Corriere 20.5.19
L’alleanza sovranista
Il paradosso di un’Europa al servizio del nazionalismo
di Nadia Urbinati
Quale
modello di Europa propongono gli «estremisti di buon senso» contro gli
«estremisti che stanno a Bruxelles»? La kermesse milanese
dell’Internazionale di destra ha cercato di dare una risposta a questa
domanda. Simboli cristiani, anzi cattolici, e riferimenti ad alcuni
padri nobili da Chesterton a Thatcher a Fallaci. Piazza Duomo ha offerto
una parata da campagna elettorale. Ma l’idea che dell’Europa hanno i
nazionalisti l’ha delineata Marine Le Pen nell’intervista rilasciata al
Corriere della Sera il 15 maggio scorso. La leader del Rassemblement
National ha pennellato un modello antifederalista di continente. La
coalizione delle destre condivide una «stessa visione di Europa fondata
sulla sovranità, sul diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla
cooperazione volontaria». Il termine «cooperazione volontaria» è
centrale: prospetta un modus operandi che rifiuta il potere di
«coercizione» esercitato da autorità sovrannazionali o federali.
Il
vecchio radicalismo della proposta di smantellare l’Ue è lasciato
cadere, Brexit ha avuto un effetto deterrente sui progetti anti-europei.
Anche ai sovranisti di destra è chiaro che una politica di
respingimento dei flussi migratori ha bisogno di coordinamento tra gli
Stati e, soprattutto, di risorse europee. Ma la loro «cooperazione
volontaria» corrisponde al rallentamento del processo di «governo
comune» europeo. Il loro post-Maastricht assomiglia in effetti a un
pre-Maastricht. Sono oggi due i modelli europei sul tappeto e che
dividono la destra sia dal centro (Ppe) che dal centro-sinistra (Pse).
Lo dice la stessa Le Pen: il modello dei nazionalisti è «totalmente
incompatibile con i principi difesi dal Ppe basati sull’accelerazione
del federalismo attraverso trasferimenti di sovranità e governo comune».
Fin qui, la costruzione europea ha cercato di attuare la quadratura del
cerchio tra chi sostiene un processo di democratizzazione
sovrannazionale, con istituzioni direttamente autorizzate dai cittadini,
e chi propone una integrazione di governance retta sui trattati.
L’alleanza Pse e Ppe ha rappresentato questo compromesso. Un assaggio
delle potenzialità del potere politico sovrannazionale lo si è avuto con
la recente decisione del Parlamento europeo sul copyright e,
soprattutto, con l’approvazione della mozione per avviare un
procedimento contro l’Ungheria, accusando il governo di Viktor Orbán
(che non era in Piazza Duomo) di avere indebolito lo stato di diritto e
le istituzioni democratiche. La decisione del Parlamento europeo è stata
resa possibile dall’articolo 7 del Trattato di Lisbona, che punisce gli
Stati che non rispettano i valori fondanti dell’Ue. Se l’Europa
caldeggiata dall’Internazionale nazionalista avesse successo, il
Parlamento europeo non potrebbe più prendere questo tipo di decisioni ed
interferire sulle riforme istituzionali degli Stati-membri.
Dall’Unione
all’associazione, dunque, secondo uno schema che non dovrebbe
dispiacere ai sovranisti d’oltreManica. Del resto, il pensiero
sovranista ha largo credito tra studiosi e leader inglesi, convinti che
la strada presa dall’Unione negli Anni 90 sia troppo ambiziosa; che dare
legittimità democratica a organismi di governo sovrannazionale sia
velleitario. Lo schema anti-federale non dovrebbe dispiacere nemmeno ai
sovranisti di sinistra, convinti che il processo di unione sia figlio di
piani neoliberisti. Il paradosso è che la destra confezioni un
argomento che potrebbe attrarre sovranisti di ogni colore (ecco il senso
di presentarsi in Piazza Duomo come «estremisti moderati») perché
difeso nel nome di più democrazia: con la cooperazione volontaria tra
Stati i cittadini, ecco l’argomento, potrebbero riappropriarsi del loro
potere decisionale. L’ideale di Ventotene di lavorare ad una più
«perfetta unione» viene messo in retromarcia. Sembra di riandare al
dualismo tra federalisti e antifederalisti che oppose i Padri fondatori
americani nel Settecento. Quella della destra è una soluzione
confederata funzionale a politiche nazionaliste — come il blocco
dell’immigrazione. Un’Europa al servizio del nazionalismo degli Stati.
Repubblica 20.5.19
Se decidono gli indecisi
di Ilvo Diamanti
Domenica
prossima si voterà per il Parlamento europeo. Un voto che ha e avrà
significato politico "nazionale". E i sondaggi condotti prima del
"silenzio demoscopico" hanno indicato tendenze chiare. La Lega in
vantaggio, anche se in leggero calo. Il M5s: molto indietro. Anche se le
polemiche con la Lega, probabilmente, lo stanno aiutando. E, comunque,
davanti al Pd. Gli altri: lontani. A giocare un’altra partita.
Comunque,
importante, in prospettiva futura. In vista degli equilibri "instabili"
di una maggioranza "instabile". Che, difficilmente, verrà
"stabilizzata" dalle prossime elezioni. Dagli esiti, peraltro, incerti.
Perché l’incertezza è divenuta la cifra degli elettori. In Italia e non
solo.
Il sondaggio di Demos, pubblicato su Repubblica il 10 maggio, ha fornito indicazioni eloquenti al proposito.
Poco
più di un terzo degli elettori, infatti, dichiarava di aver deciso come
e per chi voterà. Di conseguenza, la quota degli in-decisi appare
largamente maggioritaria.
Certo, si tratta di elezioni "europee", che non suscitano lo stesso interesse di quelle politiche e amministrative.
Come
confermano gli indici di partecipazione, tradizionalmente più ridotti.
Nel 2014, in Italia, ha votato circa il 57% degli aventi diritto.
L’incertezza, peraltro, ha sempre accompagnato il voto europeo. Alle
elezioni europee del 2014, infatti, il peso degli elettori che
affermavano di non aver mai nutrito dubbi sulla scelta di voto
raggiungeva il 50% (sondaggio post-voto, Demos).
Mentre 10 anni fa, nel 2009, gli incerti erano un terzo. Si tratta, dunque, di una tendenza che dura da tempo.
Come
abbiamo già osservato, in occasione di precedenti elezioni, la grande
maggioranza degli elettori non vota più per "atto di fede", ma in base
ad altre valutazioni. Più contingenti. Che spostano sempre più avanti il
momento della decisione. Fino alla vigilia, anzi: al giorno stesso del
voto. La componente del voto last minute (come l’ha definita Luigi
Ceccarini), alle elezioni politiche del 2018, ha costituito oltre il 10%
degli elettori. Come, del resto, si era già osservato nel 2013. In
altri termini: oltre quattro milioni di votanti hanno deciso "se" e "per
chi" votare il giorno prima o il giorno stesso delle elezioni. Magari
nel tragitto da casa ai seggi. Talora, in cabina.
