutto può ancora succedere.
Il Fatto 20.5.19
Il Veneto di Basaglia “emargina” i malati
di Chiara Daina
La Regione Veneto, che diede i natali Franco Basaglia, padre della legge 180 che impose la chiusura dei manicomi per evitare l’esclusione sociale delle persone con disturbi psichiatrici, oggi è promotrice del pronto soccorso psichiatrico, varato nelle nuove schede ospedaliere. Ossia un percorso di accoglienza accelerato per l’accesso diretto al reparto di Psichiatria. La malattia mentale diventa quindi un elemento disturbante? A esprimere indignazione è la società italiana di psichiatria (sip), secondo cui il pronto soccorso psichiatrico è un passo indietro della scienza. “Non solo emargina e discrimina chi soffre di disturbi mentali – denuncia Lodovico Cappellari, presidente della sezione veneta della sip -, ma espone anche a rischi clinici. Ogni alterazione del comportamento, per esempio lo stato confusionale durante una crisi di panico, o l’agitazione causata da una colica epatica, un infarto, o di chi è sotto l’effetto della droga, potrebbe essere confusa con una patologia psichiatrica”. Tra l’altro il paziente psichiatrico si rivolge al centro di salute mentale in caso di una crisi. Se ha un attacco di cuore perché non dovrebbe seguire l’iter di visita come gli altri?
Il Fatto 20.5.19
II populismo clericale del Capitano e la tentazione della Dc di destra
In vista del previsto 30 per cento alle Europee, il leader leghista cerca un’identità da partito di massa
di Fabrizio D’Esposito
Sono due le considerazioni di medio periodo sull’atteso discorso di Matteo Salvini sabato scorso a Milano, un testo intriso di cattolicesimo tradizionalista, con citazioni e invocazioni che includono la Madonna e De Gasperi e culminato con la scontata ostensione del Rosario tra le dita del Capitano.
Per prima cosa, il comizio salviniano segna la definitiva mutazione genetica di quel che restava della vecchia Lega. Ormai il suo è un partito non solo personale ma anche nazionalista e clericale. Evidentemente le dimensioni della prevista affermazione tra una settimana alle Europee, ossia il 30 per cento, spingono il ministro dell’Interno a dare un’identità precisa alla sua leadership sovranista alla guida di un partito di massa: non la vocazione liberale di Forza Italia ma la tentazione di una nuova Dc pigliatutto collocata a destra (un misto di Andreotti, Gedda e Scelba) come intuito dalla Nuova Bussola Quotidiana, sito online di tendenza anti-bergogliana.
Per farlo, e qui discende la seconda considerazione, ha dato appunto una torsione clericale al suo metodo populista. La frase chiave, sabato scorso, è stata questa, a proposito della xenofobia leghista: “Ditelo al vostro sacerdote, domani a Messa, che nel Mediterraneo ci sono meno morti e che stiamo salvando vite”.
È questo il passaggio che illumina più di tutti l’operazione salviniana, sublimata in piazza dai fischi che hanno accolto il nome di papa Francesco: radunare le minoranze cattoliche che si contrappongono al pontificato della misericordia di Bergoglio e cercare di ripetere lo stesso giochino dialettico fatto contro le élite politiche di Roma e di Bruxelles. Base, cioè, popolo dei fedeli, contro le gerarchie del Vaticano ispirate dai valori della solidarietà e dell’accoglienza.
Un disegno pieno di incognite. Sono pochissimi, innanzitutto, i vescovi italiani schierati sulle posizioni salviniane. E poi c’è l’uso strumentale della religione che può al contrario ricompattare i fedeli attorno al papa. Efficaci, in merito, le parole del gesuita padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, tra gli intellettuali più vicini a Francesco: “Adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici”.
Il Fatto 20.5.19
I“Salvini in piazza col rosario è solo marketing, non fede”
Da “Famiglia Cristiana” a “Civiltà Cattolica”, la Chiesa critica Matteo l’opportunista
“Salvini in piazza col rosario è solo marketing, non fede”
di Camilla Tagliabue
L’ultima grana – per Matteo Salvini – sono i grani: del rosario. Dopo averlo brandito in piazza l’altro ieri a Milano il leader leghista, e vicepremier e ministro dell’Interno, si è attirato gli strali del mondo cattolico. Il primo, sui social, è stato padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica: “Rosari e crocifissi sono usati come segni dal valore politico, ma in maniera inversa: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse di Cesare, adesso è Cesare a impugnare quello che è di Dio”. Suona quasi come un malizioso paradosso il chierico che chiede al politico più laicità. Ma in tempi di “sovranismo feticista”, così lo definisce un duro editoriale di Francesco Anfossi su Famiglia Cristina, il paradosso è la regola, e la “strumentalizzazione religiosa serve a giustificare la violazione dei diritti umani”. Salvini però manda bacioni, dicendosi “credente: mio dovere è salvare vite e svegliare le coscienze. Sono orgoglioso di testimoniare una civiltà accogliente”, proprio mentre si consuma l’ennesimo braccio di ferro su una nave Ong e l’Onu ci bacchetta per il dl Sicurezza.
“Dio è di tutti – ha ricordato il segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Parolin – “Invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso”. Gli fa eco il direttore di Famiglia Cristiana don Antonio Rizzolo: “L’uso assolutamente strumentale dei simboli della fede è inaccettabile: fa indignare, così come dividere i papi tra buoni e cattivi”. Eppure, a giudicare dai fischi della piazza milanese, il malumore contro papa Francesco è diffuso, senza dimenticare lo striscione “Bergoglio come Badoglio” sventolato qualche giorno fa dai militanti di Forza Nuova a Roma. “I papi sono sempre stati criticati – continua Rizzolo –, ma quello che dà fastidio ora è l’attacco personale e violento.
