lunedì 29 aprile 2019

Corriere 29.4.19
La sinistra tra i sogni persi e una felicità più lontana
Caduta di tensione
Ammainata la bandiera rossa, si è prodotto un arretramento anche delle altre dottrine
Obiettivi comuni
Nulla lega le due visioni, tranne la convinzione che è tuttora giusto battersi per l’uguaglianza
di Paolo Franchi


Scavando nei fondi dell’Archivio Pietro Ingrao, il curatore, Alberto Olivetti, ha trovato una chicca che l’Ediesse, la casa editrice della Cgil, ha appena pubblicato con un titolo curioso, «Tentativo di dialogo sul comunismo». Tentativo: Ingrao, letto e riletto il testo in cui Ferdinando Camon aveva condensato i tre lunghi colloqui che avevano avuto tra il dicembre del 1993 e il maggio del 1944, decise di non farne nulla. Non era soddisfatto. E Camon, che pure insistette assai per darlo alle stampe, comprese bene il perché. «Dialogando con lui... avevo l’impressione che quel che diceva fosse meno di quel che pensava e viveva. Sentivo una passione a monte del suo discorso, che il discorso smorzava e riduceva a semplici parole... Chi ha vissuto tutta una vita per fare il comunismo contrae un’esperienza che in un tempo non comunista non è dicibile e non è comunicabile», scrive nella premessa al libro appena uscito. E ha per molti aspetti ragione. È vero, molti comunisti italiani, compreso Ingrao, in «Volevo la luna» (Einaudi nel 2006), hanno poi scritto, in tutti questi anni, del comunismo italiano e di loro stessi. Ma il patriarca che rifiuta caparbiamente di archiviare quella parola grande e terribile, comunismo, ne ragiona nel salotto di casa con il narratore veneto quando la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino da due anni appena. Da un trentennio almeno critico severo dell’Unione Sovietica, Ingrao non apprezza molto, giurerei, Evgenij Evtusenko, il bardo di un dissenso a dir poco cauteloso. Ma si riconoscerebbe, forse, nei suoi versi: «Arrivederci bandiera rossa.../Ora, nel gran bazar d’Ismajlovo/ti smerciano per pochi dollari, alla meglio./Io non ho preso il Palazzo d’Inverno./Non ho assaltato il Reichstag./Non sono un kommuniak./Ma guardo la mia bandiera e piango». Solo in parte, però. Ingrao non piange e non rimpiange. Tenta piuttosto, stando, come diceva lui, «nel gorgo», di ritrovare ragioni perché non quel comunismo, ma un comunismo inteso come «tensione verso la felicità» ritorni in campo, perché la sua caduta, sostiene, «ha prodotto un arretramento anche delle altre dottrine, che adesso promettono meno di prima, come se nella coscienza di tutta l’umanità, anche non comunista, l’idea di felicità si fosse allontanata». Rifiuta l’idea, ormai accettata nemmeno troppo implicitamente dai suoi compagni, che la storia sia finita con una sconfitta senza appello. Ma sa bene che il mondo di ieri, il mondo di cui pure in una postazione di frontiera ereticale ha fatto parte per una vita, è crollato. Più che strade nuove, prova, anche un po’ alla rinfusa, a immaginare rifondazioni radicali: «Il comunismo di ieri era tutto “fare”, tutto “lavoro”..., il comunismo di domani... dev’essere un comunismo “romantico”, “psicologico”, “sentimentale”, che recupererà anche proposte dell’età preindustriale, senza ripetere le condizioni sotto umane della vita contadina» descritta da Camon nei suoi romanzi.
Probabilmente Ingrao stesso sa bene, e anche per questo, penso, si convince a non pubblicare nulla, che questi sguardi inquieti lanciati, tra le rovine, su un futuro quanto mai ipotetico, gli tirerebbero per l’ennesima volta addosso, ma elevata a potenza, l’accusa, carica di scherno, di essere «solo» un poeta, che in politica vuol dire un acchiappanuvole. E quelli che hanno conosciuto gli Ingrao si commuoveranno anche un poco, leggendo i brevissimi interventi della moglie, Laura, che compare a tratti nella conversazione come per tirargli affettuosamente la manica, e aiutarlo (in verità, senza grande successo) a sfuggire questa trappola introducendo qualche notazione più «realistica». Hanno fatto bene Olivetti, Camon e l’Ediesse a mandare in libreria un testo che, un quarto di secolo fa, l’interessato ha preferito restasse nel cassetto. Quell’arrovellarsi su come una speranza di liberazione (perché così Ingrao continua a leggere la rivoluzione d’Ottobre) si sia trasformata in un incubo appartiene tutto al Novecento, e il Novecento le sue sentenze le ha emesse.
Ci sono però dei giovani, forse più numerosi di quanto si creda, ai quali non certo il comunismo, ma quel rifiuto testardo di accettare l’idea che questo sia il migliore, e comunque l’unico dei mondi possibili, può dire ancora qualcosa. Molti (la grande maggioranza) non hanno una casa partitica, altri (non tanti) ce l’hanno ma, così com’è ridotta, gli va molto stretta e vorrebbero ristrutturarla radicalmente. A questi ultimi ha dato voce «La sinistra e la scintilla», il libro (da leggere) di Giuseppe Provenzano, trentasettenne vicedirettore della Svimez che milita tuttora nel Pd, pubblicato di recente da Donzelli: una critica impietosa alla sinistra «che ha perso perché è diventata centro», un appello, e qualcosa di più, «a due o tre generazioni cui la sinistra non ha dato nulla» perché questa sinistra se la prendano, e in nome di un’idea moderna di socialismo. Non c’è niente a legare, storicamente e politicamente, un giovane neosocialista come Provenzano a Ingrao, che se ne è andato a cent’anni da comunista. Tranne la convinzione, in qualche modo comune, che «il destino non è segnato», e che le ragioni della sinistra, non solo l’uguaglianza, ma prima tra tutte l’uguaglianza, quando tutto sembra parlare in senso contrario, sono tuttora attuali, e forse più attuali che mai, purché ci sia una forza che abbia la capacità, e prima ancora la voglia, di evocarle e di farle contare.

Repubblica 29.4.19
Cacciari “La sinistra vive le forze dell’antipolitica non sanno governare”
Intervista di Goffredo De Marchis