Peraltro, le nostre
indagini hanno rilevato come circa un quarto, se non oltre, degli
elettori, abbia maturato la propria decisione negli ultimi 7 giorni. In
base a diverse ragioni. Con effetti rilevanti. Come in occasione delle
elezioni politiche del 2013. Quando tutti i sondaggi ponevano il
centrosinistra, guidato da Bersani, oltre il 30%. Mentre il M5s veniva
stimato al 16-17%. E il centrodestra (Pdl-Lega) di Berlusconi, allora il
vero avversario del Pd, intorno al 26-28%. Era una fase turbolenta, nel
Pd. Come (quasi) sempre, dal momento della sua costituzione. Ma forse
in misura anche maggiore. Perché alle primarie, svolte a fine 2012, si
era imposto Pier Luigi Bersani, su Matteo Renzi. Producendo una
divisione profonda fra i militanti, ma, soprattutto, fra gli elettori.
Per questo, è probabile che, al momento del voto, una quota di elettori
del Pd si sia spostato sul M5s. Strumentalmente. Per "indebolire"
Bersani. In fondo, nessuno poteva immaginare che il Partito di Grillo
potesse costituire una seria minaccia, nella competizione elettorale.
Così, in base a ragioni ragionevoli, si determinò un risultato
imprevisto. E dalle conseguenze imprevedibili. Perché il centrosinistra e
il centrodestra si allinearono, intorno al 29%. Mentre il M5s raggiunse
il 25%. Ne emerse un paesaggio incerto e instabile. Che segnò la storia
politica seguente. Fino ad oggi. Anche se molte altre cose sono
successe, in seguito. Tuttavia, alcune indicazioni suggerite da quegli
eventi restano valide. È per questa ragione che Salvini, vincitore
annunciato, ha assunto un atteggiamento prudente. Tanto più dopo che
Salvini stesso, in un recente e affollato comizio a Sanremo, ha
paragonato il voto europeo a un referendum sulla Lega. Cioè, su se
stesso. Difficile non evocare il precedente di Renzi, che trasformò un
"referendum costituzionale" in un "referendum personale". Con esiti
ir-reparabili. Per il suo PdR.
Ma la questione vera è che la partita
elettorale è ancora, in gran parte, da giocare. Perché, se una larga
parte degli elettori è ancora incerta e deciderà come e chi votare
nell’ultima settimana, l’esito del voto è ancora da decidere.
D’altronde, gli "indecisi", in occasione delle elezioni europee, sono di
più, rispetto alle politiche. E attraversano tutti gli elettorati. In
particolare, a sinistra e a centrosinistra. Mentre, sul piano sociale,
l’incertezza pervade maggiormente i settori più "periferici". Le
casalinghe, i pensionati, gli operai. Le donne, più degli uomini. Così, è
probabile che, per intercettare il voto last minute, dell’ultimo
minuto, si assista a una campagna last minute. Soprattutto: in
televisione. Il "mezzo" di comunicazione maggiormente seguito dai
settori sociali più incerti. In quanto contribuisce a orientare la
discussione e i dialoghi nelle cerchie interpersonali. In famiglia e fra
gli amici. L’ambito più influente sulle scelte politiche. Così è lecito
attendersi giorni di spettacolo pre-elettorale. "In attesa di
risultati" che potrebbero "risultare in-attesi". Perché se (una) gran
parte degli elettori non ha ancora deciso, allora tutto può ancora
succedere.
Il Fatto 20.5.19
Il Veneto di Basaglia “emargina” i malati
di Chiara Daina
La
Regione Veneto, che diede i natali Franco Basaglia, padre della legge
180 che impose la chiusura dei manicomi per evitare l’esclusione sociale
delle persone con disturbi psichiatrici, oggi è promotrice del pronto
soccorso psichiatrico, varato nelle nuove schede ospedaliere. Ossia un
percorso di accoglienza accelerato per l’accesso diretto al reparto di
Psichiatria. La malattia mentale diventa quindi un elemento disturbante?
A esprimere indignazione è la società italiana di psichiatria (sip),
secondo cui il pronto soccorso psichiatrico è un passo indietro della
scienza. “Non solo emargina e discrimina chi soffre di disturbi mentali –
denuncia Lodovico Cappellari, presidente della sezione veneta della sip
-, ma espone anche a rischi clinici. Ogni alterazione del
comportamento, per esempio lo stato confusionale durante una crisi di
panico, o l’agitazione causata da una colica epatica, un infarto, o di
chi è sotto l’effetto della droga, potrebbe essere confusa con una
patologia psichiatrica”. Tra l’altro il paziente psichiatrico si rivolge
al centro di salute mentale in caso di una crisi. Se ha un attacco di
cuore perché non dovrebbe seguire l’iter di visita come gli altri?
Il Fatto 20.5.19
II populismo clericale del Capitano e la tentazione della Dc di destra
In vista del previsto 30 per cento alle Europee, il leader leghista cerca un’identità da partito di massa
di Fabrizio D’Esposito
Sono
due le considerazioni di medio periodo sull’atteso discorso di Matteo
Salvini sabato scorso a Milano, un testo intriso di cattolicesimo
tradizionalista, con citazioni e invocazioni che includono la Madonna e
De Gasperi e culminato con la scontata ostensione del Rosario tra le
dita del Capitano.
Per prima cosa, il comizio salviniano segna la
definitiva mutazione genetica di quel che restava della vecchia Lega.
Ormai il suo è un partito non solo personale ma anche nazionalista e
clericale. Evidentemente le dimensioni della prevista affermazione tra
una settimana alle Europee, ossia il 30 per cento, spingono il ministro
dell’Interno a dare un’identità precisa alla sua leadership sovranista
alla guida di un partito di massa: non la vocazione liberale di Forza
Italia ma la tentazione di una nuova Dc pigliatutto collocata a destra
(un misto di Andreotti, Gedda e Scelba) come intuito dalla Nuova Bussola
Quotidiana, sito online di tendenza anti-bergogliana.
Per farlo, e
qui discende la seconda considerazione, ha dato appunto una torsione
clericale al suo metodo populista. La frase chiave, sabato scorso, è
stata questa, a proposito della xenofobia leghista: “Ditelo al vostro
sacerdote, domani a Messa, che nel Mediterraneo ci sono meno morti e che
stiamo salvando vite”.
È questo il passaggio che illumina più di
tutti l’operazione salviniana, sublimata in piazza dai fischi che hanno
accolto il nome di papa Francesco: radunare le minoranze cattoliche che
si contrappongono al pontificato della misericordia di Bergoglio e
cercare di ripetere lo stesso giochino dialettico fatto contro le élite
politiche di Roma e di Bruxelles. Base, cioè, popolo dei fedeli, contro
le gerarchie del Vaticano ispirate dai valori della solidarietà e
dell’accoglienza.
Un disegno pieno di incognite. Sono pochissimi,
innanzitutto, i vescovi italiani schierati sulle posizioni salviniane. E
poi c’è l’uso strumentale della religione che può al contrario
ricompattare i fedeli attorno al papa. Efficaci, in merito, le parole
del gesuita padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica,
tra gli intellettuali più vicini a Francesco: “Adesso è Cesare a
impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità
dei chierici”.