Questo attacco fa leva su una parte marginale del mondo cattolico, che però grida molto: le due sponde dell’estremismo si sposano. Cosa ci distingue come cristiani? Non certamente quello che dice Salvini. Proprio il Vangelo di ieri, commentato dal Papa al Regina Coeli, recitava: ‘Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi’. Questo dice Gesù: se questo non si manifesta concretamente nell’aiuto di chi è in difficoltà, uno può proclamare tutto il cristianesimo che vuole, ma di fatto non è cristiano, o comunque è in palese contraddizione con Cristo”.
Da un lato Salvini sta cercando di darsi toni da moderato, dall’altro, però, c’è un terreno fertile all’odio, alla chiusura, alla paura, soprattutto nei confronti dei migranti: “Il bisogno di sicurezza è reale, specie tra gli anziani che si sentono più fragili, ma serve la sicurezza vera, non gli slogan, una sicurezza che tenga conto della salvaguardia delle persone e dell’umanità. Tutto ciò che fomenta l’odio e la paura – senza dare risposte, ma additando solo presunti nemici – non fa il bene comune. È quasi un anno ormai che le risposte serie non arrivano”.
La Chiesa non ha paura di essere criticata, ancora una volta, per ingerenza politica? “Io sono anche un cittadino: ho diritto di dire quello che penso, a qualsiasi livello. Ora vale per Salvini, ma non abbiamo risparmiato altri governi”. Però c’è il rischio concreto che parte dell’elettorato cattolico si faccia abbindolare dal leghista armato di rosario… “Sì, certo, questo è avvenuto anche in passato. Quella di Salvini è chiaramente una strategia di marketing, perciò dà ancor più fastidio. Se poi fosse uno che ci crede veramente… Al contrario, sembra una scelta fatta apposta in vista delle elezioni. E probabilmente avrà effetto: queste cose hanno un aspetto emotivo forte, di grande suggestione. Spero perlomeno che, oltre a brandirlo in piazza, lo reciti davvero, il rosario”.
Corriere 20.5.19
ll retroscena
La rabbia del ministro che voleva resistere fino al voto europeo: lasciato solo dagli alleati
di Fiorenza Sarzanini
La strategia del Viminale costretto alla resa
Roma La strategia elettorale era già stata stabilita: tenere i migranti a bordo della Sea Watch il più a lungo possibile in vista dell’appuntamento con le urne. E invece già ieri mattina, quando si è capito che la procura di Agrigento era pronta a intervenire proprio per impedire un nuovo «sequestro» degli stranieri, è stata pianificata una linea alternativa.
E il ministro Matteo Salvini ha deciso di andare all’attacco, aprendo uno scontro istituzionale proprio con la magistratura che rischia di coinvolgere altri poteri dello Stato. Sfidando anche gli alleati di governo del M5S con cui ormai i rapporti sono di massima tensione. Epilogo di una giornata che lo ha visto solo contro tutti, ma soprattutto contro i cattolici, dopo l’utilizzo dei simboli sacri proprio a fini di propaganda. «C’è un silenzio assordante di Conte e Di Maio a differenza di altre volte in cui si erano prodigati per trovare una soluzione», sbotta Salvini.
E tanto basta a comprendere che quanto sta accadendo sarà sfruttato proprio in vista del voto di domenica prossima.
La sfida
La scelta di tenere la linea dura nella convinzione che questo possa pagare in termini di voti, viene presa sabato sera quando la Sea Watch forza il blocco navale e fa rotta verso la Sicilia. «Non entreranno, non sbarcheranno», ripete il ministro dell’Interno convinto che anche questa volta tutti eseguiranno le sue disposizioni, nessuno cercherà strade alternative e alla fine pure Palazzo Chigi cercherà una mediazione.
E invece dalla prefettura di Agrigento arrivano notizie poco rassicuranti per lui, il procuratore Luigi Patronaggio questa volta sembra determinato a impedire la permanenza della nave in porto con i migranti a bordo in attesa che qualche Paese della Ue o qualche associazione religiosa accetti di ospitare gli stranieri.
Il sequestro
Per tutto il giorno al Viminale cercano una soluzione alternativa. Salvini sa bene che la delega alla Guardia di Finanza di salire a bordo per valutare il sequestro della nave in realtà serve solo a determinare lo sbarco dei migranti. In serata, quando si capisce che non ci saranno mediazioni decide di giocare d’anticipo e dirama una nota per far vedere che è ancor lui a condurre il gioco. Parla di «nave fuorilegge». Invoca «provvedimenti nei confronti del comandante della nave, dal quale è lecito attendersi indicazioni precise sui presunti scafisti presenti a bordo». Tenta di rilanciare affermando che «la difesa dei confini nazionali e l’ingresso in Italia di un gruppo di sconosciuti dev’essere una decisione dalla politica (espressione della volontà popolare)».
E per questo torna a sfidare gli alleati chiedendo già questa mattina «di approvare il Decreto Sicurezza Bis già nel Consiglio dei ministri, per rafforzare gli strumenti del governo per combattere i trafficanti di uomini e chi fa affari con loro». Ma sapendo bene che in vista delle elezioni di domenica la sua strategia elettorale contro i migranti è ormai un’arma spuntata.
