domenica 28 aprile 2019

il manifesto 28.4.19
Michele Santoro: «Ho presentato un’offerta al proprietario dell’Unità»
Editoria. Il Comitato di redazione dell'Unità: "È una notizia importante perché riguarda il futuro di una testata storica, non solo per la sinistra ma per l'informazione e dei lavoratori"
di Marina Della Croce


Il giornalista e conduttore televisivo Michele Santoro ha ribadito il suo interesse per l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e chiuso dal giugno 2017, nel corso di un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera. La testata, oggi di proprietà del costruttore Massimo Pessina, è tornata nelle edicole per un solo giorno, il 25 maggio 2018 a Roma e Milano per evitare la decadenza della testata. In quell’occasione la carica di direttore è stata assunta da Luca Falcone, mentre al numero unico lavorò un gruppo di quattro giornalisti della vecchia redazione.
Nella primavera del 2018 a testata è stata pignorata su istanza dei giornalisti, così da ottenere gli stipendi arretrati. Nel novembre successivo, durante una trasmissione televisiva, l’ agente dello spettacolo Lele Mora aveva espresso l’intenzione di «dirigere» il quotidiano e aveva sostenuto che era stato acquisto da «due gruppi». Annuncio smentito dalla società proprietaria della testata, la Piesse.
I tempi per i ventisette giornalisti e i cinque poligrafici sono ormai stretti. Il trenta giugno prossimo scadranno i due anni di Cassa integrazione. Dal giorno dopo ci sarà la disoccupazione. «Ci stiamo battendo per salvare quanti più possibili posti di lavoro e garantire i più solidi ammortizzatori sociali – sostiene il comitato di redazione – Noi faremo la nostra parte. Ma sappiamo che il futuro de L’Unità non dipende solo e tanto da noi. Michele Santoro ha dichiarato un impegno. Non può cadere nel vuoto».
La notizia dell’interessamento di Santoro per il rilancio della testata «è importante perché riguarda il futuro di una testata storica, non solo per la sinistra ma per l’informazione italiana, e dei lavoratori, giornalisti e poligrafici, che ad essa sono ancora legati» hanno commentato i giornalisti che si augurano che l’impegno di Santoro non cada nel vuoto.
«Riportare in edicola il giornale fondato da Antonio Gramsci – aggiungono i giornalisti – è un impegno che da due anni le organizzazioni sindacali – l’Fnsi, le associazioni territoriali, il Cdr – stanno portando avanti, con la consapevolezza che questa vicenda va ben oltre il pur importante ambito sindacale, perché essa parla ad un mondo della sinistra, una sinistra plurale, al mondo del lavoro, alle sue organizzazioni rappresentative, che nel ricostruire un proprio radicamento, per innovare la propria identità, per far vivere valori e principi che ne sono a fondamento, ha bisogno di una voce autorevole come per oltre 90 anni è stata l’Unità e come potrebbe tornare ad esserlo».
I comitato di redazione ha chiesto anche un interessamento da parte del neo-segretario del partito democratico Nicola Zingaretti: «Il futuro di una testata storica come l’Unità è un fatto politico, prim’ancora che industriale. E come tale interroga i protagonisti, a sinistra, della politica. In questi durissimi anni la comunità non ci ha fatto mai mancare solidarietà e sostegno per una battaglia che sentiva propria».

Repubblica 28.4.19
L’analisi
La Chiesa, la pedofilia e quel tabù del celibato
di Alexander Stille