Il Fatto 20.5.19
I“Salvini in piazza col rosario è solo marketing, non fede”
Da “Famiglia Cristiana” a “Civiltà Cattolica”, la Chiesa critica Matteo l’opportunista
“Salvini in piazza col rosario è solo marketing, non fede”
di Camilla Tagliabue
L’ultima
grana – per Matteo Salvini – sono i grani: del rosario. Dopo averlo
brandito in piazza l’altro ieri a Milano il leader leghista, e
vicepremier e ministro dell’Interno, si è attirato gli strali del mondo
cattolico. Il primo, sui social, è stato padre Antonio Spadaro,
direttore di Civiltà Cattolica: “Rosari e crocifissi sono usati come
segni dal valore politico, ma in maniera inversa: se prima si dava a Dio
quel che invece sarebbe stato bene restasse di Cesare, adesso è Cesare a
impugnare quello che è di Dio”. Suona quasi come un malizioso paradosso
il chierico che chiede al politico più laicità. Ma in tempi di
“sovranismo feticista”, così lo definisce un duro editoriale di
Francesco Anfossi su Famiglia Cristina, il paradosso è la regola, e la
“strumentalizzazione religiosa serve a giustificare la violazione dei
diritti umani”. Salvini però manda bacioni, dicendosi “credente: mio
dovere è salvare vite e svegliare le coscienze. Sono orgoglioso di
testimoniare una civiltà accogliente”, proprio mentre si consuma
l’ennesimo braccio di ferro su una nave Ong e l’Onu ci bacchetta per il
dl Sicurezza.
“Dio è di tutti – ha ricordato il segretario di Stato
vaticano cardinale Pietro Parolin – “Invocare Dio per se stessi è sempre
molto pericoloso”. Gli fa eco il direttore di Famiglia Cristiana don
Antonio Rizzolo: “L’uso assolutamente strumentale dei simboli della fede
è inaccettabile: fa indignare, così come dividere i papi tra buoni e
cattivi”. Eppure, a giudicare dai fischi della piazza milanese, il
malumore contro papa Francesco è diffuso, senza dimenticare lo
striscione “Bergoglio come Badoglio” sventolato qualche giorno fa dai
militanti di Forza Nuova a Roma. “I papi sono sempre stati criticati –
continua Rizzolo –, ma quello che dà fastidio ora è l’attacco personale e
violento.
Questo attacco fa leva su una parte marginale del mondo
cattolico, che però grida molto: le due sponde dell’estremismo si
sposano. Cosa ci distingue come cristiani? Non certamente quello che
dice Salvini. Proprio il Vangelo di ieri, commentato dal Papa al Regina
Coeli, recitava: ‘Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi’.
Questo dice Gesù: se questo non si manifesta concretamente nell’aiuto di
chi è in difficoltà, uno può proclamare tutto il cristianesimo che
vuole, ma di fatto non è cristiano, o comunque è in palese
contraddizione con Cristo”.
Da un lato Salvini sta cercando di darsi
toni da moderato, dall’altro, però, c’è un terreno fertile all’odio,
alla chiusura, alla paura, soprattutto nei confronti dei migranti: “Il
bisogno di sicurezza è reale, specie tra gli anziani che si sentono più
fragili, ma serve la sicurezza vera, non gli slogan, una sicurezza che
tenga conto della salvaguardia delle persone e dell’umanità. Tutto ciò
che fomenta l’odio e la paura – senza dare risposte, ma additando solo
presunti nemici – non fa il bene comune. È quasi un anno ormai che le
risposte serie non arrivano”.
La Chiesa non ha paura di essere
criticata, ancora una volta, per ingerenza politica? “Io sono anche un
cittadino: ho diritto di dire quello che penso, a qualsiasi livello. Ora
vale per Salvini, ma non abbiamo risparmiato altri governi”. Però c’è
il rischio concreto che parte dell’elettorato cattolico si faccia
abbindolare dal leghista armato di rosario… “Sì, certo, questo è
avvenuto anche in passato. Quella di Salvini è chiaramente una strategia
di marketing, perciò dà ancor più fastidio. Se poi fosse uno che ci
crede veramente… Al contrario, sembra una scelta fatta apposta in vista
delle elezioni. E probabilmente avrà effetto: queste cose hanno un
aspetto emotivo forte, di grande suggestione. Spero perlomeno che, oltre
a brandirlo in piazza, lo reciti davvero, il rosario”.
Corriere 20.5.19
ll retroscena
La rabbia del ministro che voleva resistere fino al voto europeo: lasciato solo dagli alleati
di Fiorenza Sarzanini
La strategia del Viminale costretto alla resa
Roma
La strategia elettorale era già stata stabilita: tenere i migranti a
bordo della Sea Watch il più a lungo possibile in vista
dell’appuntamento con le urne. E invece già ieri mattina, quando si è
capito che la procura di Agrigento era pronta a intervenire proprio per
impedire un nuovo «sequestro» degli stranieri, è stata pianificata una
linea alternativa.
E il ministro Matteo Salvini ha deciso di andare
all’attacco, aprendo uno scontro istituzionale proprio con la
magistratura che rischia di coinvolgere altri poteri dello Stato.
Sfidando anche gli alleati di governo del M5S con cui ormai i rapporti
sono di massima tensione. Epilogo di una giornata che lo ha visto solo
contro tutti, ma soprattutto contro i cattolici, dopo l’utilizzo dei
simboli sacri proprio a fini di propaganda. «C’è un silenzio assordante
di Conte e Di Maio a differenza di altre volte in cui si erano prodigati
per trovare una soluzione», sbotta Salvini.
E tanto basta a comprendere che quanto sta accadendo sarà sfruttato proprio in vista del voto di domenica prossima.
La sfida
La
scelta di tenere la linea dura nella convinzione che questo possa
pagare in termini di voti, viene presa sabato sera quando la Sea Watch
forza il blocco navale e fa rotta verso la Sicilia. «Non entreranno, non
sbarcheranno», ripete il ministro dell’Interno convinto che anche
questa volta tutti eseguiranno le sue disposizioni, nessuno cercherà
strade alternative e alla fine pure Palazzo Chigi cercherà una
mediazione.
E invece dalla prefettura di Agrigento arrivano notizie
poco rassicuranti per lui, il procuratore Luigi Patronaggio questa volta
sembra determinato a impedire la permanenza della nave in porto con i
migranti a bordo in attesa che qualche Paese della Ue o qualche
associazione religiosa accetti di ospitare gli stranieri.
Il sequestro
Per
tutto il giorno al Viminale cercano una soluzione alternativa. Salvini
sa bene che la delega alla Guardia di Finanza di salire a bordo per
valutare il sequestro della nave in realtà serve solo a determinare lo
sbarco dei migranti. In serata, quando si capisce che non ci saranno
mediazioni decide di giocare d’anticipo e dirama una nota per far vedere
che è ancor lui a condurre il gioco. Parla di «nave fuorilegge». Invoca
«provvedimenti nei confronti del comandante della nave, dal quale è
lecito attendersi indicazioni precise sui presunti scafisti presenti a
bordo». Tenta di rilanciare affermando che «la difesa dei confini
nazionali e l’ingresso in Italia di un gruppo di sconosciuti dev’essere
una decisione dalla politica (espressione della volontà popolare)».