Repubblica 20.5.18
Riace, indagata anche la candidata di Lucano E lui: "Processo politico"
Spanò verso il rinvio a giudizio per le carte d’identità concesse ai migranti
L’ex sindaco: "Curioso che la notizia arrivi a sette giorni dalle elezioni"
di Alessia Candito
REGGIO CALABRIA — «Chi vuole sconfiggere la nostra idea di Riace umana e solidale deve farlo democraticamente, non attraverso la magistratura. Questo è un processo politico ». Sembra quasi più rassegnato che arrabbiato, Mimmo Lucano. Ospite a Siracusa di padre Carlo D’Antoni, parroco impegnato nell’accoglienza migranti, il sindaco sospeso di Riace è stato raggiunto dalla notizia dell’avviso di conclusione indagini recapitato alla sua capolista e aspirante sindaco, Maria Spanò, e alla candidata consigliera Annamaria Maiolo.
L’accusa? Per Spanò, falso in atto pubblico per aver firmato la carta d’identità di due stranieri, a detta della procura di Locri privi dei requisiti perché non residenti a Riace e senza permesso di soggiorno. Contro Maiolo invece, i magistrati formulano accuse più gravi. Sono convinti che il modello Riace nasconda un "sistema criminale" basato su un’associazione a delinquere e secondo loro, Maiolo ne fa parte. «Ma non c’è niente di nuovo. È tutto nell’inchiesta che il gip per primo ha demolito» chiarisce Lucano. «E non è neanche una novità che per Maria e le altre siano state chiuse le indagini» aggiunge. La posizione di Spanò e Maiolo, insieme a quella di un’altra indagata, Valentina Micelotta, era stata stralciata dal filone principale dell’inchiesta per una serie di disguidi tecnici, dunque per loro l’avviso di conclusione indagini è arrivato dopo, circa dieci giorni fa. «Ma la notizia si è diffusa a sette giorni dalle elezioni — fa notare Lucano — e a cinque dalla chiusura della campagna elettorale ». Quella che lui non può fare perché ancora in esilio per ordine dei giudici. Ignorando le indicazioni della Cassazione, il Tribunale del Riesame gli ha confermato il divieto di dimora perché da «sindaco o comunque componente a qualsiasi titolo del civico consesso» Lucano potrebbe «ripetere reati della stessa specie di quelli già compiuti». Per questo, sulla possibilità di tornare a Riace per la campagna elettorale, lui si mostra assai scettico. Forse, anticipa, chiederà un permesso per il comizio finale. Ci aveva già provato l’11 maggio scorso, per il battesimo della fondazione "È stato il vento" che punta a far ripartire l’accoglienza senza fondi pubblici, ma i giudici hanno detto di no.
Il "lavoro" di raccolta voti è finito tutto sulle spalle dei candidati della sua lista e dell’aspirante sindaco Maria Spanò. Sull’inchiesta che ha travolto il "modello Riace", lei preferisce non scendere nei dettagli. «Ci sono aspetti molto curiosi in questa vicenda giudiziaria che preferisco non commentare» si limita a dire. Non ha tempo, né voglia di polemiche — fa intendere — c’è lavoro da fare. Il destino di Riace, forse per la prima volta tanto divisa fra tre aspiranti sindaco, si gioca su un pugno di voti e lei è impegnata negli ultimi giorni di campagna elettorale. Ma rivendica la correttezza del suo operato da assessore. «La firma sulla carta d’identità è solo un passaggio formale. Non sono certo il sindaco, il vice o l’assessore autorizzato al rilascio, a svolgere l’istruttoria e fare i controlli necessari per il rilascio dei documenti» afferma. «E questo — ci tiene ad aggiungere — non succede solo a Riace. È così in tutti i Comuni». Ha chiesto di essere ascoltata in procura ed è pronta a spiegare tutto anche ai magistrati. Sul possibile esito delle elezioni non si sbilancia, mentre Lucano mette giù chiaro il vero significato della partita: «Quando il popolo vuole qualcosa, non c’è ostacolo che lo fermi. La risposta la daranno le urne».
In corsa Nella foto, Maria Spanò, candidata sindaco in una lista vicina a Mimmo Lucano. A Riace si voterà domenica prossima
Corriere 20.5.19
L’imbarazzo di Conte che rallenta l’iter del decreto Sicurezza
Oggi un Consiglio dei ministri in versione «light»
I provvedimenti chiave per ora soltanto annunciati
Il caso giudice di pace
Sul tavolo un disegno di legge che mantiene in servizio i giudici
di pace fino a 68 anni
di Monica Guerzoni
Roma Il decreto sicurezza bis può attendere. Matteo Salvini ha fretta di impugnare un’altra arma legislativa contro «scafisti, camorristi, spacciatori e teppisti da stadio», ma l’energica moral suasion del Quirinale e la forte preoccupazione dell’Onu frenano l’iter del provvedimento. «Non vedo l’ora che diventi realtà», spronava ieri Salvini, mentre il premier Giuseppe Conte cercava una soluzione al rebus del Consiglio dei ministri.
A sera la riunione attesa da dodici giorni e prevista per oggi non era stata ancora convocata, tanto che in tv Salvini forzava la mano: «A me risulta di sì». Il premier, che si è arrovellato per giorni per sminare il vertice, è stato fino all’ultimo tentato di rinviare tutto. Finché alle dieci di sera ha dato il via libera alla convocazione più sofferta del suo mandato. In vista della bufera post—voto, che potrebbe travolgerlo, Conte punta a muoversi in sintonia con il Colle e avrebbe volentieri tolto di mezzo il decreto—bandiera della Lega, senza nemmeno appoggiare i faldoni sul tavolo. Ma Salvini non gradisce altri «rallentamenti da campagna elettorale», ha fretta di «andare a lavorare» al Viminale e ha spronato pubblicamente Conte ribadendo che «il decreto è pronto». Un assaggio della sua ira, se il Cdm fosse stato rinviato. E così l’avvocato pugliese si è rassegnato a presiedere un Consiglio che a Palazzo Chigi chiamano «light», o «vuoto».