La chiesa cattolica mentre tenta di affrontare lo scandalo dei preti pedofili — dibattendo le misure da prendere in caso di abuso sessuale e le responsabilità dei vescovi — si rifiuta di affrontare il problema di fondo: il fatto che l’istituzione del celibato è fallita. Secondo alcune ricerche, molti preti sono sessualmente attivi, chi con donne, chi con altri uomini, chi con minori. Un clero che ha tanti scheletri negli armadi non è in posizione favorevole per disciplinare i casi di predazione sessuale.
Prendiamo il caso dell’arcivescovo americano Rembert Weakland: ha fatto pagare sottobanco circa 450 mila dollari a un suo amante ( un uomo adulto) per farlo tacere; allo stesso tempo ha minimizzato il problema dei preti pedofili, trasferendoli in altre diocesi (come facevano tutti allora) senza cacciarli dal clero o denunciarli alle autorità. È difficile dire se il suo segreto personale ha influito nella sua gestione dei preti predatori ma certamente l’ha reso letteralmente ricattabile.
Il papa emerito Benedetto XVI ha appena pubblicato un saggio denunciando il permessivismo degli anni Sessanta per il “ crollo dei valori” nella chiesa. Il tasso di preti gay è sicuramente alto: secondo le varie stime ( che non sono scientifiche e variano da un paese all’altro) si attestano tra i 20 e il 50 percento. “Essere preti è o sta diventando una professione gay”, ha scritto il reverendo Donald B. Cozzens, rettore di un seminario cattolico nell’Ohio, in un suo libro del 2000.
Ma in realtà, le politiche repressive di papa Ratzinger e dei suoi predecessori (Paolo VI e Giovanni Paolo II) hanno molto contribuito alla crisi attuale. Per molti secoli la chiesa ha praticato una politica di “ ipocrisia saggia”, chiudendo un occhio sul fatto che una forte percentuale di preti era incapace di rispettare il voto del celibato. La figura del prete o della suora libidinosi nel Decameron di Boccaccio non era solo una trovata letteraria ma una realtà sociale. Molti preti vivevano in concubinaggio con una “ donna di servizio”; alcuni preti usavano l’intimità della confessione per sedurre le devote con tanti casi di figli illegittimi. Ma tutto ciò fu in genere relegato a voce di paese e passò sotto il silenzio generale del “si fa ma non si dice”.
L’omosessualità non era sconosciuta: nella disciplina dell’ordine benedettino i monaci che dividevano una stanza dovevano dormire vestiti e con le luci accese. Ambienti “homosocial” — seminari, collegi unisex, carceri — tendono a favorire l’omosessualità. “L’uomo è un animale che ama”, ha detto Richard Sipe, un ex prete psicologo che ha lasciato la chiesa per sposarsi.
Al momento del Concilio Vaticano II ( 1962- 65), molti vescovi, soprattutto quelli in Sud America e in Africa, speravano che il concilio, nel suo tentativo di “aggiornare” la chiesa, avrebbe permesso ai preti di sposarsi, normalizzando la situazione di “concubinaggio” dilagante nei loro territori. Ma Paolo VI, che ha ereditato il Concilio da papa Giovanni XXIII, si è spaventato dalla rapidità dei cambiamenti nella chiesa e ha bloccato il dibattito, ignorando il parere di una commissione papale che sosteneva che non esistesse un impedimento teologico alla figura del prete sposato. Paolo VI ha invece impedito che si discutesse la questione e ha emanato la sua famosa enciclica contro la contraccezione artificiale Humanae Vitae.
La delusione fu grande. Cominciò un esodo dal clero. Secondo Sipe, circa 125 mila preti hanno lasciato la chiesa per sposarsi. In compenso, la percentuale di preti gay è salita: è molto più facile nascondersi in una comunità tutta maschile con una cultura della segretezza e un’avversione allo scandalo. Molti giovani cattolici sinceramente devoti sono entrati nel seminario sperando di fuggire ai loro impulsi sessuali prendendo il voto del celibato. Ma vivendo con tanti altri uomini con lo stesso orientamento si sono trovati in ambienti spesso pieni di attività sessuale e anche di abusi. Circa il 10 percento dei giovani seminaristi vengono abusati o sedotti da preti, amministratori o altri seminaristi, secondo Thomas Doyle, prete cattolico che come esperto di diritto canonico ha aiutato a gestire il problema dei preti pedofili per la chiesa americana.
Secondo i tradizionalisti come Benedetto XVI, è tutta colpa dell’abbandono di valori chiari e del lassismo generale della cultura. Ma secondo Sipe “ l’enfasi sui preti gay è uno schermo per il fallimento del celibato. I preti gay violano il celibato nelle stesse proporzioni di quelli etero”. La chiesa chiede ai preti una cosa che poche persone sono capaci di fare. Anche San Paolo, quando i primi devoti gli chiedevano se bisogna rinunciare alle donne, rispondeva: “ Io sono celibe, ma non è per tutti. È meglio sposarsi che bruciare”. Uno studio del 1985 ha stimato che se il celibato non fosse obbligatorio, le domande per entrare nel clero aumenterebbero del 400 percento.
Anche se il celibato è una tradizione e non un principio che ha fondamenta nel Vangelo, i conservatori non hanno torto quando dicono che abbandonare le tradizioni è un segno di debolezza tipica di una chiesa in declino. La sociologia della religione insegna che le chiese “ severe” tendono a essere più forti. Le chiese protestanti moderate — dove i preti sono sposati e a volte gay — stanno perdendo quota pure loro. Le chiese evangeliche — che hanno un’ideologia rigida ma permettono ai loro sacerdoti di sposarsi — vanno molto meglio. La chiesa cattolica, secondo Laurence Iannaccone, un economista e sociologo della religione, con il Concilio Vaticano II ha creato “il peggio dei due mondi”. Ha eliminato elementi che distinguono il cattolicesimo da altre religioni — il rito latino, l’obbligo di mangiare pesce il venerdì, gli abiti elaborati delle monache — ma ha tenuto le differenze che rappresentavano dei veri ostacoli: il matrimonio per i preti, l’ordinazione per le donne.
Le alternative per papa Francesco, a questo punto, sono tentare una riforma audace subendo una rivolta, oppure adottare piccole mezze misure assecondando il lento declino. Tra le poche cose che può fare Francesco è rivitalizzare il diaconato, dove non ci sono veti né per gli uomini sposati né per le donne.