E
per questo torna a sfidare gli alleati chiedendo già questa mattina «di
approvare il Decreto Sicurezza Bis già nel Consiglio dei ministri, per
rafforzare gli strumenti del governo per combattere i trafficanti di
uomini e chi fa affari con loro». Ma sapendo bene che in vista delle
elezioni di domenica la sua strategia elettorale contro i migranti è
ormai un’arma spuntata.
Repubblica 20.5.18
Riace, indagata anche la candidata di Lucano E lui: "Processo politico"
Spanò verso il rinvio a giudizio per le carte d’identità concesse ai migranti
L’ex sindaco: "Curioso che la notizia arrivi a sette giorni dalle elezioni"
di Alessia Candito
REGGIO
CALABRIA — «Chi vuole sconfiggere la nostra idea di Riace umana e
solidale deve farlo democraticamente, non attraverso la magistratura.
Questo è un processo politico ». Sembra quasi più rassegnato che
arrabbiato, Mimmo Lucano. Ospite a Siracusa di padre Carlo D’Antoni,
parroco impegnato nell’accoglienza migranti, il sindaco sospeso di Riace
è stato raggiunto dalla notizia dell’avviso di conclusione indagini
recapitato alla sua capolista e aspirante sindaco, Maria Spanò, e alla
candidata consigliera Annamaria Maiolo.
L’accusa? Per Spanò, falso in
atto pubblico per aver firmato la carta d’identità di due stranieri, a
detta della procura di Locri privi dei requisiti perché non residenti a
Riace e senza permesso di soggiorno. Contro Maiolo invece, i magistrati
formulano accuse più gravi. Sono convinti che il modello Riace nasconda
un "sistema criminale" basato su un’associazione a delinquere e secondo
loro, Maiolo ne fa parte. «Ma non c’è niente di nuovo. È tutto
nell’inchiesta che il gip per primo ha demolito» chiarisce Lucano. «E
non è neanche una novità che per Maria e le altre siano state chiuse le
indagini» aggiunge. La posizione di Spanò e Maiolo, insieme a quella di
un’altra indagata, Valentina Micelotta, era stata stralciata dal filone
principale dell’inchiesta per una serie di disguidi tecnici, dunque per
loro l’avviso di conclusione indagini è arrivato dopo, circa dieci
giorni fa. «Ma la notizia si è diffusa a sette giorni dalle elezioni —
fa notare Lucano — e a cinque dalla chiusura della campagna elettorale
». Quella che lui non può fare perché ancora in esilio per ordine dei
giudici. Ignorando le indicazioni della Cassazione, il Tribunale del
Riesame gli ha confermato il divieto di dimora perché da «sindaco o
comunque componente a qualsiasi titolo del civico consesso» Lucano
potrebbe «ripetere reati della stessa specie di quelli già compiuti».
Per questo, sulla possibilità di tornare a Riace per la campagna
elettorale, lui si mostra assai scettico. Forse, anticipa, chiederà un
permesso per il comizio finale. Ci aveva già provato l’11 maggio scorso,
per il battesimo della fondazione "È stato il vento" che punta a far
ripartire l’accoglienza senza fondi pubblici, ma i giudici hanno detto
di no.
Il "lavoro" di raccolta voti è finito tutto sulle spalle dei
candidati della sua lista e dell’aspirante sindaco Maria Spanò.
Sull’inchiesta che ha travolto il "modello Riace", lei preferisce non
scendere nei dettagli. «Ci sono aspetti molto curiosi in questa vicenda
giudiziaria che preferisco non commentare» si limita a dire. Non ha
tempo, né voglia di polemiche — fa intendere — c’è lavoro da fare. Il
destino di Riace, forse per la prima volta tanto divisa fra tre
aspiranti sindaco, si gioca su un pugno di voti e lei è impegnata negli
ultimi giorni di campagna elettorale. Ma rivendica la correttezza del
suo operato da assessore. «La firma sulla carta d’identità è solo un
passaggio formale. Non sono certo il sindaco, il vice o l’assessore
autorizzato al rilascio, a svolgere l’istruttoria e fare i controlli
necessari per il rilascio dei documenti» afferma. «E questo — ci tiene
ad aggiungere — non succede solo a Riace. È così in tutti i Comuni». Ha
chiesto di essere ascoltata in procura ed è pronta a spiegare tutto
anche ai magistrati. Sul possibile esito delle elezioni non si
sbilancia, mentre Lucano mette giù chiaro il vero significato della
partita: «Quando il popolo vuole qualcosa, non c’è ostacolo che lo
fermi. La risposta la daranno le urne».
In corsa Nella foto, Maria Spanò, candidata sindaco in una lista vicina a Mimmo Lucano. A Riace si voterà domenica prossima
Corriere 20.5.19
L’imbarazzo di Conte che rallenta l’iter del decreto Sicurezza
Oggi un Consiglio dei ministri in versione «light»
I provvedimenti chiave per ora soltanto annunciati
Il caso giudice di pace
Sul tavolo un disegno di legge che mantiene in servizio i giudici
di pace fino a 68 anni
di Monica Guerzoni
Roma
Il decreto sicurezza bis può attendere. Matteo Salvini ha fretta di
impugnare un’altra arma legislativa contro «scafisti, camorristi,
spacciatori e teppisti da stadio», ma l’energica moral suasion del
Quirinale e la forte preoccupazione dell’Onu frenano l’iter del
provvedimento. «Non vedo l’ora che diventi realtà», spronava ieri
Salvini, mentre il premier Giuseppe Conte cercava una soluzione al rebus
del Consiglio dei ministri.
A sera la riunione attesa da dodici
giorni e prevista per oggi non era stata ancora convocata, tanto che in
tv Salvini forzava la mano: «A me risulta di sì». Il premier, che si è
arrovellato per giorni per sminare il vertice, è stato fino all’ultimo
tentato di rinviare tutto. Finché alle dieci di sera ha dato il via
libera alla convocazione più sofferta del suo mandato. In vista della
bufera post—voto, che potrebbe travolgerlo, Conte punta a muoversi in
sintonia con il Colle e avrebbe volentieri tolto di mezzo il
decreto—bandiera della Lega, senza nemmeno appoggiare i faldoni sul
tavolo. Ma Salvini non gradisce altri «rallentamenti da campagna
elettorale», ha fretta di «andare a lavorare» al Viminale e ha spronato
pubblicamente Conte ribadendo che «il decreto è pronto». Un assaggio
della sua ira, se il Cdm fosse stato rinviato. E così l’avvocato
pugliese si è rassegnato a presiedere un Consiglio che a Palazzo Chigi
chiamano «light», o «vuoto».