La riunione avrà all’ordine del giorno le nomine e un disegno di legge sui magistrati onorari: un testo che sa di mancia elettorale perché, dopo svariate proroghe, mantiene in servizio i giudici di pace fino a 68 anni. Quanto ai due decreti che spaccano il governo, sicurezza e Famiglia, Conte ha deciso di portarli in Cdm per un «esame preliminare». Un passaggio formale che consenta a Salvini e Di Maio gli ultimi spot elettorali, mentre il voto sui provvedimenti slitterà a dopo il 26 maggio.
La seduta potrebbe avvenire in due tempi. Nel primo pomeriggio, se il braccio di ferro sulle nomine e sul riordino del Mef si placa, la ratifica di Biagio Mazzotta alla Ragioneria generale dello Stato e di Giuseppe Zafarana al vertice delle Fiamme Gialle, sempre che il generale piacentino riuscirà a spuntarla su Edoardo Valente. Alle 20, poi, l’esame lampo dei decreti. Luigi Di Maio, nella tempesta istituzionale sulla nave Sea Watch, ha fatto a pezzi il testo con cui Salvini vuole punire chi porta in Italia migranti irregolari. Finché le diplomazie incrociate dei due partiti hanno trovato una mezza intesa e il capo politico del M5S ha fatto sapere che «non ci piace, ma non ci opporremo». In cambio il ministro del Lavoro ottiene che la Lega non ostacoli gli aiuti alla Famiglia, anche se il Quirinale non vuole un altro decreto di cui non vede l’urgenza.
Conte intanto ha annullato la missione in Ucraina e oggi sarà nella più vicina Umbria, in visita a sorpresa nelle zone terremotate. Il premier prova a tenersi al riparo dalla rissa perpetua tra i due leader, non vuole farsi tirare nella mischia e aspetta il responso delle urne, fiducioso che il 27 maggio il governo sarà ancora in piedi. Se la Lega vincerà senza trionfare e il M5S resterà sopra al 20%, è il ragionamento condiviso con i collaboratori, la nave dell’esecutivo riprenderà il viaggio. «Con un risultato equilibrato Salvini non potrà battere cassa — è l’avviso dei pentastellati che frequentano Palazzo Chigi — In Parlamento abbiamo la maggioranza e chiedere un rimpasto sarebbe una forzatura».
La campagna del M5S per stoppare le ambizioni del «Capitano» è pronta: «Davvero la Lega farebbe cadere il governo per le poltrone?». Se per restare in piedi ci fosse in gioco un sottosegretario o poco più, i 5 Stelle non si metterebbero di traverso. Ma guai se a Salvini, forte del consenso di elezioni europee e non politiche, venisse la tentazione di ribaltare il tavolo. «Si assumerebbe la responsabilità di far cadere il governo», va ripetendo Conte. Per i 5 Stelle il ministro dell’Interno «infiamma lo scontro, attacca la magistratura, scatena fischi contro il Papa, provoca Conte...». Ma ultimamente, raccontano, «qualche frizione» si avverte anche tra Di Maio e il premier.
Repubblica 20.5.19
La polemica
La farsa umbra del Pd
di Claudio Tito
Più che un dramma sembra una farsa. Un carosello vergognoso. Che si sta chiudendo con un tradimento.
Perché la scelta compiuta sabato da Catiuscia Marini non è niente altro che il tradimento di un patto. Quello che tutti coloro che assumono un incarico istituzionale stringono con i propri elettori e con tutti i cittadini. Un impegno che, ovviamente, si fonda sulla legge. Ma poggia anche su una dimensione che va oltre la mera formalità legale. Perché la politica è una miscela di fattori amalgamati dal rapporto di fiducia. La stessa governatrice umbra, appena un mese fa, annunciando le dimissioni, aveva detto: «Le istituzioni vengono prima delle persone». Cosa è cambiato in un mese? Cosa può giustificare il tradimento di quel patto che lei stessa aveva elevato a guida dei suoi comportamenti? La risposta è semplice: nulla. Se non l’interesse personale.
Magari il tentativo di confondere la propria situazione con quella che si determinerà nel Paese dopo le elezioni europee. Sperare nella crisi di governo per far dimenticare la crisi umbra. Ma sarebbe una banale mistificazione, un espediente davvero di corto respiro. Questo dietrofront resta invece una lesione al patto che appunto la politica stringe con i cittadini. Chi chiede e ottiene i voti ha una responsabilità superiore. Ha il dovere di assumere atteggiamenti e comportamenti ulteriori. E in questo caso prendere atto anche che esiste un distacco, sempre più largo, tra il sentimento popolare e la condizione soggettiva della governatrice. La sovrapposizione tra carica istituzionale e ruolo personale non è più ammissibile. Non lo è da tempo. Non lo è anche in questa fattispecie. Nella quale sempre più si sta evidenziando il disfacimento di un sistema regionale che tenta un ultimo e irresponsabile colpo di coda. Il germe dell’autoperpetuazione, però, non è più tollerato. Non capirlo, dopo tutto quello che è accaduto negli ultimi anni, significa semplicemente disinteressarsi del bene comune. Poi c’è il secondo aspetto di questa vicenda. Il rapporto con il suo partito. Che, evidentemente, è stato lacerato. Mostra soprattutto che il Pd non è più vissuto come una comunità. Compiere, del resto, una scelta del genere a una settimana dal voto europeo e da quello in molti enti locali — compresa Perugia — non può che rendere insignificante l’appartenenza partitica. O marcare la volontà di indebolirne la leadership. Nello stesso tempo emerge, in particolare a livello locale, la perseveranza con cui scattano ancora certi tic e alcuni riflessi condizionati dal passato. Così come affiora per il centrosinistra il bisogno di rinnovarsi pure in periferia se vuole provare a ricandidarsi alla guida del Paese o almeno a ritrovare la capacità di interpretarne gli umori e le esigenze. E sebbene siano spiccati di recente esempi contrari e negativi — da Raggi a Appendino fino a Siri — di rappresentanti delle istituzioni che si sono pervicacemente attaccati alla poltrona, Marini dovrebbe avere un sussulto e fare subito quello che aveva promesso appena un mese fa: dimettersi.
