il manifesto 1.5.19
25 aprile: Caro Presidente, servirebbe una parola chiara
L'intervento. Penso che oggi, più di quanto non fosse nel 1994, sarebbe necessaria un’iniziativa assolutamente chiara e decisiva, per finirla con questo miagolio inutile, se non peggio. Proporrei che il giornale si facesse promotore di un appello al Presidente della Repubblica e al capo del governo perché intervengano in modo formale sulla situazione e dicano con chiarezza che le parole di Salvini sono inaccettabili
di Rossana Rossanda
Non dimenticheremo facilmente questo 25 aprile nel quale abbiamo assistito a un rigurgito di presenze fasciste, culminate con la cerimonia di Predappio, nonché con la decisione di un vice primo ministro Salvini a non assistere a quello che ha definito un derby tra fascisti e nazisti (intendendo assimilare i comunisti al nazismo).
Mi sono trovata definita nazista dunque anche io, regolarmente iscritta fra i partigiani di Como. Non avrei mi creduto che arrivassimo a questo punto. Il bravo Zingaretti non ha mosso ciglio.
Ma non possiamo dimenticare che questo sfogo ripugnante dei fascisti di ogni tipo è stato preparato da diversi mesi di presenze fasciste, alle quali gli antifascisti o cosiddetti tali hanno perlopiù obiettato, con la più grande mitezza che: “Beh, non esageriamo, non è il fascismo, non perdiamo la testa”.
Non sono mai stata d’accordo con questo atteggiamento, che è proprio anche di chi dovrebbe essere il garante della vita politica e del governo, i Mattarella e i Conte.
Non a caso mi aveva molto interessato il libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, perché indica appunto il percorso, pieno di se e di ma, che ha facilitato l’avvento del fascismo in Italia. Da allora in poi ci sono state nientemeno che la guerra e la resistenza, ma il vizio è rimasto, tanto più che è ormai in uso dichiarare che tutto sommato i veri mascalzoni sono stati solo i nazisti, gli italiani continuando a essere “brava gente”, che in quale modo sarebbero stati trascinati sia in guerra sia nelle leggi razziali sia nei vari aspetti del totalitarismo più feroce.
Penso che oggi, più di quanto non fosse nel 1994, sarebbe necessaria un’iniziativa assolutamente chiara e decisiva, per finirla con questo miagolio inutile, se non peggio. Proporrei che il giornale si facesse promotore di un appello al Presidente della Repubblica e al capo del governo perché intervengano in modo formale sulla situazione e dicano con chiarezza che le parole di Salvini sono inaccettabili.
Forse sarebbe anche l’ora di mettere in chiaro che va rifiutata la tendenza delle nostre “anime belle e democratiche”, secondo le quali una destra anche estrema ma non dichiaratamente fascista sia una cosa ottima, e dovrebbe anzi essere incoraggiata di più in Italia. Come se tutti gli studi che sono stati fatti sulle profonde radici europee del fascismo, compreso Eco, non avessero più senso. Io avevo 14 anni al momento delle leggi razziali e ricordo molto bene come è andata. Non vorrei rivivere la situazione né affidarmi all’andare all’altro mondo per evitarla.
il manifesto 30.4.19
La sinistra e le dimissioni dei filosofi dal secolo dei diritti
Sinistra. Le Dichiarazioni universali, le Costituzioni post-belliche, le Carte europee dei diritti. La ragion pratica, almeno riconosciuta sulla carta, è stata poi abbandonata
di Roberta De Monticelli
II Che un filosofo si metta a ragionare di politica, per di più in termini di vasti orizzonti contemporanei, e sollevando problemi effettivi dell’oggi, è solo ammirevole: tanto più se il problema principale che affronta è precisamente la mancanza di idee, oltre che di ideali, della sinistra di oggi, italiana ed europea. Grazie dunque a Maurizio Ferraris di averci provato (Dovrebbero essere i Big Data a pagare il Welfare del futuro, il manifesto” 19/04). Aiuterà, il suo consiglio?
Credo che Ferraris abbia soprattutto inteso lanciare un’intelligente provocazione a pensare. Credo si possa essere d’accordo sulla tesi che la sinistra è (almeno in parte) in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti. Anche se certamente non una volta per tutte: e per amor di verità bisognerebbe aggiungere che il welfare oggi soffre terribilmente, a partire dalla sanità pubblica, che la scuola pubblica italiana è in via di smantellamento in ciò che aveva di buono, che la ricerca in Italia è finanziata sotto qualunque livello di decenza, che in troppi dei posti in cui un po’ di lavoro è rimasto, è proprio (anche se non solo) la sinistra (di governo e amministrazioni locali) che ha accettato di farlo pagare a tutti in termini di devastazione dell’ambiente e della salute; che al problema dell’integrazione dei migranti la sinistra non ha dedicato lo straccio di una proposta nazionale, e infine che evasione, corruzione e mafie gravano sul paese come e più di sempre, con qualche aiutino in termini di modica quantità di truffa fiscale, e se non è un obiettivo di “sinistra” quello di estirpare questi tre cancri allora non ha senso dire che i pochi elettori della cosiddetta élite rimasti a votare a sinistra lo fanno per ragioni etiche. Il che invece è verissimo.
Ma a questo bisogna aggiungere che – come i fatti evocati dovrebbero provare – i fini stessi in funzione dei quali, anche, il welfare doveva esistere, e cioè l’accesso dei più all’istruzione, alla consapevolezza dei propri doveri e diritti di cittadino, direi addirittura all’età adulta e alla responsabilità morale e civile, oltre che a una vita più libera e migliore, non sembrano affatto conseguiti. E del resto perché e come avrebbero dovuto esserlo, se prima di tutto hanno smesso di crederci – a proposito di etica – quei pochi o molti per i quali “sinistra” era il nome politico di un nucleo umanistico, universalistico e cosmopolitico di pensiero, cresciuto insieme con la modernità nell’età dei diritti e di tutte le loro generazioni – civili, politici, sociali, culturali, che erano andati a furia di battaglie e di tragedie a formare la cosa di tutti, la res publica che valeva la pena di difendere.
E allora, veniamo al dunque. La sinistra non ha perso gli ideali perché è rimasta a cercarli nei campi e nelle officine. Li ha persi perché quelli che di idealità si occupavano – cioè i filosofi, comunque vogliate chiamarli: intellettuali, scrittori, e poi la minoranza pigra e grigia degli accademici, noi insomma – hanno smesso di occuparsene. Maurizio Ferraris stesso ne è testimone, sia nella veste giovanile che in quella matura del suo postmodernismo. Ma abbiamo smesso proprio nel momento in cui la migliore eredità dei Lumi, e insieme la dolorosa cognizione dei valori sofferta nella prima metà del secolo scorso, fra guerre e totalitarismi, si fondevano nella ragion pratica incarnata dei grandi documenti normativi: le Dichiarazioni universali, le costituzioni postbelliche, le Carte europee dei diritti. I filosofi diedero le dimissioni dalla ragione pratica nel momento stesso in cui i migliori fra i nostri padri e madri erano riusciti miracolosamente a incarnarla in embrioni di istituzioni e norme, a provarla, per la prima volta nella storia, universalmente riconosciuta, almeno sulla carta.
Ma la lettera è morta, senza lo spirito. E lo spirito è evaporato quasi subito. Sono rimasti un pugno, fra i filosofi, gli spiriti liberi che non si fecero incantare dai cupi, feroci miti della guerra fredda: i Camus contro i Sartre, i Milosz contro i Lukacs, gli Spinelli e gli Olivetti contro i Banfi e i Kojève… e poi? Poi i francesi sdoganarono il Pastore dell’Essere, quello che prima aveva affidato ai carri armati di Hitler la guerra dell’Essere conto l’ente, e poi aveva fatto spallucce ai campi di sterminio (tanto gli ebrei, questi paradigmi della modernità capitalistico-finanziaria e sradicatrice, “si erano sterminati da soli”).
Con la modernità illuminista ce l’avevano anche gli eredi di Hegel e Marx (l’Illuminismo conduce ai campi di sterminio, copyright Horkheimer). E da questo felice incontro della più nera Selva nera con la dialettica hegeliana nacque il canone della filosofia cosiddetta continentale, quella che per cinquant’anni abbiamo continuato a insegnare perfino nelle scuole. Come sia andata a finire in Italia, per quel po’ di idealità (di filosofia) senza la quale la sinistra annaspa e muore, è cosa nota: ci fu la Coscienza Sprezzante, più realpolitica e decisionista di Carl Schmitt, che poi andò sfumando in teopolitica e teologia negativa. E ci fu la Coscienza Danzante, per le cui maschere senza volto valori e verità sono violenza, tutto è gioiosamente relativo e i fatti cosa da talebani: e Maurizio Ferraris ne è testimone. Così la sinistra rimase senza ragioni. Anzi senza ragione. Altro che campi e officine.
Adesso, nel ventunesimo secolo, all’umanità intera, liberata dal lavoro ceduto agli automi e ben nutrita dalla socializzazione del capitale documentale (qualunque cosa esso sia) potrebbe aprirsi la prospettiva “di una vita dedicata interamente alla produzione di valore”: cioè al consumo, al turismo, alla scrittura, perché ormai il valore si produce così, poi basta socializzarlo e il gioco è fatto.
Supponiamo che sia vero e possibile: sarebbe diverso da un incubo alla Brave New World, la Repubblica dei Felici, liberati da ogni angoscia di dover fare qualcosa di sé stessi senza per questo annichilire gli altri? Che poi è la questione che starebbe al fondo di tutto l’umanesimo e l’idealità e la ragione pratica e la filosofia. Meglio dimenticarsene. Intanto ci stiamo portando avanti: complice il nostro silenzio, si abolisce per decreto lo studio della storia, e in primo luogo del Novecento, obsoleto, che poi tanto non si fa in tempo a farlo. Senza memoria, il pensiero forse è più intelligente, chissà. Certo è un pensiero spensierato.
Repubblica 1.5.19
Landini e il 1 maggio
"Un sindacato unitario per tutti i lavoratori"
intervista a Roberto Mania
ROMA «Le ragioni storiche, politiche e partitiche che portarono alla divisione tra i sindacati italiani non esistono più. Oggi possiamo avviare un nuovo processo di unità tra Cgil, Cisl e Uil». Questa è la prima Festa del lavoro di Maurizio Landini da segretario generale della Cgil. Seduto, in una delle stanze dell’ultimo piano della sede nazionale della confederazione, con alle spalle una tela di tre metri con il faccione di Carlo Marx dipinta da Valeria Cademartori, annuncia un nuovo sindacato unitario che nasca «dal basso, dalla partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori iscritti e non, assecondato dalle scelte dei gruppi dirigenti». «Perché — aggiunge — non deve essere un’operazione degli apparati burocratici». Così il sindacalista che ruppe l’unità tra i metalmeccanici sul contratto di lavoro, per recuperarla solo diversi anni dopo, e soprattutto che non ha mai firmato il piano di riorganizzazione della Fiat di Sergio Marchionne, oggi indica, con pragmatismo, la nuova frontiera sindacale, senza più i veli delle ideologie del Novecento.
Quali tempi immagina perché si arrivi all’unità tra Cgil, Cisl e Uil?
«Penso che i tempi siano adesso. È ora che c’è una richiesta perché nel lavoro e nella società si costruisca una risposta alla frantumazione dei diritti e dei processi produttivi. In questo quadro va rafforzato il ruolo del sindacato e della contrattazione nei luoghi di lavoro. Il sindacato deve allargare gli spazi della sua rappresentanza, dobbiamo sempre più far entrare nelle nostre sedi e nelle nostre piattaforme rivendicative i nuovi lavori, le differenze di genere, l’attenzione per l’ambiente».
Perché proprio adesso? Cosa è cambiato rispetto agli anni passati durante i quali i tentativi di unità sindacale sono deragliati subito dopo la partenza?
«Sulla nostra tripartizione sindacale ha pesato enormemente la divisione del mondo nel secolo scorso in blocchi contrapposti. Oggi non c’è più nulla di quella stagione, non ci sono più i partiti, il Pci, la Dc e il Psi, che avevano tra le loro ambizioni anche quella di rappresentare il lavoro. Quello è un mondo antico. Cgil, Cisl e Uil hanno conquistato una propria autonomia e per questo possono andare oltre l’unità di azione. Abbiamo proposte condivise sul fisco, sulla sanità, sulle pensioni, sul Mezzogiorno, sulla contrattazione, sulle politiche per gli investimenti pubblici e per valorizzare il lavoro nella pubblica amministrazione. Possiamo fare un passo in più in direzione di quello che definirei un "umanesimo sociale" nel quale ci sia la centro il lavoro e la solidarietà senza che nessuno di noi abiuri la cultura politica e sindacale da cui proviene.
Abbiamo davanti un nuovo orizzonte sindacale».
Vorrebbe passare alla storia come l’ultimo segretario generale della Cgil?
