lunedì 29 aprile 2019

L’Espresso 28.4.19

Così Salvini ha fatto sparire tre milioni
Un vortice di passaggi per far girare i soldi del partito.
Finché approdano nelle casse di società private o sui conti di amici del ministro. A quale scopo?
di Giovanni Tizian e Stefano Vergine


C’era una volta la Lega Nord di Umberto Bossi, i soldi del partito usati per gli affari privati del fondatore e della sua famiglia, la laurea di Renzo, le multe di Riccardo, la Scuola Bosina della moglie Manuela. Quella, insomma, diventata celebre alle cronache come la storia della “The family”. Oggi la Lega si è sdoppiata: c’è la Lega Nord e c’è la Lega per Salvini Premier. Entrambe fanno capo a Matteo Salvini, che le descrive come due realtà povere e oculate. Tutta un’altra storia rispetto ai tempi di Bossi, assicura il ministro. Se si scava sotto la superficie, però, viene a galla una gestione non molto diversa da quella del fondatore. Analizzando i conti correnti dei due partiti e delle società da essi controllate, da Pontida Fin a Radio Padania, abbiamo infatti scoperto che i soldi dei sostenitori leghisti, milioni di euro donati per sostenere la causa del Capitano, sono usciti dalle casse dei due partiti e sono spesso finiti, dopo lunghi e complicati giri, a società private e sui conti personali di uomini molto vicini allo stesso Salvini. Gente come il tesoriere Giulio Centemero, i commercialisti bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, alcune semisconosciute imprese lombarde che ultimamente hanno fatto grandi affari con la Lega salvininana. In tutto più di 3 milioni di euro, approdati a una cerchia strettissima di persone. Milioni che escono dalla Lega e si perdono in società private neonate. Tutto questo mentre i conti correnti del partito sono nel mirino della magistratura, la truffa da 49 milioni di euro mette a rischio la sostenibilità finanziaria del vecchio Carroccio, oggi invece al sicuro dopo l’accordo con la Procura di Genova che permetterà a Salvini di restituire il maltolto a rate in quasi 80 anni.
Partiamo dai numeri più rilevanti. E da tre imprese che fanno capo direttamente a Di Rubba e Manzoni, rispettivamente direttore amministrativo del gruppo Lega alla Camera e revisore legale del gruppo Lega al Senato. Si chiamano Studio Dea Consulting, Cld e Non Solo Auto. Dal 2015 al 2018 queste tre piccole aziende della bergamasca hanno ricevuto 1,7 milioni di euro dalla Lega. Motivazione? Pagamento di fatture non meglio specificate. Questo dicono i documenti in nostro possesso. E a questo nulla hanno voluto aggiungere i diretti interessati che, come per le altre inchieste sui soldi della Lega, abbiamo contattato per un commento prima della pubblicazione.
Studio Dea Consulting e Cld sono due studi contabili, mentre Non Solo Auto affitta vetture. Quest’ultima ha incassato in pochi anni oltre mezzo milione di euro dalla Lega Nord e quasi 70 mila dalla Lega per Salvini premier. Dal 2014 al 2018 la maggioranza delle azioni delle tre società era in mano a Manzoni e Di Rubba. Dall’ottobre dello scorso anno Manzoni ha ceduto tutte le sue quote al collega Di Rubba, ma questo non modifica la sostanza, ovvero il fatto che soldi della Lega siano finiti a società controllate dai suoi commercialisti, prima due e ora uno. E che, subito dopo, queste abbiano girato buona parte del denaro sui conti correnti personali di Di Rubba e Manzoni. Seguendo il vorticoso giro dei soldi leghisti ci siamo imbattuti in tante altre imprese. Aziende formalmente scollegate dal partito e dai suoi rappresentanti, ma di fatto molto vicine alla Lega. Tanto da pagare, in qualche caso, le spese necessarie per la squadra di persone coordinate da Luca Morisi, l’uomo che cura i profili social del ministro dell’Interno.
INCASSA CENTEMERO
Prendiamo la Sdc Srl. Fondata nel 2016 a Brescia da Mariliana Riva, estranea al partito sovranista, ha come oggetto sociale lo svolgimento di diverse attività in ambito artistico. Analizzando gli atti societari si notano però alcune particolarità. Il notaio che firma l’atto di costituzione è lo stesso usato dalla Lega e dai commercialisti del partito. Inoltre, il capitale sociale versato al momento della fondazione, 10 mila euro, proveniva da un assegno circolare intestato allo Studio Dea. Sul cui conto corrente, due giorni prima, la Lega Nord aveva accreditato un bonifico di cifra identica. Anche l’attività finanziaria unisce la società Sdc al partito del vicepremier. Da quando è stata creata al febbraio del 2018, la Sdc ha infatti ricevuto denaro quasi esclusivamente da Radio Padania: 368 mila euro. Un bel fatturato per un’azienda appena nata. Peccato che anche i costi della Sdc siano risultati alti, e così alla fine l’impresa non ha registrato profitti rilevanti. Come sono stati spesi tutti i soldi? Per saldare fatture emesse da Di Rubba, Manzoni, dalle loro società e dal tesoriere leghista in persona, Centemero. Solo tra il 2016 e il 2017 la compagine dei nuovi tesorieri scelta da Salvini ha infatti ottenuto dalla Sdc 625 mila euro. Per quali lavori non si sa, perché i diretti interessati non ci hanno risposto.
BENZINA PER I SOCIAL DI MORISI
A infiammare il clima con i social da un po’ ci pensa la Vadolive Srl, nata a maggio 2018, due mesi dopo il trionfo elettorale del 4 marzo. Vadolive è stata costituita da una parente di Di Rubba e ha sede allo stesso indirizzo di uno degli uffici dello Studio Dea. Dopo pochi mesi subentra Davide Franzini: diventa socio unico e amministratore. Lo stesso è presidente del consiglio di amministrazione di Radio Padania. Nel suo primo anno di attività Valdolive ha ricevuto circa 200 mila euro dal Gruppo parlamentare Lega - Salvini Premier, l’unico modo rimasto a partiti per percepire denaro pubblico. In realtà ne avrebbe dovuti percepire molti di più in virtù di un contratto stipulato con il gruppo del Senato da 480 mila euro l’anno fino alla fine della legislatura. Poi, però, a novembre si interrompe la fatturazione e il contratto con Vadolive termina anticipatamente. I soldi ricevuti fino ad allora li ha usati per pagare, oltre che lo Studio Dea Consulting di Manzoni e Di Rubba, anche la squadra di Luca Morisi, il dio dei social salviniani. In tre mesi la società ha speso quasi 90 mila euro per pagare Andrea Paganella, socio storico di Morisi, e tutti i giovani della propaganda salviniana, in molti casi assunti nel frattempo direttamente anche al ministero. Da Matteo Pandini, capo ufficio stampa del Viminale, a Leonardo Foa, figlio del presidente della Rai (Marcello) e collaboratore del ministro insieme a Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana, pure loro retribuiti dalla Vadolive. E per un periodo contemporaneamente pagati dal Viminale dato che risultano nell’elenco dei collaboratori a partire dai primi di giugno 2018.
PAGA RADIO PADANIA