Il Fatto 20.5.19
Lula: “Da questa cella combatto per il mio Brasile”
L’ex presidente, Luiz Inacio Lula da Silva, in carcere dall’aprile 2018
di Domenico De Masi
Dalle 16 alle 17 del 25 aprile scorso il Dipartimento della Polizia Federale del Paranà ha permesso a me e a mia moglie di visitare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva nel carcere di Curitiba, dove è detenuto dal 7 aprile 2018 e dove deve scontare altri sette anni di prigionia. Siamo amici di Lula dal 2003 quando, in sua presenza, Oscar Niemeyer ci consegnò ufficialmente il progetto dell’Auditorium di Ravello. Prima di recarci nella prigione abbiamo pranzato con gli avvocati che lo difendono gratuitamente fin dal primo grado del processo. Ci hanno aggiornato sulla situazione penale del presidente, sullo stato di avanzamento del ricorso al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sulla procedura che avremmo dovuto rispettare nel carcere prima, durante e dopo la visita. In effetti non si tratta di un carcere vero e proprio, ma di una caserma della polizia Federale inaugurata – ironia della sorte – proprio da Lula nel 2007, quando era presidente, e ora usata come carcere speciale per i principali condannati nell’ambito dell’operazione Lava Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite, condotta dal giudice Moro, poi gratificato dal presidente Jair Bolsonaro con ben due ministeri riuniti in un super-ministero della Giustizia e della Sicurezza pubblica.
Per arrivare alla cella di Lula siamo stati presi in consegna da un militare giovane e gentile che sovrintende a tutta la giornata del prigioniero; siamo stati sottoposti a un’attenta ma cortese perquisizione da parte di due poliziotte; abbiamo salito le scale che portano al piano superiore e siamo passati accanto a un microscopico cortile con alti muri di cinta che lasciano intravedere in alto solo un quadrato di cielo: è il luogo dove Lula, se vuole, può trascorrere l’ora d’aria quotidiana. Un piccolo corridoio porta alla cella del prigioniero. Davanti alla porta due guardie vigilano notte e giorno le telecamere a circuito chiuso .
Lula ci accoglie con visibile affetto. Indossa una tuta, ci fa sedere a un tavolino di plastica con quattro sedie. Insieme a un letto che mi colpisce per la sua piccolezza, a uno scaffale, a un armadio, a un comodino, a un televisore (abilitato solo a tre canali nazionali) e a una cyclette (su cui fa sette chilometri al giorno per tenersi allenato), è tutto ciò che arreda una stanza di circa quattro metri per cinque. Qui Lula è condannato a stare in totale isolamento 24 ore su 24. Il lunedì, se vuole, può ricevere un cappellano; il giovedì, dalle 16 alle 17, può ricevere una o al massimo due persone, dietro permesso della direzione della prigione. L’unico conforto gli viene dalle voci che gli arrivano dall’esterno del carcere, dove un presidio di un centinaio di compagni convenuti da tutto il Brasile è attendato a turno, notte e giorno, e gli augura a gran voce il buon giorno, la buona notte, la libertà.
Lula non è un intellettuale e quindi la lettura gli fa compagnia meno di quanta ne farebbe a me. Lui ha fatto studi sgangherati, anche se è il presidente del Brasile che ha creato il maggior numero di università disseminate in tutto il paese. Mi dice: “Mia madre era analfabeta e io sono ignorante. Ma mi chiedo come fanno tanti politici e tanti magistrati, pure essendo istruiti, a commettere errori e ingiustizie così gravi”. E poi aggiunge: “Sono ignorante, eppure avevo previsto la crisi prima di Tony Blair, prima di Putin, prima di Obama. Soprattutto avevo previsto che il prezzo maggiore l’avrebbero pagato i lavoratori”. La figlia gli ha fatto avere un termos di caffè. Ce ne offre con la fugace felicità di poterci accogliere quasi come se stessimo a casa sua. Parliamo dell’Italia: ricorda i suoi incontri ufficiali con Craxi, Berlinguer e Andreotti; i suoi seminari con i sindacalisti della Cgil e della Cisl. Si rammarica di essere stato solo una volta a Napoli: per assistere a una partita di Maradona. Sogna di tornare a visitare la toscana, ma è consapevole che il sogno non si avvererà. “Il Pci, tramutandosi man mano in Pd, ha dimenticato il popolo”, dice con la sua solita, fulminante lucidità.