Quando un partito di sinistra fa il partito di massa e incrocia un movimento di protesta, il movimento di protesta si sfalda.
È l’analisi di Massimo Cacciari sul voto spagnolo. Da applicare anche in Italia.
Il Psoe sfiora il 30 per cento.
Il socialismo è vivo in Europa?
«Per strane alchimie parlamentari i socialisti si sono ritrovati al governo negli ultimi mesi ed evidentemente non hanno dato cattiva prova di sé. E’ bastata una buona capacità amministrativa, la dimostrazione di un sano pragmatismo per provocare il vistoso calo dei consensi di Podemos. Una cosa del tutto ovvia, che diventerà realtà anche in Italia perchè Podemos e 5 stelle si somigliano molto».
Podemos è una forza di sinistra, i grillini non sono né di destra né di sinistra, dicono.
«Non è così. Nel Movimento 5 stelle c’è una componente largamente maggioritaria di elettori di sinistra e una piccola componente di destra che in Spagna ha gonfiato il voto a Vox, così come da noi farà crescere Salvini. Io vedo grandi somiglianze tra la Spagna, l’Italia e la Francia. Nascono e crescono forze antisistema che si danno una parvenza di partito ed esprimono il disagio. I gilet gialli cos’altro sono se non questo?».
Cosa deve imparare il Pd dall’affermazione del Psoe?
«Deve imparare a non essere un partito moderato. Se vuoi rappresentare i voti del disagio crei una sinistra organizzata e di governo e la smetti di incarnare le ragioni delle élite. Perché se rifai il Partito di azione prenderai i voti del Partito di azione, cioè zero voti. Ci vuole una sinistra di massa».
Quanto peso ha avuto la leadership di Sanchez in Spagna?
«Sicuramente sarà stata importante. La sua credibilità avrà avuto un peso. Ma questa vittoria gli è stata regalata, ora deve usarla bene. Spero che riescano a formare un governo».
L’ultradestra di Vox entra in Parlamento anche se con risultati inferiori ai sondaggi.
Che significa?
«Una componente di destra c’è in tutti i Paesi europei. In Italia rappresenta l’eterno fascismo, in Spagna l’eterno franchismo. Vox si afferma a spese del Partito popolare. La destra non è più riuscita a tenere al suo interno la rappresentazione della rabbia e del disagio. Il problema si ripete: la formula del moderatismo non funziona più. A destra e a sinistra».
Le prime mosse di Zingaretti vanno nella direzione giusta?
«Dove vai se metti nel simbolo Carlo Calenda? Contro le élite?
Ma lasciamo stare. Partito di massa, intendiamoci, non significa non fare i conti con la classe dirigente. Il Pci usava la categoria degli indipendenti di sinistra. Ma non può essere quella la spina dorsale di una forza di sinistra. Ci stiamo giocando l’Italia e anche l’Europa.
Rendiamocene conto».
Nessuna attenuante per il neosegretario del Pd?
«Ma sì. La verità è che non ha potuto fare adesso quello che mi auguro farà dopo».
Cioè?
«Organizzare una forza che dia rappresentanza a quella moltitudine di persone abbagliate dal fenomeno dei 5 stelle. Parlo di un’impresa gigante. Perché quel tipo di fenomeno va organizzato e metabolizzato. Occorre sussumerli, per dirla filosoficamente, come tali, filtrarli. Occorre che quel popolo diventi una corrente del partito di massa di cui parlavo prima.
Perché è un popolo che esiste in Europa. Si manifesta in maniera diversa ma c’è. Ha dato vita a Tsipras, a Podemos, ai 5 stelle.
Negli ultimi due casi abbiamo visto che non reggono la prova di governo».

Corriere 29.4.19
La collana
Ecco i filosofi
Voci scomode amanti del sapere
Esce domani in regalo con il quotidiano il titolo che apre la seriededicata ai grandi maestri del pensiero. Un’attività che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta per la quale non esiste nulla di scontato Tutto viene così esposto all’indagine dell’individuo: persino colui che indaga
di Donatella Di Cesare


Conflittualità
L’antica tensione di fondo tra la filosofia e il potere politico non è mai scomparsa. Anzi si ripropone in pieno ai nostri giorni

Che valore ha oggi la filosofia? A quale compito saranno chiamati le filosofe e i filosofi nell’età del tecnocapitalismo e della governance neoliberale? La Regina delle scienze, rimasta sola, dopo il distacco definitivo delle scienze naturali, appare caduta in un grave discredito. E se la senatrice Liliana Segre richiama i politici allo studio della storia, è altrettanto giusto richiamarli allo studio della filosofia.
Il ritmo accelerato sembra bandire ogni riflessione considerata un gioco improduttivo, una fuga irresponsabile in sogni evanescenti. Così il vecchio pregiudizio contro la filosofia si è andato rafforzando. Urgono risposte rapide, soluzioni definitive agli innumerevoli problemi di un’epoca tanto complessa. A che pro la filosofia? A che cosa serve? Che cos’è?
Rispondere implica già accogliere una sfida subdola, accettando i presupposti impliciti nella domanda: cioè che la filosofia sia un mezzo utile a un fine. Eppure la sua inattualità, che la rende così attuale, sta proprio nel sottrarsi all’economia del profitto. In tal senso non servirà forse a nulla. Si potrebbe allora cancellarla con un colpo di spugna — il che poi vorrebbe dire rimuovere il cuore stesso della tradizione occidentale. Tuttavia la filosofia non è solo un patrimonio di testi. È molto di più. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.
Sin dai suoi esordi, nell’antica Grecia, la filosofia è stata chiamata a dimostrare il proprio diritto a esistere. Sennonché anche chi la contesta, chi ne mette in dubbio la legittimità, è già immerso nel movimento del pensiero, già filosofa. Ecco perché il ritornello sulla fine della filosofia è banale e vacuo. Certo nessuno immagina che possano ancora edificarsi quei sistemi che miravano a collegare tutto il sapere in un’immagine unitaria. L’impero hegeliano dello Spirito assoluto si è dissolto. Ma ciò non ha decretato la fine della riflessione. La filosofia non va e non viene, non finisce. Immanuel Kant parla di «attitudine naturale» dell’essere umano. Seppur inconsapevolmente, tutti filosofano. E già i bambini si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è — i filosofi la riconoscono.
Si potrebbe dire con Heidegger che «filosofia è filosofare». Se solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri al pensiero, la filosofia, lungi dall’essere privilegio di pochi, tocca al fondo l’esistenza di ciascuno. Studiare i classici vuol dire anzitutto imparare a interrogarsi. Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda radicale, quella che va alle radici, che non chiede per sapere, ma che, anzi, mette in questione ogni sapere. Non vengono fornite soluzioni definitive. La filosofia non avrebbe altrimenti una storia dove, in forma sempre diversa, si ripropongono le questioni che la assillano: sulla verità, sul bene, sulla libertà. I problemi fondamentali della filosofia sono piuttosto aporie per cui non si danno soluzioni — né ottimali, né univoche, né definitive. Le risposte sono molteplici, le indicazioni differenti. Ecco perché i filosofi tornano ai testi di più di 2.000 anni fa — quelli di Eraclito, di Platone, di Aristotele — e li leggono come se fossero stati scritti ieri.
Sta qui una differenza decisiva rispetto alla scienza. Circoscritte a un ambito del sapere, le scienze non danno conto dei loro presupposti. Kant esorta a non confondere la filosofia con la matematica che, pure, è una costruzione concettuale. Ma già solo interrogandosi sullo statuto della matematica, la filosofia ne valica i limiti, va oltre l’ovvietà dei principi. Così ciò che per la scienza è fuori questione viene innalzato alla dignità della domanda filosofica.
Non c’è fenomeno che sfugga. Neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». Formulata da Leibniz, questa è la domanda esemplare della filosofia, che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l’aura di solenne gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all’interrogare. Persino l’interrogante, il filosofo stesso, che viene così deposto dal suo pulpito.
D’altronde l’inizio aporetico della filosofia è il non sapere di Socrate, che ha inaugurato la ricerca introspettiva, il «conosci te stesso». Stupore, ma anche struggimento e smania per l’irraggiungibile sophía.
Ed eccolo quel cittadino, così strambo e fuori-luogo, uno straniero in patria. Chi lo vede da lontano scappa; altri ostentano disprezzo, lo deridono. Socrate mette in dubbio le idee più correnti, non riconosce nessuna autorità, si fa beffe persino del démos sovrano. Soprattutto mostra ai propri concittadini che non sanno quel che pretendono di sapere. Che democrazia potrebbe mai essere la loro? Il risentimento è tale che si traduce nella condanna a morte di quel singolare cittadino che aveva osato, con il dialogo, fare dello stupore una pratica pubblica insinuando il dissenso già nell’anima altrui, prima ancora che nella comunità.
Da allora si è aperto un abisso tra la filosofia e la politica e la tensione non è mai venuta meno. In esilio nella città, quasi stranieri residenti, i filosofi hanno resistito per secoli e millenni, testimoni critici di una pólis altra e migliore. Così questi sublimi migranti del pensiero hanno saputo convertire la perdita irreparabile in una conquista a venire.

Corriere 24.4.19
Al centro l’essere umano
La rivoluzione di Socrate
Mandò in crisi i pregiudizi dell’Ateniese medio
Un esempio contro ogni forma di dogmatismo
di Luciano Canfora


Non denunciò il tale che l’aveva picchiato Gli chiesero come mai e lui rispose: voi forse portereste in giudizio un asino?