Alexander Stille è collaboratore di “Repubblica” dal 1997 e professore alla scuola di giornalismo della Columbia University di New York. Tra i suoi libri, “La forza delle cose: un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America” (Garzanti, 2013)

Repubblica 28.4.19
Milano, i neofascisti sfidano il questore “In corteo per ricordare Ramelli”
Vietata la manifestazione di domani. Ma CasaPound, Forza Nuova e Lealtà e Azione: sfileremo lo stesso
di Paolo  Berizzi,



Milano Fascisti a Milano che sfidano lo Stato. Ancora una volta. Se fosse un film si intitolerebbe così. Invece è quello che si prepara a fare l’estrema destra domani nel capoluogo lombardo, città medaglia d’oro per la Resistenza, quattro giorni dopo il 25 aprile che ha visto in piazza 70mila persone nel 74° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. « Faremo il nostro corteo, nonostante il divieto del prefetto e del questore » , annunciano CasaPound, Forza Nuova e Lealtà Azione. L’occasione per il braccio di ferro è l’abituale commemorazione di Sergio Ramelli, il militante del Fronte della gioventù ucciso nel 1975 da un commando di Avanguardia operaia: la vittima morì il 29 aprile, 48 giorni dopo l’agguato. E il “29 aprile nero” è la data liturgica in cui i camerati ricordano, oltre a Ramelli, anche altri due fascisti: Enrico Pedenovi, militante dell’Msi, e Carlo Borsani, militare della Rsi, entrambi uccisi il 29 aprile ( il primo del 1976, il secondo del 1945). Domani, dunque.
Nei piani delle sigle neofasciste — due partiti nazionali, Casa-Pound e Forza Nuova, e Lealtà Azione (già vicina alla Lega di Salvini) — in zona Città Studi dovrebbe sfilare un corteo silenzioso, con fiaccole e file militari ( assetto caro all’estrema destra): partenza alle 20 da piazzale Susa e arrivo nel luogo dove Ramelli fu aggredito a colpi di chiave inglese il 13 marzo 1975 e dove da anni viene ricordato con il rito del “presente!”.
Un programma vietato da giorni dal prefetto di Milano, Renato Saccone, e dalla questura. Che hanno autorizzato soltanto un presidio in forma statica (così come avviene da due anni). Nessun corteo, insomma. Questo per evitare che che il ricordo di Ramelli, Pedenovi e Borsani si trasformi — come in passato —, in una sfilata apologetica: anche e prima di tutto per le modalità. Ma i militanti neofascisti non hanno nessuna intenzione di rispettare lo stop della prefettura. Lo hanno spiegato in un comunicato. «I divieti al corteo sono frutto di pregiudizi e di ricostruzioni fantasiose » sostengono Cpi, Fn e La. «Prefetto e questura hanno allineato la propria scelta censoria esclusivamente alle richieste dell’Anpi e della sinistra milanese » . Di fronte al veto, casapoundisti, forzanovisti e lealisti hanno rilanciato confermando l’appuntamento alle ore 20 in piazzale Susa.
Sul manifesto affisso in città, dove campeggia una fiaccola, è riportata a chiare lettere la parola “corteo”. E la sfida neofascista alle istituzioni cittadine è articolata nella nota: « La nostra è una fiaccolata silenziosa priva di qualsivoglia insegna del “disciolto partito fascista”, ma colorata da bandiere tricolori e riscaldata da fiaccole». Conclusione: «L’unica cosa che rimane ferma è la nostra volontà di fare il corteo la sera del 29 aprile. Ci saremo e lo faremo » . Interpellato da Repubblica, il prefetto di Milano ha fatto sapere: « Nessun commento » . La scelta del silenzio sembra in linea con il divieto già deciso da corso Monforte. Tradotto: chi proverà a violare le prescrizioni, andrà incontro alla linea dura di prefettura e questura.
La tensione in città è salita dopo la provocazione degli ultrà neofascisti della Lazio il 25 aprile in corso Buenos Aires, a pochi passi da piazzale Loreto: un lungo striscione in onore di Benito Mussolini accompagnato da saluti romani e dal “ presente!” ( finora 27 identificati e 9 indagati). «Uno sfregio vergognoso e intollerabile per Milano», lo hanno definito Anpi, politici e amministratori (domani pomeriggio ci saranno presìdi e contro manifestazioni, in piazzale Dateo e da piazzale Loreto). Il 25 aprile sono state numerose in Italia le provocazioni e gli oltraggi compiuti da militanti di estrema destra. Adesso, quattro giorni dopo, i “neri” ci riprovano. Di nuovo a Milano.