«No, mi piacerebbe passare alla storia come uno di coloro che, insieme ad altri, è stato capace di aprire un nuovo processo per l’unità del mondo del lavoro e sindacale nel Paese. Un’unione tra diversi, potenziando il lavoro, la democrazia, la partecipazione dei lavoratori».
Mi dica, da segretario ancora della Cgil, come interpreta l’uscita dell’Italia dalla recessione e la mini-ripresa dell’occupazione certificati dall’Istat.
«Le tendenze non vanno viste mese su mese, vanno viste nell’arco di anni. In questa prospettiva il dato che emerge è la bassa qualità del lavoro: il numero di ore lavorate resta lo stesso ma suddiviso tra più persone. Quel che sta aumentando, dunque, è lavoro povero, part time non volontario. Continuano a crescere i contratti a termine e le partite Iva mascherate. Inviterei l’attuale governo a non fare come hanno fatto i precedenti: usare ogni notizia che viene dall’Istat a fini propagandistici. Osservo che chi l’ha fatto ha finito sempre per vedersi ridurre il consenso dei cittadini. Ma poi è lo stesso governo nel Def (il Documento di economia e finanza, ndr) approvato solo alcuni giorni fa a prevedere che nei prossimi tre anni il tasso di disoccupazione resterà intorno al 10 per cento. Le cose possono pure andare un po’ meglio ma il lavoro precario non si è ridotto e stanno esplodendo i morti e gli infortuni sul lavoro. Ci sono 2,5 incidenti mortali al giorno, è un dato senza precedenti».
Il dualismo nel mercato del lavoro è stato sostenuto probabilmente anche dalle strategie sindacali più attente a tutelare gli insider anziché i giovani ancora fuori dal mercato del lavoro. Non crede che ci sia stata anche una vostra responsabilità?
«Francamente faccio fatica a vedere una responsabilità del sindacato sul piano legislativo: non siamo stati noi a fare le leggi. Il Jobs Act e le precedenti normative non le abbiamo approvate noi, per capirsi.
Forse abbiamo visto con ritardo l’estensione della frantumazione del lavoro. Ma siamo stati noi della Cgil ad aver depositato in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare per un nuovo Statuto del lavoro, non per tornare agli anni Settanta bensì per garantire a ciascuno, indipendentemente dal rapporto di lavoro che ha, gli stessi diritti e le stesse tutele».
Ma perché, allora, siete contro il salario minimo legale? Non rappresenterebbe una tutela per chi non ha il contratto?
«Il nostro non è un no a un salario minimo. Noi diciamo che i contratti nazionali di lavoro, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali rappresentative, vanno applicati a tutti i lavoratori. E c’è una differenza: i contratti di lavoro non regolano solo la retribuzione diretta, come il salario minimo, ma anche gli orari, le indennità per i turni, le ferie, le malattie, il Tfr e via dicendo. Serve una legge sulla rappresentanza sindacale e imprenditoriale che recepisca gli accordi interconfederali per togliere di mezzo i cosiddetti "contratti pirata"».
Quale contratto applicherebbe ai rider?
«Quello della logistica, come ha stabilito il tribunale di Torino.
Anche sui rider il governo ha aperto un tavolo di confronto e poi l’ha abbandonato. Ma noi non abbandoniamo i rider: vogliano rappresentarli e vogliamo che siano con noi nella Festa del lavoro».
Non concede nulla al governo gialloverde, ma come spiega che il 10 per cento circa degli iscritti alla Cgil abbia votato Lega e quasi un terzo per i Cinquestelle?
«Posto che i due partiti governano insieme sulla base di un contratto tra privati e non sulla base di un’unica proposta elettorale, sono almeno vent’anni che si è consumata la frattura tra il mondo del lavoro e la sua rappresentanza politica. Riguarda tutti, non solo l’Italia».
Il Fatto 1.5.19
Cara sinistra, pensa all’elefante
Le metafore creano e trasformano la realtà. Quelle tossiche o manipolatorie non si battono solo dicendo la verità. Piccola guida per i progressisti, impantanati in discorsi fiacchi, astratti e inefficaci
di Gianrico Carofiglio
Nel 1651 Thomas Hobbes tentò di bandire dal linguaggio politico “l’uso metaforico delle parole”. Il suo tentativo non ebbe successo: le metafore politiche non sono scomparse e anzi si sono moltiplicate al punto che oggi è difficile anche solo rendersi conto di quanto la loro presenza sia pervasiva. Hobbes stesso, del resto, per descrivere lo Stato, si era servito di una formidabile metafora: quella del Leviatano, gigantesco mostro mitologico. Pensare di fare a meno della metafora, in politica come in altri campi, è illusorio per una ragione tanto chiara quanto poco percepita.
La metafora non è (solo) una figura retorica, essa è soprattutto una forma di manifestazione del pensiero, una modalità di comprensione del mondo. Una metafora, una buona metafora, può produrre effetti molto difficili da ottenere con argomentazioni lineari, astratte, prive di immagini e di analogie. Può illuminare un concetto altrimenti troppo oscuro. Può sciogliere un problema intricato. Può svelare un aspetto decisivo, e fino a quel momento trascurato, di una questione fondamentale. La metafora può comunicare ciò che un discorso ordinario rischia talvolta di occultare, anche semplicemente annoiando.
George Lakoff, professore di Linguistica cognitiva a Berkeley e autore del libro Non pensare all’elefante!, è il più importante studioso vivente delle metafore applicate all’indagine teorica e alla pratica della politica. Non si tratta di argomento da accademici; è un tema cruciale per capire come funzionano il mondo e il potere: le metafore – e quelle della politica in particolare – incidono sui sistemi di credenze individuali e collettive e orientano, quando addirittura non determinano, comportamenti e scelte. In altre e più sintetiche parole: le metafore possono creare o comunque trasformare la realtà.
Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire, “disseminato” è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per capire certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione politica: quella buona e quella cattiva. Quest’ultima consiste nelle più diverse forme di manipolazione e intossicazione del consenso ed è il nemico dal quale più devono guardarsi oggi le forze progressiste.
Le metafore manipolatorie e tossiche non si contrastano con la loro negazione (che invece le irrobustisce: se dico di non pensare a un elefante è proprio a un elefante che penseranno i miei interlocutori o il mio pubblico), ma con l’elaborazione di altre, diverse metafore, capaci anch’esse di evocare strutture interiori – i frame di Lakoff – e definire diversi quadri di riferimento ideali.
Per non rimanere sul piano della teoria vediamo come Lakoff costruisce un’articolata metafora per proporre un modo alternativo di pensare alle tasse e al dovere di pagarle. Alternativo alla vulgata metaforica delle destre di tutto il mondo che parlano delle tasse come di un furto dello Stato (il concetto del fisco predone che “mette le mani nelle tasche dei cittadini”) e non come l’adempimento di un obbligo di solidarietà: “Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno deve pulirlo. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro Paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore”.
Il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro, ha conseguenze tanto concrete quanto, ancora, poco comprese. Per capire chi vincerà o chi perderà una competizione politica è necessario – anche se certo non sufficiente – verificare quale dei contendenti è munito dell’armamentario metaforico più adeguato e penetrante.
I progressisti in generale e quelli italiani in particolare non hanno purtroppo – salvo rare eccezioni – la capacità di costruire metafore convincenti e solidamente etiche, come nell’esempio di Lakoff. Nel discorso politico della sinistra italiana sono invece numerosi gli esempi di metafore mal fatte, inefficaci o addirittura controproducenti e, insomma, di inviti fallimentari a non pensare all’elefante.
La comunicazione dei progressisti è normalmente fiacca e perdente perché – per una sorta di pregiudizio ideologico – essi rifiutano di accettare e dunque di praticare alcuni dei concetti che pensatori come Lakoff hanno proposto con grande vigore. Il più importante di tutti è per me il seguente: la verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta. Bisogna inquadrare ogni verità secondo la propria prospettiva, con il proprio linguaggio, con le proprie metafore. È l’unico modo per sconfiggere l’elefante proposto dalla propaganda dei populismi e dei fascismi più o meno mascherati.
Ci vogliono metafore ben fatte, ci vuole un linguaggio di mots-matière – parole concrete – come diceva Simenon. Tutto l’opposto dell’attuale comunicazione dei progressisti, impantanati in discorsi astratti, gergali, incomprensibili.
La sfida per le forze del progresso, in questo periodo complicato, è difficile e implica la capacità (che è anche una tecnica, e va appresa) di sconfiggere le manipolazioni dicendo la verità con efficacia evocativa e dunque persuasiva. Se vi interessa la cosa pubblica, se volete contribuire – anche solo come cittadini consapevoli – a una politica della solidarietà e dei ponti invece che del rancore e dei muri (non ho bisogno di ricordarvi, adesso, che si tratta di metafore), leggete Lakoff, anzi studiatelo e poi mettete in pratica i suoi insegnamenti. Fatelo presto: non c’è tanto tempo a disposizione.
Il Fatto 1.5.19
“A destra non c’è limite. E ora Salvini fa come CasaPound a Vallerano”
Il giornalista che fu aggredito nel 2012: “Serve una barriera al pensiero oscuro”
di Stefano Caselli
“Oggi la destra ha un problema, la rincorsa al pensiero oscuro, che in CasaPound è evidente. La barriera sta da questa parte, meglio capirlo prima che sia troppo tardi”. Parola di Filippo Rossi, direttore di business.it e direttore artistico di “Caffeina”, un passato e un presente di globetrotter della politica con il cuore a destra, per di più – in giorni in cui si fa un gran parlare di CasaPound a Viterbo – viterbese doc.
Filippo Rossi, lei i “ragazzi” di CasaPound li conosce bene…
Fisicamente, sì…
Il famoso “schiaffo futurista”…
Alla faccia dello schiaffo, era un cazzotto. Era l’estate 2012, durante il Festival Caffeina a Viterbo. Fui affrontato dall’allora leader di CasaPound Gianluca Iannone, che a malapena conoscevo. Mi diede del traditore e mi colpì al volto, rivendicando poi pubblicamente il fatto quasi come una goliardata. Un episodio che dà la misura della cifra culturale di questa gente. E lo dico senza alcun moralismo e retorica, non mi interessano le reprimende. Quello di CasaPound è un mondo borderline, molto simile, per certi versi, a quello dei centri sociali di sinistra: in una civiltà occidentale sono realtà assolutamente normali, che oltretutto controllano e accolgono pulsioni che – piaccia o no – esistono e non si possono eliminare, per esempio, sciogliendo un movimento politico o sgomberando un’occupazione. Non serve fare i moralisti, basta aver ben chiaro che si tratta di fenomeni sociologici da studiare e da controllare se e quando creano problemi di ordine pubblico. Il problema è quando questo mondo vuole farsi politica istituzionale. Non si può essere “contro il sistema” e poi farsi istituzione. Non è possibile stare da entrambe le parti.
A Vallerano, il comune del consigliere Francesco Chiricozzi al centro delle cronache, CasaPound è l’unica opposizione. Chi è di destra non aveva scelta…
Al di là dei motivi per cui ciò è accaduto, penso che CasaPound stia a Vallerano come la Lega sta all’Italia. Nel momento in cui manca una destra sana e normale, come esiste in tutta Europa, non si può pretendere che la gente non voti. Anche il superpotere di Salvini – quel signore che con CasaPound va volentieri a cena e si fa anche fotografare e pubblica libri con la loro casa editrice – è frutto certo di abilità politica ma soprattutto di mancanza di alternative. Berlusconi ormai ha perso tutta la sua propulsione, un suo erede non è ancora nato, l’emisfero italiano di destra che più o meno equivale sempre al 50 per cento, sceglie quel che c’è.
Quindi Salvini…
Salvini è un leader di estrema destra, di una destra sovranista razzisteggiante, iper tradizionalista, che fa del cattolicesimo un’arma politica. Realtà simili, in Occidente, esistono un po’ dappertutto, ma all’estero questo mondo può al massimo sperare di allearsi con una destra diciamo moderata. In Italia, invece, dà le carte.
Non ci dirà che la destra italiana è messa peggio della sinistra?
Mi concedo una citazione del Trono di Spade e dico che oggi la barriera è a destra, il muro da erigere è da questa parte. Con quella gente lì non si parla. E non mi riferisco solo a CasaPound. E il problema non è il delinquentello neofascista di turno. La questione è l’esaltazione del “cattiverio”, che esiste anche in una parte di Lega e di Fratelli d’Italia, dove pure militano tante persone per bene. Non sono un cultore dell’ideologicamente corretto, sia chiaro, ma questa guerra al buonismo – come se essere “buoni” fosse automaticamente un titolo di demerito – ha preso un po’ la mano a questa gente che attacca papa Francesco, per esempio, solo perché fa il suo mestiere, come se fosse un traditore di non si sa bene che cosa. Il culto del male è un problema, si può essere perbene anche a destra rimanendo di destra. Basta con questa perenne bava alla bocca, o si finisce per accendere interruttori sociali che sarà poi difficile spegnere. Avere paura è un diritto, sdoganare l’odio per dare una risposta è pericoloso. C’è una corsa verso un pensiero oscuro che in CasaPound è palese, ma che echeggia anche nella Lega e in Fratelli d’Italia. Che senso ha partecipare al Congresso di Verona, un’altra cosa borderline? Quella gente non rappresentava nessuno se non loro stessi. Non è lì il consenso, oggi i referendum su divorzio e aborto avrebbero lo stesso risultato anche a destra. Eppure ne abbiamo parlato per giorni e giorni.