La storica emittente ha venduto le frequenze ormai due anni fa. La radio dove Matteo Salvini si è fatto le ossa, diventando anche direttore, continua a trasmettere sul web. La vendita delle frequenze ha fruttato un po’ di liquidità. Nel frattempo nella redazione della “voce del Nord” l’ideologia è cambiata, si fa propaganda al sovranismo. E i giornalisti rimasti sono davvero pochi. Molti dei disoccupati sono stati riassorbiti in Regione Lombardia. Radio Padania però è viva. Movimenta denaro. Versa, per esempio, a una delle sigle della galassia Di Rubba-Manzoni: tra giugno 2016 e maggio 2017 quasi 50 mila euro. È il periodo in cui vengono vendute le frequenza all’imprenditore calabrese Lorenzo Suraci, patron di Rtl. Perché pagare lo studio Di Rubba? Di certo non sono gli unici denari usciti dalla casse di Radio Padania. Per esempio è curioso che il giorno dopo aver ricevuto 50 mila euro dall’associazione Più Voci (come avevamo già rivelato su questo giornale più di un anno fa), gli amministratori dell’emittente dispongano un pagamento di 18.500 euro alla solita Sdc srl, l’azienda che ha ricevuto anche parte dei soldi pubblici incassati dall’immobiliare Andromeda, come raccontiamo nelle pagine che seguono. L’uscita più sostanziosa dalle casse della radio è però di 122 mila euro diretti sempre a Sdc, società vicinissima ai commercialisti della Lega. Ma è il totale a fare impressione: 360 mila euro in due anni, da marzo 2016 a febbraio 2018. Una media da 180 mila ogni anno. Il periodo coincide sempre con l’inizio delle dismissioni delle frequenze. Nel frattempo la Radio aveva chiesto di accedere ai fondi per l’editoria. Dopo moltissime polemiche il ministero dello Sviluppo Economico l’ha esclusa dalla liste.
LE VILLE SUL LAGO DI GARDA
Dalla propaganda al mattone. Da Radio Padania a un’altra società riconducibile ai commercialisti della Lega: Taaac srl. Anche questa nata di recente, agosto 2017. Quando viene costituita, le quote sono intestate alla San Giorgio Fiduciaria, uno schermo per celare la reale proprietà. La San Giorgio è amministrata da Giorgio Balduzzi, commercialista che avevamo incontrato un anno fa tra le società domiciliate in via Angelo Maj 24, a Bergamo, nello studio di Manzoni e Di Rubba, insieme all’associazione Più Voci e ai finanziamenti ricevuti da Parnasi ed Esselunga. Tre mesi dopo la costituzione cambia tutto. Di Rubba diventa amministratore e la proprietà di Taaac passa al suo studio, la Dea Consulting. Passano pochi mesi e questa piccola Srl si dà allo shopping immobiliare in riva al lago di Garda: in quattro mesi acquista due ville a schiera nell’esclusivo Green Residence, in località Rivoltella, tra Desenzano e Sirmione. Nel residence si può entrare solo se dotati di badge. Dagli atti notarili consultati dall’Espresso risulta che per entrambi gli immobili la società di Di Rubba ha sborsato 640 mila euro. Un investimento che potrebbe fruttare vista la zona e l’alta densità di turisti che già da marzo affollano il posto. Ci risulta che le ville con corte privata hanno un prezzo medio di affitto di 750 euro al mese, circa 9mila euro l’anno. Almeno così ci hanno spiegato nell’ufficio vendite che si trova all’entrate del residence. C’è da chiedersi allora perché Taaac, cioè Di Rubba, abbia affittato al suo studio Dea di Bergamo una delle ville a 18 mila euro annui. Circa il doppio della stima fatta dall’addetto con cui abbiamo parlato a Desenzano. C’è da dire che la Taaac è stata molto vicina a vendere entrambe le ville, tuttavia poi l’affare non è andato in porto nonostante le caparre anticipate. Anticipo che Taac ha dovuto restituire alla Cpz srl, di proprietà di un ex socio di Di Rubba, Marzio Carrara, fornitore importante della nuova Lega. Sui conti di Taaac gli stessi giorni in cui partono i bonifici per restituire la caparra a Cpz, vengono accreditati 140 mila euro dallo studio Dea Consulting di Di Rubba. Insomma paga Di Rubba. E sempre in quei giorni la Lega versa allo studio del commercialista 140 mila euro. Ma il dato curioso è che entrambi i possibili acquirenti appartengono alla schiera dei fornitori del partito, cioè sono aziende che hanno ricevuto pagamenti dalla Lega in questi anni.
CASNIGO CONNECTION
Il più fortunato di tutti è però Francesco Barachetti, con la sua Barachetti Service di Casnigo, Val Seriana, provincia di Bergamo. Che con la nuova Lega di Matteo Salvini ha concluso affari d’oro. A Casnigo Di Rubba è di casa: ha diversi immobili e terreni. Casnìgh, in dialetto: tremila abitanti, un piazza vecchia medioevale di rara bellezza e tutti che si conoscono. La Barachetti Service da queste parti è una realtà conosciuta, che dà lavoro. Anche grazie alla Lega. I documenti bancari che abbiamo analizzato raccontano che tra il 2016 e il 2018 il partito e le società del gruppo Lega hanno versato a Barachetti almeno 1,5 milioni di euro. L’azienda di Casnigo progetta e installa impianti idraulici, meccanici, elettrici. Impossibile conoscere il motivo di tali versamenti, an che perché alle nostre domande nessuno ha voluto rispondere. Si tratta di bonifici per pagamento di fatture. Il valore è alto, una somma che avrebbe permesso di demolire e rifare per intero la storica sede di via Bellerio. Che invece è praticamente chiusa proprio in nome dell’austerity. In più, a pochi giorni di distanza dall’accredito sui conti della “Lega per Salvini Premier” dell’anticipo del 2 per mille anno 2018 (più di 1,5 milioni), 311 mila euro lasciano il conto corrente del partito sovranista e finiscono sempre alla Barachetti: saldo fatture, come sempre. Una ventina di giorni più tardi, la Lega si accorderà con la procura di Genova per restituire i 49 milioni in rate annuali. Saranno necessari 76 anni circa per estinguere questo particolare mutuo.
POVERA MA RICCA
A luglio dell’anno scorso, alla domanda su come siano stati spesi i famosi 49 milioni dei rimborsi lasciati in cassa da Bossi e Belsito, Giulio Centemero rispondeva così: «24 milioni sono stati destinati alle risorse umane: stipendi, contributi... Altri 20 milioni per la campagna elettorale e la restante parte per altri costi». Oggi la Lega Nord per l’indipendenza della Padania non ha più molti dipendenti: l’ultimo bilancio pubblicato, anno 2017, ne indica 7 in tutto, nel 2016 erano 29. Mancano all’appello gli assunti della Lega per Salvini premier, che è un entità a sé, dotata di autonomia fiscale e contabile. Una cosa è certa: dai calcoli fatti dal tesoriere di Salvini sono esclusi i denari che Pontida Fin, amministrata da Di Rubba, versa a Barachetti Service: in 19 mesi, tra il gennaio 2017 e luglio 2018, oltre mezzo milione di euro. Nello stesso periodo l’azienda di Casnigo dispone due versamenti alla Cld, una delle società di Di Rubba, e alla Dirfin, che all’epoca in cui ha ricevuto i soldi da Barachetti è ancora di proprietà dello stesso commercialista della Lega. Ma non è l’unica volta che dai conti della Barachetti passano soldi destinati a lui, a Manzoni e a Centemero. Un giro continuo di denaro, oltre 3 milioni di euro che evaporano dai conti del Carroccio e dalle società del partito. Con sempre gli stessi protagonisti. Porte girevoli di una forza di governo che sostiene di non avere i 49 milioni della truffa.