Il Fatto 28.4.19
Alla ricerca del tempio perduto: riapre il sito turco di Gobekli Tepe
La città sumera nell’allora Mesopotamia risale al 4000 a. C., ma l’edifico sacro è datato al 9500 a. C.
Alla ricerca del tempio perduto: riapre il sito turco di Gobekli Tepe
di Paolo Isotta


Nel mese di marzo è stata diffusa la notizia che il sito archeologico di Gobekli Tepe, del quale si temeva fosse per essere chiuso o distrutto, sarà invece aperto alle pubbliche visite. È uno dei luoghi che più desidero visitare. Si trova in quella che attualmente è la parte sud-orientale della Turchia; secondo la geografia del mondo antico, apparteneva alla regione mesopotamica. E non deve meravigliare.
La scoperta del tempio al centro dell’area è, per i tempi dell’archeologia, relativamente recente. Si deve all’archeologo tedesco Klaus Schmidt e risale al 1993. La storia, insieme con le sue dotte teorie cultuali, è raccontata dallo Schmidt, nel frattempo scomparso, in uno straordinario libro del 2007 che una piccola e benemerita casa editrice, Oltre Edizioni, ha tradotto nel 2011, Costruirono i primi templi. E il tempio al centro dell’area ha completamente cambiato le nostre nozioni non solo sull’archeologia, ma sulla stessa storia dell’uomo.
La città organizzata in quanto tale, con “nozze, tribunali ed are”, nasce sempre in Mesopotamia attorno al 4000 a. Ch. Si deve alla civiltà dei Sumeri, dei quali sappiamo non essere di stirpe semitica, come i loro successori Assiri, ma provenire dalla valle dell’Indo prima della discesa degli Indoeuropei. Erano astronomi, ingegneri idraulici, legislatori e inventori della scrittura cuneiforme; e furono i primi a praticare scientificamente l’agopuntura. Ma il tempio di Gobekli Tepe è sicuramente datato al 9500 a. Ch. È una struttura di 300 metri quadrati con enormi blocchi di pietra scolpiti con arte raffinata e persino delicata.
Il primo mistero è sulla tecnica della costruzione: come facevano quegli uomini, i quali giusta la storia “normale” erano ancora cacciatori nomadi, a tagliare, trasportare ed erigere massi di tale grandezza? Eppure sono lì. A questo si aggiunge la tesi, avanzata dallo stesso Schmidt, che le sculture di animali non abbiano una funzione ornamentale, ma siano simboli astronomici – dico astronomici, non astrologici. Più di recente, un astrofisico del politecnico di Milano, Giulio Magli, ha compiuto uno studio affascinante. La posizione delle stalle varia, dalla nostra prospettiva, per i moti dell’asse terrestre. Egli ha ricostruito quale doveva essere la visione del cielo da quel luogo e, appunto, verso il 9500 prima della nostra era. E si è accorto che la stella Sirio, la più brillante di tutto il cielo, è divenuta visibile proprio allora. Poi è scomparsa, e due volte è tornata nella prospettiva. Il tempio era dunque dedicato al culto di Sirio. Verso l’anno 8000 venne ricoperto di terra, evidentemente dagli stessi che l’avevano costruito, erigendo una collina alta 150 metri.
