martedì 7 maggio 2019

 il manifesto 7.5.19
Per battere questi macho-nazionalisti «votiamo per un’Europa femminista»
Il confronto di domenica alla Casa delle donne. Rossana Rossanda chiede un voto a La sinistra, il confronto con Luciana Castellina, Ginevra Bompiani e Marilena Grassadonia: «Stiamo entrando nel nazismo, con consapevolezza»
di Daniela Preziosi


ROMA Le donne debbono avere un lavoro a parità di salario e di diritti. È incredibile dirlo oggi, ma fra uomini e donne c’è una differenza salariale del 23 per cento». Sembra un discorso d’antan e invece è la realtà a essersi pericolosamente rovesciata all’indietro. Rossana Rossanda, alla sua prima apparizione pubblica da quando è tornata a vivere a Roma da Parigi (ad eccezione di un’intervista tv al programma Propaganda live) viene accolta dall’applauso caldissimo della Casa internazionale delle donne. Domenica mattina, la sala Carla Lonzi è strapiena, più donne che uomini (ad ascoltare c’è anche Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e anche lui candidato), la «ragazza del secolo scorso» ha un’età e i suoi acciacchi ma non ha voluto dire no all’invito di tre candidate alle elezioni europee per discutere di «un’Europa femminile». Il confronto, organizzato dall’Altra Europa con Tsipras (una delle componenti della lista La sinistra, che qui distribuisce il suo programma), è di gran livello, con la fondatrice del manifesto c’è un’altra fondatrice, la sua amica e compagna di una vita Luciana Castellina («siamo due vecchie comuniste, io vegliarda anzi», le dice con affetto Rossanda), Ginevra Bompiani, intellettuale, editrice e ambientalista, e Marilena Grassadonia, «giovane» fra «senatrici» ma fin qui è stata instancabile attivista dei diritti civile e leader del movimento delle famiglie arcobaleno.
Si discute di movimenti femministi perché, introduce Alfonso Gianni, «oggi in giro per il mondo le donne sono avanguardie contro i regimi» e contro il macho populismo. Di conseguenza, a questo giro, le candidate «hanno una forte carica anche simbolica, per la storia e per l’autorevolezza», spiega Francesca Koch, presidente della Casa, femminista, impegnata a fronteggiare una battaglia per la sopravvivenza di uno spazio storico della città che la sindaca Virginia Raggi – la prima donna alla guida del Campidoglio – invece vuole chiudere. «Il tema dell’Europa è enorme, oggi l’Unione e l’Italia debbono decidere l’orientamento, la direzione di questo continente», istruisce il dibattito Rossanda.
La battaglia contro i nazionalismi è uno dei denominatori comuni. «Perché il leghista Matteo Salvini e gli altri attaccano le libertà di donne, lgbt e migranti? Perché con questa guerra possono imporre il loro modello culturale», spiega Grassadonia. «Le donne si battono contro le leggi di Salvini per le loro libertà, ché non possono tollerare di diventare ostaggi nei centri di raccolta», attacca Bompiani, «Non stiamo entrando nel fascismo, ma nel nazismo, e lo facciamo in piena coscienza». Chi la pensa così però non può stare a guardare: «Mi sono candidata, ho fatto questa ultima follia perché non voglio vivere così, e neanche morire». Bompiani confessa di aver imposto il titolo del dibattito perché «un’Europa femminile» è quella in cui le donne «hanno già vinto». Luciana Castellina, anche lei candidata, sì, ma nelle liste greche di Syriza a fianco di Alexis Tsipras (ma ha già spiegato che se sarà eletta rinuncerà al seggio), ammette che preferisce il termine «femminista» e lo spiega come solo una ’storica’ del manifesto potrebbe: «Quando parlavamo di dittatura del proletariato sostenevamo che ci doveva essere una rottura, così oggi per abolire il patriarcato ci vorrà, momentaneamente, un di più di potere alle donne». Applausi. Poi alla cronista ricorderà che i maoisti l’avevano capito bene, all’inizio, e infatti chiedevano non la metà di posti per le donne, ma tre quarti. Poi è andata diversamente, è storia nota.
Anche Rossanda tiene al «femminista». Lei che aveva iniziato da dirigente del Pci e che nel ’78 diceva «non sono femminista» (Le altre, un libro nato da un ciclo di interviste per la Radio Tre di Enzo Forcella) ma teneva con le sue compagne un confronto serratissimo, oggi non rinuncerebbe più a definirsi così, «la ’femminilità’è un’invenzione maschile, porta la traccia di secoli di sottomissione, poi aggiungevano che siamo ’risorse’: io non ho mai voluto essere la ’risorsa’ di nessuno, eppure ho incontrato uomini interessanti». La discussione lessicale – ma è tutta politica, è chiaro – potrebbe andare avanti all’infinito. Perché Ginevra Bompiani avrebbe un blasone da esibire, e non lo fa: è una delle fondatrici di Rivolta femminile, quello di Carla Lonzi, la matrice del femminismo degli anni 70, la più grande teorica del femminismo non solo italiano. La platea si divide (le regole della Casa sono queste, la platea riconosce autorevolezza alle oratrici ma partecipa senza complessi). Ma l’urgenza dell’attualità interrompe la disputa in punta di citazione.
«Mi batto da quando avevo 14 anni, dal giorno in cui la mia compagna di banco mi annunciò che il giorno dopo non sarebbe tornata a scuola. Era ebrea. Io non capivo perché, e neanche lei capiva», racconta Rossanda. «Le donne sono più portate all’uguaglianza dei diritti», ma non è una verità assoluta, «dobbiamo batterci per toglierci di dosso la stupidità che ci hanno incollato, non abbiamo una predilezione per i lavori di cura, per vecchi e bambini, le donne smettano di accollarselo. Ma abbiamo scaricato il lavoro della riproduzione e della cura ad altre donne provenienti dai paesi poveri, chiamandoli servizi alla persona. Dovremmo vergognarcene», «quando avevo 18 anni mai mi sarei sognata di accettare un lavoro precario per anni, e non capisco come facciamo oggi a sopportarlo». «Ho fatto un’intervista a Maurizio Landini (sul manifesto del 5 aprile scorso, ndr) per chiedergli perché la Cgil non ha aderito allo sciopero globale delle donne dello scorso 8 marzo, mi ha risposto che ’ha incontrato resistenze’», continua Rossanda, «Se fossi più giovane mi butterei nel sindacato per una lotta solidale con le altre donne».
Replica Castellina: «Ho letto il manifesto per un femminismo per il 99% di Cinzia Arruzza e Nancy Fraser, non concordo su tutto ma di sicuro sul fatto che quella fra patriarcato e capitale è un’alleanza criminale». Del resto Carla Lonzi – a lei è intestata la sala dove si sta discutendo – cinquant’anni fa esortava le donne a non aderire ai modelli di produzione dati, al lavoro scolpito per corpi e menti maschili». Le due donne si passano un libro «Europa, la posta in gioco» (manifesto libri) che spiega cosa tutti, donne e uomini, rischiamo il prossimo 26 maggio. «E ora dobbiamo evitare che quelle che saranno elette si ritrovino sole», conclude Rossanda. Standing ovation, tutte in piedi a scandire «grazie, grazie».