Corriere 30.4.19
i silenzi colpevoli
di Goffredo Buccini
Sorridono in una foto di gruppo del 25 aprile i ragazzi dell’Old Manners Tavern: pelati e palestrati,maglie nere con la tartaruga di CasaPound. Spavaldi, «pronti a tutto». Perché ancora la vita era solo caccia ai rossi e «cinghia mattanza», l’uso contundente della cintura, volante nera nelle valli dei monti Cimini e parate in onore di Pietro Calistri, «il pilota del Duce»: tosta come un pezzo degli Zetazeroalfa; un delirio ora diventato anche altro («fascisti stupratori infami» qualcuno ha postato sotto la foto), proprio qui nel centro di Viterbo, nella taverna «delle vecchie maniere» in piazza Sallupara, casa di questa seconda generazione di camerati, poco più che diciottenni, che risalgono quelle valli carichi di rabbia, da paesini come Vallerano, Vignanello, presepi per i turisti, bolle piene di nulla per loro. «Non serve una borgata romana per far crescere ragazzi fascisti. Bastano una sinistra che litiga con se stessa e una crisi sociale. Loro allora cercano chi gli dica: vieni, io ho la bacchetta magica», mormora Gianluca Gregori, operaio e consigliere comunale di Vallerano. Non serve Torre Maura.
C’è un filo nero che unisce questi paesini e la centralissima piazzetta dello stupro viterbese. Lo stesso filo che ne lega i protagonisti in un rosario di aggressioni e violenze, ormai sgranato da quattro o cinque anni e segnato dall’omertà. Il sindaco forzista di Viterbo, Giovanni Maria Arena, scrolla il capo: «Mi pare azzardato collegare le attività di CasaPound a un fatto criminoso e vigliacco». Forse gli scappa un po’ la frizione sulle parole: «È bullismo che non c’entra con l’ideologia». Il «bullismo» viene raccontato da video dello stupro che i poliziotti di Viterbo descrivono come troppo bestiali per essere visti. Il sindaco non sente nemmeno quello stantio odore di orrori anni Settanta, da San Babila Ore 20 e da Circeo, quell’uso della donna che ha impregnato molto gli scantinati di una certa ideologia. E ignora ciò che dalle sue parti è noto a tutti («mi dice una cosa che non sapevo»): a Vallerano il numero uno e il numero due di CasaPound in consiglio comunale sono coimputati nell’aggressione di Paolo, un ventiquattrenne della vicina Vignanello colpevole di ironie verso il Duce. Il numero uno è stato condannato in primo grado, si chiama Jacopo Polidori, è il presidente del circolo di CasaPound Cimini e ha preso al ballottaggio per sindaco la bellezza del 21 per cento dei voti (poco più di trecento, certo, ma in un paesino di 2600 anime). Il numero due è Francesco Chiricozzi, arrestato per lo stupro dell’Old Manners, appena 19 anni ma una sfilza di guai alle spalle lunga come un palo del telegrafo. Il sindaco di Vallerano, Adelio Gregori, pd, è molto più esplicito del suo collega di Viterbo: «I trecento che li hanno votati sono complici morali di questa gente, questi che io definisco un partito politico tra virgolette». Dieci anni fa i fascisti del terzo millennio sbarcarono quassù proprio col rock nero degli Zetazeroalfa: «Ed è stato sottovalutato il fenomeno, mettevano striscioni, facevano scritte, coinvolgevano ragazzini. Bisognava fermarli prima, ora pensano di poter fare qualsiasi cosa». Nella taverna di Viterbo si servivano «aperitivi antipartigiano», nella sede di Vallerano, appena sotto il Comune, campeggiano slogan sulla vittoria e il fascio littorio. Pareva colore, come i cori nella curva della Viterbese o la doppia acca (per Heil Hitler) che qualche testa marcia si fa tatuare sulle palpebre. Stava già diventando altro.
Il filo nero intessuto di violenza che il sindaco di Viterbo fatica a vedere si comincia a dipanare da novembre 2014, alla partita tra il Magliano Romano e l’Ardita San Paolo (una squadretta vicina ai collettivi antagonisti). Gli arrestati di ieri sono poco più che bambini, qui appare la prima generazione, militanti che fanno irruzione sugli spalti: nove verranno presi dalla polizia. Tra loro ci sono Diego Gaglini ed Ervin Di Maulo. Gaglini era candidato sindaco di CasaPound proprio a Viterbo nel 2013. Di Maulo, che nel frattempo ha chiuso i conti con la giustizia, è, secondo fonti della questura, un collaboratore di Claudio Taglia, il chirurgo maxillofacciale scelto da Iannone e camerati come candidato alle Europee (inutili i tentativi di contattarlo per un commento). Il 20 marzo 2015 si passa alle coltellate fuori da un bar di Vignanello (in quattro sono a processo). Nei boschi ci si allena all’uso della cintura per ferire. E in qualche parco di Viterbo, come Prato Giardino, invaso dagli spacciatori africani, i raid dei giovani fascisti non sono così sgraditi alla cittadinanza. «Hanno più consensi che voti», spiega un dirigente comunale che preferisce l’anonimato. In qualche modo sembra di risentire il brusio di approvazione di un altro posto tranquillo per antonomasia, Macerata, di fronte alle gesta criminali di Luca Traini. Il resto è cliché. Come la raccolta alimentare «per famiglie italiane», fatta qui come altrove. Anche il piccolo Chiricozzi vi partecipava pieno di empatia per i nostri poveri. La stessa empatia che lo spingeva a pubblicare post sulla difesa della donna bianca dai «negri» stupratori.
Corriere 30.4.19
Trenta: «Sono bestie senz’anima
Salvini usa la paura delle donne per fare campagna elettorale»
di Fiorenza Sarzanini
«La Lega sulla castrazione? Una presa in giro, è su base volontaria»
Roma Appena un’ora dopo la notizia degli arresti Elisabetta Trenta, ministra della Difesa, Movimento 5 Stelle, ha scritto un lungo post su Facebook definendo «bestie» i due ragazzi accusati di stupro.
Ministra, la sua reazione immediata è stata influenzata dal fatto che uno dei due, Francesco Chiricozzi, fosse un consigliere comunale?
«Lo stupro e la violenza contro le donne è una cosa terribile sempre, indipendentemente dal ruolo che si riveste. Certo se vesti una carica pubblica è ancor più condannabile. Ma io non voglio immaginare cosa abbia potuto passare quella povera ragazza. Sono delle bestie lo ripeto. Sono persone senz’anima».
CasaPound li ha espulsi, poi si è scoperto che Chiricozzi era coinvolto nel pestaggio di un ragazzo avvenuto tre anni fa. Non sarebbe stato il caso di espellerlo prima?
«Nemmeno ci spreco il tempo a commentare CasaPound. Davvero si pensa che una forza politica del genere abbia una coerenza? Gridavano pure loro alla castrazione chimica e poi avevano uno stupratore dentro casa. Ho letto che sui social questo criminale pubblicava post in difesa delle donne. Poi ne ha picchiata una, l’ha violentata, l’ha umiliata. È vergognoso. Basta questo a mostrare la differenza tra le parole e i fatti».
Anche Matteo Salvini ha invocato la castrazione chimica. Questo vi imbarazza?
«Trovo inadeguato che si usi una delle paure più grandi che una donna può avere per fare campagna elettorale, anche perché la misura sulla castrazione chimica proposta dalla Lega non andrebbe a colpire gli stupratori visto che sarebbe su base volontaria».
CasaPound nelle ultime settimane ha guidato rivolte in quartieri romani contro la sindaca Virginia Raggi, ma rimane alleato della Lega in numerose realtà.
«Credo sia un problema della Lega, ma non perché sia di estrema destra o meno, proprio perché è una forza politica fuori dal mondo. Si divertono a fare i picchiatori in giro. E questa gente può cambiare il Paese? Mi viene da ridere».
Voi siete alleati della Lega nel governo, non crede che dovreste essere voi a porre questo problema?
Lo stupro e la violenza contro le donne è una cosa terribile sempre... Io non voglio immaginare cosa abbia potuto passare quella povera ragazza
«C’è un contratto che ci unisce. Portiamo avanti il contratto, punto».
Anche sui temi dell’immigrazione Lega e CasaPound sono sulla stessa lunghezza d’onda.
«Io credo che l’immigrazione incontrollata sia un vero problema perché la sicurezza dei nostri confini è un dovere dello Stato. Il punto è quando si confondono gli slogan con i fatti, la finzione con la realtà, la bugia con la verità».
Lei è molto critica con il ministro Salvini. C’è qualcosa che vi unisce?
«Sono stata attaccata violentemente dalla Lega solo per aver detto — ribadendo semplicemente un principio del diritto internazionale — che chi fugge da una guerra può richiedere protezione internazionale. Ieri ho visto che Salvini ha accolto 147 migranti dalla Libia con un corridoio umanitario».
Non doveva?
«Sono contenta che si sia ricreduto e abbia cambiato idea. Cosa ci unisce? Abbiamo entrambi la testa dura».
Anche lei pensa che il sottosegretario Armando Siri debba dimettersi?
«Sì, è una questione di opportunità politica. Si può mettere in panchina e poi quando, mi auguro, si sarà risolta positivamente la vicenda potrà tornare nel suo ruolo. Ma prima di allora no, con la corruzione non si scherza».
L’alleanza
«È un problema del Carroccio se si allea con chi si diverte a fare il picchiatore in giro»
La Stampa 1.5.19
Romano Prodi
“Il populismo presto si esaurirà
Il Pd si apra e potrà approfittarne”
intervista di Fabio Martini
Oramai mancano 26 giorni a quelle elezioni Europee che dovevano segnare uno spartiacque, una battaglia epocale tra europeisti e “negazionisti” dell’Unione, ma la discussione pubblica quasi inavvertitamente ha cambiato di segno. L’Europa come destino non è più in discussione e Romano Prodi, che nelle ultime settimane ha parlato a migliaia e migliaia di persone in convegni sul futuro del continente, racconta così questo cambiamento: «Ti accorgi immediatamente che rispetto ad un anno fa c’è maggiore inquietudine tra la gente che capisce subito, quando dici: badate che si fa presto a fare le cose nuove con la guerra, mentre ci vuole tempo a farle con l’accordo. Ma poi durano. Soprattutto ci sono due eventi che hanno aperto gli occhi a tanti…».
Eventi italiani? O la tormentata “exit” inglese sta diventando un maxi-spot per tutti i fautori dell’Unione?
«Ci sono due grandi semplificazioni, tipiche dei sovranisti, che hanno reso tanti più europeisti di prima: la Brexit e Trump. Dicevano i fautori di Brexit: lasciamo la prigione europea e tutto sarà risolto. Non riescono ad uscire perché gli interessi e i legami sono troppo forti e non riescono a trovare neppure una volontà positiva per uscire. Trump ha detto: America first. A quel punto gli europei hanno capito che la solitudine è rischiosissima: America first, Cina second e Brexit ci fanno capire quanto sia importante stare insieme».
In Spagna i progressisti hanno vinto marcando la propria natura riformista ed europeista: un messaggio anche per l’Italia, per il Pd?
«Certamente. Non so se si possa definirlo vincitore, ma il risultato positivo di Sanchez deriva anche dal fatto che ogni settimana elaborava un nuovo tema di discussione pubblica, facendo uscire dal circuito interno di partito le proposte sul futuro di quel Paese. Ma la lezione spagnola non basta. La grande, nuova scommessa nei prossimi mesi è inedita. Si giocherà su due piani: i partiti devono mettere in discussione le loro forme tradizionali di aggregazione, rinunciando ai loro circoli ristretti ai quali partecipano solo quelli che si giocano il posto in lista, la successione e l’eredità. Bisogna rianimare tutti i corpi intermedi, vecchi e nuovi. La politica si rinnova solo discutendo assieme. E solo se torna a rassicurare i cittadini sulle cose per loro importanti: lavoro, scuola e salute».
La Spagna dice che se i progressisti tornano a fare i progressisti, si ferma anche il populismo?
«E’ proprio così. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crisi di tutti i partiti tradizionali, ma la sinistra ha sofferto di più perché il neo-liberismo feriva maggiormente i ceti sociali che erano i tradizionali elettori del centro-sinistra. L’aumento delle disparità, le nuove tecnologie e la globalizzazione hanno accelerato questa crisi. E’ ora che i riformisti tornino a fare i riformisti innovando la politica e recuperando la loro missione: proteggere i cittadini. Valorizzando il Welfare, che è un tesoro europeo!».