La riunione avrà all’ordine del giorno
le nomine e un disegno di legge sui magistrati onorari: un testo che sa
di mancia elettorale perché, dopo svariate proroghe, mantiene in
servizio i giudici di pace fino a 68 anni. Quanto ai due decreti che
spaccano il governo, sicurezza e Famiglia, Conte ha deciso di portarli
in Cdm per un «esame preliminare». Un passaggio formale che consenta a
Salvini e Di Maio gli ultimi spot elettorali, mentre il voto sui
provvedimenti slitterà a dopo il 26 maggio.
La seduta potrebbe
avvenire in due tempi. Nel primo pomeriggio, se il braccio di ferro
sulle nomine e sul riordino del Mef si placa, la ratifica di Biagio
Mazzotta alla Ragioneria generale dello Stato e di Giuseppe Zafarana al
vertice delle Fiamme Gialle, sempre che il generale piacentino riuscirà a
spuntarla su Edoardo Valente. Alle 20, poi, l’esame lampo dei decreti.
Luigi Di Maio, nella tempesta istituzionale sulla nave Sea Watch, ha
fatto a pezzi il testo con cui Salvini vuole punire chi porta in Italia
migranti irregolari. Finché le diplomazie incrociate dei due partiti
hanno trovato una mezza intesa e il capo politico del M5S ha fatto
sapere che «non ci piace, ma non ci opporremo». In cambio il ministro
del Lavoro ottiene che la Lega non ostacoli gli aiuti alla Famiglia,
anche se il Quirinale non vuole un altro decreto di cui non vede
l’urgenza.
Conte intanto ha annullato la missione in Ucraina e oggi
sarà nella più vicina Umbria, in visita a sorpresa nelle zone
terremotate. Il premier prova a tenersi al riparo dalla rissa perpetua
tra i due leader, non vuole farsi tirare nella mischia e aspetta il
responso delle urne, fiducioso che il 27 maggio il governo sarà ancora
in piedi. Se la Lega vincerà senza trionfare e il M5S resterà sopra al
20%, è il ragionamento condiviso con i collaboratori, la nave
dell’esecutivo riprenderà il viaggio. «Con un risultato equilibrato
Salvini non potrà battere cassa — è l’avviso dei pentastellati che
frequentano Palazzo Chigi — In Parlamento abbiamo la maggioranza e
chiedere un rimpasto sarebbe una forzatura».
La campagna del M5S per
stoppare le ambizioni del «Capitano» è pronta: «Davvero la Lega farebbe
cadere il governo per le poltrone?». Se per restare in piedi ci fosse in
gioco un sottosegretario o poco più, i 5 Stelle non si metterebbero di
traverso. Ma guai se a Salvini, forte del consenso di elezioni europee e
non politiche, venisse la tentazione di ribaltare il tavolo. «Si
assumerebbe la responsabilità di far cadere il governo», va ripetendo
Conte. Per i 5 Stelle il ministro dell’Interno «infiamma lo scontro,
attacca la magistratura, scatena fischi contro il Papa, provoca
Conte...». Ma ultimamente, raccontano, «qualche frizione» si avverte
anche tra Di Maio e il premier.
Repubblica 20.5.19
La polemica
La farsa umbra del Pd
di Claudio Tito
Più che un dramma sembra una farsa. Un carosello vergognoso. Che si sta chiudendo con un tradimento.
Perché
la scelta compiuta sabato da Catiuscia Marini non è niente altro che il
tradimento di un patto. Quello che tutti coloro che assumono un
incarico istituzionale stringono con i propri elettori e con tutti i
cittadini. Un impegno che, ovviamente, si fonda sulla legge. Ma poggia
anche su una dimensione che va oltre la mera formalità legale. Perché la
politica è una miscela di fattori amalgamati dal rapporto di fiducia.
La stessa governatrice umbra, appena un mese fa, annunciando le
dimissioni, aveva detto: «Le istituzioni vengono prima delle persone».
Cosa è cambiato in un mese? Cosa può giustificare il tradimento di quel
patto che lei stessa aveva elevato a guida dei suoi comportamenti? La
risposta è semplice: nulla. Se non l’interesse personale.
Magari il
tentativo di confondere la propria situazione con quella che si
determinerà nel Paese dopo le elezioni europee. Sperare nella crisi di
governo per far dimenticare la crisi umbra. Ma sarebbe una banale
mistificazione, un espediente davvero di corto respiro. Questo
dietrofront resta invece una lesione al patto che appunto la politica
stringe con i cittadini. Chi chiede e ottiene i voti ha una
responsabilità superiore. Ha il dovere di assumere atteggiamenti e
comportamenti ulteriori. E in questo caso prendere atto anche che esiste
un distacco, sempre più largo, tra il sentimento popolare e la
condizione soggettiva della governatrice. La sovrapposizione tra carica
istituzionale e ruolo personale non è più ammissibile. Non lo è da
tempo. Non lo è anche in questa fattispecie. Nella quale sempre più si
sta evidenziando il disfacimento di un sistema regionale che tenta un
ultimo e irresponsabile colpo di coda. Il germe dell’autoperpetuazione,
però, non è più tollerato. Non capirlo, dopo tutto quello che è accaduto
negli ultimi anni, significa semplicemente disinteressarsi del bene
comune. Poi c’è il secondo aspetto di questa vicenda. Il rapporto con il
suo partito. Che, evidentemente, è stato lacerato. Mostra soprattutto
che il Pd non è più vissuto come una comunità. Compiere, del resto, una
scelta del genere a una settimana dal voto europeo e da quello in molti
enti locali — compresa Perugia — non può che rendere insignificante
l’appartenenza partitica. O marcare la volontà di indebolirne la
leadership. Nello stesso tempo emerge, in particolare a livello locale,
la perseveranza con cui scattano ancora certi tic e alcuni riflessi
condizionati dal passato. Così come affiora per il centrosinistra il
bisogno di rinnovarsi pure in periferia se vuole provare a ricandidarsi
alla guida del Paese o almeno a ritrovare la capacità di interpretarne
gli umori e le esigenze. E sebbene siano spiccati di recente esempi
contrari e negativi — da Raggi a Appendino fino a Siri — di
rappresentanti delle istituzioni che si sono pervicacemente attaccati
alla poltrona, Marini dovrebbe avere un sussulto e fare subito quello
che aveva promesso appena un mese fa: dimettersi.
Il Fatto 20.5.19
Lula: “Da questa cella combatto per il mio Brasile”
L’ex presidente, Luiz Inacio Lula da Silva, in carcere dall’aprile 2018
di Domenico De Masi
Dalle
16 alle 17 del 25 aprile scorso il Dipartimento della Polizia Federale
del Paranà ha permesso a me e a mia moglie di visitare il presidente
Luiz Inácio Lula da Silva nel carcere di Curitiba, dove è detenuto dal 7
aprile 2018 e dove deve scontare altri sette anni di prigionia. Siamo
amici di Lula dal 2003 quando, in sua presenza, Oscar Niemeyer ci
consegnò ufficialmente il progetto dell’Auditorium di Ravello. Prima di
recarci nella prigione abbiamo pranzato con gli avvocati che lo
difendono gratuitamente fin dal primo grado del processo. Ci hanno
aggiornato sulla situazione penale del presidente, sullo stato di
avanzamento del ricorso al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni
Unite, sulla procedura che avremmo dovuto rispettare nel carcere prima,
durante e dopo la visita. In effetti non si tratta di un carcere vero e
proprio, ma di una caserma della polizia Federale inaugurata – ironia
della sorte – proprio da Lula nel 2007, quando era presidente, e ora
usata come carcere speciale per i principali condannati nell’ambito
dell’operazione Lava Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite,
condotta dal giudice Moro, poi gratificato dal presidente Jair Bolsonaro
con ben due ministeri riuniti in un super-ministero della Giustizia e
della Sicurezza pubblica.