Corriere 7.5.19
La presidente nazionale cancella la sua partecipazione
Anche Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani, non sarà a Torino: situazione intollerabile


Anche Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani, non sarà a Torino. La scelta — ha fatto sapere Nespolo, che al Salone avrebbe dovuto presentare, insieme a Bruno Gambarotta, il volume di Tina Anselmi La Gabriella in bicicletta. La mia Resistenza raccontata ai ragazzi — deriva «dall’intollerabile presenza della casa editrice Altaforte che pubblica volumi elogiativi del fascismo oltreché la rivista “Primato nazionale”, vicina a CasaPound e denigratrice della Resistenza e dell’Anpi stessa». Di diverso avviso Manni Editori, che pubblica il libro di Tina Anselmi: «Comprendiamo la decisione di Carla di dare un segnale forte di reazione e resistenza alla presenza sempre più pervasiva di rigurgiti della cultura e delle pratiche fasciste in Italia, avallata e favorita da alcune scelte politiche del governo e particolarmente della Lega di Salvini — dicono dalla casa editrice —. Ma crediamo che, proprio considerata la gravità del momento storico, è importante esserci, manifestare il proprio dissenso, ragionare su cos’è stato il fascismo e cosa la Resistenza». Manni conferma dunque la presenza a Torino, «nello stesso spirito dell’Anpi», e la presentazione del libro (il 10 maggio alle 10.30) con Gambarotta, presidente dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza. «Dobbiamo reagire e resistere alla presenza fascista con il nostro presidio culturale», conclude l’editore.

La Stampa 7.5.19
“O noi o l’editrice di CasaPound”
Il museo di Auschwitz avverte Torino
Comune e Regione ribadiscono: siamo antifascisti. Ma per ora la richiesta è senza risposta
di Luca Ferrua


Volete Auschwitz o la casa editrice, vicina a CasaPound, Altaforte? Di provocazione in provocazione lo psicodramma del Salone del Libro di Torino mette gli organizzatori di fronte a un nodo che con il buonsenso non si potrà sciogliere. L’ultimo atto della vicenda risale a ieri sera, quando è arrivata la lettera firmata da Halina Birenbaum, sopravvissuta al lager, dal direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, Piotr M. A. Cywiński, e dal presidente e dall’ideatore del «Treno della memoria» ovvero Paolo Paticchio e il torinese Michele Curto (coinvolto, peraltro, in un’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati ai Rom).
Dalla lettera emerge una richiesta ferma, indirizzata al Comune di Torino come «istituzione e come azionista indiretto del Salone»: quella di scegliere tra avere al Lingotto Halina Birenbaum e il museo di Auschwitz oppure lo stand della casa editrice Altaforte. Le parole non lasciano dubbi: «Non si può chiedere ai sopravvissuti di condividere lo spazio con chi mette in discussione i fatti storici che hanno portato all’Olocausto, con chi ripropone una idea fascista della società». E aggiungono: «Non si tratta, come ha semplificato qualcuno, del rispetto di un contratto con una casa editrice, bensì del valore più alto delle istituzioni democratiche, della loro vigilanza, dei loro anticorpi, della costituzione italiana, che supera qualunque contratto».
La sindaca ieri ha sottolineato che «Torino è antifascista e al Salone ci sarà perché le idee si combattono con idee più forti». Ma la lettera chiede di rescindere il contratto con Altaforte. E quella è un’altra storia.
Il contratto lo hanno stipulato gli organizzatori del Salone dicendo sì alla richiesta di una casa editrice che è stata accettata come tutte le altre e che ha già pagato il suo spazio ben prima di diventare un caso politico. I vertici del Comitato di Indirizzo che guida il nuovo Salone ieri sono stati riuniti fino a notte alta negli uffici del Circolo dei Lettori trasformato in bunker inviolabile. La loro posizione è sempre la stessa, anche di fronte alle ultime dichiarazioni del leader di Altaforte Francesco Polacchi che ieri evidenziava il suo sentirsi fascista: «Le dichiarazioni non spostano l’asse. Nessuna lo fa. Sappiamo che è una provocazione ma il Salone resta aperto a tutti».
L’esempio che circola nei corridoi dello storico palazzo del centro di Torino rende bene l’idea: «Non vogliamo fare la fine di Totti che è stato provocato da Poulsen per tutta la partita ma ha finito per essere lui l’espulso». Una posizione che mostra tutta la sua complessità, anche perché nel cuore del Salone c’è pure l’Aie casa di tutti - ma proprio tutti - gli editori la cui presa di posizione si può più o meno sintetizzare in questo concetto: «Chiunque ami i libri e la lettura ha nel proprio Dna la libertà di pensiero, di espressione e in particolare di edizione in tutte le sue forme».
Oggi alla luce della lettera firmata dal direttore di Auschwitz e delle continue provocazioni in arrivo da CasaPound è probabile che vengano prese in esame strade diverse, la situazione è in continua evoluzione. Solo ieri è arrivata la defezione di Zerocalcare, uno da folle oceaniche che al Salone mancherà e che in coda al post su Facebook con cui annunciava l’addio ha aperto forse il vero fronte di questa vicenda: «’Sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro».
Il caso è divampato in un momento di profonde lacerazioni politiche e sta travolgendo un Salone che sull’onda dell’entusiasmo dell’edizione del rilancio non ha fatto in tempo a mettere in campo gli anticorpi per evitare di essere strumentalizzato da Altaforte, capace di conquistare una visibilità inimmaginabile fino a pochi giorni fa. Il Salone comincia giovedì ed è il momento delle scelte, ma il peso non può restare solo sulle spalle degli organizzatori. Città e Regione - che ieri hanno sottolineato il loro essere antifascisti - devono fare la loro parte, magari cominciando a rispondere alla lettera partita da Auschwitz.