Si accorge che io guardo la cella con malcelato sgomento e mi dice: “Non preoccuparti: sono vissuto per anni, insieme a mia madre e ai miei sette fratelli, in una stanza molto peggiore di questa, nel retrobottega di un bar di San Paolo”. Ha fatto il lustrascarpe, il venditore ambulante, l’operaio in una fabbrica metalmeccanica dove, a 19 anni, ha lasciato un dito sotto una pressa.
Mi chiede cosa penso dell’attuale situazione politica nell’Occidente e dello stato di salute della democrazia. Gli dico che sto leggendo Postdemocrazia di Colin Crouch e mi è sempre più chiaro perché il neo-liberismo non poteva non fare piazza pulita di tutte le grandi riforme che lui ha realizzato durante gli otto anni della sua presidenza: Bolsa Família, Fome zero, Programa de Aceleração do Crescimento, difesa dell’Amazzonia, promozione dell’agricoltura familiare, Brasil Sem Miseria, aumento della scolarizzazione, tutti i programmi di welfare grazie ai quali 40 milioni di brasiliani hanno scalato i gradini sociali e il 54% ha raggiunto la classe media.
A ripercorrerlo oggi con la memoria, sembrano miracolosi gli anni in cui tutto questo si potette fare ed è lampante il motivo per cui il capitalismo non poteva tollerarlo. Non a caso Warren Buffet, il quarto uomo più ricco del mondo, ha detto senza ritegno: “La lotta di classe esiste, siamo noi ricchi che la stiamo conducendo, e la stiamo vincendo”.
Lula è in gran forma, lucido e combattivo come non mai, per nulla fiaccato da un anno di isolamento carcerario. È consapevole che, in America e in Europa, la sinistra non uscirà alla svelta dalla situazione in cui si è cacciata e che ora ha davanti a sé una lunga marcia da compiere. Anche i processi, le condanne, l’odio scatenato contro il Partito dei Lavoratori (Pt), le colpe vere che il Pt ha commesso e quelle che gli sono state cucite addosso dai mass media implacabili e concentrici, sono come un grande seminario, una grande auto-analisi alla quale la sinistra è costretta e dalla quale uscirà migliorata.
Parliamo dei social media e del ruolo che essi hanno svolto nelle ultime elezioni brasiliane: Bolsonaro ha 7 milioni di follower su Facebook e 3,5 su Linkedin, oltre ad avere alle spalle la guida e la protezione di Bennon. Mi ricorda che qualche mese fa è morto un suo nipotino e il figlio di Bolsonaro ha esultato twittando che si trattava di una giusta punizione divina. Mi dice pure che quando sua moglie, morta di cancro, andò a farsi la prima tac, il referto apparve su Facebook prima di essere comunicato a lei e a lui. A suo avviso, comunque, il rapporto fisico, diretto, con il popolo, resta assi più umano, caldo, convincente di quello via internet. Insieme ci chiediamo – senza saper dare una risposta – come mai, in tutto il mondo, la destra usa internet con maggiore frequenza e maggiore efficacia della sinistra. Comunque la destra indulge alle fake news con una spregiudicatezza immorale che sarebbe impraticabile da parte di una sinistra coerente con i propri valori.
Gli faccio notare che prima le bugie erano monopolio dei potenti – direttori di giornali, capi di Stato, ecc. – mentre ora, grazie a internet, sono alla portata di tutti: internet ha democratizzato la falsità. Ci fa notare che, nella società postindustriale, le dittature si appropriano del potere con modi e tecniche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati nella società rurale e in quella industriale. Oggi, per fare un golpe, non occorrono più i manganelli e i carri armati: basta l’azione combinata di quattro strumenti: i media, la magistratura, i social media e le libere elezioni. Con i media si manipolano le masse demonizzando gli avversari e rendendone ovvia e attesa l’eliminazione; con la magistratura li si mette in galera eliminandoli dalla competizione elettorale; con i social media si vincono le elezioni; con le elezioni si assicura un alibi democratico alla dittatura.
In questo modo il Brasile è passato in soli tre anni da una democrazia compiuta a una post-democrazia in cui il presidente Bolsonaro, il vice-presidente e sette ministri sono militari. E, per colmo del paradosso, i militari, rispetto a Bolsonaro a suoi tre figli energumeni che lo affiancano notte e giorno, appaiono come altrettanti saggi moderati.
Lula ci parla con calore e affetto. Soprattutto con la sottintesa consapevolezza della propria qualità di leader e del proprio ruolo di guida morale. Sa che in carcere sta conducendo la sua ultima battaglia, quella per il riconoscimento della propria innocenza; sa che da questa cella angusta deve riuscire a smascherare il “golpe” realizzato contro di lui, contro il Pt e contro i lavoratori tutti, dalla destra brasiliana in combutta con gli Stati Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto è cosciente che in questi pochi metri quadri si compie un piccolo pezzo di storia sua personale e del Brasile.
Un’ora passa presto. Il carceriere ci ricorda che i 60 minuti sono scaduti. Lula ci lascia con tre viatici: sua madre gli ha sempre raccomandato la dignità e lui non la baratterà mai con la libertà. Ora ha 72 anni di età e ha da scontare altri sette anni di pena. Gli piacerebbe vivere in casa con i figli e i nipotini, ma non accetterebbe mai gli arresti domiciliari o il braccialetto elettronico. Si batterà fino alla fine per il riconoscimento della propria innocenza ma, se non riuscirà a dimostrarla, morirà in questa stanza, dignitosamente.