Della campagna europea dei progressisti non arriva nulla alle opinioni pubbliche nazionali…
«C’è un punto essenziale: nella Europa sociale che dobbiamo salvaguardare, Bruxelles non si deve sostituire ai singoli Paesi, ma affermare una nuova sussidiarietà: dare i mezzi agli Stati perché le autorità nazionali, regionali e comunali possano potenziare la rete per la salute, le scuole, le case popolari».
Dopo Brexit sembrava avvicinarsi un ciclo populista, ma da Francia, Germania, Baviera, Svezia, Olanda, Belgio, Finlandia, Slovacchia sono arrivati segnali diversi: spinta propulsiva esaurita? I populisti fanno più paura di quella che cavalcano per affermarsi?
«Il populismo, così com’è, è destinato ad esaurirsi. La sua spinta propulsiva era prevalentemente critica, di protesta e all’inizio le loro profezie non potevano neppure essere discusse. L’esercizio del governo si è rivelato assai più complicato della critica: sta brutalmente emergendo che la complessità non può essere affrontata con le semplificazioni. Se tu non “consegni” qualcosa, non basta discutere, attaccare e difendersi sulla Rete: il web non riesce ad assicurare la protezione reale. E la complessità non si affronta, annullando il confronto. Diciamolo pure, all’inizio l’opinione pubblica godeva nel vedere umiliato il Parlamento, ma ora si comincia a soffrire quando ci si accorge che sono solo 19 i parlamentari presenti a discutere del caso-Regeni. Le riunioni del governo durano pochi minuti. Tranne quando devono litigare. E poi c’è una lezione paradossale che i sovranisti non comprendono…».
Quale?
«La propria sovranità si difende soltanto stando in Europa. La tua identità non la puoi salvare quando al mondo ci sono 23 cinesi ogni italiano».
La politica italiana sta vivendo un lungo stallo in vista delle elezioni? Ce lo possiamo permettere?
«In una cosa i nostri governanti sono bravissimi: nel rinviare l’assunzione di responsabilità. Già dopo poche settimane di governo io ero ritenuto responsabile di tutto quanto accadeva, ma per questo governo è passato quasi un anno e continuano ad attribuire le colpe a quelli che c’erano prima. Questo gioco non può durare all’infinito».
Il leader del Pd Zingaretti sta rimettendo assieme i “cocci” di uno schieramento andato in frantumi. Dopo le Europee servirà più politica?
«Mi auguro che dopo aver ricomposto i “cocci” si apra un forte dibattito sui temi e sulle persone. Per usare una metafora calcistica, alla sinistra italiana serve una cura-Ajax: valorizzare il vivaio e soprattutto aprirsi. I vecchi schemi di gioco, non funzionano più. I partiti vivono se si rinnovano».
l Fatto 30.4.19
Ciriaco De Mita - L’ex leader dc novantunenne si candida ancora a sindaco di Nusco: “Lo faccio per resistere, ho deciso tre giorni fa”
Ciriaco De Mita: “Volevo morire a 87 anni. Salvini rozzo e M5s destinato a sparire, ma il Pd non esiste”
di Antonello Caporale
Lei sarebbe dovuto morire, secondo i suoi stessi calcoli, quattro anni fa. Che ci fa ancora qui a Nusco, nel suo studio, con le immancabili carte napoletane sul tavolo e perdipiù ricandidato a sindaco del paese? “Avevo ipotizzato di morire a 87 anni. Ne ero veramente convinto e mi pareva del resto anche una bella età. Rimango dell’idea che quegli anni fossero giusti”.
Ciriaco De Mita è indispettito dei 91 anni che si ritrova.
Sono rimasto sorpreso ma come vede non ne sono affatto dispiaciuto. Vorrei emulare mio nonno che si accomiatò con la preghiera della buona morte. Nel sonno si spense. Non infastidì nessuno, aveva già preparato il viaggio. Anche mio padre morì in modo piuttosto rispettabile. Quando giunse l’ora disse a noi figli: vi ho dimostrato di sapere soffrire. Adesso lasciatemi morire.
Ricandidarsi a sindaco però è una cattiveria.
La scelta risale a tre giorni fa. Neanch’io lo credevo possibile. È stato un atto di resistenza all’oltraggio di un’amicizia sulla quale avevo fatto affidamento.
Purtroppo i cattivi sono più numerosi dei buoni.
Purtroppo conservo la memoria. Dovrei aggiungere un secondo purtroppo: io penso da quando avevo 7 anni.
Molti dei nuovi governanti neanche hanno mai votato una scheda elettorale con il nome del suo partito, la Democrazia cristiana. Twitter nemmeno accetterebbe la sua domanda d’iscrizione.
Di cosa parla?
Ora conta l’istante, contano i selfie, conta parlare alla pancia del Paese. De Mita è fuori sincrono con questo tempo. Lei è come quei blob di Ghezzi.
Le ho già detto che fin da bambino sono stato allenato al pensiero. Chi pensa ha memoria, chi non pensa semplifica rovinosamente. Chi pensa sa che ogni ragione ha un punto d’incontro nel compromesso con l’altro. Chi non pensa banalizza. Banalizzando e semplificando sempre più si esalta il desiderio nella più completa ignoranza del contesto. L’utile netto di questa somma di disgrazie è che otterremo un aumento indiscriminato dei pagliacci.
Lei chiama pagliacci i nuovi governanti?
Onestamente devo dire che Grillo mi è simpatico. È venuto anche qui a Nusco a recitare. Ai tempi dei suoi problemi in Rai l’ho difeso insieme a Biagio Agnes. Ha avuto la capacità di interpretare i bisogni della gente. Per interpretarli li ha dovuti conoscere, quindi è stato bravo.
Grillo è promosso.
Un momento. Grillo conosce i bisogni ma non ha soluzioni. Poi si è messo insieme a un personaggio enigmatico (io penso anche un po’ mostruoso) come quel Casaleggio.
Grillo ha fatto meglio di don Sturzo. È arrivato al 33 per cento in minor tempo.
Concordo sull’enormità del successo. Che forse è stato troppo più grande delle sue stesse aspettative. Tutti questi giovanotti, senza alcuna arte, si sono ritrovati lanciati in cielo. E da lassù, dalle vette incredibili, adesso si schianteranno a terra. È la legge della fisica. Più vai in alto senza aver messo in conto che bisogna saper volare, più la caduta – se sei pesante e ti mancano le ali – sarà rovinosa.
Lei pronostica il disastro. Al tempo della sua Dc uno come Gava l’avrebbe accusato di malocchio.
Non ho alcun dubbio che andranno al disastro, ma per via di un loro difetto genetico. I Cinquestelle sono il medico dolente dell’Italia ammalata. Anziché approntare la terapia aggiungono al dolore altrui il loro lamento. Ha mai visto un medico lamentarsi per i dolori del paziente? Sono destinati a scomparire (detto questo, ripeto: Grillo mi fa simpatia).
E i loro compagni di ventura?
Quel Salvini è assai rozzo, ma il suo movimento ha custodito negli anni un collegamento più solido con gli artigiani, i lavoratori autonomi del Nord. Un corpo sociale importante che gli farà da paracadute. In sintesi: mi sembra meglio messo.
Se la maggioranza è questa, bisognerà guardare all’opposizione.
Il Partito democratico è senza pensiero. Il Pd dunque è il tentativo del niente. E un partito che non ha pensiero semplicemente non esiste.
Non ha mai amato il Pd.
Il Pd lo immaginò per primo Francesco Rutelli come strumento di garanzia verso Prodi. Fallì, arrivò Veltroni e in verità fu assai cortese con me. Mi chiamò e mi disse: vorrei darti l’incarico di formare la nuova classe dirigente. Poi la nebbia.
Presidente De Mita: l’opposizione non esiste, la maggioranza è formata da pagliacci. Non resta che scappare.
Ogni domanda deve avere una risposta. Presto o tardi questo equilibrio si riformerà.
Cosa vuol dire?
Che ci può essere qualcuno che chiederà il ripristino delle regole.
Cioè un tizio.
Le esperienze democratiche possono finire, lo sa?
Lei pensa al moderno tiranno.
Ritengo plausibile che una società lungamente stressata dai bisogni insoddisfatti divenga preda di qualcuno. Io lo dico non perché lo desideri, ma perché lo temo. E se voi giornalisti invece di denunciare unicamente le malefatte non vi sforzate di proporre soluzioni, sappiate che tra dieci anni anche la stampa libera non esisterà più.
Il dittatore prossimo venturo.
La paralisi è un evento possibile, bisogna tenerne conto. E ci sarà chi invocherà una misura di salvaguardia.
La Stampa 30.4.19
lo scrittore e giornalista madrileno Juan Luis Cebrián
“Pedro insegna alla sinistra italiana: concentratevi sulle diseguaglianze”
intervista di Francesca Schianchi
«La vittoria del Psoe fa sperare le sinistre del resto d’Europa, ma non si può essere troppo ottimisti: è frutto di una situazione molto peculiare della Spagna». A chi, anche in Italia, legge il successo di Pedro Sanchez come un segnale di ripartenza per i partiti di sinistra europei, lo scrittore e giornalista madrileno Juan Luis Cebrián consiglia prudenza: «Le condizioni di questa vittoria sono un po’ differenti da quello che succede in Europa». Ma se il Psoe qualcosa può insegnare, dice, è la determinazione a concentrarsi sulla lotta alle diseguaglianze.
In cosa le condizioni della Spagna sono differenti dal resto d’Europa?
«Innanzitutto, qui c’è la questione territoriale, la questione catalana che è stata la vera frattura elettorale. E poi Sanchez è riuscito a mobilitare i cittadini contro l’apparizione di una sorta di estrema destra, quella di Vox, che è però diversa da quella che si può trovare in Italia o in Francia».
Perché?
«Qui è piuttosto la nostalgia del franchismo, un’estrema destra che difende soprattutto il passato, più che guardare al futuro. Altrove ad esempio si parla molto di migranti, qui invece non sono un problema per la maggioranza della popolazione».
Davvero? In Italia sono al centro della narrazione dei partiti di destra…
«Sono stati un argomento usato da Vox solo in alcuni piccoli villaggi in cui ci sono stati problemi di convivenza con la popolazione. Ma la Spagna è uno dei Paesi più vecchi al mondo e abbiamo bisogno dei migranti: la previdenza sociale ce la garantiscono loro. E la nostra politica migratoria non è debole come si potrebbe immaginare: si parla tanto del muro di Trump ma noi abbiamo un muro a Ceuta e Melilla… I temi di campagna elettorale sono stati altri».
Quali?
«La paura della rinascita del franchismo. La coesione territoriale, l’unità del Paese. E poi la giustizia sociale, la lotta contro le diseguaglianze posta da Sanchez».
La sinistra italiana in cosa può ispirarsi a Sanchez?
«Proprio alla questione della giustizia sociale: Sanchez ha capito che la crisi del 2008 ha punito le classi medie, accentuando le diseguaglianze. È intervenuto con alcuni provvedimenti, riuscendo a trasmettere fiducia all’Europa, a rassicurarla sul fatto che, pur cercando di ristabilire l’equilibrio sociale, intendeva seguire la politica di consolidamento fiscale richiesto».
Ad esempio quali misure?
«L’aumento del 22 per cento dei salari minimi, di cui beneficiano in gran parte le donne. Una misura intelligente e che non ha deviato il percorso dell’economia spagnola».
Che peraltro cresce più di quella italiana: i buoni dati economici hanno influito sui risultati elettorali?
«Rajoy ha fatto una buona politica dal punto di vista macro, ma non ha capito quel che stava succedendo nel micro, non ha colto il tema delle disuguaglianze. Sui risultati hanno senz’altro pesato anche gli scandali sulla corruzione che hanno investito il Partito popolare».
Diceva il tema della giustizia sociale: pensa che non sia sufficientemente centrale nelle sinistre europee?
«Non credo. Io guardo alla situazione della sinistra europea come a quella degli anni di nascita e crescita del nazismo e del fascismo, dopo la crisi economica: frammentazione, nazionalismo, xenofobia dappertutto, mancanza di fiducia nella democrazia rappresentativa».
La destra di Vox piace sia alla Lega di Salvini che alla Meloni. A chi somiglia di più?
«Intanto l’estrema destra spagnola non è antieuropea: in Spagna la vocazione europea è molto forte. Vox ha un legame strettissimo con la religione cattolica, propone un’idea di nazionalismo radicale spagnolo con una storia della Spagna del diciannovesimo secolo un po’ reinventata… È una destra molto legata alle nostre caratteristiche».
Lei ha individuato anche la paura della rinascita del franchismo come un tema di campagna elettorale.
«Sì. Ricordo che Franco è morto di morte naturale, e c’era una massa di franchisti al suo funerale. La paura di un ritorno sociologico e sociale del franchismo è ancora molto forte».
Il presidente della Commissione europea Juncker ha esultato: quello spagnolo sarà un governo europeista. Che segnale possono lanciare i risultati di domenica alla Ue?