il manifesto 7.5.19
Egemonia culturale e pensiero critico: i nodi in scena a Torino
Il saloon del libro. La presenza di una casa editrice dichiaratamente fascista tra gli stand della kermesse ha scatenato la discussione a sinistra
Un merito a Christian Raimo bisogna riconoscerlo. Ha lacerato il velo di ipocrisia che nel corso degli anni ha avvolto l’appuntamento più importante dell’editoria italiana, ovvero il Salone del libro di Torino.
di Benedetto Vecchi


Un merito a Christian Raimo bisogna riconoscerlo. Ha lacerato il velo di ipocrisia che nel corso degli anni ha avvolto l’appuntamento più importante dell’editoria italiana, ovvero il Salone del libro di Torino.
CON UN POST, POI CANCELLATO, inviato sulla sua bacheca di Facebook lo scrittore italiano ha compiuto quell’atto semplice difficile a farsi. Ha scritto che l’antifascismo è una discriminante che non ha perso valore con il trascorrere del tempo da quando partigiani hanno chiamato il popolo italiano all’insurrezione contro il regime della Repubblica sociale italiana e l’occupazione nazista. Raimo, oltre a dispiacersi della presenza di una casa editrice che non nasconde la sua nostalgia per il ventennio mussoliniano, ha puntato l’indice anche contro chi, nel governo, fa quotidiano esercizio di razzismo e xenofobia.
Tutto è nato con l’annuncio che al Salone del libro edizione 2019 sarà presente la casa editrice Altaforte, una specie di megafono editoriale di Casa Pound, che ha recentemente pubblicato un libro intervista a Matteo Salvini. D’altronde il capo della casa editrice, Francesco Polacchi, è anche il produttore delle pacchiane felpe indossate dal ministro degli interni nelle sue apparizioni dove dispendia a piene mani il fiele di «prima gli italiani».
Christian Raimo ha detto che gli intellettuali, gli scrittori e persino i giornalisti non possono chiudere gli occhi su questa marea montante di xenofobia e indifferenza verso vecchio e nuovo fascismo. Apriti cielo. È iniziato subito il fuoco a parole incrociate contro la direzione del Salone del libro. Il sottosegretario ai beni culturali Lucia Borgonzoni ha chiesto a Nicola Lagioia di dissociarsi dalla parole scandalose di un suo consulente, come era fino a qualche giorno fa Christian Raimo.
INVECE DI MANTENERE IL PUNTO, lo scrittore italiano ha preferito inviare un altro post annunciando le sue dimissioni da consulente del Salone del Libro, motivandole con l’intenzione di non arrecare danno all’appuntamento torinese.
Per Nicola Lagioia una gatta da pelare in meno. L’antifascismo è salvo (a parole), ma soprattutto salva è l’amicizia e la stima che lega i due intellettuali italiani. Ieri, infine nuova esternazione di Raimo: lui al Salone ci andrà come scrittore, italiano, cittadino democratico. La polemica poteva finire qui, dato che tutto era ritornato nell’ordine di una iniziativa che nel corso degli anni non ha scontentato mai nessuno. Ottimo palco per scrittori, saggisti, casa editrici. Autori mainstream e controcorrente hanno potuto parlare dei loro libri in una manifestazione che ha visto crescere il pubblico anno dopo anno. Lieto sarà il capo di Altaforte, che mai avrebbe sperato in così tanto clamore per un libro che altrimenti avrebbe appassionato solo la claque plaudente della Lega.
NEL FRATTEMPO hanno preso parola altri intellettuali, a partire dal collettivo Wu Ming che ha annunciato che non sarà a Torino. Sullo stesso tenore le dichiarazioni dello storico Carlo Ginzburg, di Francesca Mannocchi, autrice di libri e reportage sulla guerra a bassa intensità dichiarata dall’Italia e dalla fortezza Europa contro i migranti e di Zerocalcare. Di diverso tenore invece la presa di parola di Michela Murgia, che invita a presidiare in massa il Salone del libro e togliere così spazio ai fascisti. La partecipazione di una casa editrice della destra radicale è un incidente di percorso, dicono i soliti commentatori protagonisti per le loro banalità nelle tempeste in un bicchier d’acqua. C’è da dire che il velo di ipocrisia squarciato, ma subito rammendato da Christian Raimo fa emergere una realtà più articolata e meno rosea di quella dipinta da coloro che guardano al programma del Salone come un esempio di radicalità teorica e di costituzione di una sfera pubblica non omologata.
DIETRO LA PARTECIPAZIONE di una casa editrice di destra estrema alla kermesse torinese c’è un nodo che rischia di diventare un nodo scorsoio al pensiero critico. A essere messa in discussione da decenni è la presunta egemonia della sinistra nella produzione culturale, un fantasma che si aggira tra chi vuol archiviare l’antifascismo come dato fondante della Repubblica nata dalla Resistenza; e tra chi, sulle colonne dei maggiori quotidiani italiani, da oltre un ventennio agisce come un agit prop del decisionismo, del riduzionismo nelle procedure democratiche e di chi guarda all’individuo proprietario come il faro che dovrebbe guidare la riflessione sulla modernità più o meno liquida del neoliberismo.
IL PENSIERO CRITICO deve cioè essere ridotto a fabula tra le tante, variazione sul tema ossequioso del potere costituito basato su quella postverità che costituisce ormai l’asse portante della discussione pubblica. Per costoro vale ricordare la riflessione di Enzo Traverso sul vecchio e nuovo fascismo (il manifesto, 24 aprile 2019).
Il fascismo di oggi ha punti di contatto ma significative differenze con quello storico. Compito del pensiero critico è individuare le une e le altre. Altro discorso è se c’è un pericolo fascista alle porte. Siamo cioè come quella scena descritta da Ian McEwan in Cani neri: nel momento del trionfo della democrazia liberale, possono danzare sulle macerie del Muro di Berlino neonazisti impenitenti. Peccato che il Muro di Berlino sia caduto ormai da trenta anni.
Più realisticamente va affermato che montante è semmai l’ideologia di chi vuole cancellare l’antifascismo senza per questo auspicare necessariamente un regime fascista. Infine, un dato viene spesso dimenticato. Il Salone del libro è da anni lo spazio pubblico dove scorre il sotterraneo conflitto teso ad addomesticare la produzione culturale. Più che programma radicale, quello dell’edizione 2019, come quello degli anni passati, è un programma politicamente corretto, buono per tutti i palati.
NELL’ULTIMO BIENNIO, Nicola Lagioia ha dovuto fronteggiare la competizione di imprenditori culturali che volevano far diventare Milano il centro nevralgico dell’editoria italiana, allorquando hanno pensato di allestire una fiera del libro alternativa a quella torinese. Con intelligenza, il direttore del Salone lo ha riqualificato, sottraendolo innanzitutto al gorgo di corruzione, affari poco chiari che alcune iniziative spregiudicate rischiavano di trascinare a fondo. Così Torino è tornato ad essere l’appuntamento più importante dell’editoria italiana. Con il rischio però di una forte riduzione della bibliodiversità. Ormai essere presente ala Lingotto costa molto.
E se le grandi case editrici possono permetterselo, le piccole e gli «indipendenti» hanno difficoltà ad affittare stand, pagare le trasferte di dipendenti spesso con contratti precari, al punto che negli anni passati gli immensi spazi dell’ex stabilimento Fiat sono stati teatro di contestazioni, cortei interni organizzati da precari che volevano mettere in evidenza come spesso i libri sono frutto di bassi salari, diritti ridotti al lumicino e sfruttamento a tempo indeterminato. Anche la disposizione spaziale, geografica degli editori riflette il potere di mercato.
Gli edifici centrali del Lingotto sono infatti saldamente presidiati dai grandi editori; gli altri sono spesso relegati in «periferia». Il Salone non riesce cioè ad essere il contraltare di quella concentrazione oligopolistica della produzione, distribuzione e vendita che caratterizza, in Italia come nel mondo, l’editoria (a quando la polemica contro Amazon?). Chi ne soffre sono gli indipendenti e i piccoli. Questo è il panorama che si impone al visitatore, una macchina organizzativa che mobilita centinaia di uomini e donne e che alimenta un indotto economico che fattura milioni e milioni di euro.
Che l’antifascismo sia una discriminante non è qui messo in dubbio. Fa bene chi ne attualizza il valore. Il modo migliore per farlo vivere, rompendo la gabbia di una logora retorica dove è stato richiuso, è però fare i conti con quella concentrazione nelle mani di pochi editori della produzione di contenuti basata sulla svalorizzazione del lavoro culturale.