A Cicerone dobbiamo la più pertinente definizione del durevole significato del filosofare socratico: Socrate — scrisse Cicerone delle Tusculanae — fu il primo a riportare la filosofia dal cielo sulla terra. Indicava, cosí, il cambio di rotta impresso all’indagine filosofica da Socrate e da chi ne proseguí l’opera: dalle speculazioni (anche folgoranti e precorritrici) sulla realtà fisica alla centralità dell’essere umano, alla sua morale e alla sua individuale coscienza (dove «morale» indica ogni aspetto: dall’etica, alla politica, alla religiosità). E, in altra sua opera (il De oratore), Cicerone definí Socrate «fonte e principio», della filosofia. A ben riflettere, l’unicità di quell’uomo singolare consiste in qualcosa che è capitato soltanto ai grandi fondatori di religioni: di aver conquistato una centralità definitiva e plurimillenaria (tutto il successivo filosofare parte da lui) senza aver mai voluto scrivere un rigo. Praticò soltanto lo scavo dialettico, il dubbio, l’interrogazione mai accomodante, ma non manifestò alcuna volontà di proclamare, e tanto meno imporre, certezze. Se il dogmatismo è, come infatti è un nefasto malanno mentale (e di conseguenza pratico), il «metodo» Socrate è ancora oggi il rimedio e l’antidoto.
Si è per un tempo lunghissimo discusso su chi lui veramente fosse. Domanda apparentemente insensata visto che abbiamo su di lui testimonianze innumerevoli: di contemporanei, di amici e allievi, di denigratori, di discendenti intellettuali. Ma è proprio questa colossale «enciclopedia socratica» che si frappone tra noi e lui che ci costringe a cercare di discernere un residuo di «verità» tra tante riscritture della sua persona e del suo pensiero.
L’Apologia che Platone gli fa pronunciare davanti ai 600 giudici popolari che lo condannarono a morte (399 a.C.) quando aveva da poco compiuto i settant’anni è, con la commedia di Aristofane intitolata Nuvole (423 a.C.), la testimonianza più vicina al personaggio. Allo stesso titolo possiamo considerare squarci biografici autentici le pagine del Fedone in cui Platone dà conto di come Socrate seppe morire filosofando ed il Critone, che documenta il rifiuto, da parte di Socrate, di evadere dal carcere nei giorni precedenti l’esecuzione.
Socrate metteva in discussione le certezze dell’«Ateniese medio» (democratico, bigotto, intollerante). Faceva, cioè, politica e, in dialogo costante soprattutto con giovani appartenenti ad ambienti che si collocavano agli antipodi dell’«Ateniese medio», plasmava un possibile ceto dirigente. In modo grottesco e denigratorio Aristofane, nelle Nuvole, con l’invenzione del ridicolo «pensatoio», intende rappresentare (e denunciare) esattamente questo. Il paradosso è che proprio quella commedia fu un tonfo per il commediografo che amava indossare i panni del vecchio tradizionalista. Ma gli attacchi non scalfivano l’interiore serenità dell’imprevedibile e instancabile conversatore-«tafàno» (cosí Socrate si definisce nell’Apologia). Racconta un biografo che una volta un interlocutore — furioso per la paradossalità esasperante, ai suoi occhi, di ciò che Socrate diceva — lo prese a pugni e a calci. Socrate non se la prese, e ciò stupì gli amici, cui obiettò: se mi avesse preso a calci un asino l’avrei forse portato in giudizio?
Ma perché, dai calci, ad un certo punto si passò alla condanna a morte? Qualche anno prima gli Ateniesi, riuniti in assemblea con funzione giudicante, avevano mandato a morte sei generali, pur vittoriosi, con l’accusa di non aver recuperato i naufraghi. Socrate quella volta era «pritano», presiedeva l’assemblea, ed era stato il solo ad opporsi alla condanna sommaria e giuridicamente mostruosa. Aveva, già allora, rischiato fisicamente. Poi venne la resa di Atene e il governo oligarchico dei «Trenta» (404/403 a.C.). Il capo di quel governo — Crizia — era stato un suo frequentatore-interlocutore.
Qui la possibilità di esser più precisi viene meno, anche se molto su questa materia incandescente dicono Platone (che di Crizia era il nipote, e per un po’ il seguace) e Senofonte (che agli ordini di Crizia comandò la cavalleria dei Trenta). Sta di fatto che, anche con il governo di questi suoi frequentatori, Socrate entrò in rotta di collisione rischiando ancora una volta la vita. Eppure non può essere dimenticato che proprio Platone, all’inizio del Timeo, fa dire a Crizia una frase, rivolta a Socrate, che sostanzialmente significa: col nostro governo noi abbiamo cercato di mettere in atto le tue idee!

La Stampa 29.4.19
“Cinque punti per cambiare l’Italia”
Di Maio riposiziona il M5S a sinistra
Dall’acqua pubblica alla paga minima, il capo del Movimento sfida gli alleati della Lega: “Siete con noi?”
di Federico Capurso


Tra gli appunti di Luigi Di Maio e dei suoi strateghi c’è una frase sottolineata più volte: «Il Movimento 5 stelle deve essere equidistante dalla Lega e dal Pd, in modo da poter tenere aperte due porte, una a destra e una a sinistra». Negli ultimi mesi, il baricentro si era spostato troppo a destra. Ed ecco che allora, in piena campagna elettorale, il leader cerca di riequilibrare i pesi annunciando cinque proposte lontane dagli orizzonti leghisti: acqua pubblica; conflitto d’interessi; salario minimo, taglio degli stipendi dei parlamentari e una legge per togliere la sanità dalle mani dei partiti. «Su queste cinque proposte La Lega è con noi? Se è con noi, possiamo dare queste leggi al Paese già quest’anno», dice Di Maio da Varsavia, dove partecipa alla convention di Kukiz’15, loro alleati alle prossime Europee.
Il primo banco di prova potrebbe essere proprio la proposta di legge sull’acqua pubblica sulla quale è al lavoro dall’inizio della legislatura la deputata grillina Federica Daga. Ma il progetto di legge «dovrà essere modificato», spiegano fonti di primo livello del Movimento, perché «ci sono alcuni punti che non passeranno mai all’esame degli alleati leghisti». Anche sulla legge per istituire il salario minimo gli uomini di governo del Movimento sono convinti che si dovrà mettere mano, perché nel lavoro fin qui portato avanti dalla deputata M5S Nunzia Catalfo sarebbero state individuate delle forti contraddizioni. Alcuni settori, infatti, rischierebbero di restare con un salario più basso rispetto a quello attuale. Di certo, non ci sarà il tempo per approvare tutte e cinque le proposte entro fine anno come promette il leader.
Dalla Lega, per ora, è arrivata una risposta freddina. «Di Maio fa solo campagna elettorale», dicono i colonnelli di Matteo Salvini. E non nascondono l’irritazione per leggi che «sembrano tagliate su misura per il Pd», come se si volesse riaprire quel forno. Una preoccupazione che non si discosta troppo dalla realtà. «C’è un pezzo di establishment, nel Movimento, che sta remando in quella direzione», rivela un membro del governo pentastellato. «Prima Travaglio che parla di alleanze con i dem, poi Fico su Repubblica... sembra che si voglia riaccendere l’ipotesi di un’alleanza tra noi e il Pd dopo le Europee, perché si ha paura delle conseguenze di un successo della Lega».
Di Maio accarezza questo schema, convinto che possa aiutare a mantenere sotto controllo le fibrillazioni che ci saranno nel governo dopo il voto del 26 maggio. Dall’altra parte, infatti, è stato notato l’attivismo di Giorgia Meloni, che chiede a Salvini di mollare i Cinque stelle. «Se Salvini la pensa così, noi rispondiamo guardando a sinistra. E con il Pd una maggioranza alternativa ci sarebbe, mentre Salvini con Fdi non ha i numeri», ragionano nel quartier generale del leader. Le Europee, però, fanno paura. Il rischio più concreto è che il leader della Lega possa reclamare due ministeri, di cui uno pesante e uno più leggero. La Sanità e i Trasporti sono quelli più a rischio e lo spauracchio di un nuovo forno aperto con il Pd, per i Cinque stelle, può aiutare a tenere calme le acque.
L’ipotesi di un cambio di alleati al governo però è molto più lontana di quanto i toni da campagna elettorale possano far credere. «Questo Paese non si può permettere di cambiare un pezzo di governo dopo le Europee, in vista della manovra», sostiene un ministro grillino tra i più fedeli al leader. Quando gli uomini di governo del Movimento sono a Bruxelles o in visita all’estero, infatti, la prima cosa che chiedono ansiosi gli interlocutori stranieri è: «Cosa succederà nel vostro governo dopo le Europee?». Lo spread continua ad avere fluttuazioni e i mercati sembrano non avere ancora una piena fiducia nella stabilità italiana. Il livello dello spread schizzato sopra i 200 punti base in attesa del giudizio di Standard & Poor’s non è stato un caso passato inosservato dalle parti di palazzo Chigi. Una situazione, quindi, che non rende appetibile l’idea di cercare una maggioranza alternativa con il Pd. I rapporti, però, si costruiscono con il tempo.