«Le istituzioni europee sono molto in crisi, è diffusa la paura dei migranti, il timore che non ci saranno soldi per le pensioni delle nuove generazioni, la frustrazione per la disoccupazione dei giovani… C’è un vuoto di valori in Europa. Io non so se le elezioni spagnole inaugureranno un vento nuovo ma non sono molto ottimista».
il manifesto 30.4.19
La sinistra supera la prova delle urne, il peso degli indipendentisti
di Luca Tancredi Barone
BARCELLONA Spagna. Sono 166 i seggi ottenuti da Psoe e Unidas Podemos (aggiungendo anche il deputato valenziano di Compromís) contro i 147 delle destre: non c’è partita. Ma in voti assoluti lo schieramento guidato dai socialisti corrisponde al 44%, mentre il tripartito di destra al 43,2%: la differenza è molto piccola, circa 200mila voti. Per la prima volta da 30 anni, i socialisti sono di nuovo maggioranza assoluta al Senato
La sinistra ha superato la prova di domenica in Spagna. Il partito socialista di Pedro Sánchez ha ottenuto la fiducia di quasi il 29% degli elettori, praticamente il doppio rispetto al secondo classificato: il Pp, la cui scheda è stata introdotta nell’urna solo da un 16,8% degli aventi diritto. La legge elettorale ha consegnato al Psoe 123 seggi (ne aveva 84), mentre al Pp ne lascia solo 66 (dei 132): il suo minimo storico, ben al di sotto delle pur basse aspettative di Pablo Casado, il giovane neosegretario che aveva sostituito Mariano Rajoy meno di un anno fa. Sua la decisione di indurire il partito su posizioni sempre più pericolosamente vicine all’estrema destra.
Con uno scarto minimo dal Pp, solo l’0,8%, c’è un ringalluzzito Ciudadanos: 57 seggi con quasi il 16% dei voti. Partivano da 32.
Crolla anche Unidas Podemos, vittima delle battaglie intestine di Podemos, della scarsa forza di Izquierda Unida, dell’incapacità di tessere di nuovo alleanze elettorali a livello locale (che l’ultima volta avevano portato il numero dei deputati a 72) e di un eccesso di leadership di Pablo Iglesias, che pure ha condotto una campagna elettorale impeccabile secondo la maggior parte degli osservatori: ma contengono la caduta, fermandosi a quota 42 (sommando anche i seggi ottenuti da En comú Podem, l’alleanza catalana guidata dal partito di Ada Colau). Assieme, socialisti e UP sommano 165 seggi, dunque migliorano il risultato della sinistra (la somma era 156 nella legislatura precedente, lontano dalla soglia di 176 della maggioranza). Infine l’irruzione di Vox, un partito che difende il maschilismo, il razzismo, l’omofobia, che chiama «destruccia codarda» quella di Pp e Ciudadanos, e rivendica la caccia e le corride. Hanno ottenuto il voto di più del 10% degli spagnoli, e ben 24 seggi. E per la prima volta entrano al Congreso.
Per ordine di seggi, il sesto posto lo occupa Esquerra Republicana (Erc), partito indipendentista che per la prima volta arriva primo in Catalogna: con il 25% dei voti (4% a livello nazionale), ottiene 15 seggi (la legge favorisce chi ottiene molti voti localmente), più 6 rispetto al 2016. Il suo rivale nel mondo indipendentista, Junts per Catalunya, il partito di Carles Puigdemont erede di Convergència, ottiene solo 7 seggi (meno uno rispetto al 2016). L’ottava posizione la occupano i nazionalisti baschi moderati del Pnv, che totalizzano sei seggi, uno più di quelli del parlamento uscente. Infine 4 seggi per EH-Bildu, il partito nazionalista basco di sinistra demonizzato dalla destra perché si rifà all’eredità politica dell’Eta. Gli altri sei seggi sono distribuiti fra piccole formazioni locali. Da notare che se in Catalogna le tre destre hanno ottenuto solo 7 seggi in totale (su 48 in palio), con Pp ridotto ai minimi termini (meno del 5% e 1 seggio), Ciudadanos in regressione (a dicembre 2017 aveva ottenuto nelle regionali il 25% dei voti, oggi è al 12 con 5 deputati) e Vox che con il 4% scarso strappa un seggio, in Euskadi (Paesi Baschi), le tre destre non hanno ottenuto neppure uno dei 18 seggi (sei sono andati al Pnv, e 4 ciascuno a socialisti, Up e Eh-Bildu). Una destra senza questi due territori importanti non può ambire a essere davvero rappresentativa.
D’altra parte, la vittoria di Erc è un chiaro segnale che l’indipendentismo è sempre fortissimo (un milione e mezzo di voti in totale, contro il milione del 2016), e che l’anomalia che 4 dei deputati eletti (1 per Erc, e 3 per Junts per Cat) e 1 dei senatori (Erc) sono oggi in carcere preventiva peserà sul futuro politico di Pedro Sánchez.
Le due principali formazioni di sinistra sommano dunque 166 seggi (aggiungendo a Psoe e UP anche il deputato valenziano di Compromís) contro 147: non c’è partita, ma è importante osservare che in voti assoluti lo schieramento guidato dai socialisti corrisponde al 44% dei voti, mentre il tripartito di destra al 43,2%: la differenza è molto piccola, circa 200mila voti. Se come sinistra consideriamo anche Erc ed Eh-Bildu arriviamo al 49% dei voti: il dato conferma che la Spagna respira più a sinistra che la maggior parte dei paesi europei, e con un’affluenza record del 75,75%, la quarta più alta dal 1977, il dato è abbastanza significativo.
Per quanto riguarda la seconda e bistrattata camera, il Senato, che ha un potere molto limitato, è da notare che per la prima volta da 30 anni a questa parte, i socialisti sono di nuovo maggioranza assoluta: è ancora una volta l’effetto distorcente della legge elettorale, ma per Sánchez è una boccata d’ossigeno: non solo il nuovo senato non gli metterà i bastoni fra le ruote per le leggi, ma chi avrà in mano l’applicazione di un nuovo 155 in Catalogna sarà sempre lui, e potrà anche finalmente sbloccare «il tetto di spesa» che il Pp aveva vincolato all’approvazione del Senato.
il manifesto 30.4.19
La marea nera non sfonda, ma Vox entra in parlamento per la prima volta
Spagna. Murcia la regione con il consenso più alto, dove il partito di Santiago Abascal ha ottenuto un sorprendente 18,6%
Il leader di Vox Santiago Abascal
di Giuliano Malatesta
È ufficialmente terminata con le elezioni politiche di domenica scorsa l’anomalia spagnola, che consisteva nel non aver ancora visto sorgere una destra sovranista dai tempi della fine della dittatura. Vox ha infatti ottenuto il 10,2% dei consensi (nelle precedenti elezioni legislative del 2016 aveva preso un innocuo 0,2%) e per la prima volta entrerà nel Parlamento spagnolo con 24 deputati. Ma sebbene sia un risultato per alcuni versi storico, e imprevedibile fino a poco tempo fa, il consenso ottenuto dal partito nazionalista è in realtà inferiore alle attese e alle previsioni dei molti, commentatori e sondaggisti, che mormoravano neanche troppo sibillinamente di un «voto occulto», paventando l’avanzata di una marea nera ben più pericolosa. Sono stati comunque oltre 2,6 milioni i cittadini spagnoli che hanno dato fiducia a Vox, il partito di estrema destra fondato da Santiago Abascal, l’ex funzionario basco del partito Popolare che per provare a sconfiggere la derechita cobarde (destra codarda), accusata di essere stata troppo timida sulla questione catalana, ha cercato in tutti i modi di ridar voce al mito un po’ consunto dell’hispanidad, facendo leva sulle pulsioni anti-secessioniste delle regioni del Sud, rianimando il dibattito sulla sacralità della corrida, e puntando sul tema sovranista per definizione, quello dell’immigrazione illegale, fino a compiere il simbolico e supremo gesto di inaugurare la sua campagna elettorale a Cavadonga, nelle Asturie, dove la leggenda vuole sia iniziata la Reconquista contro i Mori. Il tutto giocando con un tipo di linguaggio che senza essere troppo esplicito rimandava ad un immaginario vagamente franchista, nonostante gran parte dei suoi elettori siano fortunatamente nati senza aver mai conosciuto la dittatura.
Un trionfo di propaganda e di retorica che ha coinciso con un sentimento diffuso di malessere verso la vecchia politica, forte sopratutto a destra, e che ha permesso a Santiago Abascal di ottenere consensi diffusi in quasi tutto il territorio. Se si eccettua la modesta performance del partito nazionalista nei Paesi Baschi (2,21%) e in Catalogna (3,6%), facilmente spiegabile con la dichiarata volontà di Abascal di eliminare ogni forma di autonomia. È invece Murcia la regione dove Vox ha ottenuto il consenso più alto, un sorprendente 18,6%, arrivando a essere primo partito nella cittadina di Torre Pacheco, dove un terzo dei suoi abitanti sono immigrati e dove il partito ha superato i popolari, che nelle elezioni del 2016 avevano oltrepassato il 50% e ora hanno visto i propri voti scendere sotto il 25%.
Continua anche la crescita andalusa per il partito di estrema destra, che rispetto alle regionali dello scorso 2 dicembre conquista oltre 200mila voti in più, molti provenienti dall’astensione, e arriva al 13,3%, terzo partito dopo Psoe e Pp. Numeri che salgono al 19,5% in provincia di Almeria, la zona del cosiddetto mar de plastico, come viene soprannominata questa vasta area costiera dove a partire dalla fine degli anni Settanta si è sviluppata la più alta concentrazione di serre al mondo. È qui che lavorano la maggior parte dei migranti che arrivano ogni anno dal Marocco ed è dunque qui che si è sviluppata la macchina propagandistica in tema di immigrazione messa a punto da Vox. Una strategia vincente, a giudicare dai meri dati, che premiano l’estrema destra, addirittura primo partito nelle cittadine di El Ejido (30%), dove a fine maggio l’ambizione è quella di ottenere il primo scranno municipale, e di Níjar (28,4%), epicentri della zona del mar de plastico. Da evidenziare infine il discreto risultato ottenuto nell’area di Madrid, dove Vox ha ottenuto il 13,6%, prendono più di qualche voto nei quartieri popolari cittadini.
Ora ad Abascal non resta che chiudere in bellezza il trittico elettorale alzando ancora un po la voce contro l’Europa, in vista delle elezioni europee di maggio. Magari provando in extremis a modificare il tiro della sua strategia mediatica, a suo dire insoddisfacente. «Probabilmente abbiamo sottovalutato la capacità dei media di plasmare l’opinione pubblica», ha riconosciuto al termine di quest’ultima campagna elettorale, evidenziando il peso e l’influenza dei media tradizionali. Anche su questa questione, l’Italia può fare da apripista.
Il Fatto 1.5.19
Guaidó punge il governo ma la rivolta può attendere
Azione di forza - Il leader dell’opposizione chiama alla sollevazione partendo dalla base La Carlota, ma solo una parte dei militari lo segue Bilancio, 37 feriti e 11 arresti
di Roberta Zunini
L’ultima notizia ieri sera l’ha data l’agenzia Reuters: Erik Prince, fondatore dell’agenzia di sicurezza Blackwater – oggi Academi – ha predisposto un piano per schierare 5000 mercenari a fianco di Juan Guaidò e rovesciare Nicolas Maduro. Ma l’annuncio sembra più auto promozionale che concreto. La crisi venezuelana che ieri sembrava giunta a una svolta ha causato 37 feriti e 11 arresti, ma non la caduta del regime di Maduro.
Ieri il presidente dell’Assemblea nazionale, nonché autoproclamato capo dello Stato ad interim, Juan Guaidó, prima di dare il via alla “grande marcia dell’Operazione libertà” per le strade di Caracas ha lanciato un messaggio video alla nazione accompagnato da Leopoldo López, uno storico leader dell’opposizione appena liberato dagli arresti domiciliari da un gruppo di soldati passati dalla parte dell’opposizione. In un video Guaidó mostra anche il momento in cui stringe la mano a un militare. È la prima volta che succede dall’inizio del confronto e Guaidó ha assicurato di avere dalla sua parte un consistente gruppo di militari anche nel resto del paese, non solo nella capitale.
La frattura all’interno delle forze armate, qualora si confermi vera e consistente, potrebbe condurre a una tappa finale violenta con uno scontro aperto tra militari fedeli a Maduro e quelli passati con l’opposizione. A Maracay, i militari pro Guaidò, avrebbero arrestato il generale Carlos Armas Lopez, presidente della Cavim, l’azienda pubblica che controlla e gestisce gli armamenti e le dotazioni delle forze armate.
La Guardia Nacional del Venezuela, fedele a Maduro, secondo alcuni media, avrebbe già reagito facendo uso di pallottole vere, oltre ai lacrimogeni, contro i civili e i militari pro Guaidò davanti alla base militare La Carlota fuori Caracas.
Guaidò in questa occasione si è spinto a esortare la popolazione civile a scendere in strada per chiedere la “cessazione definitiva dell’usurpazione fino alla riconquista della libertà”. Il giovane leader ha sottolineato che “l’esercito è con la gente, la fine dell’usurpazione è iniziata”. Nel video pubblicato sui social network si fa anche “grande appello ai dipendenti pubblici” per “recuperare la sovranità nazionale”.