il manifesto 7.5.19
Come Zerocalcare
Roberto Piumini, l’antifascismo del singolo
Parla lo scrittore per ragazzi bresciano «La mia è una presa di posizione legata solo a questa situazione, una sottolineatura di tipo pedagogico»
intervistadi Mario Di Vito


Il fronte degli scrittori e delle scrittrici che non andranno al Salone del Libro di Torino in polemica con la presenza di editori che, in maniera palese o sotto mentite spoglie, si richiamano al fascismo continua a crescere. Tra chi ha scelto di dire no all’appuntamento editoriale dell’anno c’è Roberto Piumini, autore di romanzi e poesie con una particolare predilezione per l’universo dei più giovani.
Non è la prima volta che lo scrittore assume posizioni simili: già qualche anno fa, quando l’allora semplicemente segretario della Lega Matteo Salvini finì al centro di una polemica per la vicenda di alcuni bambini a cui veniva negata la mensa scolastica, Roberto Piumini – originario di Edolo (Brescia) – scrisse un testo in polemica con l’Icwa (Italian Children Writer’s association) che preferì non prendere posizione sulla vicenda.
Oggi la questione non è molto diversa, e così la presentazione torinese del suo ultimo libro Storie per una voce quieta (Oligo editore) in programma per sabato mattina non si terrà.
«L’istituzione può cavillare, distinguere e riservare alla magistratura il compito di combattere il fascismo – dice Piumini -. Il singolo cittadino può invece praticare un antifascismo più diretto e sanguigno. Storie per voce quieta sì, ma dentro un’inquieta attenzione e ansia verso l’emergere e il riemergere delle umane pestilenze. Non partecipo quindi all’incontro di Torino prendendomi naturalmente l’intera responsabilità della decisione».
Piumini, può dirci qualcosa in più?
La mia è una scelta chiaramente di non associazione e di attenzione verso certe presenze. Il singolo antifascista credo possa permettersi di non avere le delicatezze sistemiche di chi organizza un evento come il Salone. La mia è un’opposizione a qualcosa che disapprovo. Per quanto mi riguarda, e per il pubblico che mi segue, togliere la mia presenza è un modo per far sapere come la penso io su certi temi. Però c’è un’altra cosa.
Ce la può spiegare?
Il mio editore quasi ci è rimasto male per la mia assenza, e allora ho deciso di inviare comunque una mia testimonianza. Si tratterà di una poesia che spiegherà bene la mia posizione. Il mio civismo si esprime così, sia per chi mi conosce sia soprattutto per chi non mi conosce. Diciamo che si tratta di un compromesso raggiunto con l’editore.
E cosa pensa invece delle scrittrici e degli scrittori che, pur essendo antifascisti, andranno comunque al Salone?
Per l’amor del cielo, non ho nulla da rimproverare. È una situazione complessa, lo riconosco. Oggi, ad esempio, mi è stato detto che se non vado al Salone allora non dovrei nemmeno andare a presentare il libro dove ci sono testi pubblicati da editori fascisti. All’inizio sono rimasto un po’ perplesso davanti a questa affermazione, poi ho fatto un sillogismo: se è così, non dovrei nemmeno camminare sulla terra perché ci camminano anche i fascisti. La mia è una presa di posizione legata solo a questa situazione, una sottolineatura di tipo pedagogico: voglio indicare a chi ha orecchie per sentire ed emozioni per emozionarsi un senso d’urgenza e di bisogno di dire no a certe cose. Sentivo il bisogno di fare qualcosa al di là del punto di vista legalitario.

il manifesto 7.5.19
Non dobbiamo abbandonare il campo
di Norma Rangeri


Non c’è bisogno di scomodare Voltaire o scrivere un nuovo Trattato sulla tolleranza, molto più semplicemente sono d’accordo con Michela Murgia: «io vado a Torino, non lasciamo la Fiera ai fascisti». Il trambusto che agita il Salone si riferisce alla presenza di una casa editrice vicina a CasaPound, alla mostra con un libro-intervista al ministro dell’interno Salvini, pura merce fascistoide, come l’ha definita lo storico Luciano Canfora, un articolo che, purtroppo, in questo momento si vende come un gadget assai popolare.
È del tutto legittimo, e non c’è proprio niente da scandalizzarsi, nel chiedere che la casa editrice, diretta da una persona che apertamente rivendica («Sono fascista, il problema è l’antifascismo»), sia messa fuori dalla Fiera. O scegliere individualmente, come autore, di non presentare il proprio libro. Sta poi all’organizzazione del Salone decidere, e la determinazione, all’unanimità, alla fine è stata di non espellere nessuno.
Anche lo scrittore Christian Raimo, motore della protesta con le dimissioni da consulente, fa sapere che ci andrà pur se a titolo personale perché, dice, non vuole perdersi la migliore Fiera del libro degli ultimi anni.
«Se CasaPound mette un picchetto nel mio quartiere che faccio? Me ne vado dal quartiere?». La domanda della scrittrice Murgia è retorica perché, abbiamo appena attraversato un 25 Aprile di lotta, di fronte ai fascisti non si arretra e, non meno rilevante, l’arma della censura, lo abbiamo imparato, è sempre a doppio taglio.
La motivazione di non lasciare il campo travalica poi l’aspetto politico, per investire quello culturale – stiamo parlando di libri, di case editrici. I compagni della vecchia scuola consigliavano a noi giovani, un po’ sorpresi, di leggere il Mein Kampf, di leggerlo e rileggerlo per capire l’infamia del nazismo nella storia.
Oltretutto se portassimo alle estreme conseguenze la scelta di non partecipare al grande mercato librario, nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Primo Levi, e moltissimi saranno i dibattiti sul tema del fascismo, della xenofobia, del razzismo, il risultato sarebbe l’annullamento del Salone, con i sentiti ringraziamenti di chi si vede promosso all’insperato ruolo di pietra dello scandalo. Un formidabile boomerang.