Per arrivare alla cella di Lula siamo stati
presi in consegna da un militare giovane e gentile che sovrintende a
tutta la giornata del prigioniero; siamo stati sottoposti a un’attenta
ma cortese perquisizione da parte di due poliziotte; abbiamo salito le
scale che portano al piano superiore e siamo passati accanto a un
microscopico cortile con alti muri di cinta che lasciano intravedere in
alto solo un quadrato di cielo: è il luogo dove Lula, se vuole, può
trascorrere l’ora d’aria quotidiana. Un piccolo corridoio porta alla
cella del prigioniero. Davanti alla porta due guardie vigilano notte e
giorno le telecamere a circuito chiuso .
Lula ci accoglie con
visibile affetto. Indossa una tuta, ci fa sedere a un tavolino di
plastica con quattro sedie. Insieme a un letto che mi colpisce per la
sua piccolezza, a uno scaffale, a un armadio, a un comodino, a un
televisore (abilitato solo a tre canali nazionali) e a una cyclette (su
cui fa sette chilometri al giorno per tenersi allenato), è tutto ciò che
arreda una stanza di circa quattro metri per cinque. Qui Lula è
condannato a stare in totale isolamento 24 ore su 24. Il lunedì, se
vuole, può ricevere un cappellano; il giovedì, dalle 16 alle 17, può
ricevere una o al massimo due persone, dietro permesso della direzione
della prigione. L’unico conforto gli viene dalle voci che gli arrivano
dall’esterno del carcere, dove un presidio di un centinaio di compagni
convenuti da tutto il Brasile è attendato a turno, notte e giorno, e gli
augura a gran voce il buon giorno, la buona notte, la libertà.
Lula
non è un intellettuale e quindi la lettura gli fa compagnia meno di
quanta ne farebbe a me. Lui ha fatto studi sgangherati, anche se è il
presidente del Brasile che ha creato il maggior numero di università
disseminate in tutto il paese. Mi dice: “Mia madre era analfabeta e io
sono ignorante. Ma mi chiedo come fanno tanti politici e tanti
magistrati, pure essendo istruiti, a commettere errori e ingiustizie
così gravi”. E poi aggiunge: “Sono ignorante, eppure avevo previsto la
crisi prima di Tony Blair, prima di Putin, prima di Obama. Soprattutto
avevo previsto che il prezzo maggiore l’avrebbero pagato i lavoratori”.
La figlia gli ha fatto avere un termos di caffè. Ce ne offre con la
fugace felicità di poterci accogliere quasi come se stessimo a casa sua.
Parliamo dell’Italia: ricorda i suoi incontri ufficiali con Craxi,
Berlinguer e Andreotti; i suoi seminari con i sindacalisti della Cgil e
della Cisl. Si rammarica di essere stato solo una volta a Napoli: per
assistere a una partita di Maradona. Sogna di tornare a visitare la
toscana, ma è consapevole che il sogno non si avvererà. “Il Pci,
tramutandosi man mano in Pd, ha dimenticato il popolo”, dice con la sua
solita, fulminante lucidità.
Si accorge che io guardo la cella con
malcelato sgomento e mi dice: “Non preoccuparti: sono vissuto per anni,
insieme a mia madre e ai miei sette fratelli, in una stanza molto
peggiore di questa, nel retrobottega di un bar di San Paolo”. Ha fatto
il lustrascarpe, il venditore ambulante, l’operaio in una fabbrica
metalmeccanica dove, a 19 anni, ha lasciato un dito sotto una pressa.
Mi
chiede cosa penso dell’attuale situazione politica nell’Occidente e
dello stato di salute della democrazia. Gli dico che sto leggendo
Postdemocrazia di Colin Crouch e mi è sempre più chiaro perché il
neo-liberismo non poteva non fare piazza pulita di tutte le grandi
riforme che lui ha realizzato durante gli otto anni della sua
presidenza: Bolsa Família, Fome zero, Programa de Aceleração do
Crescimento, difesa dell’Amazzonia, promozione dell’agricoltura
familiare, Brasil Sem Miseria, aumento della scolarizzazione, tutti i
programmi di welfare grazie ai quali 40 milioni di brasiliani hanno
scalato i gradini sociali e il 54% ha raggiunto la classe media.
A
ripercorrerlo oggi con la memoria, sembrano miracolosi gli anni in cui
tutto questo si potette fare ed è lampante il motivo per cui il
capitalismo non poteva tollerarlo. Non a caso Warren Buffet, il quarto
uomo più ricco del mondo, ha detto senza ritegno: “La lotta di classe
esiste, siamo noi ricchi che la stiamo conducendo, e la stiamo
vincendo”.
Lula è in gran forma, lucido e combattivo come non mai,
per nulla fiaccato da un anno di isolamento carcerario. È consapevole
che, in America e in Europa, la sinistra non uscirà alla svelta dalla
situazione in cui si è cacciata e che ora ha davanti a sé una lunga
marcia da compiere. Anche i processi, le condanne, l’odio scatenato
contro il Partito dei Lavoratori (Pt), le colpe vere che il Pt ha
commesso e quelle che gli sono state cucite addosso dai mass media
implacabili e concentrici, sono come un grande seminario, una grande
auto-analisi alla quale la sinistra è costretta e dalla quale uscirà
migliorata.
Parliamo dei social media e del ruolo che essi hanno
svolto nelle ultime elezioni brasiliane: Bolsonaro ha 7 milioni di
follower su Facebook e 3,5 su Linkedin, oltre ad avere alle spalle la
guida e la protezione di Bennon. Mi ricorda che qualche mese fa è morto
un suo nipotino e il figlio di Bolsonaro ha esultato twittando che si
trattava di una giusta punizione divina. Mi dice pure che quando sua
moglie, morta di cancro, andò a farsi la prima tac, il referto apparve
su Facebook prima di essere comunicato a lei e a lui. A suo avviso,
comunque, il rapporto fisico, diretto, con il popolo, resta assi più
umano, caldo, convincente di quello via internet. Insieme ci chiediamo –
senza saper dare una risposta – come mai, in tutto il mondo, la destra
usa internet con maggiore frequenza e maggiore efficacia della sinistra.
Comunque la destra indulge alle fake news con una spregiudicatezza
immorale che sarebbe impraticabile da parte di una sinistra coerente con
i propri valori.