A metà pomeriggio migliaia di persone sono riuscite a raggiungere il corteo nonostante il ministero dei trasporti avesse dato ordine di bloccare i trasporti pubblici in tutta Caracas.
La risposta di Maduro è stata infatti tombale circa un possibile dialogo o una propria volontaria uscita di scena pacifica: “Si tratta di un golpe”, ha dichiarato. Il suo governo gli ha fatto eco, aggiungendo che il Venezuela ha respinto un “golpe di ampiezza mediocre”, “piccolo” e “insignificante”. Lo ha detto in televisione il ministro venezuelano della Difesa, Vladimiro Padrino, sostenendo che il governo ha “risposto immediatamente”. Almeno l’80% dei soldati coinvolti, ha affermato, sono stati “ingannati” e si sono ritirati su ordine dei loro comandanti.
La notizia ha raggiunto subito le cancellerie di tutto il mondo. Gli Stati Uniti sostengono ovviamente la mossa di Guaidó, mentre il presidente russo Vladimir Putin non solo ha ribadito il suo sostegno a Maduro ma ha anche riunito il consiglio di sicurezza russo.
Da ricordare che almeno 100 militari russi si trovano a Caracas, probabilmente per tutelare Maduro e una sua via di fuga. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, ha condannato il tentativo di Guaidò. La Colombia, a favore di Guaidò, ha chiesto una riunione di emergenza del Gruppo di Lima, organizzazione di 12 paesi nata per reagire alla crisi in Venezuela. L’Unione europea nel suo complesso è tornata a chiedere una soluzione pacifica.
Da notare la posizione del primo ministro socialista spagnolo Pedro Sanchez, fresco di riconferma alla Moneda. Pur continuando a ritenere Guaidò capo dello Stato ad interim ha detto che Madrid “non appoggerà un colpo di Stato in Venezuela per evitare spargimento di sangue”. In serata il Dipartimento di Stato Usa ha lanciato un’allerta per tutti i cittadini americani invitandoli a non recarsi in Venezuela, dove tra le altre cose. rischiano anche la detenzione. Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, John Bolton, ha ribadito la posizione della Casa Bianca: non si tratta di un colpo di stato ma di un tentativo di Juan Guaidó, come presidente legittimo, di prendere il controllo del Paese.
Il Fatto 1.5.19
Arlacchi: “Caracas è una città tranquilla, Maduro è più forte”
Parla l’ex vicesegretario dell’Onu: “Si è verificato un golpe fallito, Guaidó è screditato e l’Ue deve capirlo”
di Salvatore Cannavò
Pino Arlacchi, ex vicesegretario generale delle Nazioni Unite, soggiorna in un albergo del centro della Capitale. Non è lontano da piazza Altamira in cui si è concentrato Guaidó con i suoi sostenitori. “In realtà è un luogo simbolo della destra estrema dei guarimbas, le squadre dei bulli dei quartieri alti che assaltano i cortei popolari picchiando, bruciando e sparando”.
Dalla sua osservazione privilegiata Arlacchi assicura che a Caracas non si è verificato nessun golpe, nessuna insurrezione e che la città è tranquilla. “Forse possiamo parlare di un tentativo di provocare la reazione del governo Maduro per offrire un pretesto agli Stati Uniti, ma niente più di questo”.
Il suo racconto, raccolto intorno alle 14 locali, è netto: “I fatti importanti si sono svolti dalle 3 alle 5 del mattino quando Guaidó si presenta in piazza con Lopez, uno dei capi dei partiti di opposizione accusato di banda armata per aver guidato i guarimbas. Lopez era agli arresti domiciliari, prosegue l’ex deputato europeo, che occorre dire sono molto blandi nonostante a infliggerglieli sia stata quella che viene definita una “feroce dittatura”. Guaidó e Lopez si sono così presentati insieme a un gruppo molto piccolo di militari in assetto di guerra e con due autoblindo dietro le spalle. Solo che non è successo nulla e alle 8.30 era tutto finito. Nessun sollevamento né nell’esercito né nella popolazione. Nessun altro atto di nessun tipo. Il mini-golpe è stato invece trasformato in una manifestazione verso il palazzo di Miraflores, quello del governo, ma i manifestanti non sono arrivati nemmeno a un chilometro dall’edificio”.
Mentre parliamo, siti e tv di tutto il mondo danno conto di manifestazioni attaccate da autoblindo della polizia regolare, ma Arlacchi sorride: “Personalmente ho attraversato la città senza incontrare alcun ostacolo tranne due posti di blocco. Alle 13 era tutto finito. Il capo delle forze armate ha dichiarato il sostegno totale al presidente in carica”. Quindi cosa è accaduto veramente, quali sono le intenzioni di Guaidó, chiediamo: “Guaidó ha pensato di innescare una reazione forte del governo di Maduro per poter scatenare l’intervento americano. Solo che ha manifestato una chiara debolezza e i soldati non lo hanno seguito. In città non c’è nessuna atmosfera di tensione e in definitiva se il tentativo era quello di stimolare una reazione del governo, questa non si è verificata”. A questo punto, osserva l’esperto di questioni internazionali, in Venezuela per un’attività legata alla lotta alle mafie, la palla può davvero passare al governo in carica. “Il golpe fallito, a mio giudizio, ha rafforzato moltissimo Maduro mostrando la solidità del suo rapporto con l’esercito e l’inesistenza di una insurrezione popolare. Credo che Maduro potrà fare un’apertura verso l’opposizione che non si riconosce pianamente in Guaidó, accettando le proposte di dialogo e di organizzazione di nuove elezioni che vengono dal Vaticano, dall’Italia e da alcuni paesi dell’America latina. Ma anche dalla Ue, come mi sembra di vedere dalle dichiarazioni della portavoce Ue. Maduro esce illeso e rafforzato dall’episodio”.
Per quanto riguarda la popolazione, poi, pur trovandosi in presenza di una crisi “gravissima”, Arlacchi nega che ci sia una situazione drammatica: “Caracas è una città tranquilla, ci sono generi alimentari, non ci sono persone che muoiono dalla fame. Certo, c’è una gravissima crisi economica e sociale che è determinata dalle sanzioni economiche americane che tagliano le medicine. Il rapporto Sachs spiega molto bene che negli ultimi due anni a seguito delle sanzioni sono morte 40 mila persone in più soprattutto per la mancanza di medicine come l’insulina o i farmaci anti-Hiv. Il governo ha i soldi per comprare ma le banche internazionali si rifiutano di processare le transazioni. L’arma delle sanzioni può essere molto pericolosa”. Anche sugli scontri in piazza il sociologo invita a essere più sobri nei commenti: “La Guardia nazionale del Venezuela per dettato costituzionale non può portare armi in manifestazioni pubbliche né usarle. La polizia nazionale ha le armi ma può utilizzare solo proiettili di gomma. Sono i gruppi armati delle opposizioni che utilizzano le armi per uccidere. E in genere il bilancio di morti è a svantaggio della polizia”. Infine la richiesta all’Unione europea e agli Stati occidentali di “ritirare qualsiasi sostegno a Guaidó. Uno che utilizza così disinvoltamente la minaccia di golpe non può avere alcuna credibilità. Del resto si pensi che in Catalogna gli indipendentisti sono in galera senza aver compiuto nessun atto di violenza, mentre Guaidó si autoproclama presidente, promuove scontri di piazza e gira libero tranquillamente. Chi è davvero l’interlocutore più credibile?”.
La Stampa 1.5.19
Victor Orban: “Denaro, sicurezza, mercato. Oggi ci sono già tre Europe, ma fingiamo sia soltanto una”
Il premier ungherese: «Tutti i Paesi dovrebbero stare nell’unione economica, in futuro anche Regno Unito e Turchia». E su Salvini: «E’ l’eroe che ha fermato le migrazioni dal mare. Con lui un patto per una nuova Ue, il Ppe deve collaborare con le destre
intervista di Alberto Simoni
Viktor Orban, l’uomo che vuole riscrivere la geografia del potere della Ue, arriva puntuale nella sala della biblioteca dell’ex monastero dei carmelitani, il suo ufficio di primo ministro dell’Ungheria è due porte più a destra. Maschera bene il jet lag, è tornato da poche ore dalla Cina dove con altri 36 leader mondiali ha stretto mani e accordi sulla nuova Via della Seta. Non si può fare gli schizzinosi con i quattrini, anche se sono yuan anziché dollari o euro, si chiamino Ungheria o Italia e bene - dice Orban - ha fatto Conte a stringere accordi con Xi.
Indossa una camicia celeste e una giacca blu sportiva su un paio di jeans. Da Buda, la collina a ovest del Danubio, troneggia sulla capitale, e quando spiega, accompagnandoci sul terrazzo, che tutta Budapest è stata ricostruita e rinnovata, «l’hanno bombardata ma l’abbiamo ricostruita», sprizza orgoglio identitario, «patriottico» dirà nel corso dell’intervista concessa in esclusiva a La Stampa.
Il colloquio sembra non iniziare mai perché l’uomo che una parte d’Europa ha insignito della carica di gran maestro del sovranismo e l’altra lo insegue a colpi di sanzioni (votate ma non entrate in vigore) per lo stato di diritto precario - sempre a detta dei detrattori - ama parlare di calcio, della sua scuola dedicata a Ferenc Puskas, divinità globale del pallone che fu, e di Roger Scruton e Guglielmo Ferrero e dei libri sul potere e le nazioni e sull’impero Romano che ha sul comodino e nella sua libreria particolare - al pari del saggio sulla virtù del nazionalismo del filosofo israeliano Yoram Hazony.
Parla senza inflessioni particolari, gli occhi fissi sull’interlocutore, talvolta prende appunti, qualche scarabocchio su un taccuino con il timbro governativo. Scherza con i suoi consiglieri, «mi controllano, ma ignoriamoli». E giù un sorso di tè prima di ricordare il suo primo incontro in Italia con Berlusconi, aspirante politico, mentre lui Orban in quel novembre del 1993 era solo un deputato di belle speranze e pochi anni. Andò a Milanello, il regalo del Cavaliere fu la cena al tavolo con Capello e la stretta di mano con Van Basten. «Silvio voleva scendere in politica e voleva che io spiegassi come era organizzato il mio movimento. Mi disse: Viktor, fai tu».
Signor Primo ministro é passato da Berlusconi a Salvini. Stesso feeling?
«Il mio miglior amico è sempre Berlusconi, persona grandiosa, epocale. Ma il ruolo di Salvini oggi é più importante».
Quindi largo a Salvini?
«Domani viene in Ungheria, un paese in cui è considerato un amico. Salvini ha un ruolo politico importante, noi abbiamo interesse a consolidare con lui un buon rapporto. La gente qui lo vede come un compagno della stessa sorte, subiamo entrambi attacchi, ma lui è l’eroe che ha fermato per primo le migrazioni dal mare, noi sulla terra».
Incontro fra leader di partito o visita ufficiale in veste di vicepremier?
«Lo riceverò come ministro del governo italiano e vicepremier, ma non parleremo solo di temi bilaterali, bensì anche di affari di partito. E poi andremo a Roeszke, confine con la Serbia per fargli vedere come difendiamo noi la frontiera».
Salvini vorrebbe che il Partito popolare europeo si alleasse con lui dopo il voto europeo, e lei?
«Diciamo così, il Ppe si sta preparando a compiere un suicidio, vuole legarsi alla sinistra e così andare insieme a fondo. La verità è che non abbiamo successo, abbiamo sempre meno primi ministri del Ppe e avremo anche meno seggi».
Ma il suo partito Fidesz non è sospeso dal Ppe? Sulla sua testa non pende il giudizio sull’espulsione?
«E’ sul Ppe che pende il giudizio. Degli elettori. Ecco io vorrei che il nostro partito evitasse questa sorte suicida».
E pensa di salvarsi dal cappio grazie a Salvini?
«Non leghiamoci alla sinistra, cerchiamo un’altra strada, quella della cooperazione con la destra europea. Non sappiamo quale formazione Salvini costruirà, ma speriamo riesca a crearne una forte. Il Ppe deve collaborare con questa destra europea. Non è un segreto che io sostengo questa linea, la forma di questa partnership la vedremo più avanti, ma vorrei proprio che il vostro vicepremier cooperasse con il Ppe. Un ruolo chiave però lo deve svolgere Forza Italia, è il gruppo di Berlusconi a far parte del Ppe. Quindi questi sono affari italiani».
Lei ha costruito la sua campagna elettorale sul tema migranti.
«Non solo la campagna ma anche il lavoro dei prossimi dieci anni».
Non c’è solo il dossier migrazioni. In molti Paesi europei, e l’Italia è fra questi, i sondaggi dicono che le preoccupazioni degli elettori sono più per la disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze, l’economia a singhiozzo che per profughi e rifugiati o irregolari. Come si concilia la sua visione con quelle di altri suoi alleati stranieri?