il manifesto 7.5.19
L’editore di CasaPound Francesco Polacchi
Chi è il responsabile della casa editrice dichiaratamente fascista che sarà presente al Salone
di Giansandro Merli


Nelle ultime ore radio e giornali di importanza nazionale hanno dato voce a Francesco Polacchi, in qualità di responsabile della casa editrice Altaforte. Polacchi, coordinatore regionale per la Lombardia del partito di Casapound, ha rivendicato il patrimonio storico e simbolico della sua area politica su Radio 24 ai microfoni de La Zanzara: «Sì sono fascista», «Mussolini è stato il miglior statista italiano». In un’intervista al Corriere della Sera, invece, ha preferito fare appello a Voltaire e alla libertà di espressione, accusando la «sinistra» di aizzare una caccia alle streghe, minacciare i membri della casa editrice e stilare liste di proscrizione.
Non è la prima volta che l’esponente di estrema destra finisce sulle pagine dei giornali. Nell’agosto del 2007 è arrestato a Porto Rotondo, in Sardegna, e imputato di tentato omicidio. L’accusa è aver accoltellato all’addome Stefano Moretti, 35enne originario di Sassari, nel corso di un’aggressione realizzata all’esterno della discoteca Mantra insieme ad altre 10 persone.
Appena due anni dopo Polacchi è immortalato in uno scatto diventato celebre. È il 28 ottobre 2018 e si trova in piazza Navona. Camicia aperta, sguardo concentrato e bastone in mano nascosto da un tricolore. Davanti ha un corteo antifascista partito dalle facoltà occupate dal movimento dell’Onda dopo che si è diffusa la notizia che militanti di Casapound e Blocco Studentesco sono entrati nella manifestazione degli studenti medi facendosi largo a colpi di cinta. Quando le forze dell’ordine intervengono per mettere fine agli scontri tra le due parti, alcuni antifascisti sono arrestati, mentre un funzionario della digos si rivolge in tono familiare a Polacchi. Lo chiama per nome e lo invita a spostarsi. Lui risponde: «Questi sono i miei ragazzi. La conoscete la prassi».
Nei giorni seguenti alcuni giornalisti che tentano di fare chiarezza sulle violenze contro gli studenti vengono minacciati. Tra loro Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto?, che oltre a telefonate minatorie subisce un blitz nella sede Rai di via Teulada da parte di una quarantina di uomini a volto coperto. Casapound rivendica l’azione parlando di «liste di proscrizione» contro i suoi militanti.
Il 13 aprile 2010, invece, un gruppo di neofascisti se la prende con alcuni ragazzi del centro sociale Acrobax che stanno attacchinando nel quartiere romano di San Paolo, nei pressi dell’università Roma 3. Gli estremisti di destra, però, hanno la peggio. Polacchi finisce in ospedale con un braccio rotto e ferite al volto.
Dopo una lunga assenza dalla scena, ricompare alla testa di 20 teste rasate a Palazzo Marino, sede del comune di Milano. È il 30 giugno 2017, fuori è in corso un presidio della rete «Nessuna persona è illegale» che ha fatto entrare una delegazione. I militanti della tartaruga aggrediscono le donne e gli uomini che la compongono. Un 70enne finisce in ospedale. Polacchi viene rinviato nuovamente a giudizio con l’accusa di lesioni.

il manifesto 7.5.19
Dopo il flop, Guaidó resta senza esercito e senza popolo
Venezuela. Archiviata la disfatta dell’«Operazione libertà», il leader della destra torna a confidare nell’intervento militare Usa. Ma nessuno lo segue più
di Claudia Fanti


Per l’opposizione venezuelana si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato nella sua lotta contro il chavismo. L’insuccesso di quella che Juan Guaidó aveva annunciato come la «fase definitiva dell’Operazione libertà» è stato talmente evidente che persino l’autoproclamato presidente ad interim ha dovuto mettere per una volta da parte i toni trionfalistici e riconoscere il clamoroso flop.
LO HA FATTO durante un’intervista concessa al Washington Post, ammettendo di aver sbagliato ad aspettarsi un’ondata di diserzioni all’interno dell’esercito tale da costringere Maduro alle dimissioni: «Forse – ha detto – necessitiamo di un maggior numero di soldati o, forse, abbiamo bisogno di altre figure di spicco del regime che siano disposte ad appoggiare la Costituzione».
Ma, se Guaidó ha fallito, è soprattutto perché il popolo venezuelano – anche quello che ha preso le distanze da Maduro – si rifiuta chiaramente di seguirlo. L’appello rivolto sabato ai suoi sostenitori a concentrarsi dinanzi alle principali unità militari in tutto il paese per convincere i soldati a disertare è infatti caduto pressoché nel vuoto, come stavolta ha riconosciuto persino la grande stampa internazionale: solo poche decine di persone si sono presentante nei punti previsti, senza peraltro andare incontro ad alcuna misura repressiva. E alla Casona, la residenza ufficiale della presidenza del Venezuela (dove però non abita Maduro), i funzionari della Guardia nazionale bolivariana hanno ricevuto l’appello dalle mani dell’opposizione e gli hanno dato fuoco.
SENZA POPOLO e senza esercito, non sapendo più che pesci prendere, il leader dell’estrema destra torna allora a confidare nuovamente in un intervento militare degli Stati uniti, esattamente come aveva fatto all’indomani dell’altro suo grande fallimento, quello del 23 febbraio relativo al mancato ingresso degli aiuti umanitari.
INTERROGATO infatti dal Washington Post su una eventuale offerta di intervento militare in Venezuela da parte di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza della Casa bianca, Guaidó ha spiegato quale sarebbe la sua risposta: «Caro amico, grazie per tutto l’aiuto che hai offerto per la nostra causa. Grazie per indicarci tale opzione, la valuteremo e probabilmente la esamineremo in Parlamento. E, se necessario, la approveremo». E ha aggiunto: «Stiamo considerando tutte le opzioni. È bene sapere che anche alleati importanti come gli Stati uniti le stiano valutando. Questo ci rassicura sul fatto che, nel caso avessimo bisogno di cooperazione, sapremo dove trovarla».
IL PROBLEMA, PER GUAIDÓ, è che l’intervento militare resta, tra tutte le vie, quella sicuramente meno percorribile, e per una grande quantità di ragioni, evidenziate più volte e da più parti: la potenza numerica della forza armata bolivariana (230mila militari) e gli avanzati armamenti di cui dispone, le alleanze su cui può contare il governo Maduro (a cominciare da quella, decisiva, della Russia), le resistenze internazionali a cui andrebbe incontro il ricorso all’uso della forza, le divisioni interne alla stessa amministrazione Trump, la netta opposizione a ogni ipotesi di guerra da parte della popolazione venezuelana.
E, IN ASSENZA DI UN INTERVENTO militare, Maduro al potere rischia di restarci ancora a lungo, non essendo la via dello strangolamento economico destinata a rovesciarlo in tempi brevi. Uno scenario che, per Guaidó, screditato tra le stesse fila dell’opposizione per la mancanza di risultati concreti e sempre più preso di mira dalle reti sociali, significherebbe una condanna alla totale irrilevanza politica.