Repubblica 29.4.19
Capolavori nascosti
“Arancia meccanica così ho ritrovato il sequel segreto”
di Enrico Franceschini


Andrew Biswell, studioso e biografo di Anthony Burgess, racconta a “Repubblica” i dettagli della scoperta del testo, per anni sepolto nella casa di Bracciano dell’autore: “ È un inno alla redenzione, non alla violenza”
LONDRA «È il seguito di Arancia meccanica.
Una riflessione filosofica sulla condizione umana, una nuova interpretazione del romanzo e del film che ne è stato tratto». Andrew Biswell non trattiene l’entusiasmo per la scoperta che ha appena annunciato al mondo della letteratura: il ritrovamento di un manoscritto inedito di Anthony Burgess (1917-1993), The Clockwork Condition,
contenente una sorta di epilogo morale della sua opera più famosa, diventata un cult grazie al capolavoro di Stanley Kubrick. Un sequel con un messaggio dagli echi dostoevskijani, spiega Biswell, ordinario della cattedra di lettere moderne alla Metropolitan University di Manchester, città natale dello scrittore, e autore della sua biografia autorizzata: «Dopo il delitto c’è il castigo, affermava Burgess nel manoscritto, ed esiste sempre la possibilità della redenzione».
Parole che suonano attuali nella realtà odierna quanto nella futuristica Inghilterra in cui Alex e la gang dei drughi, protagonisti di A Clockwork Orange (questo il titolo originale) suscitavano il panico con le loro scorribande.
Come ha scoperto il manoscritto, professore?
«Era parte di un vero e proprio tesoro di inediti di Burgess, rinvenuto nella sua abitazione vicino a Roma, sul lago di Bracciano. Una casa in cui lo scrittore andò a vivere dopo il matrimonio con Liliana Macellari, l’italiana che sposò in seconde nozze, straordinaria traduttrice di Lawrence Durrell, J. D. Salinger e dello stesso Burgess, di cui poi è stata anche l’agente. Ma in seguito la coppia si trasferì a Monaco e la casa di Bracciano è rimasta praticamente disabitata per vent’anni, fino a dopo la morte di Burgess nel 1993 e della sua vedova Liana, come lui la chiamava, nel 2007. Quando gli eredi l’hanno venduta, un sopralluogo ha fatto trovare casse di manoscritti, che sono state inviate alla Fondazione Burgess di Manchester».
E le ci sono voluti più di dieci anni per trovare in quelle casse il seguito di “Arancia meccanica”?
«Non era facile. La mole di materiale è enorme: finora ne abbiamo catalogato solo una parte. Ci sono racconti inediti, sceneggiature mai messe in scena, tutta la sua corrispondenza personale, e molti spartiti musicali, perché Burgess era anche un ottimo compositore. A un certo punto è saltato fuori un manoscritto di duecento pagine, pieno di schizzi, illustrazioni e appunti a mano, su Arancia meccanica. Quando l’ho preso in mano quasi non potevo credere ai miei occhi».
Cos’è esattamente? Un seguito del romanzo? Un nuovo finale?
«Lo definirei un seguito non narrativo. Burgess la chiama “una riflessione filosofica sulla condizione umana”. Un progetto molto ambizioso, dunque.
Destinato a essere pubblicato, nelle intenzioni dell’autore, in forma di libro illustrato, con la metà circa delle pagine composte di disegni e fotografie».
Una sorta di appendice di “Arancia meccanica”, come l’“Appendice al Nome della Rosa” di Umberto Eco?
«Esattamente. Burgess ed Eco, del resto, si conoscevano. Anthony lo stimava molto. Ogni libro è composto di altri libri, sosteneva Eco, e questo manoscritto ritrovato di Burgess ne sembra l’ennesima dimostrazione».
Il messaggio del sequel è che “Arancia Meccanica” è stato erroneamente interpretato come un’esaltazione della violenza?
«In Inghilterra ci furono episodi di violenza che sembravano scimmiottare alcune situazioni del film. Ma nel manoscritto Burgess sostiene che la letteratura, e l’arte in generale, non ispirano la violenza: possono al massimo influenzarne lo stile.
Quelle persone erano già violente, non lo sono diventate a causa del suo libro o del film di Kubrick. Il romanzo, sottolinea Burgess, era diviso in tre parti: delitto, castigo e redenzione. Tutti si sono concentrati sul delitto, ma per lui è altrettanto importante il castigo e la possibilità di redenzione. Un messaggio valido quando uscirono libro e film, negli anni 60-70, quanto lo è oggi».
Nel film però manca la redenzione: finisce con Alex, nella scioccante interpretazione di Malcolm McDowell, che torna al crimine.
«Burgess aveva scritto due finali di Arancia meccanica. Il finale americano, che è stato usato per il film, in cui Alex torna appunto alla violenza. E quello inglese, in cui rinuncia alla violenza.
Quest’ultimo era quello preferito dall’autore, che lo usò anche per un successivo adattamento teatrale di Arancia meccanica ».
Com’erano i rapporti tra Burgess e Kubrick?
«Non si incontrarono mai prima del film. Ma dopo diventarono amici. Burgess dedicò perfino a Kubrick un suo successivo romanzo su Napoleone: sarebbe dovuto diventare il soggetto del film che il regista progettò a lungo su Bonaparte senza mai realizzarlo».
Nel manoscritto ritrovato c’è anche un riferimento a come Burgess arrivò al titolo di “Arancia meccanica”.
«In parte era una ricostruzione già nota. Ma nel manoscritto Burgess la conferma con maggiori dettagli. In pratica sostiene che nel 1945, in un pub di Londra, sentì dire a un avventore questa frase: “Quel tale è strano come un’arancia meccanica”. E da allora avrebbe sempre conservato l’idea di utilizzare quella singolare espressione come titolo di un romanzo».
Crede che andò proprio così?
«Non è chiaro. Il dizionario dello slang inglese non produce esempi di frasi di questo tipo. Ma cita l’espressione clockwork chinese, cinese meccanico, per indicare qualcosa di strano, e può darsi che Burgess si sia ispirato ad essa, confondendosi o volendo confondere apposta la sua fonte, per arrivare ad Arancia meccanica ».
Verranno pubblicati i manoscritti inediti, a cominciare da questo?
«Spero di sì, ma ci vorrà tempo. E per il sequel bisognerà trovare un illustratore che rispetti le intenzioni di Burgess».
Un libro ritrovato dopo tanti anni, in una casa abbandonata, sulla riva di un lago: sembra la trama per un romanzo di Eco o di Dan Brown.
«Davvero! A Burgess piacerebbe.
Qualcuno dovrebbe scriverlo».