Gli faccio notare che prima le bugie erano
monopolio dei potenti – direttori di giornali, capi di Stato, ecc. –
mentre ora, grazie a internet, sono alla portata di tutti: internet ha
democratizzato la falsità. Ci fa notare che, nella società
postindustriale, le dittature si appropriano del potere con modi e
tecniche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati nella società
rurale e in quella industriale. Oggi, per fare un golpe, non occorrono
più i manganelli e i carri armati: basta l’azione combinata di quattro
strumenti: i media, la magistratura, i social media e le libere
elezioni. Con i media si manipolano le masse demonizzando gli avversari e
rendendone ovvia e attesa l’eliminazione; con la magistratura li si
mette in galera eliminandoli dalla competizione elettorale; con i social
media si vincono le elezioni; con le elezioni si assicura un alibi
democratico alla dittatura.
In questo modo il Brasile è passato in
soli tre anni da una democrazia compiuta a una post-democrazia in cui il
presidente Bolsonaro, il vice-presidente e sette ministri sono
militari. E, per colmo del paradosso, i militari, rispetto a Bolsonaro a
suoi tre figli energumeni che lo affiancano notte e giorno, appaiono
come altrettanti saggi moderati.
Lula ci parla con calore e affetto.
Soprattutto con la sottintesa consapevolezza della propria qualità di
leader e del proprio ruolo di guida morale. Sa che in carcere sta
conducendo la sua ultima battaglia, quella per il riconoscimento della
propria innocenza; sa che da questa cella angusta deve riuscire a
smascherare il “golpe” realizzato contro di lui, contro il Pt e contro i
lavoratori tutti, dalla destra brasiliana in combutta con gli Stati
Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto è cosciente che in questi pochi
metri quadri si compie un piccolo pezzo di storia sua personale e del
Brasile.
Un’ora passa presto. Il carceriere ci ricorda che i 60
minuti sono scaduti. Lula ci lascia con tre viatici: sua madre gli ha
sempre raccomandato la dignità e lui non la baratterà mai con la
libertà. Ora ha 72 anni di età e ha da scontare altri sette anni di
pena. Gli piacerebbe vivere in casa con i figli e i nipotini, ma non
accetterebbe mai gli arresti domiciliari o il braccialetto elettronico.
Si batterà fino alla fine per il riconoscimento della propria innocenza
ma, se non riuscirà a dimostrarla, morirà in questa stanza,
dignitosamente.
Sulla porta, prima che noi lo lasciamo nella sua
solitudine coatta, tiene a dirci ancora due o tre cose: “Se, fuori di
qui, parlerete di questo nostro incontro, riferitelo in piena libertà,
con le parole che vi suggerisce il cuore. Però intrattenetevi un poco
con i compagni che presidiano la prigione per farmi sentire il loro
affetto, riferite loro la mia gratitudine e ditegli, per conto mio, che
la lotta è di lunga durata e che la dignità non può essere barattata con
nulla”.
Strana storia questa del Brasile, paese grande e
incomparabile, dove però Bolsonaro vive nel palazzo presidenziale di
Brasilia e Lula vive in una cella di pochi metri quadrati.
Repubblica 20.5.19
Il racconto
L’amico che tradì Baudelaire
Quando
il poeta implorò Sainte-Beuve di parlare delle sue opere E quando il
critico ebbe paura di compromettersi Ecco perché, per i grandi artisti,
la gloria è sempre postuma
di Pietro Citati
In privato, ma solo in privato, gli scriveva: "Avete voluto strappare ai demoni notturni i loro segreti
Date l’impressione di esservi divertito
Eppure avete dovuto soffrire molto, caro figliolo"
Charles
Baudelaire è stato il più grande saggista e critico del Diciannovesimo
secolo: forse di tutti i tempi, quando escludiamo l’autore del Sublime e
Montaigne. Se rileggiamo i suoi Saloni , Il pittore della vita moderna ,
i testi su Poe, Victor Hugo, Balzac, Théophile Gautier, Delacroix, De
Quincey, Wagner e L’essenza del riso (a cura di Evaldo Violo, Unicopli),
rimaniamo sconvolti, travolti; e persuasi. Baudelaire aveva il dono
supremo del critico: il senso della totalità delle cose — l’amore per i
palazzi e le capanne, la tenerezza e la crudeltà, il vicino e il
lontano, il vegetale e l’architettura, il dolce e l’orribile, il
visibile e l’invisibile. Possedeva un fortissimo senso analogico, che
scopriva i rapporti tra i colori, i suoni e i profumi, e l’immensa
tastiera delle corrispondenze: era convinto che Dio avesse proferito il
mondo come una complessa ed indivisibile totalità. Sentiva i colori,
specialmente il rosso e il verde, che si attraevano a vicenda: le
vibrazioni e le palpitazioni della natura; immaginava un essere vasto,
immenso, complicato ed euritmico, che soffriva tutti i sospiri e le
ambizioni umane.
Aveva il senso della costruzione e della
concentrazione, ma anche quello della vaporizzazione delle cose: il dono
di comprendere l’abisso ma anche la realtà quotidiana, la società e la
politica; il dono teologico, che trionfa nel saggio sul riso; un’immensa
immaginazione creatrice, la «regina di tutte le facoltà», la quale
prova che l’uomo è fatto a somiglianza di Dio. Parlava sempre e soltanto
di se stesso, ma ogni sua osservazione personale era, insieme, una
precisissima annotazione sugli altri: sapeva che tutti i grandi poeti
diventano naturalmente, e fatalmente, critici. Nelle Fusées , scrisse:
«Ho trovato la definizione del Bello — del mio bello. È qualcosa di
ardente e di triste, qualcosa di un po’ vago, che lascia spazio alla
congettura… Una testa seducente e bella, una testa di donna, fa sognare
insieme di voluttà e di tristezza: comporta un’idea di malinconia, di
stanchezza, persino di sazietà, — ma anche un’idea contraria, cioè un
ardore, un desiderio di vivere, associata con un’amarezza che rifluisce,
come se venisse dalla privazione e dalla disperazione». Nella sua
poesia e nella sua critica, c’era dovunque il mistero: il mistero
rivelato; o incapace di rivelarsi. Il segno supremo erano, forse, le
nuvole: le nuvole, queste forme fantastiche e luminose, queste tenebre
caotiche, queste immensità verdi e rosa, sospese le une alle altre,
queste fornaci aperte, questi firmamenti di raso nero o viola, questi
orizzonti dolorosi o ruscellanti di metallo fuso, queste profondità,
questi splendori, che salivano al cervello come bevande inebrianti, o
come l’eloquenza dell’oppio. Baudelaire amava la molle atmosfera della
donna: l’odore delle sue mani, del suo seno, dei suoi ginocchi, della
sua capigliatura, dei suoi vestiti flessuosi e ondeggianti,
Dulce balneum suavibus Unguentatum odoribus ;
atmosfera
che dona una delicatezza di epidermide e una distinzione di accenti,
una specie di androginia, senza le quali il genio più virile resta
incompleto. Quali fossero le sue ispirazioni, Baudelaire aspirava a
«quelle ammirevoli ore, , dove il cielo di un azzurro più trasparente
sprofonda come in un abisso più infinito, dove i suoni rintoccano
musicalmente, dove i colori parlano, dove i profumi raccontano mondi di
idee».