il manifesto 7.5.19
Per il Venezuela pronti 5 mila mercenari della Blackwater
WASHINGTON/CARACAS. Il vecchio progetto di John Bolton torna in pista. Miliziani di lingua spagnola, costo per 40 milioni di $. Il proprietario è «grande elettore» di Trump
di Roberto Livi


L'AVANA Edizione del Fallito il tentato golpe di Guaidó, il super gorilla della sicurezza nazionale Usa, John Bolton, non disarma. Nemmeno dopo non essere riuscito – per ora – a convincere il suo capo Donald Trump della necessità di inviare i marines in Venezuela. Bolton infatti ha un piano B. Che prepara da mesi. Da quando, lo scorso gennaio, presentandosi a una conferenza stampa, mostrava un block notes giallo con una scritta a penna che i fotografi e cameramen hanno filmato e ingrandito e dove si leggeva «5000 militari in Colombia».
A chiarire ci ha pensato alcuni giorni fa Erik Prince, il proprietario della Blackwater, la prima compagnia privata di sicurezza – leggi di mercenari – costituita inizialmente per appoggiare le Forze armate Usa. Prince ha affermato, per la Reuters, che per sbloccare la situazione in Venezuela, occorre «un evento dinamico». E lui sta preparandolo da tempo formando un corpo appunto di 5000 mercenari, di lingua spagnola, soprattutto colombiani, peruviani e ecuadoriani, da inviare in Venezuela. A un costo, 40 milioni di dollari, tutto sommato accettabile, sia per il milionario The Donald – di cui Prince è un sostenitore tanto da aver contributo a finanziare la sua campagna presidenziale – sia per gli adinerados venezuelani residenti a Miami e dintorni.
In materia di guerre e dintorni il Pentagono e la Cia si dimostrano assai creativi. Quello che, per un minimo di decenza internazionale, non possono fare i marines lo affidano ai contractors. Così avviene dal 2002, quando la Blackwater inviò i suoi contractors in Afghanistan e poi in Iraq. Salvo che alle volte questi mercenari esagerano anche per i bassi standard etici del Pentagono. È quanto accadde nel 2007 in Iraq quando il New York Times rivelò che i mercenari erano responsabili dell’assassinio di 17 civili in un’azione in piazza Nisour a Baghdad, dove fecero anche 24 feriti. Non solo, il giornale statunitense rivelò che la Blackwater aveva partecipato anche a «detenzioni extragiudiziali» (rapimenti) e ad assassinii programmati dalla Cia. A parte contratti milionari, naturalmente la Blackewater ha avuto anche garantita l’immunità per i suoi scherani, dopo condanne di facciata per i killer.
Per aggirare la cattiva propaganda, e assicurarsi nuovi contratti, la società ha cambiato nome in Academi, ma la Blackwater/Academi continua a fare buoni affari. Questa impresa di mercenari, secondo The Guardian, è passata da un fatturato di 200.000 dollari annui prima dell’11 settembre 2001 ai 600 milioni del 2006 e a circa un miliardo di dollari attuali.
Lital Leshem, direttore delle relazioni con gli investitori di una delle compagnie di Prince, ha confermato che il suo capo stava lavorando a una soluzione della crisi in Venezuela «come pure ha una soluzione per molti altri posti». A parte, forse, Bolton pochi credono che Prince e la Blackwater/Academi possano veramente intervenire nella crisi venezuelana. Ma anche per i mercenari la pubblicità è l’anima del commercio.

Il Fatto 7.5.19
Terrapiattisti, l’inganno del grande inganno
di Virginia Della Sala