Sulla porta, prima che noi lo lasciamo nella sua solitudine coatta, tiene a dirci ancora due o tre cose: “Se, fuori di qui, parlerete di questo nostro incontro, riferitelo in piena libertà, con le parole che vi suggerisce il cuore. Però intrattenetevi un poco con i compagni che presidiano la prigione per farmi sentire il loro affetto, riferite loro la mia gratitudine e ditegli, per conto mio, che la lotta è di lunga durata e che la dignità non può essere barattata con nulla”.
Strana storia questa del Brasile, paese grande e incomparabile, dove però Bolsonaro vive nel palazzo presidenziale di Brasilia e Lula vive in una cella di pochi metri quadrati.
Repubblica 20.5.19
Il racconto
L’amico che tradì Baudelaire
Quando il poeta implorò Sainte-Beuve di parlare delle sue opere E quando il critico ebbe paura di compromettersi Ecco perché, per i grandi artisti, la gloria è sempre postuma
di Pietro Citati
In privato, ma solo in privato, gli scriveva: "Avete voluto strappare ai demoni notturni i loro segreti
Date l’impressione di esservi divertito
Eppure avete dovuto soffrire molto, caro figliolo"
Charles Baudelaire è stato il più grande saggista e critico del Diciannovesimo secolo: forse di tutti i tempi, quando escludiamo l’autore del Sublime e Montaigne. Se rileggiamo i suoi Saloni , Il pittore della vita moderna , i testi su Poe, Victor Hugo, Balzac, Théophile Gautier, Delacroix, De Quincey, Wagner e L’essenza del riso (a cura di Evaldo Violo, Unicopli), rimaniamo sconvolti, travolti; e persuasi. Baudelaire aveva il dono supremo del critico: il senso della totalità delle cose — l’amore per i palazzi e le capanne, la tenerezza e la crudeltà, il vicino e il lontano, il vegetale e l’architettura, il dolce e l’orribile, il visibile e l’invisibile. Possedeva un fortissimo senso analogico, che scopriva i rapporti tra i colori, i suoni e i profumi, e l’immensa tastiera delle corrispondenze: era convinto che Dio avesse proferito il mondo come una complessa ed indivisibile totalità. Sentiva i colori, specialmente il rosso e il verde, che si attraevano a vicenda: le vibrazioni e le palpitazioni della natura; immaginava un essere vasto, immenso, complicato ed euritmico, che soffriva tutti i sospiri e le ambizioni umane.
Aveva il senso della costruzione e della concentrazione, ma anche quello della vaporizzazione delle cose: il dono di comprendere l’abisso ma anche la realtà quotidiana, la società e la politica; il dono teologico, che trionfa nel saggio sul riso; un’immensa immaginazione creatrice, la «regina di tutte le facoltà», la quale prova che l’uomo è fatto a somiglianza di Dio. Parlava sempre e soltanto di se stesso, ma ogni sua osservazione personale era, insieme, una precisissima annotazione sugli altri: sapeva che tutti i grandi poeti diventano naturalmente, e fatalmente, critici. Nelle Fusées , scrisse: «Ho trovato la definizione del Bello — del mio bello. È qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia spazio alla congettura… Una testa seducente e bella, una testa di donna, fa sognare insieme di voluttà e di tristezza: comporta un’idea di malinconia, di stanchezza, persino di sazietà, — ma anche un’idea contraria, cioè un ardore, un desiderio di vivere, associata con un’amarezza che rifluisce, come se venisse dalla privazione e dalla disperazione». Nella sua poesia e nella sua critica, c’era dovunque il mistero: il mistero rivelato; o incapace di rivelarsi. Il segno supremo erano, forse, le nuvole: le nuvole, queste forme fantastiche e luminose, queste tenebre caotiche, queste immensità verdi e rosa, sospese le une alle altre, queste fornaci aperte, questi firmamenti di raso nero o viola, questi orizzonti dolorosi o ruscellanti di metallo fuso, queste profondità, questi splendori, che salivano al cervello come bevande inebrianti, o come l’eloquenza dell’oppio. Baudelaire amava la molle atmosfera della donna: l’odore delle sue mani, del suo seno, dei suoi ginocchi, della sua capigliatura, dei suoi vestiti flessuosi e ondeggianti,
Dulce balneum suavibus Unguentatum odoribus ;
atmosfera che dona una delicatezza di epidermide e una distinzione di accenti, una specie di androginia, senza le quali il genio più virile resta incompleto. Quali fossero le sue ispirazioni, Baudelaire aspirava a «quelle ammirevoli ore, , dove il cielo di un azzurro più trasparente sprofonda come in un abisso più infinito, dove i suoni rintoccano musicalmente, dove i colori parlano, dove i profumi raccontano mondi di idee».
La bellezza riempiva la vita parigina di ogni giorno, sebbene le altre persone non la scorgessero. Solo Balzac — l’uomo dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche, il grande cacciatore di sogni, il personaggio più comico, interessante e vanitoso della Comédie humaine , questo grosso bambino gonfio di genio e di vanità — l’aveva compreso. Baudelaire lo adorava. Nel saggio su Théophile Gautier, gli dedicò una pagina meravigliosa — Balzac che «rivestiva di luce e di porpora la pura trivialità»: una pagina bella come i grandi scorci critici di Marcel Proust nel Contre Sainte-Beuve .
Di recente l’editore Aragno ha pubblicato le lettere tra Baudelaire e Sainte-Beuve: Voi avete preso l’inferno (a cura di Massimo Carloni). Con le Poesie e pensieri di Joseph Delorme Sainte-Beuve aveva esercitato una certa influenza su Baudelaire: entrambi lo sapevano. Baudelaire scrisse che «l’intelligenza di Sainte- Beuve era piena di salute, una salute erculea, e al tempo stesso così fine e femminea». Quando vide una fotografia di Sainte-Beuve, Baudelaire gli scrisse: «Siete proprio voi, tale e quale, con quell’aria affabile, ironica, e un po’ assorta. Avete, più che mai, l’aria di un confessore e di un ostetrico di anime»: come Socrate.