L’Espresso 28.4.19
La Regione paga la Lega incassa


Nell’articolo precedente abbiamo rivelato come la Lega fa “sparire” soldi suoi, girandole a società private o a persone fisiche vicine a Matteo Salvini. Qui invece si parla di denari dei cittadini, tutti: quasi 1 milione di euro. Che dopo un lungo girovagare finiscono a società riconducibili sempre alla Lega.  Tutto ha inizio con una normalissima compravendita immobiliare. Ed è da qui che inizia la nostra storia. Al confine tra Cormano e Cusano Milanino c’è un fabbricato basso e grigio di quasi mille metri quadrati. Sul portoncino di ferro c’è una targhetta argentata: “Lombardia Film Com- mission”, si legge. Il fabbricato si trova a pochi metri dall’autostrada Milano-Venezia, in via Bergamo 7. È qui, nell’ex cuore industriale della provincia milanese, che appunto ha sede operativa la Lombardia Film Commission, la fondazione a partecipazione pubblica che si occupa della promozione e dello sviluppo di progetti cinematografici sul territorio regionale. Un ente pubblico importante. La gran parte dei soldi con cui si finanzia arrivano dalla Regione, il resto lo mettono gli altri soci: Comune di Milano, fondazione Cariplo e Union- camere regionale. L’edificio di Cormano acquistato di recente dalla fondazione ha una storia molto particolare, che ci conduce direttamente al partito di Salvini. Già, perché dietro la compravendita dell’immobile di via Bergamo 7 ci sono personaggi legati alla Lega. Infatti, gli 800 mila euro pagati dalla fondazione pubblica all’immobiliare che ha ceduto la struttura finiscono bonifico dopo bonifico ad aziende e nomi strettamente connessi tra loro e con il Carroccio. Un’operazione immobiliare che viene avviata e conclusa quando il presidente del Cda della fondazione era Alberto Di Rubba, piazzato lì dalla giunta Maroni nel 2014.
Quarantenne, bergamasco, Di Rubba è il professionista di fiducia della nuova Lega di Salvini, tanto da essere stato nominato revisore dei conti del gruppo parlamentare alla Camera e amministratore unico della Pontida Fin, la storica cassaforte immobiliare del Carroccio. Di Rubba è insomma il commercialista scelto per far quadrare i conti insieme all’amico di vecchia data, il tesoriere Giulio Centemero, con il quale ha fondato l’associazione Più Voci. È la stessa Più Voci che - come abbiamo raccontato un anno fa sull’Espresso - ha ricevuto donazioni sostanziose dal costruttore Luca Parnasi, una vicenda che vede oggi indagato Centemero per finanziamento illecito, fascicolo aperto dopo le nostre rivelazione e che si avvia alla conclusione: la procura di Roma potrebbe a breve chiudere le indagine e chiedere il rinvio a giudizio.
Lo studio di Di Rubba è a Bergamo bassa, in via Angelo Maj 24, dove hanno sede una sfilza di società che fanno capo a una holding lussemburghese schermata da una fiduciaria italiana. E proprio in via Maj, a dicembre scorso, hanno bussato i detective dalla Guardia di finanza di Genova per cercare ulteriori indizi sul presunto riciclaggio di parte dei 49 milioni dei rimborsi elettorali ottenuti con la truffa di Bossi e Belsito, che per questo sono stati condannati in Appello. Una delle società sospettate dalla Finanza e dalla procura di aver ripulito il denaro è amministrata dal tesoriere Centemero, così c’è scritto nel decreto di perquisizione. Questo è il contesto in cui si muove Di Rubba, il presidente della fondazione pubblica lombarda.
Ripartiamo proprio dalla Lombardia Film Commission. Il professionista bergamasco ha lasciato l’incarico di presidente della fondazione ad agosto scorso. Insediatosi a settembre 2014, a nove mesi dall’incoronazione di Matteo Salvini a segretario del partito, è stato scelto dalla giunta di Roberto Maroni su proposta dell’allora assessore alla Cultura Cristina Cappellini, salviniana che voleva istituire all’interno dello “sportello famiglia” il numero anti-gender (sarebbe servito a segnalare i casi di «indottrinamento gender nelle scuole»). Di Rubba lascia la presidenza dell’ente pubblico quasi quattro anni più tardi, agosto 2018. Al suo posto l’intellettuale Pino Farinotti, critico cinematografico, scrittore e giornalista. Di Rubba fa però in tempo ad assistere dall’alto del suo ruolo al colpo grosso messo a segno da un’immobiliare milanese, la Andromeda Srl.
LA LEGA E IL CONFLITTO DI INTERESSE
L’immobiliare, il 5 dicembre 2017, incassa dalla Lombardia Film Commission 800 mila euro per la vendita dell’immobile di Cormano. Sull’atto notarile finale del 13 settembre 2018 c’è la firma del successore di Di Rubba, Farinotti. Ma è nel medesimo atto che si dà conto del pagamento ad Andromeda avvenuto tramite due bonifici accreditati il 5 dicembre 2017, cioè quando a capo della fondazione c’era il commercialista della Lega. Fin qui nulla di strano, se non fosse per alcune curiose coincidenze. La prima: la proprietà che sta dietro l’immobiliare Andromeda. La seconda: chiuso l’affare con i soldi dei cittadini, Andromeda è stata messa in liquidazione. Che i soldi finiti all’immobiliare siano pubblici non ci sono dubbi. Dai documenti letti dall’Espresso risulta che il tesoretto accumulato sul conto corrente della fondazione era composto da 1,4 milioni di fondi regionali, destinati all’attuazione della programmazione della Lombardia Film, 99 mila euro provenivano dal Comune di Milano e 100 mila da Cariplo.
Ma a chi è riconducibile l’Andromeda, la società che vende per 800 mila euro l’immobile all’ente pubblico lombardo? Le quote sono detenute dalla “Futuro partecipazioni”, di proprietà di una società fiduciaria con sede a Milano. Impossibile dunque risalire al reale titolare. Ciò che si conosce però è il nome dell’amministratore della “Futuro Partecipazioni”, la società che controlla l’immobiliare che incassa il denaro pubblico: si chiama Michele Scillieri, di lavoro fa il commercialista e revisore contabile, ha lo studio in via privata delle Stelline 1, a Milano. Proprio dove è stato registrato il nuovo brand del Carroccio sovranista, la “Lega per Salvini premier”, a fine 2017. Non solo: Scillieri è stato sindaco della fondazione diretta da Di Rubba, e pochi mesi dopo che Andromeda ha venduto l’immobile di Cormano è stato nominato anche consulente della fondazione con il ruolo di contabile amministrativo. Una nomina avvenuta quando Di Rubba si trovava ancora al comando della struttura pubblica. Il contratto di Scillieri scade nel 2020, la sua retribuzione è di 25 mila euro all’anno più Iva. Nella dichiarazione pubblicata sul sito della fondazione, il commercialista milanese dichiara di non aver alcuna incompatibilità né conflitti di interesse. Eppure quando Andromeda conclude l’affare, lui è allo stesso tempo sindaco supplente della fondazione che eroga 800 mila euro pubblici, e amministratore della società privata che beneficia di quegli 800 mila euro. Come se non bastasse, c’è un dettaglio ulteriore che rischia di mettere in serio imbarazzo la Lega di fronte ai suoi elettori lombardi: Scillieri, dopo la vendita del fabbricato di Cormano, è stato anche nominato liquidatore dell’Andromeda, la srl dai proprietari misteriosi che sta chiudendo i battenti dopo aver incassato i denari dei contribuenti italiani. Abbiamo chiesto a Scillieri che ruolo ha avuto nella compravendita. Non ha risposto. Nel luglio scorso ha invece rilasciato un’intervista a un quotidiano nazionale e ha spiegato perché sia stato scelto il suo studio come domicili della nuova Lega: «È stato solo per un piacere personale a un collega. L’accordo era chiaro: ho accettato la domiciliazione ma volevo tenermi totalmente fuori a livello politico, finanziario e operativo». Nella stessa intervista sostiene di conoscere solo Andrea Manzoni, il collega di Di Rubba, revisore legale del gruppo Lega al Senato, e Centemero, il tesoriere del partito. E Di Rubba? Di lui non fa cenno. Eppure all’epoca Scillieri era già da qualche mese consulente della Lombardia Film Commission di cui Di Rubba era presidente.
UNA LEGA PER AMICA
La storia dell’immobile venduto dall’Andromeda a 800 mila euro si arricchisce ancora se seguiamo il tragitto dei soldi pubblici incassati dall’immobiliare. Che non li tiene fermi in banca. Partiamo da quando l’immobiliare collegata a Scillieri acquista il fabbricato di Cormano, poi rivenduto all’ente pubblico. L’immobile diventa proprietà di Andromeda solo