L’equazione è semplice: “L’acqua non curva, quindi la terra è piatta”. È semplice, ma non tiene conto delle basilari leggi della fisica ed è infatti una di quelle equazioni promosse da chi crede che la Terra sia piatta. Il 12 maggio, a Palermo (comune che ha già preso le distanze dall’iniziativa) ci sarà il congresso italiano dei terrapiattisti. Si riuniranno in un hotel del centro (“Garibaldi – si legge in un post – l’eroe dei due mondi discoidali”), terranno interventi suddivisi in quattro sessioni, pranzeranno nel giardino Inglese con i relatori (“ma è facoltativo” specificano), parlaranno “dell’ assenza della curvatura terrestre”, introdurranno “all’astronomia zetetica” e alla “free energy”. Pare ci andrà di mezzo anche l’egocentrismo della stella polare.
Chi sono e cosa credono
Persone normali, laureati, diplomati, impiegati, anche con un livello di istruzione medio alto. Che, però, credono che il polo sud non sia altro che una parete di ghiaccio che circonda una enorme distesa di terra e acqua e che il sole e la luna siano soltanto delle luci che si muovono in circolo nel cielo dentro una enorme cupola ricoperta di stelle. Sostengono le loro teorie sull’empirismo, ritengono che sarebbe impossibile – se la terra fosse curva – riuscire a scorgere una città a chilometri di distanza visto che in teoria dovrebbe essere su un altro versante del globo. Non esiste rifrazione, non esistono gli effetti della luce e delle condizioni atmosferiche, non c’è legge della fisica che tenga. O se ci sono, i loro calcoli dimostrano sempre che quanto scritto e calcolato finora era sbagliato. “Quello che ci rende sempre più forti e che ci sta facendo vincere – dice Mark Sargent, uno dei volti mondiali più noti del terrapiattismo, nel documentario Behind the Curve – è che la scienza ha problemi a confutare quello che facciamo. Vinciamo contro la scienza perché la scienza risponde solo con formule matematiche mentre noi puntiamo il dito verso l’orizzonte e diciamo ‘Hey, quella è Seattle’. Questo è tutto: un’immagine vale più di mille parole”.
La storia e l’evoluzione
“Le teorie terrapiattiste – ci spiega Massimo Polidoro, segretario nazionale del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze ) – si possono far risalire agli albori della civiltà sumera, all’idea che la terra fosse una superficie. Eppure, già dal sesto secolo avanti Cristo, che la terra fosse sferica era assodato. Lo si capiva dallo studio dei movimenti del sole, dalle ombre, dagli oggetti che si avvicinavano all’orizzonte”. Una convinzione che poi si è trasmessa per secoli. “Non è vero, ad esempio, che nel Medioevo si credeva che fosse piatta. Anche perché, se così fosse, non avrebbe avuto senso la spedizione di Colombo alla scoperta delle Indie che, in pratica, si basava proprio sull’idea di raggiungerle facendo il giro inverso della Terra” spiega Polidoro.
Le cose cambiano intorno alla metà dell’Ottocento quando Samuel Rowbotham, un eccentrico divulgatore inglese, pubblica un libretto di 16 pagine in cui sostiene che la Terra sia piatta. “Una interpretazione che serve a confermare la veridicità della sua fede religiosa – spiega Polidoro -. Rowbotham riteneva che astronomia e fisica fossero roba da atei”. Il libretto si intitola “Astronomia Zetetica: la Terra non è un globo” e da qui arriva l’aggettivo “zetetica” (dal greco zêtêin, che significa indagare) usato per definire la sua visione dell’astronomia: la Terra come un disco piano, con il Polo Nord al centro e il Sud costituito dalla circonferenza del cerchio. Negli anni, il libretto viene stampato diverse volte fino a diventare un volume di 430 pagine. E alla morte di Rowbotham nasce la Universal Zetetic Society che pubblica anche una rivista. Con le guerre mondiali, il movimento va in contro un progressivo declino.
Lo scontro con la Nasa
Tutto si rivitalizza intorno agli anni 50. Nel 1956 un membro della Royal Astronomical Society, Samuel Shenton, fonda la Flat Earth Society, proprio a ridosso delle scoperte della Nasa. Ci sono i primi satelliti in orbita, le missioni nello spazio, diventa sempre più difficile continuare a sostenere che la Terra sia piatta, le evidenze scientifiche a quel punto non sono più solo studi matematici ma anche osservazione. Con lo sbarco sulla Luna arriva il colpo finale. “Ovviamente chi crede che la terra sia piatta crede anche che sulla Luna non ci siano mai andati” spiega Polidoro. Insomma, anche se le fila dei terrapiattisti si ingrossano un po’, le evidenze continuano a surclassare il complotto. Che negli anni Novanta è circoscritto e tutto sommato ancora trascurabile.
Quando tutto cambia
Tutto cambia nei primi anni 2000. Internet, Youtube e i social media fanno cadere i confini globali. “I primi a commentare e a portare avanti le loro teorie antiscientifiche sono troll – spiega Polidoro -. Sono innocui, commentano le scoperte. Ma i social acuiscono la polarizzazione, bene o male che sia, si comincia a parlarne. E più si polarizza la discussione, più se ne parla e più crescono comunità pro e contro. E nasce un nuovo pubblico”. Si chiama cascata del consenso e, purtroppo, funziona.
I prodotti su misura
In effetti la rete è piena di prodotti sulle teorie terrapiattiste. Youtube si riempie presto di video in cui si spiegano con quali indizi sia possibile dimostrare che la Terra è piatta (“Perché non ci sono voli oceanici diretti ?” ), podcast, interviste che i terrapiattisti fanno tra loro (“I dinosauri sono una invenzione”), siti web con mappe e spiegazioni dettagliate sul complotto mondiale per nascondere la verità con foto e videomontaggi per confondere le idee (“Nasa in ebraico vuol dire ‘inganno’”). La pagina Facebook “Flat Earth”, che ha un forte taglio religioso, oggi ha 227mila follower. L’ultimo video pubblicato, a fine aprile, vuole dimostrare che l’11 settembre fosse già deciso.
In Italia, oggi, il gruppo Facebook più attivo si chiama “Terra magick, I Terrestri del Grande Geoide Geocentrico” ed è composto da circa 7400 utenti. Anche qui teorie, meme su chi non crede alle teorie e iniziative. Stanno raccogliendo 10 euro a testa per lanciare a 40 chilometri d’altezza un pallone sonda. “Lo scopo del progetto ATI – spiegano – è progettare, costruire e lanciare un pallone sonda con strumentazione scientifica per l’osservazione della terra dalla stratosfera alla quota stimata di 40.000 metri e di recuperare al rientro i diversi componenti”. Data e ora e luogo saranno comunicati una volta raccolto budget e permessi, specificano.
Cosa c’è davvero sotto
É una sorta di complotto del complotto. Si convincono, e riescono a convincere gli altri, che la scienza sia pilotata, che gli astronomi siano tutti d’accordo per nascondere al mondo che la Terra è piatta. “E più se ne convincono più, per quel fenomeno che si chiama dissonanza cognitiva, cercano e producono prove che rafforzano le loro convinzioni. Semplicemente ignorando le prove che vanno contro ciò in cui credono” dice Polidoro. Si tratta comunque di una platea molto vasta. Secondo una indagine 2018 in Usa, circa il 2% degli intervistati crede che la Terra sia piatta. E non si tratta solo di ignoranza. “Dietro c’è una diffidenza generalizzata che si ritrova in tutti gli ambiti. Viene portata al limite, si uniscono elementi e teorie totalmente scollegati tra loro. E i social creano e amplificano quelle che sono definite camere dell’eco, dove tutti si danno ragion e si incontrano perché credono nella stessa cosa, rafforzando le loro convinzioni”.
Soluzione cercasi
Deriderli, però, non è la soluzione. “I complotti ci sono sempre stati così come casi reali di insabbiamenti e alterazione della realtà. La differenza è che quando erano reali, sono stati scoperti” continua Polidoro. In sostanza, il senso critico, lo spirito combattivo, lo scetticismo sono spinte virtuose e sicuramente utili per la società. “Ma hanno bisogno di essere incanalate in binari seri”. Il bisogno di sentirsi parte di una comunità fa sì che queste credenze si autoalimentino. E più le si stigmatizza, più si rinforzano. “Per questo è importante non deriderli. Tutto nasce da bisogni profondi e sentimenti che avrebbero anche una utilità”. Forse, con pazienza, sarebbe utile spingere a verificare. In fondo, basta poco. Un drone collegato a un pallone aerostatico, non certo un razzo. Ma segnerebbe la fine dell’illusione.