Baudelaire chiese aiuto a Sainte- Beuve. Sperava che scrivesse un articolo sulle sue traduzioni da Poe e sulle Fleurs du mal , i Paradisi artificiali e i Piccoli poemi in prosa . Sperava che lo aiutasse ad entrare all’Académie française. Quando fu a Parigi andò a rue Montparnasse, dove Sainte-Beuve abitava, portandogli del panpepato: «Non c’era niente di meglio che bagnarlo nel vino alla fine di pranzo». Il panpepato inglese, molto denso e nero, fitto e senza pori; come se il panpepato fosse la chiave dell’universo. «Scrivete su di me se ne avete il tempo», disse a Sainte- Beuve, dipendeva dal suo articolo: «Ho bisogno di voi come di una doccia». Sainte-Beuve sapeva che Baudelaire aveva molto talento, sebbene non comprendesse che era il più grande poeta moderno di ogni lingua. «Il poeta Baudelaire aveva impiegato anni ad estrarre dalla materia di ogni fiore un succo velenoso, e persino, bisogna dirlo, assai gradevolmente velenoso». E poi: «Avete voluto strappare ai demoni notturni i loro segreti. Facendolo con sottigliezza, con un talento curioso e un abbandono quasi prezioso nell’espressione, imperlando il dettaglio, petrarcheggiando sull’orribile: date l’impressione di esservi divertito; eppure avete sofferto, vi siete logorato a portare in giro i vostri incubi, i vostri tormenti morali; avete dovuto soffrire molto, caro figliolo! » (Sainte-Beuve era sempre paterno con quello strano poeta).
Il 20 gennaio 1862, aggiunse una pagina famosa: «Baudelaire ha trovato il modo di costruire, all’estremità di una lingua di terra ritenuta inabitabile e oltre i confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, molto ornato e ricercato, ma civettuolo e misterioso, dove si legge Edgar Poe, ci si inebria con l’hascisc per poi discuterne, si assume l’oppio e mille altre droghe abominevoli in tazze di porcellana rifinita. Questo chiosco singolare, fatto di intarsi, di un’originalità concertata e composita, che da qualche tempo attira gli sguardi alla punta estrema del Kamchatka romantico, io lo chiamo la folie Baudelaire».
Come al solito, Sainte-Beuve era felice e vanitoso dei propri bon mots. Baudelaire fu felice di quelle parole, come se vivesse davvero in un Kamchatka, e un libro immenso come Le fleurs du mal fosse soltanto una strana e divertente folie. Confessava che «questo Sainte-Beuve è il mio vizio». Ma Sainte-Beuve non fece nulla: non aiutò Baudelaire ad entrare all’Académie (anzi, lo sconsigliò di presentarsi), e non scrisse nessun articolo su nessuno dei libri di Baudelaire. Aveva paura di esprimersi parlando di un poeta così originale. Temeva di compromettersi.
Ne Il mio cuore messo a nudo, Baudelaire scrisse queste righe commoventissime: «Fare tutte le mattine la mia preghiera a Dio, serbatoio di forza e di ogni giustizia, a mio padre, a Mariette e a Poe, come intercessori; pregarli di comunicarmi la forza necessaria per compiere tutti i miei doveri... Lavorare tutta la giornata, o almeno quanto le mie forze mi permettono; dire tutte le sere una nuova preghiera per domandare a Dio la vita e la forza per mia madre e per me; obbedire ai principi della più stretta sobrietà, il primo dei quali è la soppressione di tutti gli eccitanti ». Dubito davvero che abbia abolito "tutti gli eccitanti".
Si avviò a morire. Aveva i capelli bianchi, era invecchiato precocemente, sentiva passare sul capo «il vento dell’ala dell’imbecillità», soffriva di vertigini, era consumato dalle nevralgie. A Bruxelles, dove giunse nell’aprile 1864, rimase a letto, sommerso dai farmaci. Il lato destro del corpo, le braccia e le gambe erano insensibili, non riusciva a parlare, o confondeva le parole, ne pronunciava soltanto pochissime, ah non — non cré nom, cré nom (cioè «sacro nome di dio»). Un giorno si guardò allo specchio che un’amica gli porgeva: non si riconobbe, e si salutò con deferenza. Quando non riusciva a farsi capire diventava violento, oppure dal letto ascoltava con attenzione gli amici che non comprendevano fino a che punto la sua intelligenza fosse intaccata: pensavano che, anche se fosse guarito, sarebbe stato ridotto a una pura esistenza animale.
Dopo una lunga agonia, Baudelaire domandò i sacramenti, e il 31 agosto 1867 morì tra le braccia della madre. Lo stesso giorno la Revue nationale cominciò a pubblicare l’ultima serie dei Piccoli poemi in prosa. Venne sepolto al cimitero Montparnasse, accanto a un uomo che odiava, il generale Aupick, secondo marito della madre. Negli ultimi due anni di vita Sainte-Beuve non scrisse nulla su Baudelaire: raccolse soltanto, sotto il titolo Dossier Baudelaire, gli articoli e i necrologi usciti sulla stampa. Sebbene si gloriasse di scoprire le "terre nuove", non comprese, e cercò di nascondere, «quell’immensa Siberia, calda e popolosa» che Baudelaire aveva creato.
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