undici dieci mesi prima della vendita alla fondazione. Quanto è costato ad Andromeda? La metà, ossia 400 mila euro, almeno così è scritto nell’atto notarile. Insomma, grazie a Lombardia Film Commission quei 400 mila lieviteranno e frutteranno alla Andromeda, oggi liquidata da Scillieri, il doppio. Non male. Anche per- ché nell’atto di compravendita è specificato che l’immobile è «in pessimo stato di conservazione e manutenzione e con necessità di effettuare significative opere di ripristino». Una precisazione, che tuttavia, non compare undici mesi dopo nella cessione alla fondazione Lombardia Film Commission, in cui sono menzionate alcune opere in corso di esecuzione, consistenti in «opere interne ai fabbricati ed al rifacimento della copertura degli stessi». Un affare come tanti, verrebbe da pensare. Ma è ciò che accade nei giorni successivi a riportare i soldi vicinissimi alla Lega. Cinque giorni dopo aver incassato il denaro pubblico per la compravendita dell’immobile di Cormano, l’immobiliare versa 480 mila euro alla società Eco e sei giorni dopo 178.500 alla Sdc. La Eco è un’azienda con sede a Milano, costituita un mese prima che Andromeda vendesse a Lombardia Film Commission. Il proprietario è di Gazzaniga, provincia di Bergamo, 5 mila anime in Val Seriana, paese natale di Di Rubba. Si occupa, recita l’oggetto sociale, di costruzione e ristrutturazione immobili. Possibile che l’imprenditore di Gazzaniga abbia ristrutturato il fabbricato di Corma- no in un solo mese e che abbia incassato quasi mezzo milione di euro? Un mistero che solo i protagonisti della vicenda avrebbero potuto chiarire se avessero voluto rispondere alle domande che gli abbiamo inviato. Di certo possiamo aggiungere che la Eco ha intrattenuto rapporti economici con la Lega. Per esempio, il 13 febbraio 2018, Radio Padania e Pontida Fin- la storica società controllata dal partito, amministrata da Di Rubba- versano alla Eco in totale 60 mila euro. Pagamento fatture, recita la causale. Poi, due settimane più tardi, è la Eco a pagare società che orbitano attorno alla Lega. Tre bonifici, per circa 60 mila ero, i cui beneficiari sono lo studio Dea Consulting di Di Rubba (all’epoca era presente anche Andrea Manzoni), lo studio Cld - da poco incorporato in un’unica struttura con Dea Consulting- e Sdc, società il cui capitale sociale è stato versato sempre da Dea Consulting. Ed è proprio Sdc che, negli stessi giorni in cui la Eco riceve la sua parte, incassa la propria.
MEZZO MILIONE PER I LEGHISTI
La Sdc, dunque, riceve parte del denaro pubblico incassato da Andromeda. E ci riconduce ai professionisti pagati dal parti- to e a uomini organici ad esso: Alberto Di Rubba, cioè l’am- ministratore all’epoca della Lombardia Film Commission, Giulio Centemero, il tesoriere del partito, e Andrea Manzoni, il contabile del gruppo al Senato. Tra il 2016 e il 2018 la Sdc versa sistematicamente soldi al trio di commercialisti della Lega con causale “pagamento fatture”. Prendiamo Centemero, deputato e tesoriere del partito: in un anno ha incassato da Sdc circa 62 mila euro. Chi ha ricevuto di più da questa azienda nata nel 2016 è certamente Manzoni, il collega di studio di Di Rubba: 211 mila euro in un anno e mezzo fino al gennaio 2018. Anche dopo, quindi, che Sdc incassa i quasi 200 mila euro girati dalla fortunatissima immobiliare Andromeda. Anche Di Rubba non è da meno: riceve 198 mila euro da Sdc, sempre a titolo di pagamento fatture, emesse dal giugno 2016 al gennaio 2018. Le date indicano dunque che Di Rubba, durante la presidenza della Film Commission lombarda, ha guadagnato con prestazioni offerte da Sdc, che a sua volta ha ricevuto gli 800 mila euro pubblici spesi dall’ente che lui presiedeva. Abbiamo chiesto a tutti i diretti interessati di commentare questa vicenda: non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Dell’acquisto dell’immobile abbiamo chiesto conto con domande puntuali anche alla nuova dirigenza della fondazione partecipata dalla Regione. La nostra richiesta di commento è giunta alla consigliera Paola Dubini, che dall’estero ci ha risposto di non riuscire ad aiutarci: «Come giustamente dite voi non ero all’epoca entrata nel Cda e quindi l’approvazione del bilancio non è stato oggetto di lavoro da parte mia». Dubini ha girato le nostre richieste all’ufficio stampa, che però non ci ha più fatto sapere nulla. Una cosa possiamo dirla con certezza: i soldi dei contribuenti lombardi si sono persi in mille rivoli e hanno fatto guadagnare personaggi del partito della Lega, quasi una famiglia per Matteo Salvini. Uno strano caso di catarsi. Da “prima gli italiani” a “prima la famiglia”: the family, come ai vecchi tempi.
SIRI, QUELLA DONAZIONE DALLA MULTINAZIONALE
Quando è stato nominato sottosegretario alle Infrastrutture, Armando Siri aveva già alle spalle un patteggiamento per bancarotta fraudolenta. L’avevamo rivelato su queste pagine più di un anno fa. Alcune settimane prima delle elezioni che hanno portato al governo Lega
e Movimento 5 Stelle. All’epoca i 5 stelle non si indignarono poi così tanto. Ne Il Libro Nero della Lega (Laterza) – un’inchiesta sul partito di Salvini durata due anni – vengono aggiunti ulteriori dettagli su quella vicenda. E si raccontano diversi altri punti oscuri nel curriculum del consigliere economico del vicepremier, il promotore della flat tax, finito sotto i riflettori nei giorni scorsi perché indagato con l’ipotesi di corruzione in un fascicolo che coinvolge l’ex parlamentare berlusconiano Paolo Arata, il re dell’eolico Vito Nicastri, prestanome del super latitante Matteo Messina Denaro.
Siri non è solo il suggeritore fiscale di Salvini. Siri è il volto gentile della macchina salvininana. Ligure, ex giornalista, è stato il coordinatore dell’ultima campagna elettorale, il collettore di proposte, lamentele, richieste, l’organizzatore di contatti con ambasciate, il volto della Lega davanti a Mediobanca, l’organizzatore  di viaggi negli Usa per incontrare Trump – per questo in contatto con Federico Arata, banchiere d’affari che collabora con Steve Bannon e figlio dell’ex parlamentare ora indagato. Siri fa parte della stretta cerchia dei fedelissimi di Salvini. Tiene i rapporti con i giornali, ha organizzato incontri riservati tra il leader e imprenditori importanti, tra cui Luigi Cremonini e Urbano Cairo. Da Cremonini ha anche ricevuto una donazione personale  da 15 mila euro, prima pubblicata e poi rimossa dalla dichiarazione patrimoniale obbligatoria per i parlamentari. Il passato, d’altronde, Siri cerca di non ricordarlo. Come si legge nella sentenza del tribunale di Milano pubblicata su Il Libro Nero della Lega, il dirigente leghista non solo ha fatto fallire la Mediatalia con oltre 1 milione di euro di debiti, ma ha creato altre due società con percorsi simili, cioè libri contabili trasferiti in Delaware, paradiso fiscale statunitense, e proprietà intestata a cittadini extracomunitari residenti in Italia. Con quella vicenda Siri ha chiuso con patteggiamento a 1 anno e 8 mesi. Il sottosegretario alle Infrastrutture ha però un’altra vicenda giudiziaria aperta, che non lo coinvolge direttamente ma potrebbe danneggiare un suo ex socio in affari. Ex molto recente: almeno fino alla data della nomina istituzionale lui e Siri erano azionisti della Profilo Srl. Patimo è il responsabile per l’Italia della multinazionale Acciona, colosso spagnolo delle infrastrutture. Ed è incappato in una brutta storia giudiziaria. È indagato per corruzione dall’antimafia di Reggio Calabria insieme a Marcello Cammera, dirigente dei lavori pubblici nel capoluogo calabrese, imputato per concorso esterno alla ’ndrangheta
nel processo Gotha. Patimo è stato presente almeno a una delle cene di finanziamento della Lega organizzate da Siri, come abbiamo già scritto. Quanto ha versato il manager della multinazionale nelle casse della Lega? Perché? Dove sono finiti quei soldi? Sei mesi fa abbiamo fatto queste domane a Patimo, a Siri e alla responsabile dell’ufficio stampa della Lega, Iva Garibaldi. Da allora nessuno ci ha mai risposto.