Repubblica 7.5.19
Ma quale Patria? Si chiama Matria ed è la nostra lingua
di Massimo Cacciari


Dalla nostalgia di Enea per la terra perduta alle radici dell’Europa la vera appartenenza è nell’idioma. Come sapevano bene Dante, Machiavelli e Leopardi. Una dimora che va difesa da chi oggi la vuole ridurre a chiacchiera
Dove trovare la Patria?
Dove porre sede e finalmente cessare di inseguirla? È questa la domanda di Enea da cui si origina l’Europa — domanda forse ormai totalmente dimenticata. Gli dèi hanno decretato che per l’eroe sarà l’Italia questa patria. Ma l’Italia gli fugge sempre. All’eroe fuggitivo risponde l’Italia che fugge. Come agli eroi avvenire fuggirà l’Europa: Dove essa inizia? Dove finisce?
Quante nazioni la abitano? Quali radici la sostengono? O il suo demone consiste proprio nel non averle, nel non potersi su nulla radicare? Aveva, sì, Patria Enea, anzi: la Patria, Troia. Ilio sacra è l’immagine della città perfetta, governata dal Re giusto e buono, abitata da chi ritiene massima virtù morire per la sua salvezza.
Enea avrebbe desiderato rimanere sulle sue rovine piuttosto che affrontare il destino di inseguire l’Italia. Anche le macerie di Troia sarebbero state per lui "più" Patria di qualsiasi altra futura. Ma la Patria è stata distrutta dagli Achei, dal potente connubio di astuzia e violenza che ne caratterizza l’esercito, una massa sradicata dai propri paesi, da anni lontana da ogni domestico affetto. Molti di loro non faranno ritorno, il più grande muore esule sotto le mura di Ilio; chi li ha guidati a costo di sacrificare la figlia viene assassinato appena mette piede in quella che pensava essere la propria dimora. Sciagurati eroi.
Con la fine di Ilio quella idea di Patria tramonta per sempre. Enea, tuttavia, fonda la nuova città mosso dalla nostalgia per essa, che lo domina. Senza la forza di tale nostalgia Roma non sarebbe mai sorta. Ma Roma non sarà Ilio, non ne conserverà la lingua, non sarà mai la città compiuta in sé, armoniosamente contenuta nei propri limiti; sarà invece la città-che-cresce, la città che-si-muove, Civitas augescens, Civitas mobilis, la città insaziabile, l’impero sine fine, la urbs che vuol farsi mondo. Anche Roma crolla — e anche di Roma dura la nostalgia, per la sua lingua, per il suo diritto, per le sue arti. Anche Roma diviene la Patria che manca. Come se vere Patrie apparissero sempre i luoghi che abbiamo perduto.
Nessuno ama la Patria più dell’esule da essa. Lo dice il coro delle donne troiane, che la prepotenza del vincitore trascina via schiave. Lo dice l’Ecuba euripidea, la grande accusatrice della follia dei mortali. Nel modo più tremendo lo mostra la straniera, la barbara, Medea. Sono le donne a soffrire inguaribilmente la distruzione o la perdita della Patria. Come se fossero strappate dal proprio stesso grembo. I maschi, invece, Enea, sono costretti a cercare altre terre e a convincersi che la Patria possa rinnovarsi. Ma anche per loro la nostalgia di Patria è tanto più forte e dolorosa quanto più l’avvertono smarrita. Tremendo è quando la nostalgia per la Patria che il destino ci ha rapito si combina con quella per un’altra impossibile. Fortunato Enea che alla fine la raggiunge, per quanto essa sia tale da non poter mai davvero sostituire l’antica. Vi è chi, invece, deve eternamente inseguire l’Italia che fugge.
Sventura tipica, sembra, delle nostre genti. Dante ha perduto la sua Firenze, che tanto più ama quanto più ne disprezza i nuovi padroni e costumi — e anela a un’Italia che sempre più gli appare irrealizzabile. Penoso è quando la terra che ti ha generato è stata distrutta o, peggio, ti è diventata straniera, e un’altra ne immagini, come anche salvezza della prima, continuamente contraddetta dalla realtà, fino ad apparire impossibile. La sorte di Dante si ripete in Machiavelli. E in quanti altri lungo tutta la nostra storia: il luogo della nostra origine è perduto, è divenuto irriconoscibile, oppure ( Leopardi) è stato per noi sempre come un esilio, e la Patria, l’Italia, che abbiamo immaginato, sperato, pensato, resta ancora sempre da fare, un avvenire eterno. Ecco, quante volte la sua idea è sembrata realizzarsi, e subito dopo naufragare di nuovo.
Non resta forse altra vera Patria che la lingua. Lo dicono, in fondo, tutti i poeti esuli (Thomas Mann, ad esempio) nel tempo in cui le più grandi miserie si abbattono sui loro paesi. Abitare la lingua con tutta la cura possibile, questo ci è dato, coltivarla, arricchirla nel dialogo con altre, renderla sempre più capace di tradurle in sé. La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie. Cosi dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, cosi non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo essere coloro che la trasformano custodendola. La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna. Dire che la nostra autentica Patria è la lingua significa affermare che nessuna Patria dovrà più essere a immagine del Padre Potente, della civiltà dominata dalla figura dell’onnipotenza del Padre Padrone. Sì, nella lingua è possibile dimora anche allorché naufraga la Patria. Tuttavia anch’essa è dimora fragilissima. E, a differenza della Patria, i barbari che la minacciano stanno sempre all’interno dei suoi confini: sono coloro che la parlano facendone strame, che la riducono a frase e a chiacchiera, a strumento facilmente manipolabile, pronto per l’uso. Se resiste la Matria, la Patria non sarà mai impossibile, per quanto possa sempre apparire fuggitiva. Ma se la Madre lingua è perduta, allora la lingua che parleremo sarà comunque straniera e la vita un esilio.






https://spogli.blogspot.com/2019/05/il-manifesto-7.html