Scavando nei fondi dell’Archivio Pietro Ingrao, il curatore, Alberto Olivetti, ha trovato una chicca che l’Ediesse, la casa editrice della Cgil, ha appena pubblicato con un titolo curioso, «Tentativo di dialogo sul comunismo». Tentativo: Ingrao, letto e riletto il testo in cui Ferdinando Camon aveva condensato i tre lunghi colloqui che avevano avuto tra il dicembre del 1993 e il maggio del 1944, decise di non farne nulla. Non era soddisfatto. E Camon, che pure insistette assai per darlo alle stampe, comprese bene il perché. «Dialogando con lui... avevo l’impressione che quel che diceva fosse meno di quel che pensava e viveva. Sentivo una passione a monte del suo discorso, che il discorso smorzava e riduceva a semplici parole... Chi ha vissuto tutta una vita per fare il comunismo contrae un’esperienza che in un tempo non comunista non è dicibile e non è comunicabile», scrive nella premessa al libro appena uscito. E ha per molti aspetti ragione. È vero, molti comunisti italiani, compreso Ingrao, in «Volevo la luna» (Einaudi nel 2006), hanno poi scritto, in tutti questi anni, del comunismo italiano e di loro stessi. Ma il patriarca che rifiuta caparbiamente di archiviare quella parola grande e terribile, comunismo, ne ragiona nel salotto di casa con il narratore veneto quando la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino da due anni appena. Da un trentennio almeno critico severo dell’Unione Sovietica, Ingrao non apprezza molto, giurerei, Evgenij Evtusenko, il bardo di un dissenso a dir poco cauteloso. Ma si riconoscerebbe, forse, nei suoi versi: «Arrivederci bandiera rossa.../Ora, nel gran bazar d’Ismajlovo/ti smerciano per pochi dollari, alla meglio./Io non ho preso il Palazzo d’Inverno./Non ho assaltato il Reichstag./Non sono un kommuniak./Ma guardo la mia bandiera e piango». Solo in parte, però. Ingrao non piange e non rimpiange. Tenta piuttosto, stando, come diceva lui, «nel gorgo», di ritrovare ragioni perché non quel comunismo, ma un comunismo inteso come «tensione verso la felicità» ritorni in campo, perché la sua caduta, sostiene, «ha prodotto un arretramento anche delle altre dottrine, che adesso promettono meno di prima, come se nella coscienza di tutta l’umanità, anche non comunista, l’idea di felicità si fosse allontanata». Rifiuta l’idea, ormai accettata nemmeno troppo implicitamente dai suoi compagni, che la storia sia finita con una sconfitta senza appello. Ma sa bene che il mondo di ieri, il mondo di cui pure in una postazione di frontiera ereticale ha fatto parte per una vita, è crollato. Più che strade nuove, prova, anche un po’ alla rinfusa, a immaginare rifondazioni radicali: «Il comunismo di ieri era tutto “fare”, tutto “lavoro”..., il comunismo di domani... dev’essere un comunismo “romantico”, “psicologico”, “sentimentale”, che recupererà anche proposte dell’età preindustriale, senza ripetere le condizioni sotto umane della vita contadina» descritta da Camon nei suoi romanzi.
Probabilmente Ingrao stesso sa bene, e anche per questo, penso, si convince a non pubblicare nulla, che questi sguardi inquieti lanciati, tra le rovine, su un futuro quanto mai ipotetico, gli tirerebbero per l’ennesima volta addosso, ma elevata a potenza, l’accusa, carica di scherno, di essere «solo» un poeta, che in politica vuol dire un acchiappanuvole. E quelli che hanno conosciuto gli Ingrao si commuoveranno anche un poco, leggendo i brevissimi interventi della moglie, Laura, che compare a tratti nella conversazione come per tirargli affettuosamente la manica, e aiutarlo (in verità, senza grande successo) a sfuggire questa trappola introducendo qualche notazione più «realistica». Hanno fatto bene Olivetti, Camon e l’Ediesse a mandare in libreria un testo che, un quarto di secolo fa, l’interessato ha preferito restasse nel cassetto. Quell’arrovellarsi su come una speranza di liberazione (perché così Ingrao continua a leggere la rivoluzione d’Ottobre) si sia trasformata in un incubo appartiene tutto al Novecento, e il Novecento le sue sentenze le ha emesse.
Ci sono però dei giovani, forse più numerosi di quanto si creda, ai quali non certo il comunismo, ma quel rifiuto testardo di accettare l’idea che questo sia il migliore, e comunque l’unico dei mondi possibili, può dire ancora qualcosa. Molti (la grande maggioranza) non hanno una casa partitica, altri (non tanti) ce l’hanno ma, così com’è ridotta, gli va molto stretta e vorrebbero ristrutturarla radicalmente. A questi ultimi ha dato voce «La sinistra e la scintilla», il libro (da leggere) di Giuseppe Provenzano, trentasettenne vicedirettore della Svimez che milita tuttora nel Pd, pubblicato di recente da Donzelli: una critica impietosa alla sinistra «che ha perso perché è diventata centro», un appello, e qualcosa di più, «a due o tre generazioni cui la sinistra non ha dato nulla» perché questa sinistra se la prendano, e in nome di un’idea moderna di socialismo. Non c’è niente a legare, storicamente e politicamente, un giovane neosocialista come Provenzano a Ingrao, che se ne è andato a cent’anni da comunista. Tranne la convinzione, in qualche modo comune, che «il destino non è segnato», e che le ragioni della sinistra, non solo l’uguaglianza, ma prima tra tutte l’uguaglianza, quando tutto sembra parlare in senso contrario, sono tuttora attuali, e forse più attuali che mai, purché ci sia una forza che abbia la capacità, e prima ancora la voglia, di evocarle e di farle contare.

Repubblica 29.4.19
Cacciari “La sinistra vive le forze dell’antipolitica non sanno governare”
Intervista di Goffredo De Marchis

Quando un partito di sinistra fa il partito di massa e incrocia un movimento di protesta, il movimento di protesta si sfalda.
È l’analisi di Massimo Cacciari sul voto spagnolo. Da applicare anche in Italia.
Il Psoe sfiora il 30 per cento.
Il socialismo è vivo in Europa?
«Per strane alchimie parlamentari i socialisti si sono ritrovati al governo negli ultimi mesi ed evidentemente non hanno dato cattiva prova di sé. E’ bastata una buona capacità amministrativa, la dimostrazione di un sano pragmatismo per provocare il vistoso calo dei consensi di Podemos. Una cosa del tutto ovvia, che diventerà realtà anche in Italia perchè Podemos e 5 stelle si somigliano molto».
Podemos è una forza di sinistra, i grillini non sono né di destra né di sinistra, dicono.
«Non è così. Nel Movimento 5 stelle c’è una componente largamente maggioritaria di elettori di sinistra e una piccola componente di destra che in Spagna ha gonfiato il voto a Vox, così come da noi farà crescere Salvini. Io vedo grandi somiglianze tra la Spagna, l’Italia e la Francia. Nascono e crescono forze antisistema che si danno una parvenza di partito ed esprimono il disagio. I gilet gialli cos’altro sono se non questo?».
Cosa deve imparare il Pd dall’affermazione del Psoe?
«Deve imparare a non essere un partito moderato. Se vuoi rappresentare i voti del disagio crei una sinistra organizzata e di governo e la smetti di incarnare le ragioni delle élite. Perché se rifai il Partito di azione prenderai i voti del Partito di azione, cioè zero voti. Ci vuole una sinistra di massa».
Quanto peso ha avuto la leadership di Sanchez in Spagna?
«Sicuramente sarà stata importante. La sua credibilità avrà avuto un peso. Ma questa vittoria gli è stata regalata, ora deve usarla bene. Spero che riescano a formare un governo».
L’ultradestra di Vox entra in Parlamento anche se con risultati inferiori ai sondaggi.
Che significa?
«Una componente di destra c’è in tutti i Paesi europei. In Italia rappresenta l’eterno fascismo, in Spagna l’eterno franchismo. Vox si afferma a spese del Partito popolare. La destra non è più riuscita a tenere al suo interno la rappresentazione della rabbia e del disagio. Il problema si ripete: la formula del moderatismo non funziona più. A destra e a sinistra».
Le prime mosse di Zingaretti vanno nella direzione giusta?
«Dove vai se metti nel simbolo Carlo Calenda? Contro le élite?
Ma lasciamo stare. Partito di massa, intendiamoci, non significa non fare i conti con la classe dirigente. Il Pci usava la categoria degli indipendenti di sinistra. Ma non può essere quella la spina dorsale di una forza di sinistra. Ci stiamo giocando l’Italia e anche l’Europa.
Rendiamocene conto».
Nessuna attenuante per il neosegretario del Pd?
«Ma sì. La verità è che non ha potuto fare adesso quello che mi auguro farà dopo».
Cioè?
«Organizzare una forza che dia rappresentanza a quella moltitudine di persone abbagliate dal fenomeno dei 5 stelle. Parlo di un’impresa gigante. Perché quel tipo di fenomeno va organizzato e metabolizzato. Occorre sussumerli, per dirla filosoficamente, come tali, filtrarli. Occorre che quel popolo diventi una corrente del partito di massa di cui parlavo prima.
Perché è un popolo che esiste in Europa. Si manifesta in maniera diversa ma c’è. Ha dato vita a Tsipras, a Podemos, ai 5 stelle.
Negli ultimi due casi abbiamo visto che non reggono la prova di governo».