L’Espresso 28.4.19
Finis Europae.
Se l’unione fallisce
di Massimo Cacciari


Vi fu un periodo, dopo la fine della prima Grande Guerra, in cui tutti i più grandi spiriti europei si sentivano disperatamente soli. Lo spazio che li aveva coinvolti, in cui avevano viaggiato l’uno verso l’altro, in cui si erano tradotti, amati o combattuti poco importa, era stato travolto. La Nazione di ciascuno si rinserrava in se stessa, imprigionandoli e imprigionandosi. Il senso di un Ordine che comprendeva diverse lingue e confessioni, diversi caratteri e destini, in una tensione interna che significava ricerca, insoddisfazione per ogni acquisita eredità, per ogni tradizione o ethos che pretendessero di costituire stabili dimore, il senso di quell’Ordine dove ogni elemento voleva essere un centro capace di irradiare luce propria e di accogliere quella altrui, sembrava a tutti coloro che lo avevano coltivato distrutto per sempre. È la tonalità che pervade le parole dei Mann e degli Hofmannsthal, dei Valery, degli Ortega, dei Croce. Tra la loro giovinezza e il presente che vivo- no c’è l’abisso. La Guerra e ancor più il dopo-Guerra l’hanno scavato. L’Europa, quel Tutto tutto-vivente per i suoi stessi contrasti, per le sue affinità e differenze, per cui Agostino e Tommaso non esistono senza Platone e Aristotele, per cui Virgilio è guida di Dante, l’Antico si fa profezia nell’Umanesimo, Goethe traduce Diderot e Manzoni, Nietzsche ama Dostoevskij e Rilke la Cvaetaeva, quello spazio, l’Europa, di cui nessuno potrebbe definire con certezza i con- fini, ma che certamente contiene nel proprio spirito l’ecumene mediterranea e Mosca, la terza Roma, si è dissolto. Questo avvertivano e dicevano maestri di allora, cento anni orsono. Che sogni da letterato, replicavano i Realpolitiker, che nostalgie estranee al popolo, ai suoi reali interessi. Comunità concreta può darsi soltanto all’interno di confini nazionali, una sovranità non può esiste- re che territorialmente determinata - e la cultura di un Paese sia immune per quanto possibile da influenze straniere. La politica europea mandò in esilio le voci che cercavano di ricordare – di porre al centro del nostro cuore e della nostra mente - come l’adesione spirituale all’idea di Europa fosse essenziale per ogni Paese e per la pace tra loro. Per alcuni fu esilio vero e proprio, quando non la morte, per altri si consumò all’interno della patria, ormai irriconoscibile.
Dopo la seconda Grande Guerra si aprì un destino diverso per le nazioni europee. Le élites politiche compresero che la salvezza di ciascuna dipendeva dal foedus con cui stringerle insieme tutte. E che un tale accordo non sarebbe mai stato possibile senza condivisione di memorie, valori e fini. Era un contro-movimento complessivo rispetto a una generazione prima: allora la Guerra aveva scatenato revanscismi e nazionalismi, ora l’atroce sconfitta rigenerava l’idea di una unità politica europea radicata sui principi che quegli “antichi mae- stri” avevano invano difeso.
Questo itinerario dello spirito europeo si è concluso? È fini- to prima di giungere al suo fine? L’unità politica di Europa rimarrà un’incompiuta o addirittura la sua stessa idea finirà con
l’essere abbandonata? Anche nel 1929 venne proclamata da Stresemann e Briand come necessaria. Si brindò a una nuova età di amicizia tra Francia e Germania, sulla cui base ricostruire l’intero continente. Nulla si ripete nella storia, ma tutto in forme analoghe può farvi ritorno. Non c’è stato Hitler, come dopo il ’29, né ci sarà, a spezzare il filo rosso della ricerca di un’Europa unita, ma il mondo cambia anche senza guerre. Così è avvenuto dopo il 1989, così ancora con la crisi del 2007. Alle catastrofi si può rispondere come dopo il 1918 o come do- po il 1945. Pensando di potersi salvare e magari prosperare da soli e contro altri, o concependo la propria stessa forza come elemento di una potenza e di una sovranità comuni. La prima alternativa, a differenza che cento anni fa, non è oggi neppure “aritmeticamente” credibile - tuttavia, il fallimento della seconda potrebbe renderla inevitabile. Ed essa fallirà di certo se continuerà a essere declinata in termini meramente mercantili, se le infinite osmosi tra le nostre diverse nazioni e culture verranno ridotte a rapporti di scambio, se la crescita delle nostre interdipendenze economiche sarà direttamente proporzionale al disciogliersi delle nostre memorie comuni, dei nostri miti comuni, anche, al venir meno del dialogo tra i nostri diversi linguaggi.
Ci sono momenti nella storia in cui il passaggio non è sol- tanto politico, ma culturale, antropologico. E noi siamo chiamati a vivere e a decidere in uno di questi.

L’Espresso 28.4.19
Quel che Grillo non sa di Radio Radicale
La trasparenza, la disintermediazione, l’informazione senza filtri: il M5S vuole chiudere un’emittente che ha anticipato i suoi princìpi
di Roberto Saviano


Radio Radicale è un insieme di voci; metterne in discussione l’esistenza, significa rinnegare la vita stessa che è fatta di ricchezza e pluralità.
Accendete Radio Radicale, ascoltatela per un giorno o anche solo per qualche ora; vi accorgerete che apre finestre, attiva neuroni, crea collegamenti, por- ta prove, verifica notizie. Vi terrà compagnia. Vi farà conoscere dettagli su Medioriente, Turchia, Cina, Africa che difficilmente troverete altrove. Radio Radicale è insostituibile. Chiusa Radio Radicale resterà al suo posto nient’altro che il vuoto.
Radio Radicale da contratto dovrebbe seguire solo le sedute di Camera e Senato, ma con i soldi della convenzione fa ascoltare tutte le sedute delle Commissioni parlamentari, i lavori del Consiglio Superiore della Magistratura, segue il Presidente della Repubblica, i lavori del Parlamento Europeo, le conferenze stampa della Presidenza del Consiglio. E poi ancora: segue e registra congressi di partiti, comizi, manifestazioni, presentazioni di libri, conferenze stampa. È nelle aule dei tribunali per registrare udienze. Ra- dio Radicale ha un archivio smisurato, ma ciò che lo rende prezioso è che si arricchisce di ora in ora, di minuto in minuto, del nostro presente e del nostro futuro. Un archivio che è e sarà strumento di lavoro e conoscenza imprescindibile. Tutto questo cristallizza una prassi virtuosa: il lavoro di una radio che ha utilizzato i soldi della convenzione in maniera giusta e fruttuosa. Le lamentele sugli sprechi dei soldi pubblici perdono senso quando poi si uccidono le uniche realtà che li utilizzano correttamente.
Rinunciare a Radio Radicale significa rinunciare alla possibilità di conoscere senza intermediari perché entra nelle stanze del potere e ci fa ascoltare, in tempo reale, ciò che avviene. Penso a questo e mi torna alla mente Beppe Grillo che nel 2007 andava in piazza a parlare di democrazia diretta, di disintermediazione politica e di trasparenza delle stanze del potere (politico, giudiziario, amministrativo). Ma qual era il suo modello di riferimento se non Radio Radicale? Perché Beppe Grillo tace oggi mentre la creatura na- ta dalle sue piazze vuole condannare a morte il modello che più di tutti lo ha evidentemente ispirato?
E dire poi che Radio Radicale debba stare “sul mercato” tradisce la mancata conoscenza del principio cardine della teoria di mercato: la simmetria informativa. Tutti i soggetti che agiscono su un determinato mercato devono avere uguale accesso alle informazioni. Radio Radicale ha, negli ultimi 43 anni, consentito ai cittadini-elettori di stare sul mercato della politica con la possibilità di accedere a una informazione plurale e democratica. Uguale per tutti. È il principio essenziale della democrazia liberale e di tutti gli istituti di democrazia diretta: conoscere per deliberare. Chiudere Radio Radi- cale per il M5S significa dire: “Noi non siamo più quello che volevamo essere e attraverso la chiusura di Radio Radi- cale vogliamo disperdere ogni traccia della nostra ingenuità degli inizi”. L’ingenuità di ieri rimpiazzata dalla sete di potere di oggi e dalla necessità di nasconderla rendendo inaccessibili le stanze del potere.
Ma ciò che addolora di più l’enorme comunità di ascoltatori di Radio Radicale è constatare che un luogo di libertà e conoscenza debba dipendere da un atto di benevolenza e che non sia considerato da chi governa l’Italia un patrimonio irrinunciabile.
Forse nemmeno lo sapete e magari non vi interessa saperlo, ma la radio che oggi minacciate di voler chiudere è nata come la restituzione che Marco Pannella intese fare agli italiani dei loro soldi dati al Partito Radicale sotto forma di finanziamento pubblico ai partiti. Fu il Partito Radicale, con il lavoro anche di Radio Radicale, a pro- muovere il referendum, a lungo tra- dito, che annullava il finanziamento pubblico ai partiti. Ebbene, Pannella decise di restituire agli italiani la cosa più preziosa che sia mai esistita: l’in- formazione. Non è un caso che la sua ultima battaglia sia stata proprio per il Diritto alla Conoscenza, che tra tutti i diritti è il più importante. La battaglia delle battaglie, quella per cui oggi dobbiamo spenderci tutti. Chiamatemi ingenuo, ma l’appello che faccio a questo Governo non è semplicemente quello di rinnovare la convenzione con Radio Radicale, ma di fare in modo che nessun altro in futuro possa metterne in discussione l’esistenza.