La storia della civiltà, sempre rinnovantesi, ci costringe a spostare sempre più indietro l’epoca dell’origine; o delle origini. Pensiamo che l’Anatolia è anche il luogo di una delle più grandi civiltà antiche, quella degli Ittiti, indoeuropei, dei quali fino a cento anni fa non si sospettava nemmeno l’esistenza. Ebbero relazioni diplomatiche e guerre con l’Egitto, e nei loro archivi leggiamo anche ch’erano in rapporti diplomatici con la città-Stato di Ilio, ossia la Troia donde proviene Enea. La cosa terribile è che l’avanzare della scienza, specie grazie alla libertà di blaterare creata da Internet, fornisce argomenti a quelli sicuri che noi discendiamo dagli “alieni”: e si danno la mano con i fedeli dell’idea che la terra sia piatta. In fondo, negli Stati Uniti milioni di persone credono alla Bibbia e quindi situano la “Creazione” seimila anni fa. Il cardinale Federico Borromeo, tanto caro a Manzoni, era certo che la peste fosse operazione diabolica degli untori; e si urtava con Don Ferrante, che la attribuiva alla congiunzione di Giove e Saturno. L’accanimento nella follia è una delle forze dell’umanità.

La Stampa 28.4.19
Università canadese: scoperta una nuova misteriosa regina egizia
Avrebbe regnato insieme alla sorella subito prima di Tutankhamon


Entrando con coraggio nelle tenebre di 3.300 anni fa e maneggiando pezzi sacri dell’egittologia tra cui l’affascinante Nefertiti, una studiosa dell’Università del Quebec a Montreal (Uqam) ha sostenuto questa tesi dell’esistenza di una regina egizia finora sconosciuta e di un’inedita diarchia tutta femminile.
Una sintesi della ricerca che ha portato alla scoperta di una regina è stata pubblicata sul sito dell’ateneo canadese dove si sottolinea che «due donne, e non una, regnarono sull’Egitto nel XIV secolo avanti Cristo», un’ipotesi «mai prospettata dall’egittologia».
Da una cinquantina d’anni gli egittologi sapevano che una regina aveva regnato tra la morte del faraone Akhenaton e l’ascesa al trono di suo figlio, l’icona dell’egittologia Tutankhamon, ma erano divisi sull’identità di questa misteriosa sovrana, ricorda il sito dell’ateneo, uno dei quattro di Montreal.
Appoggiandosi a «ricerche epigrafiche e iconografiche» ora una storica dell’arte specialista di semeiotica visuale dell’ateneo, Valerie Angenot, afferma che Akhenaton - oltre a sposare la propria figlia Meritaton per «prepararla a succedergli - avrebbe in seguito associato al potere un’altra» delle sue sei figlie, «Neferneferuaton Tasherit».
Le due avrebbero dunque regnato insieme, dopo la morte del padre, per «tre o quattro anni col nome di Neferneferuaton Ankhkheperure», sintetizza ancora il sito spiegando la genesi di un nome che ha «seminato la confusione fra gli egittologi».
Angenot è giunta a questa conclusione anche attraverso l’ «analisi di centinaia di pezzi» del celeberrimo tesoro di Tutankhamon, quello scoperto nel 1922 nella tomba del faraone-bambino che «aveva usurpato una grande parte del materiale funerario appartenente», appunto, «a una regina-faraone dal nome di Neferneferuaton Ankhkheperure».
Alcuni egittologi pensano che si tratti di Nefertiti, la grande sposa reale di Akhenaton, quella resa celeberrima dal busto conservato a Berlino, e ritengono che il faraone le abbia imposto anche il nome di Neferneferuaton.
Lo studio di Angenot, specialista anche di arte egizia, analizza fra l’altro «statue e statuette dai tratti femminili che rappresentano le principesse» ed è stato presentato al convegno annuale del l’American Research Center in Egypt (Arce) svoltosi dal 12 al 14 aprile scorso ad Alexandria, in Virginia, riunendo egittologi provenienti da Canada, Stati Uniti ed Europa, ricorda il sito in un articolo pubblicato una decina di giorni fa.