Corriere 29.4.19
La collana
Ecco i filosofi
Voci scomode amanti del sapere
Esce domani in regalo con il quotidiano il titolo che apre la seriededicata ai grandi maestri del pensiero. Un’attività che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta per la quale non esiste nulla di scontato Tutto viene così esposto all’indagine dell’individuo: persino colui che indaga
di Donatella Di Cesare


Conflittualità
L’antica tensione di fondo tra la filosofia e il potere politico non è mai scomparsa. Anzi si ripropone in pieno ai nostri giorni

Che valore ha oggi la filosofia? A quale compito saranno chiamati le filosofe e i filosofi nell’età del tecnocapitalismo e della governance neoliberale? La Regina delle scienze, rimasta sola, dopo il distacco definitivo delle scienze naturali, appare caduta in un grave discredito. E se la senatrice Liliana Segre richiama i politici allo studio della storia, è altrettanto giusto richiamarli allo studio della filosofia.
Il ritmo accelerato sembra bandire ogni riflessione considerata un gioco improduttivo, una fuga irresponsabile in sogni evanescenti. Così il vecchio pregiudizio contro la filosofia si è andato rafforzando. Urgono risposte rapide, soluzioni definitive agli innumerevoli problemi di un’epoca tanto complessa. A che pro la filosofia? A che cosa serve? Che cos’è?
Rispondere implica già accogliere una sfida subdola, accettando i presupposti impliciti nella domanda: cioè che la filosofia sia un mezzo utile a un fine. Eppure la sua inattualità, che la rende così attuale, sta proprio nel sottrarsi all’economia del profitto. In tal senso non servirà forse a nulla. Si potrebbe allora cancellarla con un colpo di spugna — il che poi vorrebbe dire rimuovere il cuore stesso della tradizione occidentale. Tuttavia la filosofia non è solo un patrimonio di testi. È molto di più. Chi non filosofa, senza dubbio vive, ma sminuita è la sua esistenza, compromessa la sua partecipazione alla politica.
Sin dai suoi esordi, nell’antica Grecia, la filosofia è stata chiamata a dimostrare il proprio diritto a esistere. Sennonché anche chi la contesta, chi ne mette in dubbio la legittimità, è già immerso nel movimento del pensiero, già filosofa. Ecco perché il ritornello sulla fine della filosofia è banale e vacuo. Certo nessuno immagina che possano ancora edificarsi quei sistemi che miravano a collegare tutto il sapere in un’immagine unitaria. L’impero hegeliano dello Spirito assoluto si è dissolto. Ma ciò non ha decretato la fine della riflessione. La filosofia non va e non viene, non finisce. Immanuel Kant parla di «attitudine naturale» dell’essere umano. Seppur inconsapevolmente, tutti filosofano. E già i bambini si interrogano sulla morte, sul futuro, sulla felicità. La filosofia non è una disciplina (sebbene sia stata in parte istituzionalizzata), non è un sapere specialistico, né un mestiere, né un’occupazione. Vaga qui e là, anche sulla pubblica piazza, in forme diverse; a volte sembra filosofia, e non lo è, altre volte non sembra, e invece lo è — i filosofi la riconoscono.
Si potrebbe dire con Heidegger che «filosofia è filosofare». Se solo alcuni hanno il particolare destino di risvegliare gli altri al pensiero, la filosofia, lungi dall’essere privilegio di pochi, tocca al fondo l’esistenza di ciascuno. Studiare i classici vuol dire anzitutto imparare a interrogarsi. Ciò che contraddistingue la filosofia è la domanda radicale, quella che va alle radici, che non chiede per sapere, ma che, anzi, mette in questione ogni sapere. Non vengono fornite soluzioni definitive. La filosofia non avrebbe altrimenti una storia dove, in forma sempre diversa, si ripropongono le questioni che la assillano: sulla verità, sul bene, sulla libertà. I problemi fondamentali della filosofia sono piuttosto aporie per cui non si danno soluzioni — né ottimali, né univoche, né definitive. Le risposte sono molteplici, le indicazioni differenti. Ecco perché i filosofi tornano ai testi di più di 2.000 anni fa — quelli di Eraclito, di Platone, di Aristotele — e li leggono come se fossero stati scritti ieri.
Sta qui una differenza decisiva rispetto alla scienza. Circoscritte a un ambito del sapere, le scienze non danno conto dei loro presupposti. Kant esorta a non confondere la filosofia con la matematica che, pure, è una costruzione concettuale. Ma già solo interrogandosi sullo statuto della matematica, la filosofia ne valica i limiti, va oltre l’ovvietà dei principi. Così ciò che per la scienza è fuori questione viene innalzato alla dignità della domanda filosofica.
Non c’è fenomeno che sfugga. Neppure il nulla. «Perché esiste qualcosa e non piuttosto il nulla?». Formulata da Leibniz, questa è la domanda esemplare della filosofia, che scaturisce dallo stupore, una passione inquieta. Ciò che per gli altri è ovvio, lampante, scontato, perde agli occhi del filosofo l’aura di solenne gravità che lo metterebbe al riparo dalla domanda. Tutto è esposto all’interrogare. Persino l’interrogante, il filosofo stesso, che viene così deposto dal suo pulpito.
D’altronde l’inizio aporetico della filosofia è il non sapere di Socrate, che ha inaugurato la ricerca introspettiva, il «conosci te stesso». Stupore, ma anche struggimento e smania per l’irraggiungibile sophía.
Ed eccolo quel cittadino, così strambo e fuori-luogo, uno straniero in patria. Chi lo vede da lontano scappa; altri ostentano disprezzo, lo deridono. Socrate mette in dubbio le idee più correnti, non riconosce nessuna autorità, si fa beffe persino del démos sovrano. Soprattutto mostra ai propri concittadini che non sanno quel che pretendono di sapere. Che democrazia potrebbe mai essere la loro? Il risentimento è tale che si traduce nella condanna a morte di quel singolare cittadino che aveva osato, con il dialogo, fare dello stupore una pratica pubblica insinuando il dissenso già nell’anima altrui, prima ancora che nella comunità.
Da allora si è aperto un abisso tra la filosofia e la politica e la tensione non è mai venuta meno. In esilio nella città, quasi stranieri residenti, i filosofi hanno resistito per secoli e millenni, testimoni critici di una pólis altra e migliore. Così questi sublimi migranti del pensiero hanno saputo convertire la perdita irreparabile in una conquista a venire.

Corriere 24.4.19
Al centro l’essere umano
La rivoluzione di Socrate
Mandò in crisi i pregiudizi dell’Ateniese medio
Un esempio contro ogni forma di dogmatismo
di Luciano Canfora


Non denunciò il tale che l’aveva picchiato Gli chiesero come mai e lui rispose: voi forse portereste in giudizio un asino?