L’Espresso 28.4.19
Google e l’etica mancata
Un filosofo italiano ha fatto parte del comitato mondiale per dare regole all’intelligenza artificiale. Qui ne racconta i retroscena,
gli errori, il fallimento. E la necessità di rilanciare la sfida
di Luciano Floridi


Il 26 Marzo, nel corso di EmTech Digital 2019, Kent Walker, Google Senior Vice President for Global Af- fairs, ha annunciato la creazione del comitato consultivo esterno sulle tecnologie avanzate di Google (ATE- AC, Advanced Technology External Advisory Council). L’iniziativa era significativa e ambiziosa: organizzare per un anno un gruppo indipendente di otto esperti internazionali (incluso chi scrive), per consigliare a Google come affrontare alcune delle sfide etiche più importanti sollevate dallo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (IA), co- me ad esempio l’uso del riconoscimento facciale automatico per identificare una persona o verificarne l’identità.
Era un’iniziativa non priva di coraggio. Quando si chiede consiglio pubblicamente si segnala che l’argomento impensierisce, si ammette che si ha bisogno di aiuto, e si accetta che qualcun altro - per esempio i propri dipendenti o l’opinione pubblica - possa valutare i consigli offerti e giudicare il loro impatto sul proprio operato. È un’operazione delicata, che in genere richiede discrezione. Per questo Google avrebbe potuto svolgere una consultazione del tutto riservata. Sarebbe stata un’iniziativa meno rischiosa, ma anche meno coraggiosa e significativa. Perciò ho apprezzato e sostenuto l’approccio di Google a favore di un comitato consultivo pubblico, di cui si conoscesse la composizione, la durata, e lo scopo generale. È stata una scelta coerente con i sette principi etici che l’azienda intende applicare nello sviluppo dell’IA, presentati nel giugno del 2018 da Sundar Pichai, l’Amministratore Delegato di Google.
Nel 2015, Google aveva creato un comitato consultivo (Ad- visory Council), di cui ero membro, per elaborare le linee guida etiche per l’implementazione del diritto all’obblio. Speravo che avremmo ripetuto o migliorato quell’esperienza. E mi aspettavo che anche questa nuova iniziativa, come quella del 2015, sarebbe stata criticata a priori. Le aziende, quando fan- no qualcosa che ritengono meritevole, tendono a pubblicizzarla per trarne un vantaggio anche reputazionale. Insomma, fanno sapere alla mano sinistra ciò che fanno di buono con la mano destra. Non è quello che suggerisce il vangelo, ma è comprensibile. Il guaio è che, per gli scettici “a prescindere”, qualunque iniziativa etica che un’azienda presenti pubblica- mente è sempre e solo un’operazione (della mano) sinistra, una cinica strategia pubblicitaria, che non fa mai niente di buono con la mano destra, sempre vista come vuota. Prevedevo quindi di sentire le solite critiche: mera operazione di relazioni pubbliche, solo pubblicità, tentativo di evitare la legge attraverso l’etica, manipolazione dell’opinione pubblica, una copertura e distrazione da altri guai (Google ha avuto notevoli problemi etici, dall’ipotetica riapertura in Cina alla collaborazione con il Pentagono), e così via. Critiche superficiali, alle quali prevedevo che avremmo risposto con la serietà dell’impegno e la realizzazione di qualche risultato utile e soddisfacente, per dimostrare concretamente la bontà del progetto.
Non è andata così, perché purtroppo Google ha commesso un grave errore nella composizione del gruppo di esperti. Si è trattato della nomina di Dyan Gibbens e di Kay Coles James. Gibbens è l’Amministratrice Delegata di Trumbull Unmanned, azienda americana produttrice di droni, che opera nei settori dell’energia e della difesa americana. Nominare Gibbens è stata una scelta infelice, soprattutto alla luce di un recente scontro, molto aspro, tra l’amministrazione e i dipendenti di Google proprio sul tema dei droni e della collaborazione militare con il Pentagono. Se fosse stata l’unica scelta malaccorta, forse l’iniziativa sarebbe sopravvissuta. Ma il danno causato dalla nomina di Coles James è risultato fatale. Coles James è un’esponente della destra trumpiana radicale. È la presidentessa di The Heri- tage Foundation, un think tank conservatore che fornisce idee
e personale all’amministrazione Trump. Lei e la fondazione sostengono posizioni negazioniste nei confronti del riscaldamento globale, anti-immigrazione, pro-muro con il Messico, contro la parità di genere, contro i diritti umani delle persone LGBT- QIA, e molto altro. Non riesco ad immaginare un punto di vista più distante dal mio. Ho argomentato contro simili opinioni nel corso di tutta la mia carriera. Sono pregiudizi che contraddicono la posizione che Google ha assunto ufficialmente e ripetutamente su questi argomenti da molto tempo.
Torniamo alla cronaca. Sin dal primo giorno, soprattutto la nomina di Coles James, e in parte quella di Gibbens, scatenano le ire delle comunità che si sentono direttamente attacca- te, in particolare quella transgender. In poco tempo si alza una bufera sui social media, con punte di intolleranza e violenza verbale a volte eccessive. Il 30 marzo, uno dei membri del comitato consultivo cede alla pressione mediatica e si di- mette inaspettatamente. A quel punto, alcuni amici e colleghi mi suggeriscono la scelta più facile: protestare con le mie dimissioni, fare bella figura, ed essere il prossimo ad abbandonare la nave che affonda. Il 1° aprile, i dipendenti di Google promuovono una petizione online per indurre l’azienda a ri- muovere Coles James dall’ATEAC. Arriveranno oltre 2500 adesioni. La polemica dilaga anche sulla stampa. Il 3 aprile, spiego sulla mia pagina ufficiale di Facebook, perché ho accettato l’invito e che intendo restare nell’ATEAC per contrastare Gibbens e Coles James. Il 4 aprile, Google annuncia la chiusura del progetto, ammettendo la necessità di ripensare del tutto l’iniziativa. Il comitato è durato nove giorni.
Paradossalmente, il fallimento dell’iniziativa ha dimostrato almeno in parte la sua bontà: esporre l’ATEAC anche alle critiche pubbliche era implicito nel renderlo così visibile. E dal fallimento del l’ATEAC si possono estrarre almeno due lezioni per il futuro. Partiamo dalla composizione del comitato. È chiaro che Google non avrebbe dovuto dare spazio a Gibbens e soprattutto a Coles James, indicandole come fonti autorevoli dalle quali intendeva attingere per farsi dare qualche buon consiglio su temi etici così delicati e importanti. È essenziale che in una società democratica ciascuno sia libero di avere le opinioni che preferisce. Ma la libertà di pensiero e di parola ha come controparte la libertà di ignorare o controbattere, non il dovere di ascoltare e eseguire. La tolleranza non è sinonimo di accettazione, ma di pazienza nella speranza che chi ha torto cambi idea. Alcuni sospettano che, nominando Gibbens e Coles James, Google volesse tacitare in anticipo possibili critiche provenienti dai conservatori repubblicani e dall’amministrazione Trump. Forse è così. Ma è possibile mantenere un buon equilibrio tra posizioni più progressiste e posizioni più conservatrici senza concedere spazio agli estremismi. Come è prassi ordinaria, sono venuto a sapere chi fossero gli altri membri dell’ATEAC pochi giorni prima del suo lancio. Inizialmente, ho riconosciuto tra loro solo una collega informatica. Mi sono detto: bene, per fortuna non siamo i soli noti, ci sarà da imparare da altri esperti. Invece, la critica è stata che la competenza sul tema dell’etica dell’IA fosse stata solo una variabile nella selezione dei membri, e che la politica avesse giocato un ruolo importante. Questo ha generato il sospetto che Google non facesse sul serio. Credo sia falso, ma dileguarlo è risultato impossibile.