«La migrazione è la questione più grande che ci pone di fronte la storia. Io la chiamo migrazione dei popoli, una grande migrazione di massa. Alla base di questa c’è una ragione demografica: gli europei sono sempre meno, in Sahel, nel mondo arabo e nell’Africa nera ci sono sempre più persone. Che si muovono, vagano, girovagano per approdare qui. Quando ci sono attentati terroristici o fatti criminali particolari la testa della gente si risveglia e capisce quanto il tema migrazione è vitale, ma quando casi così vistosi sono assenti, e grazie a Dio attualmente non ce ne sono, nella testa della gente questa preoccupazione decresce. Ma non significa che la questione sia sparita. Compito del leader è quello di tenere a mente il problema e agire preventivamente per tenere lontani i guai prima che una nuova ondata, perché arriverà, giunga. Fu così nel 2015 e sarà così anche in futuro. I grandi esodi devono essere previsti e, se non si riesce a prevenirli, vanno fermati. Per questo penso che Salvini sia oggi la persona più importante d’Europa».
Con l’Italia non siete in sintonia su tutto se pensiamo al tema migranti. Roma vorrebbe rivedere - almeno sulla carta - l’accordo di Dublino e chiede la redistribuzione, lei è l’alfiere del no alle quote. Posizioni inconciliabili?
«Gli italiani vorrebbero sbarazzarsi degli immigrati e dividerli fra gli altri Paesi e per questa mossa a Bruxelles è stata inventata un’ideologia, si chiama solidarietà. La nostra posizione è diversa: ci siamo difesi e abbiamo impedito che arrivassero qui e non vorremmo nemmeno che i migranti arrivassero da voi».
Facile a parole, ma come si fa a mediare?
«Non dobbiamo spartire e distribuire in Europa i migranti, dobbiamo riportarli a casa e non portare qui i guai, ma fornire aiuto a casa loro. Rimettiamo a posto quelle zone, i villaggi da cui partono. L’Ungheria spende per questo programma avviato con il nome di Hungary Helps persino più di quanto potrebbe permettersi. E poi collaboriamo sui rimpatri».
E Dublino, la storia dell’asilo nel paese di primo approdo?
«Morto. Una norma giuridica che nessuno rispetta non esiste».
Così si apre un vuoto legislativo, cosa propone allora?
«Dublino era stato partorito quando non c’era l’immigrazione di massa. Ma per gestire questi giganteschi flussi di popoli non solo Dublino ma anche Bruxelles è inadeguata. Non c’è soluzione comune europea, per anni abbiamo cercato di illuderci con essa e intanto la situazione è andata peggiorando. Quindi Bruxelles, la Commissione e il Parlamento europeo, devono togliersi di mezzo, lasciare che siano gli Stati membri a occuparsene».
Come?
« Creando un corpo sul modello dell’Ecofin, i ministri dell’Interno dei Paesi di Schengen devono lavorare insieme per trovare soluzioni intergovernative».
Sta delineando un’idea d’Europa molto chiara. In un discorso in Transilvania ha detto che l’Europa centrale deve diventare protagonista e avere in mano le chiavi del proprio futuro. Come immagina la Ue fra 20 anni?
«L’Europa aveva una dinamica interna costruita su quattro protagonisti: Germania, Regno Unito, Mediterraneo (ivi compresa la Francia) e Mitteleuropa. Il rapporto fra questi quattro attori formava un equilibrio politico, ma ora si è dissolto. Bisogna crearne uno nuovo».
Perché si è dissolto?
«Il Regno Unito ha scelto di andarsene, la Germania ha raccolto troppi vantaggi dall’eurozona senza condividerli con i partner. E infine i Paesi dell’Europa centrale hanno avuto uno sviluppo più rapido del previsto tanto che grosso modo entro il 2030 diventeranno contributori netti della Ue. Oggi l’interscambio Visegrad-Germania é più del doppio di quello fra Berlino e Roma. Questi equilibri necessitano di nuovi rapporti interni, la Mitteleuropa deve contare di più e la Germania deve invece abbandonare la pretesa che tutto si decide lungo l’asse franco-tedesca».
Parla di un’Europa a più velocità?
« No, io parlo di tre Europe, di tre dimensioni diverse. Ogni abbiamo tre Europe ma facciamo finta ve ne sia una sola».
Quali sono?
«La prima è l’Europa del denaro, l’eurozona, quindi c’è quella della sicurezza ovvero i Paesi dell’area Schengen. Infine quella del mercato comune. Queste sono diverse far di loro. Io accetto vi siano differenze, che ognuno decida in quale gruppo o gruppi vuol far parte. Coloro che stanno nell’eurozona vanno nella direzione dell’unione politica, è una decisione loro, io non ci sto. L’importante è che tutti stiano nel mercato comune. Così riusciremo poi, nel secondo tempo, a presentare un’offerta attraente al Regno Unito e persino alla Turchia».
In Europa c’è un ritorno dei nazionalismi, non teme sia fonte di instabilità?
«Nella terminologia europea oggi il nazionalismo è visto con accezione negativa, per me non è così. La stragrande maggioranza degli intellettuali europei ritiene che guerre, dittature, sofferenze sono state provocate dai nazionalismi. Non sono d’accordo. Queste tragedie infatti sono state innescate dai tentativi fatti per la costruzione di vari imperi europei. E io in Bruxelles attualmente intravvedo proprio questo pericolo. Le élite bruxellesi dicono che noi stiamo alimentando il nazionalismo, noi pensiamo che siano le élite di Bruxelles a voler rianimare un pericolo maggiore volendo costruire un impero. Vogliamo uscire dalla battaglia terminologica sul nazionalismo? Ecco, allora scriva che io sono un patriota».
La storia ha un richiamo molto forte nella sua politica e nell’identità magiara. Ci sono 4 momenti storici caratterizzanti, il 1867 del Compromesso con Vienna, il 1920 con il Trattato del Trianon, il 1945 l’abbandono occidentale a Stalin. E il 1956, i sovietici che sedano la rivoluzione. Cosa lega queste date?
«Si tratta di date importantissime, può darsi che un italiano non le comprenda ma cè un fil rouge che le lega, ovvero il desiderio di libertà indomabile del popolo ungherese. Alla fine della Prima guerra mondiale e in seguito a Trianon milioni di ungheresi si sono trovati a vivere in territori di altri Paesi e sono stati trattati come cittadini di serie B, nel 1945 siamo stati occupati dall’Urss e nel 1956 ci siamo ribellati. Sono momenti che insieme hanno forgiato la nostra identità».
Il 4 giugno la gente ricorda il tradimento del Trianon però, come se fosse una rivalsa?
«Noi non usiamo l’espressione rivalsa, vendetta. Non si tratta di ristabilire lo stato di una volta, piuttosto il senso delle manifestazioni stabilite da una legge che ha dichiarato quella del 4 giugno come la “giornata dell’appartenenza nazionale”, è proprio che quel giorno gli ungheresi, ovunque siano, qui o in territori limitrofi in altri Stati, si sentano solidali fra loro. La rivincita, la rivalsa guarda al passato, la solidarietà è il motore e ci traina verso il futuro».
L’Europa centrale e l’Ungheria sono luoghi molto identitari. Nelle capitali dell’altra Europa invece lo spazio per il multiculturalismo è ampio, anzi quasi ricercato. Lei è uno strenuo difensore delle identità nazionali e dell’Europa cristiana. L’opposizione al multiculturalismo non le sembra una posizione anti-storica nel mondo della globalizzazione?
«Europa occidentale e centrale su questo sono molto diverse. I grandi spiriti che determinano il pensiero degli occidentali festeggiano ogni qualvolta vedono l’Europa volgersi in una direzione post cristiana e post nazionale. Lo chiamano progresso. Questo modo di pensare mi è estraneo. Io non provo gioia, la considero invece una resa della nostra identità. Non metto in dubbio il diritto di qualcuno a bearsi del suo multiculturalismo, ma vorrei che loro prendessero atto che l’Ungheria non li seguirà. Anzi la nostra Costituzione dice il contrario, sostiene che il cristianesimo è una forza che mantiene forte la nazione».
Cos’è la democrazia illiberale?
«E’ la democrazia fondata sul cristianesimo, chiamata illiberale, non significa necessariamente che sia anti-liberale. Una distinzione importante, questa. Oggi sono i democratici liberali i veri nemici della libertà. Essendo io un sostenitore della libertà devo essere illiberale».
I liberali sono nemici della libertà?
«Hanno costruito un sistema di pensiero - chiamato politicamente corretto - che tutti devono rispettare. Chi discute la tesi del politicamente corretto non può, secondo loro, essere democratico, ma così si viola la libertà di pensiero e di espressione. Io invece, che sono illiberale, difendo la libertà di parola. So che sembrerà strano visto dalle capitali occidentali, ma qui nel cuore dell’Europa centrale tutti la pensano così. Quando i liberali perdono le elezioni il giorno dopo annunciano subito che la democrazia è finita».
Come in Austria quando vinse Haider?
«Una cosa del genere, preferisco fare l’esempio della Polonia quando ha prevalso il partito PiS di Kaczynski».
Parlando di libertà, non crede che la decisione da parte dell’Università di Soros di lasciare Budapest per Vienna sia un colpo alla sua immagine e a quella del suo Paese?
«Si, infatti sono in moltissimi ad essere attenti a quel che succede poiché quello della Ceu è un brand molto forte, qualsiasi cosa gli succeda si fa sentire sulla nostra pelle. Però nessuno mai parla di un altro aspetto, ovvero che negli ultimi 2-3 anni moltissime università europee sono sbarcate a Budapest in un numero ben superiore a quelle andate via».
L’economia ungherese va benissimo.
«Lo dice lei, io dico che va meglio di prima ma...».
Beh il Paese ha ritmi di crescita del 3,4%, se domani lo dice a Salvini che non è contento di questi numeri si arrabbia.
«Se è per questo cresciamo del 4,8%».
Si lamenta?
«No, il nostro obiettivo però è avere continuamente almeno il 2% in più sul tasso medio di sviluppo dei paesi Ue».
La disoccupazione è al 3,5%.
«Si ma i cechi hanno dati migliori, per noi è inaccettabile (ride)».
Bene, i suoi oppositori dicono che ha creato occupazione con il lavoro socialmente retribuito, ci sono insomma più persone a tagliare e curare verde pubblico di quel che servirebbe.
«Abbiamo creato 800mila posti di lavoro dal 2010 e solo 121mila legati ai servizi sociali. Quando nel 2010 sono tornato al governo erano 550mila coloro che pur senza lavorare percepivano un sussidio. Io voglio dare soldi solo a chi fa qualcosa. Non accetto che quando un padre di famiglia si alza al mattino manda il figlio a scuola e poi lui sta a casa senza fare nulla. Deve andare a lavorare, può darsi che quell’impiego non sia il massimo, ma almeno è utile per la società».
In Europa c’è un aumento dell’antisemitismo, lei ha visto qualche settimana fa Netanyahu. Cosa gli ha detto?
«Il mio governo esercita la tolleranza zero all’antisemitismo, già 20 anni fa ai tempi del mio primo esecutivo abbiamo inserito nelle scuole la giornata in memoria dell’Olocausto. Abbiamo ristrutturato sinagoghe, messo a posto cimiteri ebraici in rovina, abbiamo una comunità ebraica molto vasta, cristiani ed ebrei convivono bene, la più grande sinagoga d’Europa e la più grande basilica di Budapest sono a un tiro di schioppo. L’Ungheria è il posto più sicuro per gli ebrei in Europa».
Sposterà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme seguendo l’esempio di Trump?
«Abbiamo aperto un ufficio con funzioni diplomatiche per le relazioni commerciali con l’Estero a Gerusalemme, ma per ora l’ambasciata resta a Tel Aviv».
L’Ungheria fa affari con la Cina, stringe accordi energetici con la Russia di Putin, lei dialoga con tutti anche con i nemici di Trump. Cosa gli dirà quando lo vedrà?
«Nell’elenco possiamo mettere anche la Turchia, raddoppieremo l’interscambio. In Europa c’è la tendenza a utilizzare la politica estera per esportare un sistema di valori, si vuole dimostrare la sedicente superiorità morale dell’Occidente, i diritti umani, la democrazia, l’umanesimo. Non ritengo corretto questo approccio.L’esportazione della democrazia ha fallito laddove si è tentato di ancorarla. Se poi pensiamo alla superiorità morale, beh ho le mie idee, infatti ci avevano dati a Stalin nel ‘56, nonostante avessero promesso, non sono venuti, ma possiamo anche pensare al periodo coloniale. Quindi per me la politica estera è uno strumento per avere degli amici e rendere interessati degli stati importanti al successo dell’Ungheria e condividere interessi comuni.
Tornando a Trump?