A Cicerone dobbiamo la più pertinente definizione del durevole significato del filosofare socratico: Socrate — scrisse Cicerone delle Tusculanae — fu il primo a riportare la filosofia dal cielo sulla terra. Indicava, cosí, il cambio di rotta impresso all’indagine filosofica da Socrate e da chi ne proseguí l’opera: dalle speculazioni (anche folgoranti e precorritrici) sulla realtà fisica alla centralità dell’essere umano, alla sua morale e alla sua individuale coscienza (dove «morale» indica ogni aspetto: dall’etica, alla politica, alla religiosità). E, in altra sua opera (il De oratore), Cicerone definí Socrate «fonte e principio», della filosofia. A ben riflettere, l’unicità di quell’uomo singolare consiste in qualcosa che è capitato soltanto ai grandi fondatori di religioni: di aver conquistato una centralità definitiva e plurimillenaria (tutto il successivo filosofare parte da lui) senza aver mai voluto scrivere un rigo. Praticò soltanto lo scavo dialettico, il dubbio, l’interrogazione mai accomodante, ma non manifestò alcuna volontà di proclamare, e tanto meno imporre, certezze. Se il dogmatismo è, come infatti è un nefasto malanno mentale (e di conseguenza pratico), il «metodo» Socrate è ancora oggi il rimedio e l’antidoto.
Si è per un tempo lunghissimo discusso su chi lui veramente fosse. Domanda apparentemente insensata visto che abbiamo su di lui testimonianze innumerevoli: di contemporanei, di amici e allievi, di denigratori, di discendenti intellettuali. Ma è proprio questa colossale «enciclopedia socratica» che si frappone tra noi e lui che ci costringe a cercare di discernere un residuo di «verità» tra tante riscritture della sua persona e del suo pensiero.
L’Apologia che Platone gli fa pronunciare davanti ai 600 giudici popolari che lo condannarono a morte (399 a.C.) quando aveva da poco compiuto i settant’anni è, con la commedia di Aristofane intitolata Nuvole (423 a.C.), la testimonianza più vicina al personaggio. Allo stesso titolo possiamo considerare squarci biografici autentici le pagine del Fedone in cui Platone dà conto di come Socrate seppe morire filosofando ed il Critone, che documenta il rifiuto, da parte di Socrate, di evadere dal carcere nei giorni precedenti l’esecuzione.
Socrate metteva in discussione le certezze dell’«Ateniese medio» (democratico, bigotto, intollerante). Faceva, cioè, politica e, in dialogo costante soprattutto con giovani appartenenti ad ambienti che si collocavano agli antipodi dell’«Ateniese medio», plasmava un possibile ceto dirigente. In modo grottesco e denigratorio Aristofane, nelle Nuvole, con l’invenzione del ridicolo «pensatoio», intende rappresentare (e denunciare) esattamente questo. Il paradosso è che proprio quella commedia fu un tonfo per il commediografo che amava indossare i panni del vecchio tradizionalista. Ma gli attacchi non scalfivano l’interiore serenità dell’imprevedibile e instancabile conversatore-«tafàno» (cosí Socrate si definisce nell’Apologia). Racconta un biografo che una volta un interlocutore — furioso per la paradossalità esasperante, ai suoi occhi, di ciò che Socrate diceva — lo prese a pugni e a calci. Socrate non se la prese, e ciò stupì gli amici, cui obiettò: se mi avesse preso a calci un asino l’avrei forse portato in giudizio?
Ma perché, dai calci, ad un certo punto si passò alla condanna a morte? Qualche anno prima gli Ateniesi, riuniti in assemblea con funzione giudicante, avevano mandato a morte sei generali, pur vittoriosi, con l’accusa di non aver recuperato i naufraghi. Socrate quella volta era «pritano», presiedeva l’assemblea, ed era stato il solo ad opporsi alla condanna sommaria e giuridicamente mostruosa. Aveva, già allora, rischiato fisicamente. Poi venne la resa di Atene e il governo oligarchico dei «Trenta» (404/403 a.C.). Il capo di quel governo — Crizia — era stato un suo frequentatore-interlocutore.
Qui la possibilità di esser più precisi viene meno, anche se molto su questa materia incandescente dicono Platone (che di Crizia era il nipote, e per un po’ il seguace) e Senofonte (che agli ordini di Crizia comandò la cavalleria dei Trenta). Sta di fatto che, anche con il governo di questi suoi frequentatori, Socrate entrò in rotta di collisione rischiando ancora una volta la vita. Eppure non può essere dimenticato che proprio Platone, all’inizio del Timeo, fa dire a Crizia una frase, rivolta a Socrate, che sostanzialmente significa: col nostro governo noi abbiamo cercato di mettere in atto le tue idee!

La Stampa 29.4.19
“Cinque punti per cambiare l’Italia”
Di Maio riposiziona il M5S a sinistra
Dall’acqua pubblica alla paga minima, il capo del Movimento sfida gli alleati della Lega: “Siete con noi?”

di Federico Capurso

Tra gli appunti di Luigi Di Maio e dei suoi strateghi c’è una frase sottolineata più volte: «Il Movimento 5 stelle deve essere equidistante dalla Lega e dal Pd, in modo da poter tenere aperte due porte, una a destra e una a sinistra». Negli ultimi mesi, il baricentro si era spostato troppo a destra. Ed ecco che allora, in piena campagna elettorale, il leader cerca di riequilibrare i pesi annunciando cinque proposte lontane dagli orizzonti leghisti: acqua pubblica; conflitto d’interessi; salario minimo, taglio degli stipendi dei parlamentari e una legge per togliere la sanità dalle mani dei partiti. «Su queste cinque proposte La Lega è con noi? Se è con noi, possiamo dare queste leggi al Paese già quest’anno», dice Di Maio da Varsavia, dove partecipa alla convention di Kukiz’15, loro alleati alle prossime Europee.
Il primo banco di prova potrebbe essere proprio la proposta di legge sull’acqua pubblica sulla quale è al lavoro dall’inizio della legislatura la deputata grillina Federica Daga. Ma il progetto di legge «dovrà essere modificato», spiegano fonti di primo livello del Movimento, perché «ci sono alcuni punti che non passeranno mai all’esame degli alleati leghisti». Anche sulla legge per istituire il salario minimo gli uomini di governo del Movimento sono convinti che si dovrà mettere mano, perché nel lavoro fin qui portato avanti dalla deputata M5S Nunzia Catalfo sarebbero state individuate delle forti contraddizioni. Alcuni settori, infatti, rischierebbero di restare con un salario più basso rispetto a quello attuale. Di certo, non ci sarà il tempo per approvare tutte e cinque le proposte entro fine anno come promette il leader.
Dalla Lega, per ora, è arrivata una risposta freddina. «Di Maio fa solo campagna elettorale», dicono i colonnelli di Matteo Salvini. E non nascondono l’irritazione per leggi che «sembrano tagliate su misura per il Pd», come se si volesse riaprire quel forno. Una preoccupazione che non si discosta troppo dalla realtà. «C’è un pezzo di establishment, nel Movimento, che sta remando in quella direzione», rivela un membro del governo pentastellato. «Prima Travaglio che parla di alleanze con i dem, poi Fico su Repubblica... sembra che si voglia riaccendere l’ipotesi di un’alleanza tra noi e il Pd dopo le Europee, perché si ha paura delle conseguenze di un successo della Lega».
Di Maio accarezza questo schema, convinto che possa aiutare a mantenere sotto controllo le fibrillazioni che ci saranno nel governo dopo il voto del 26 maggio. Dall’altra parte, infatti, è stato notato l’attivismo di Giorgia Meloni, che chiede a Salvini di mollare i Cinque stelle. «Se Salvini la pensa così, noi rispondiamo guardando a sinistra. E con il Pd una maggioranza alternativa ci sarebbe, mentre Salvini con Fdi non ha i numeri», ragionano nel quartier generale del leader. Le Europee, però, fanno paura. Il rischio più concreto è che il leader della Lega possa reclamare due ministeri, di cui uno pesante e uno più leggero. La Sanità e i Trasporti sono quelli più a rischio e lo spauracchio di un nuovo forno aperto con il Pd, per i Cinque stelle, può aiutare a tenere calme le acque.
L’ipotesi di un cambio di alleati al governo però è molto più lontana di quanto i toni da campagna elettorale possano far credere. «Questo Paese non si può permettere di cambiare un pezzo di governo dopo le Europee, in vista della manovra», sostiene un ministro grillino tra i più fedeli al leader. Quando gli uomini di governo del Movimento sono a Bruxelles o in visita all’estero, infatti, la prima cosa che chiedono ansiosi gli interlocutori stranieri è: «Cosa succederà nel vostro governo dopo le Europee?». Lo spread continua ad avere fluttuazioni e i mercati sembrano non avere ancora una piena fiducia nella stabilità italiana. Il livello dello spread schizzato sopra i 200 punti base in attesa del giudizio di Standard & Poor’s non è stato un caso passato inosservato dalle parti di palazzo Chigi. Una situazione, quindi, che non rende appetibile l’idea di cercare una maggioranza alternativa con il Pd. I rapporti, però, si costruiscono con il tempo.