Veniamo alle attività del comitato. Google aveva fatto bene a lasciare al comitato la formulazione dell’agenda dei lavori, altrimenti sarebbe stata accusata di manipolare un comitato esterno e indipendente. Ma avrebbe potuto chiarire meglio il mandato, le modalità operative, gli scopi da perseguire, i temi da trattare, il grado di trasparenza e le modalità di comunicazione del lavoro del comitato, e in fine quanta responsabilità si sarebbe assunta l’azienda nel seguire i consigli ricevuti. Il risultato è stato quello di dare la falsa ma diffusa impressione di un po’ di vaghezza nel lavoro da svolgere e una certa opacità nei fini. Di qui le accuse, che ritengo infondate, di una mera operazione pubblicitaria.
Avevo accettato con entusiasmo di fare parte dell’ATEAC perché ritengo che la legislazione e l’autoregolamentazione funzionino meglio insieme: entrambe sono necessarie e nessuna delle due è sufficiente da sola. Sono certo che tutti gli stakeholders debbano essere coinvolti, incluse le grandi aziende produttrici di IA, se vogliamo uno sviluppo tecnologico etica- mente migliore. Credo profondamente nel sostenere qualsiasi sforzo sincero e significativo per migliorare il modo in cui pro- gettiamo, implementiamo e usiamo le tecnologie digitali, inclusa l’IA. Ero, e sono ancora convinto, che creare un consiglio consultivo etico sull’IA per un’azienda come Google sia una buona idea. Ritengo che Google credesse molto e seriamente nel valore dell’iniziativa e nel suo possibile successo. Purtroppo le cose sono andate diversamente da come speravo.
Nonostante la pressione mediatica, molto aggressiva e a volte anche personale, e il fatto che fosse la cosa più facile e scontata, nel corso della polemica ho deciso di non dare le dimissioni. Se qualcuno chiede un consiglio, sinceramente e con buone ragioni, e uno può aiutarlo, allora è un dovere morale dare una mano. Se la richiesta si dimostra insincera, uno potrà essere deluso, ma non dovrà avere rimpianti, perché avrà fatto la cosa giusta. Se uno può dare un buon consiglio, ma non viene mai ascoltato, e tutto finisce per essere solo un’operazione superficiale di relazioni pubbliche, si potrà es- sere frustrati, ma non dispiaciuti, perché uno avrà comunque fatto la cosa giusta. Se poi si scopre che in realtà non si può essere d’aiuto, allora la cosa giusta da fare sarà dimettersi, ma non prima di aver provato a dare una mano. Ma soprattutto, se tutto va bene, e chi si sta consigliando consulta anche altre persone, come è del tutto libero di fare, e uno capisce che queste altre persone hanno idee sbagliate, che potrebbero portare a cattive scelte, allora la cosa giusta da fare è cercare di aiutar- lo di più e meglio, non gettare la spugna. Perché sarà ancora più importante opporsi e sradicare gli errori e i pregiudizi che cercano di ammutolire la ragione e logorare il bene. L’ignoranza e l’intolleranza prevarranno finché non le affronteremo. Non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Il male non scomparirà mai. Fa parte della natura umana. Ma possiamo sconfiggerlo, ogni volta di nuovo, se resistiamo e non gli concediamo terreno. In questo periodo di rigurgiti nazionalistici, egoistici negli interessi e intolleranti verso la diversità, bigotti nei valori e ignoranti verso il sapere, irrispettosi verso il passato e menefreghisti verso il futuro, il problema del male è la debolezza del bene. Bisogna rinnovare la lotta, vincere di nuovo ogni battaglia, sapendo che la guerra con gli aspetti peggiori dell’animo umano non avrà mai fine. Una volta che l’intolleranza riceve una piattaforma, abbandonare, fare la bella figura di chi protesta lavandosene le mani, è un lusso che non possiamo permetterci. Durante la polemica su Twitter mi sono tornate in mente memorie liceali di Dante sull’ignavia. Per vincere bisogna combattere, non scappare e lasciare ad altri i rischi e la fatica di fare la cosa giusta.
Nel corso delle discussioni sui social media, alcuni hanno obiettato che interagire con certi estremismi li legittima. Questo non è sbagliato, ma è solo superficialmente vero. Ci sono errori troppo sciocchi per essere presi sul serio. Possiamo scherzarne, ma non dobbiamo impegnarci a correggerli, o li eleveremmo a un serio dibattito che non si meritano. L’astrofisica non si preoccupa di confutare l’astrologia, la ignora.  Tuttavia, altri errori sono troppo gravi per non essere contrastati. Se hanno voce, dobbiamo rispondere con un coro; se serpeggiano, dobbiamo schiacciarli per dimostrarne la nullità; se sollevano un’obiezione, dobbiamo impegnarci a confutarli. Qualsiasi forma di umanofobia (in tutte le sue declina- zioni: islamofobia, omofobia, transfobia, xenofobia...) è troppo grave per non essere combattuta inesorabilmente ovunque e ogni volta che la individuiamo, come un virus da eradicare. Per questo ho dichiarato che non avrei evitato il confronto, ma che avrei raddoppiato i miei sforzi, per contribuire a sostenere la voce della ragione e della conoscenza, e promuovere la tolleranza e il rispetto reciproco.
L’iniziativa di Google per creare un comitato etico per l’IA è terminata. Chi l’ha criticata duramente può considerare questo un successo. Ma è importante riflettere sulle conseguenze negative di questo fallimento. Google continuerà a sviluppare le sue tecnologie digitali, inclusa l’IA, senza chiedere consiglio a nessuno, almeno pubblicamente. Abbiamo perso un’opportunità di collaborazione con un’azienda leader nel settore, per cercare di migliorare lo sviluppo etico dell’IA. Ma non è l’unica perdita ed è forse la minore. L’ATEAC avrebbe potuto essere un apripista, una sorta di progetto pilota. Data la visibilità e l’influenza di Google, altre aziende avrebbero potuto seguire il buon esempio, avrebbero forse sentito la pressione sociale di non poter restare indietro, e forse la stessa Google avrebbe po- tuto rilanciare, alla fine dell’anno di lavoro. Abbiamo anche perso la grande opportunità di contribuire a migliorare, anche solo di poco, come la Silicon Valley approccia eticamente lo sviluppo dell’IA. E vista l’enorme polemica, la reazione negati- va sarà un minore impegno etico pubblico da parte di altre aziende digitali, che guarderanno a questa esperienza di Google e se ne terranno a notevole distanza. A chi recentemente elencava tutte le cose che un’azienda deve fare, quando crea un comitato consultivo etico, bisogna ricordare una cosa fonda- mentale: un’azienda non è affatto obbligata a crearlo. È un gesto volontario e, dopo questo fallimento, a Silicon Valley ci penseranno due volte prima di prendere simili iniziative.
L’auto-regolamentazione è troppo importante per pensare che tutto si possa risolvere solo con buone regole legislative, come qualcuno argomenta. Soprattutto nello sviluppo di tecnologie così influenti come l’IA, è necessario anche un approccio etico, responsabile, e di deontologia professionale, non per sostituire o scavalcare le regole, ma per applicarle al meglio e vincere secondo le regole, con strategie aziendali e di settore che abbiano a cuore tutta l’umanità e il nostro pianeta. Le strade ancora aperte sono diverse. Le aziende potrebbero adottare soluzioni meno visibili e più riservate, con comitati etici interni. Terze parti, incluse organizzazioni nazionali, sovranazionali, di settore (si pensi alla Partnership on AI) o appartenenti alla società civile, potrebbero impegnarsi con comitati etici pubblici. O i comitati etici per il digitale potrebbero diventare un obbligo di legge per il mondo azienda- le. Qualunque sia la strada che sarà intrapresa, mi auguro che il fallimento dell’iniziativa presa da Google ci insegni a come fare meglio, e non a desistere.