«Con lui c’è una sintonia spirituale, il suo America First, il mettere al centro, confessandoli apertamente, gli interessi nazionali è qualcosa che condivido appieno. Molti lo fanno, sostengono i propri interessi ma non lo dicono. Come sollecita anche il presidente Trump dobbiamo effettivamente aumentare le spese militari, ma i nostri rapporti economici sono buoni come non mai. E poi abbiamo bisogno del mercato americano, l’economia ungherese si basa per l’80% del Pil sull’export, il nostro mercato domestico è piccolo, sviluppare politiche commerciali è fondamentale se vogliamo garantire lo standard di vita agli ungheresi cui aspiriamo. Ecco perché il trade è fondamentale e in tutto questo la chiave è la Ue, il mercato unico, quel terzo pilastro di cui ho parlato prima. La strada della Brexit non é percorribile per l’Ungheria. Ma l’integrazione politica, il delirio degli Stati Uniti d’Europa, é un’altra vicenda».
il manifesto 30.4.19
Le basi ideologiche della futura leadership
4 maggio 1919. Il marxismo fece breccia perché forniva risposte «scientifiche» all’arretratezza del paese e alle umiliazioni subite
di Alessandra Colarizi
Il 4 maggio 1919, oltre 3mila studenti cinesi confluirono in piazza Tiananmen per protestare contro la decisione annunciata a Versailles di trasferire al Giappone tutti i diritti e i territori acquisiti dalla Germania nello Shandong, polverizzando le aspettative riposte dagli intellettuali cinesi in una possibile modifica delle condizioni più umilianti imposte dalle potenze straniere nell’800 con i trattati ineguali. La cobelligeranza cinese, decretata dall’intervenuto del generale Duan Qirui e 140mila soldati cinesi nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa, fu così ripagata con l’estremo affronto: la provincia che aveva dato i natali al filosofo Confucio passava nelle mani dell’invasore giapponese.
Promossa da 13 atenei della capitale, la manifestazione studentesca si propagò nelle maggiori città del paese, finendo per coinvolgere anche la borghesia urbana e gli operai impiegati nelle fabbriche straniere e cinesi.
Erano anni di profondo smarrimento per le nuove generazioni di studenti e intellettuali, molti dei quali con esperienze di studi all’estero e pertanto più permeabili all’assimilazione di nuovi valori. L’occupazione straniera seguita alle Guerre dell’Oppio e il rovesciamento della dinastia Qing nel 1911 segnarono la fine di secoli di dominazione imperiale e l’inizio della frammentazione territoriale del Regno di Mezzo in sacche di potere sotto la guida dei signori della guerra, cricche militari spesso in combutta con le potenze imperialiste e in costante guerra tra loro. Proprio l’assenza di un potere politico centralizzato permise la nascita di un pluralismo ideologico senza eguali, che gli esperti ritengono unanimemente abbia sancito l’inizio della storia e della letteratura contemporanea cinese.
Con centro nevralgico nell’Università di Pechino (Beida), il Movimento di nuova cultura (1915-1921) si sviluppò lungo un doppio binario culturale e politico attraverso la mobilitazione di intellettuali vissuti a cavallo tra ’800 e ’900, riuniti intorno alla rivista d’avanguardia Xin Qingnian (Gioventù Nuova).
La definizione di nuove idee e valori fu accompagnata da un dibattito parallelo sulle modalità d’attuazione nella realtà locale in un confronto a tutto campo che vide schierati, tra gli altri, pragmatisti, liberali, metafisici, anarchici e darwinisti. Quasi tutti convinti che la tradizione confuciana fosse la vera responsabile dell’arretratezza cinese e del conseguente sorpasso occidentale.
Attingendo ai tentativi riformisti di fine ‘800, il movimento del 4 maggio se ne discostò radicalmente per la violenta opposizione alla tradizione gerontocratica confuciana, di cui l’istituto imperiale era considerata emanazione, sancendo il passaggio da una concezione di modelli ciclici di cambiamento in linea di continuità con il passato a una concezione occidentale di progresso su basi scientifiche ed evoluzionistiche. A farne le spese fu primo tra tutti il principio cardine della «pietà filiale» – nelle sue applicazioni politiche e sociali – a cui i promotori della riforma culturale risposero dando inedita centralità alle categorie più penalizzate dalla struttura gerarchica e patriarcale confuciana: i giovani e le donne.
Considerata un ostacolo all’alfabetizzazione e un freno al progresso del paese, la lingua cinese scritta fu ugualmente attaccata nell’ambito di una riforma letteraria sfociata nella diffusione di nuove riviste non più redatte in stile letterario (wenyan) bensì in lingua volgare (baihua). Primo passo verso una modificazione della lingua confluita trent’anni più tardi nell’introduzione dei caratteri semplificati.
In questo interludio di disgregazione territoriale, l’accezione culturalistica dell’identità politica intesa come condivisione di una scrittura comune, tradizioni, principi etici e norme rituali, per la prima volta cedette terreno al concetto di «nazionalità» come emanazione dell’etnia maggioritaria han. Si cominciò a parlare di «nazionalismo» non solo in risposta all’inettitudine dell’ultima dinastia di etnia mancese, ma anche in reazione all’ingerenza nipponica, suggellata prima con l’umiliante firma del trattato di Shimonoseki (1895) – che riconobbe l’indipendenza della Corea e la cessione al Sol Levante della penisola del Liaoning, di Taiwan e delle isole Pescadores – poi con le 21 richieste del 7 maggio 1915 che – se accettate – avrebbero gettato la Cina in uno stato di completo vassallaggio, politico, economico, diplomatico, nei confronti del Giappone.
Ma la nuova missione divulgativa della lingua scritta confermava anche la conversione dell’intellettuale all’attivismo politico in segno di rottura con il passato imperiale, quando l’istituzione del mandarinato risultava declinazione della macchina amministrativa stessa. Questo prima che nel 1905 l’abolizione degli esami imperiali distruggesse la struttura per il reclutamento delle élite politiche e sociali, avviando un moderno sistema scolastico fondato sull’integrazione tra sapere occidentale e tradizione cinese.
Le basi ideologiche delle leadership future sono tutte qui. È infatti proprio in questi anni di sperimentazione culturale che il marxismo – reduce dal successo della rivoluzione russa – fece breccia tra l’intellighenzia cinese, fornendo una spiegazione «scientifica» all’arretratezza del paese e alle umiliazioni subite nel suo ruolo di subordinazione e dipendenza all’interno del sistema capitalistico e imperialistico.
Il Partito comunista cinese vide la luce nel luglio 1921, a Shanghai, per opera del fondatore di Gioventù Nuova, Chen Duxiu, e del direttore della biblioteca della Beida, Li Dazhao. Al tempo, reduce dagli studi classici, Mao Zedong non era che uno dei tanti giovani simpatizzanti. Ma l’esperienza del 4 maggio sarebbe rimasta centrale nella sua formazione politica. In piena resistenza antigiapponese, nel 1939 il presidente in pectore definirà i moti studenteschi l’inizio di «un nuovo stadio nella rivoluzione democratica borghese cinese contro l’imperialismo e il feudalesimo»: «Nel movimento rivoluzionario democratico cinese, sono stati gli intellettuali i primi a risvegliarsi. Ma gli intellettuali non realizzeranno niente se non riusciranno a integrarsi con gli operai e i contadini».
Repubblica 30.4.19
L’«umanità esistenziale» di Leonardo Ricci
Mostre. A Santa Maria Novella, una rassegna sull’architetto fiorentino dedicata ai cento anni dalla sua nascita
di Maurizio Giufrè
Allestita nel refettorio della chiesa di Santa Maria Novella la mostra per celebrare i cent’anni dalla nascita dell’architetto Leonardo Ricci rende merito a una delle personalità più poliedriche dell’architettura del secondo Novecento. Dopo la timida anticipazione al Csac dell’Università di Parma – dove è custodita parte del suo consistente archivio – la mostra fiorentina ci permette non solo di ammirare la qualità e la libertà del suo talento creativo che trasferì anche in pittura, ma di riflettere sulle sue idee che nelle pagine dell’Anonimo del XX secolo (1962) trovarono la loro basilare sistemazione teorica. Allievo di Giovanni Michelucci con il quale si laurea nel 1942, ne diviene assistente e collaboratore. È nello studio del maestro fiorentino che incontra Edoardo Detti, Leonardo Savioli e Giuseppe Giorgio Gori.
Nel dopoguerra Ricci attua insieme con il «gruppo toscano» quei propositi di discontinuità con l’eredità del Movimento Moderno in perfetta sintonia con quanto succede a Roma, con Zevi e l’associazione per l’architettura organica, ma soprattutto coerentemente con la lezione michelucciana di opposizione a qualsiasi soluzione «reintegrativa» di ciò che la guerra aveva distrutto. La mostra non tratta il periodo degli esordi di Ricci che con il Mercato dei Fiori di Pescia (1948-51) riscuote la sua prima importante affermazione. Ci sarà occasione di farlo. Sulla lunga parete inclinata che segna il refettorio, dividendolo longitudinalmente a metà, si parte dalla Casa teorica della fine degli anni Cinquanta e si conclude, in uno spazio separato e ortogonale alla promenade, con la sua Casa studio a Monterinaldi.
IL PERCORSO espositivo rettilineo, illuminato con luce radente dal basso, è suddiviso in sezioni che rinviano all’indice dell’Anonimo, mentre all’interno di tre prismi triangolari isolati scorrono immagini in video insieme a altri materiali.
L’invenzione espositiva dello studio Eutropia Architettura consegna ai curatori (Maria Chiara Ghia, Clementina Ricci, Ugo Dattilo) un ambiente che sarebbe piaciuto a Ricci: sobrio, dissonante e logico. Rivolto all’«umanità esistenziale» dei visitatori, appare l’equivalente della sua concezione dell’architettura. Questa è presto detto è segnata dal dubbio cosciente che non ci sono «valori precostituiti» sui quali fondarla.
L’architettura intesa come il «mondo della forma» non lo interessa. È la «città-Terra» l’oggetto primo della sua riflessione, che già esiste, ma va restituita migliore attraverso l’agire collettivo. Per farlo non occorrono né «visionari» né «maestri». Non si tratta di utopia quando si tenta di «trasformare la struttura delle nostre società affinché esse si adattino alle nostre esigenze di vita». Il suo «intervento di rottura» sarà a Riesi, in Sicilia, il Villaggio “Monte degli Ulivi” voluto dal pastore Tullio Vinay che già chiamò Ricci a Prali per il Centro Ecumenico Agape (1946-56). Nell’Isola Ricci incontra Danilo Dolci del quale apprezza il suo impegno etico ma le cui «sperimentazioni» lo lasciano perplesso.
ALLA SUA MANIERA vuole creare uno spazio comunitario che come il kibbutz la gente senta proprio «fisicamente e spiritualmente». I pochi disegni in mostra rimandano alle parole di Zevi che dalla sua rubrica sull’Espresso valutò Ricci «un’eccezione»: «sferza, magari irrita, comunque muove le acque». Dettata dalla stessa spinta ossessiva di rivolgersi a una committenza che fosse una comunità, l’architetto fiorentino costruisce il Villaggio di Monterinaldi (1942-62) e partecipa insieme con altri trentasei architetti coordinati da Michelucci, alla realizzazione del Quartiere di Sorgane (1962-70), entrambi a Firenze. Quest’ultimo incompiuto perché assai contestato, ma nel quale il «furor michelucciano» (Tafuri) di Ricci si traduce in un complesso brutalista oggi molto manomesso tanto da non poterne apprezzare la varietà degli spazi pubblici interni e la complessità dell’edificio-città che più avanti, negli anni Settanta, saranno le macrostrutture pensate per la Florida, a Miami e Dog Island, progettate in Usa durante i suoi soggiorni universitari. A Monterinaldi, invece, vi giunge dopo un periodo, fertile di incontri, trascorso a Parigi: da Le Corbusier a Sartre e Camus. Sulle colline vicine a Firenze il suo desiderio è che la casa non restasse isolata. Intervenne «il caso o la fortuna» e altri richiesero averne una simile esaudendo il suo immenso desiderio: «volevo che l’architettura diventasse paesaggio e il paesaggio architettura».
GIOVANNI KLAUS KOENIG, lo storico che di Ricci fu allievo, chiarì per primo che nelle arti se un nuovo linguaggio deve essere comunicabile bisogna che prenda in prestito degli elementi e delle forme note. Pertanto Ricci per rinnovare lo spazio è «alla forma e ai materiali che affida la comprensibilità dell’opera» per involucri elementari fatti di pietra, cemento armato, vetro. L’oggetto della sua tenace ricerca sarà sempre lo spazio che si dilata vitale nella città-Terra avendo in mente l’insegnamento di Wright e il diversamente organico di Fredrick Kiesler e Andrè Bloc.
Prima di lasciare nel 1973 l’insegnamento per l’esilio volontario a Venezia, Ricci ci consegna negli anni Ottanta molti progetti per concorsi e due «antipalazzi»: il Tribunale di Savona e quello di Firenze. La mostra fiorentina non esaurisce lo scavo critico sull’opera di Ricci, ma sarà un utile riferimento per continuarlo.
https://spogli.blogspot.com/2019/05/il-manifesto-1.html