Repubblica 29.4.19
Capolavori nascosti
“Arancia meccanica così ho ritrovato il sequel segreto”
di Enrico Franceschini


Andrew Biswell, studioso e biografo di Anthony Burgess, racconta a “Repubblica” i dettagli della scoperta del testo, per anni sepolto nella casa di Bracciano dell’autore: “ È un inno alla redenzione, non alla violenza”
LONDRA «È il seguito di Arancia meccanica.
Una riflessione filosofica sulla condizione umana, una nuova interpretazione del romanzo e del film che ne è stato tratto». Andrew Biswell non trattiene l’entusiasmo per la scoperta che ha appena annunciato al mondo della letteratura: il ritrovamento di un manoscritto inedito di Anthony Burgess (1917-1993), The Clockwork Condition,
contenente una sorta di epilogo morale della sua opera più famosa, diventata un cult grazie al capolavoro di Stanley Kubrick. Un sequel con un messaggio dagli echi dostoevskijani, spiega Biswell, ordinario della cattedra di lettere moderne alla Metropolitan University di Manchester, città natale dello scrittore, e autore della sua biografia autorizzata: «Dopo il delitto c’è il castigo, affermava Burgess nel manoscritto, ed esiste sempre la possibilità della redenzione».
Parole che suonano attuali nella realtà odierna quanto nella futuristica Inghilterra in cui Alex e la gang dei drughi, protagonisti di A Clockwork Orange (questo il titolo originale) suscitavano il panico con le loro scorribande.
Come ha scoperto il manoscritto, professore?
«Era parte di un vero e proprio tesoro di inediti di Burgess, rinvenuto nella sua abitazione vicino a Roma, sul lago di Bracciano. Una casa in cui lo scrittore andò a vivere dopo il matrimonio con Liliana Macellari, l’italiana che sposò in seconde nozze, straordinaria traduttrice di Lawrence Durrell, J. D. Salinger e dello stesso Burgess, di cui poi è stata anche l’agente. Ma in seguito la coppia si trasferì a Monaco e la casa di Bracciano è rimasta praticamente disabitata per vent’anni, fino a dopo la morte di Burgess nel 1993 e della sua vedova Liana, come lui la chiamava, nel 2007. Quando gli eredi l’hanno venduta, un sopralluogo ha fatto trovare casse di manoscritti, che sono state inviate alla Fondazione Burgess di Manchester».
E le ci sono voluti più di dieci anni per trovare in quelle casse il seguito di “Arancia meccanica”?
«Non era facile. La mole di materiale è enorme: finora ne abbiamo catalogato solo una parte. Ci sono racconti inediti, sceneggiature mai messe in scena, tutta la sua corrispondenza personale, e molti spartiti musicali, perché Burgess era anche un ottimo compositore. A un certo punto è saltato fuori un manoscritto di duecento pagine, pieno di schizzi, illustrazioni e appunti a mano, su Arancia meccanica. Quando l’ho preso in mano quasi non potevo credere ai miei occhi».
Cos’è esattamente? Un seguito del romanzo? Un nuovo finale?
«Lo definirei un seguito non narrativo. Burgess la chiama “una riflessione filosofica sulla condizione umana”. Un progetto molto ambizioso, dunque.
Destinato a essere pubblicato, nelle intenzioni dell’autore, in forma di libro illustrato, con la metà circa delle pagine composte di disegni e fotografie».
Una sorta di appendice di “Arancia meccanica”, come l’“Appendice al Nome della Rosa” di Umberto Eco?
«Esattamente. Burgess ed Eco, del resto, si conoscevano. Anthony lo stimava molto. Ogni libro è composto di altri libri, sosteneva Eco, e questo manoscritto ritrovato di Burgess ne sembra l’ennesima dimostrazione».
Il messaggio del sequel è che “Arancia Meccanica” è stato erroneamente interpretato come un’esaltazione della violenza?
«In Inghilterra ci furono episodi di violenza che sembravano scimmiottare alcune situazioni del film. Ma nel manoscritto Burgess sostiene che la letteratura, e l’arte in generale, non ispirano la violenza: possono al massimo influenzarne lo stile.
Quelle persone erano già violente, non lo sono diventate a causa del suo libro o del film di Kubrick. Il romanzo, sottolinea Burgess, era diviso in tre parti: delitto, castigo e redenzione. Tutti si sono concentrati sul delitto, ma per lui è altrettanto importante il castigo e la possibilità di redenzione. Un messaggio valido quando uscirono libro e film, negli anni 60-70, quanto lo è oggi».
Nel film però manca la redenzione: finisce con Alex, nella scioccante interpretazione di Malcolm McDowell, che torna al crimine.
«Burgess aveva scritto due finali di Arancia meccanica. Il finale americano, che è stato usato per il film, in cui Alex torna appunto alla violenza. E quello inglese, in cui rinuncia alla violenza.
Quest’ultimo era quello preferito dall’autore, che lo usò anche per un successivo adattamento teatrale di Arancia meccanica ».
Com’erano i rapporti tra Burgess e Kubrick?
«Non si incontrarono mai prima del film. Ma dopo diventarono amici. Burgess dedicò perfino a Kubrick un suo successivo romanzo su Napoleone: sarebbe dovuto diventare il soggetto del film che il regista progettò a lungo su Bonaparte senza mai realizzarlo».
Nel manoscritto ritrovato c’è anche un riferimento a come Burgess arrivò al titolo di “Arancia meccanica”.
«In parte era una ricostruzione già nota. Ma nel manoscritto Burgess la conferma con maggiori dettagli. In pratica sostiene che nel 1945, in un pub di Londra, sentì dire a un avventore questa frase: “Quel tale è strano come un’arancia meccanica”. E da allora avrebbe sempre conservato l’idea di utilizzare quella singolare espressione come titolo di un romanzo».
Crede che andò proprio così?
«Non è chiaro. Il dizionario dello slang inglese non produce esempi di frasi di questo tipo. Ma cita l’espressione clockwork chinese, cinese meccanico, per indicare qualcosa di strano, e può darsi che Burgess si sia ispirato ad essa, confondendosi o volendo confondere apposta la sua fonte, per arrivare ad Arancia meccanica ».
Verranno pubblicati i manoscritti inediti, a cominciare da questo?
«Spero di sì, ma ci vorrà tempo. E per il sequel bisognerà trovare un illustratore che rispetti le intenzioni di Burgess».
Un libro ritrovato dopo tanti anni, in una casa abbandonata, sulla riva di un lago: sembra la trama per un romanzo di Eco o di Dan Brown.
«Davvero! A Burgess piacerebbe.
Qualcuno dovrebbe scriverlo».

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