L’Espresso 28.4.19
Fermate quei robot
«I software non conoscono il
confine tra il bene e il male».
Uno scienziato in campo contro la guerra condotta dalle macchine
colloquio con Noel Sharkey
di Francesca Sironi


Non c’è ritorno. Superato questo limite, non c’è ritorno. Se anche un omicidio, in guerra o in città, viene deciso da una macchina, programmato e compiuto sulla base di calcoli, software e previsioni automatizzate, non c’è ritorno. Significa che l’uomo avrà perso controllo su una delle ultime scelte che gli resta: la scelta fra la morte e la vita. Non è fantascienza. Ma l’orizzonte verso cui le grandi potenze stanno sviluppando nuove tecnologie
di guerra. Carri armati, jet, sistemi di puntamento e targeting, droni, mini sottomarini, bombe: completamente automatiche. Una volta programmate, non si fermano fino all’obiettivo. Indifferenti a ogni osservazione morale. Contro tutto questo si batte da più di dieci anni Noel Sharkey, professore emerito di intelligenza artificiale e robotica all’università di Sheffield, in Italia per il Festival dei diritti umani, una serie di incontri pubblici a Milano, Bologna, Firenze e Roma dal 2 all’11 maggio (https://festivaldirittiumani.it). La critica che Sharkey fa, insieme alla campagna di cui è portavoce - “Stop Killer Robots” - è tanto più profonda quanto più inaspettato è il fronte che raccoglie. «Io sono appassionato di robot, penso che possano portare a grandi benefici per l’umanità», racconta all’Espresso: «Ma immaginare che la possibilità di uccidere venga delegata a un computer, è per me scioccante. Lo dico da scienziato, oltre che da uomo. Perché le macchine sono imprevedibili. Chiunque abbia a che fare con sistemi di calcolo conosce quante variabili possono andare storte in qualsiasi fase di un processo». Immaginate se alla fine di quel processo c’è un grilletto orientato contro un gruppo di civili o una casa dentro cui si annida, per il software, una minaccia. «Sono molti i motivi che dovrebbero spingerci a bloccare questo tipo di sviluppo. C’è una prima argomentazione di tipo morale, universale e necessaria: è l’idea che sta al di sotto della dignità umana il fatto che sia una macchina a decidere di uccidere». Senza poter sospendere l’azione, senza riflettere sul confine fra bene e male, sulla responsabilità di un gesto che dà la la morte, ridotto a mero impulso elettrico. Poi ci sono questioni tecniche, che partendo dall’imprevedibilità dei sistemi, dai bug possibili, sottolineano la facilità con cui i computer possono essere riorientati, hackerati, corrotti. Cosa potrebbe comportare se fra le
loro mani ci fosse una pistola? «Senza considerare le altre conseguenze: ovvero il rischio di destabilizzare la sicurezza mondiale. Se le guerre finiscono fra le mani di armate robot, quanto è alta la possibilità di conflitti accidentali? E quando si può stabilire la fine di uno scontro?». Infine c’è l’argomento militare: come si comporta un sistema programmato di fronte a un imprevisto? Quando una chiave della tattica di guerra sta nel giocare d’anticipo? Come si può prevedere una molteplicità di risposta infinita? «Una giustificazione che mi è stata data a favore dell’adozione di sistemi automatizzati in guerra è che gli uomini non pensano abbastanza velocemente per stare sul terreno dei conflitti contemporanei», racconta Sharkey: «Perché le variabili di un attacco sono troppo complesse da gestire. Mentre
la capacità di calcolo delle macchine risolverebbe questo problema. Così puntano allo sviluppo di strumenti sempre più veloci. Di jet che possano superare la velocità del suono. Ma come sarà possibile controllare l’azione di questi dispositivi? Potrebbero scoppiare e terminare conflitti nel corso di minuti». È l’immagine di un’apocalissi metallica, sottile. Terrificante. «Quando abbiamo iniziato la campagna tutti  ci rispondevano: siete matti, queste tecnologie non arriveranno mai. Ora cercano di convincerci dei benefici». Perché nel frattempo i test stanno aumentando. La corsa è dominata da Stati Uniti e Russia; ma anche Israele, Australia e Turchia stanno investendo. «La storica produttrice d’armi russa Kalashnikov sta sviluppando sistemi di targeting basati sull’intelligenza artificiale; ne ho parlato con dei giornalisti del New York Times che hanno potuto vedere l’attività in corso». Sia in Russia che in Turchia gli eserciti stanno sviluppando grandi carri armati robotizzati. Una volta innescati, sono inarrestabili. Gli Stati Uniti stanno investendo su flotte aeree e sottomarine. Per gli eserciti i droni hanno spesso un problema, attualmente: se interrompi
la comunicazione fra centrale e veicolo, interrompi anche la missione; mentre questi robot ragionano in un altro modo: si fermano solo a missione compiuta. Sono programmati per portarsi a termine. «Nel corso degli ultimi anni lo scenario più inquietante arriva da un esempio “civile”: l’anno scorso per il suo anniversario Intel ha fatto volare 2018 droni che contemporaneamente sono andati a formare il logo dell’azienda». Uno sciame di eliche che dialogano senza bisogno di intervento umano. Immaginatelo in un campo di battaglia. O lungo un confine. Con i droni armati. «Nel gergo militare si chiama “moltiplicazione della forza”: una persona sola può controllare con un clic migliaia di elementi. Ma non li controlla veramente. Certo: il soldato può spedire e far tornare indietro lo sciame, ma sono i droni a riconoscersi e a comunicare; e un solo soldato non può verificare e seguire la legittimità di ogni obiettivo scelto». È il punto centrale della campagna di Sharkey: «Stiamo perdendo il controllo delle armi. Quando le potenze dicono che un uomo sarà sempre al comando rispondo con un termine tecnico: cazzate». Sharkey si batte per portare l’assemblea dell’Onu a stabilire il divieto di rendere automatica la selezione degli obiettivi e l’applicazione della forza su questi obiettivi. Un nucleo di paesi, guidati da Austria, Brasile, e da quelle nazioni che sanno «di rischiare di essere le prime vittime di queste nuove armi» ne stanno appoggiando la stesura.
Altri, come l’Italia, restano in disparte. Dimenticando di essere rappresentanti di uomini. E non di algoritmi.

L’Espresso 28.4.19
In Šostakovic ci sono tutti i fantasmi russi
Il sesso, l’amore, la noia, la gelosia, lo zarismo, la paura, Stalin.
E un Paese che sa fare miracoli nei momenti più tragici della sua storia
di Bernardo Valli


Mi passano per la testa tanti fantasmi mentre all’Opéra Bastille ascolto la musica di Dmitri Šostakovic, ricca di virtuosi contrasti. Da dilettante cerco di capire quando prevale l’influenza di Stravinski o quella di Mahler. Šostakovic diceva di essersi ispirato al neoclassicismo del primo e al postromanticismo del secondo. Stalin non dubitava delle sue conoscenze musicali e trovava “caotica” l’ opera di Šostakovic, “Lady Macbeth nel distretto di Mcensk”, che adesso, rappresentata sul vasto palcoscenico parigino, mi affascina come ha affascinato legioni di spettatori in tutto il mondo. La regia del polacco Krzysztof Warlikowski imprime a questa edizione un ritmo romanzesco, mozzafiato, che ti aggancia dalla prima all’ ultima scena. Anche senza le ripetute, realistiche scene d’ amore, la sensualità domina il racconto e la musica. Esalta e uccide.
Più che una storia d’ amore Katerina Lvovna Ismailova, la Lady Macbeth, vive una storia di sesso che si consuma fino in fondo, fino all’ assassinio e al suicidio. Katerina (interpretata con passione dal soprano lituano Ausriné Stundyté) si annoia da morire in un borgo sperduto, Mcensk, noto per i mattatoi e per la puzza che emanano. Il marito, mercante di carne, non è capace di farle un figlio. E Serguei (il tenore, l’altrettanto appassionato Pavel Cernoch, ceco nato a Brno), un operaio, diventa il suo amante infedele. L’intreccio di sesso, di gelosia e di odio porta a delitti in cui si è voluto scorgere una lotta di classe e anche il tragico orgoglio femminista delle donne russe, umiliate nel regime zarista. Quando l’ opera viene rappresentata, nel 1934, Šostakovic ha ventotto anni. Il successo è immediato. L’ affluenza del pubblico è tale che in quel solo anno “Lady Macbeth nel distretto di Mcensk” viene allestita duecento volte nei teatri del paese. E la critica non risparmia gli elogi, sul piano artistico e su quello politico: «L’opera poteva essere creata soltanto da un compositore cresciuto nella cultura sovietica», scrivono i giornali.
Ma nel 1936, La Pravda, il quotidiano del partito, cambia bruscamente tono. «Confusione invece di musica» è il titolo che segna la svolta della critica ufficiale. Una sera, mentre al Bol’šoj va in scena la sua opera, Šostakovic assiste allibito alle reazioni di Stalin, presente in teatro con dei membri del Politburo. Stalin si agita, mostra la sua irritazione ogni volta che gli strumenti a percussione e gli ottoni emettono suoni a suo avviso troppo forti, e scoppia in risate, imitato dai suoi compagni, quando Katerina e Sergei recitano le realistiche scene d’ amore. Per lui l’opera è «grossolana, primitiva e volgare». Quindi antisovietica. Alla fine del terzo atto Šostakovic rende il rituale omaggio all’onnipotente spettatore. Nella lettera a un amico, in cui racconta quella terribile serata, scriverà di essersi sentito «bianco come un foglio» quando si è inchinato davanti a Stalin. Da allora seguono anni difficili. Nel 1937 comincia il Grande terrore, durante il quale amici e parenti del compositore finiscono in prigione o sono uccisi: tra quest’ultimi il maresciallo Tukhachevsky, suo protettore. Lui, Šostakovic, continua a comporre; prima evita di esibirsi, poi cerca di adeguarsi al clima politico, senza rinunciare del tutto alla libertà della sua musica. Ma otterrà una completa riabilitazione ufficiale solo con la Settima sinfonia, della quale ha composto i primi tre movimenti nel 1941 a Leningrado. A ispirarla, si disse, era stata l’eroica resistenza della città assediata dai nazisti.
Erano celebri e nobili i fantasmi che mi hanno tenuto compagnia all’ Opéra Bastille. Quelli di personaggi contemporanei al compositore della “Lady Macbeth nel distretto di Mcensk”, come lui sottoposti al tirannico volere di Stalin, al quale non si rassegnano. Giganti della letteratura. Mentre Šostakovic componeva le sue sinfonie, Bulgakov scriveva e riscriveva “Il maestro e Margherita”. Pasternak non riusciva a pubblicare in patria il suo “Dottor Zivago”. E l’ altro futuro Premio Nobel per la letteratura, Aleksandr Solženicyn, appena decorato per il valore in guerra come capitano dell’ Armata rossa, finisce in un campo di lavoro per avere criticato Stalin in una lettera privata. Dall’esperienza nel Gulag trarrà un grande libro. La santa Russia ha saputo fare miracoli nei momenti tragici della sua Storia.

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