La bellezza riempiva la vita parigina di ogni giorno, sebbene
le altre persone non la scorgessero. Solo Balzac — l’uomo dalle imprese
iperboliche e fantasmagoriche, il grande cacciatore di sogni, il
personaggio più comico, interessante e vanitoso della Comédie humaine ,
questo grosso bambino gonfio di genio e di vanità — l’aveva compreso.
Baudelaire lo adorava. Nel saggio su Théophile Gautier, gli dedicò una
pagina meravigliosa — Balzac che «rivestiva di luce e di porpora la pura
trivialità»: una pagina bella come i grandi scorci critici di Marcel
Proust nel Contre Sainte-Beuve .
Di recente l’editore Aragno ha
pubblicato le lettere tra Baudelaire e Sainte-Beuve: Voi avete preso
l’inferno (a cura di Massimo Carloni). Con le Poesie e pensieri di
Joseph Delorme Sainte-Beuve aveva esercitato una certa influenza su
Baudelaire: entrambi lo sapevano. Baudelaire scrisse che «l’intelligenza
di Sainte- Beuve era piena di salute, una salute erculea, e al tempo
stesso così fine e femminea». Quando vide una fotografia di
Sainte-Beuve, Baudelaire gli scrisse: «Siete proprio voi, tale e quale,
con quell’aria affabile, ironica, e un po’ assorta. Avete, più che mai,
l’aria di un confessore e di un ostetrico di anime»: come Socrate.
Baudelaire
chiese aiuto a Sainte- Beuve. Sperava che scrivesse un articolo sulle
sue traduzioni da Poe e sulle Fleurs du mal , i Paradisi artificiali e i
Piccoli poemi in prosa . Sperava che lo aiutasse ad entrare
all’Académie française. Quando fu a Parigi andò a rue Montparnasse, dove
Sainte-Beuve abitava, portandogli del panpepato: «Non c’era niente di
meglio che bagnarlo nel vino alla fine di pranzo». Il panpepato inglese,
molto denso e nero, fitto e senza pori; come se il panpepato fosse la
chiave dell’universo. «Scrivete su di me se ne avete il tempo», disse a
Sainte- Beuve, dipendeva dal suo articolo: «Ho bisogno di voi come di
una doccia». Sainte-Beuve sapeva che Baudelaire aveva molto talento,
sebbene non comprendesse che era il più grande poeta moderno di ogni
lingua. «Il poeta Baudelaire aveva impiegato anni ad estrarre dalla
materia di ogni fiore un succo velenoso, e persino, bisogna dirlo, assai
gradevolmente velenoso». E poi: «Avete voluto strappare ai demoni
notturni i loro segreti. Facendolo con sottigliezza, con un talento
curioso e un abbandono quasi prezioso nell’espressione, imperlando il
dettaglio, petrarcheggiando sull’orribile: date l’impressione di esservi
divertito; eppure avete sofferto, vi siete logorato a portare in giro i
vostri incubi, i vostri tormenti morali; avete dovuto soffrire molto,
caro figliolo! » (Sainte-Beuve era sempre paterno con quello strano
poeta).
Il 20 gennaio 1862, aggiunse una pagina famosa: «Baudelaire
ha trovato il modo di costruire, all’estremità di una lingua di terra
ritenuta inabitabile e oltre i confini del romanticismo conosciuto, un
chiosco bizzarro, molto ornato e ricercato, ma civettuolo e misterioso,
dove si legge Edgar Poe, ci si inebria con l’hascisc per poi discuterne,
si assume l’oppio e mille altre droghe abominevoli in tazze di
porcellana rifinita. Questo chiosco singolare, fatto di intarsi, di
un’originalità concertata e composita, che da qualche tempo attira gli
sguardi alla punta estrema del Kamchatka romantico, io lo chiamo la
folie Baudelaire».
Come al solito, Sainte-Beuve era felice e vanitoso
dei propri bon mots. Baudelaire fu felice di quelle parole, come se
vivesse davvero in un Kamchatka, e un libro immenso come Le fleurs du
mal fosse soltanto una strana e divertente folie. Confessava che «questo
Sainte-Beuve è il mio vizio». Ma Sainte-Beuve non fece nulla: non aiutò
Baudelaire ad entrare all’Académie (anzi, lo sconsigliò di
presentarsi), e non scrisse nessun articolo su nessuno dei libri di
Baudelaire. Aveva paura di esprimersi parlando di un poeta così
originale. Temeva di compromettersi.
Ne Il mio cuore messo a nudo,
Baudelaire scrisse queste righe commoventissime: «Fare tutte le mattine
la mia preghiera a Dio, serbatoio di forza e di ogni giustizia, a mio
padre, a Mariette e a Poe, come intercessori; pregarli di comunicarmi la
forza necessaria per compiere tutti i miei doveri... Lavorare tutta la
giornata, o almeno quanto le mie forze mi permettono; dire tutte le sere
una nuova preghiera per domandare a Dio la vita e la forza per mia
madre e per me; obbedire ai principi della più stretta sobrietà, il
primo dei quali è la soppressione di tutti gli eccitanti ». Dubito
davvero che abbia abolito "tutti gli eccitanti".
Si avviò a morire.
Aveva i capelli bianchi, era invecchiato precocemente, sentiva passare
sul capo «il vento dell’ala dell’imbecillità», soffriva di vertigini,
era consumato dalle nevralgie. A Bruxelles, dove giunse nell’aprile
1864, rimase a letto, sommerso dai farmaci. Il lato destro del corpo, le
braccia e le gambe erano insensibili, non riusciva a parlare, o
confondeva le parole, ne pronunciava soltanto pochissime, ah non — non
cré nom, cré nom (cioè «sacro nome di dio»). Un giorno si guardò allo
specchio che un’amica gli porgeva: non si riconobbe, e si salutò con
deferenza. Quando non riusciva a farsi capire diventava violento, oppure
dal letto ascoltava con attenzione gli amici che non comprendevano fino
a che punto la sua intelligenza fosse intaccata: pensavano che, anche
se fosse guarito, sarebbe stato ridotto a una pura esistenza animale.
Dopo
una lunga agonia, Baudelaire domandò i sacramenti, e il 31 agosto 1867
morì tra le braccia della madre. Lo stesso giorno la Revue nationale
cominciò a pubblicare l’ultima serie dei Piccoli poemi in prosa. Venne
sepolto al cimitero Montparnasse, accanto a un uomo che odiava, il
generale Aupick, secondo marito della madre. Negli ultimi due anni di
vita Sainte-Beuve non scrisse nulla su Baudelaire: raccolse soltanto,
sotto il titolo Dossier Baudelaire, gli articoli e i necrologi usciti
sulla stampa. Sebbene si gloriasse di scoprire le "terre nuove", non
comprese, e cercò di nascondere, «quell’immensa Siberia, calda e
popolosa» che Baudelaire aveva creato.
https://spogli.blogspot.com/2019/05/corriere-20.html