Corriere 28.4.19
Ipotesi dal Canada
In Egitto due regine sorelle regnarono insieme prima di Tutankhamon


L’esistenza di una regina egizia finora sconosciuta e di un’inedita diarchia femminile allestita aspettando che il faraone-bambino Tutankhamon si facesse adulto viene sostenuta da una studiosa dell’Università del Québec a Montréal (Uqam). Una sintesi della ricerca che ha portato all’eclatante scoperta è stata pubblicata sul sito dell’ateneo canadese dove si sottolinea che «due donne, e non una, regnarono sull’Egitto nel XIV secolo a. C.». Da una cinquantina d’anni, si legge sul sito, gli egittologi sapevano che una regina aveva regnato tra la morte del faraone Akhenaton e l’ascesa al trono di suo figlio Tutankhamon, ma erano divisi sull’identità di questa misteriosa sovrana. Appoggiandosi a «ricerche epigrafiche e iconografiche» ora una storica dell’arte specialista di semeiotica visuale dell’ateneo, Valérie Angenot, afferma che Akhenaton, oltre a sposare la propria figlia Meritaton per prepararla a succedergli, avrebbe poi associato al potere un’altra delle sue sei figlie, «Neferneferuaton Tasherit». Le due avrebbero dunque regnato insieme, dopo la morte del padre, per «tre o quattro anni come Neferneferuaton Ankhkheperure», nome che ha «seminato la confusione fra gli egittologi». (k. d’a.)


La Stampa 28.4.19
Xi elogia Roma tra capesante e vini
“Ci avete aperto le porte dell’Europa”
di Francesco Radicioni


Ricevendo Giuseppe Conte - unico leader del G7 a Pechino per il secondo forum internazionale sulla Belt and Road - il presidente cinese Xi Jinping ha detto di esser grato a Roma per aver preso la guida tra i Paesi occidentali con la firma del memorandum d’intesa sulle vie della Seta. «La Cina - ha assicurato Xi - continuerà a collaborare con l’Italia per la costruzione congiunta della Belt and Road e per espandere la cooperazione nel commercio, negli investimenti, nella tecnologia e negli scambi culturali». Secondo fonti di Palazzo Chigi, il leader della seconda economia del mondo ha scelto di riservare all’Italia «un’attenzione speciale», aprendo la prestigiosa Golden Hall della Grande Sala del Popolo affacciata sulla Tiananmen per una cena ufficiale con il premier e la delegazione del nostro Paese. La cena tra Xi Jinping e Giuseppe Conte è stata accompagnata da brani di Giacomo Puccini e da vini rossi delle cantine Changyu, mentre sul menù c’era zuppa di capesante e uova di piccione, arrosto di vitello aromatizzato, granchio al forno e la celebre anatra alla pechinese. Nel corso dell’incontro bilaterale, Xi Jinping ha anche fatto appello a un più grande sforzo per fare della cooperazione tra Cina e Italia un modello per le relazioni tra la Repubblica Popolare e l’Europa. Nell’ultima giornata del Forum sulla Belt and Road, il presidente cinese ha voluto mostrare che nonostante le critiche che arrivano soprattutto dagli Stati Uniti, l’iniziativa al centro della diplomazia di Pechino continua a ricevere sostegni. I trentasette capi di Stato e di governo presenti al forum - da Vladimir Putin all’egiziano al-Sisi, dal primo ministro del Pakistan Imran Khan fino ai leader dei Paesi del sud-est asiatico - hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui si promette di lavorare insieme nel portare avanti il progetto che punta a ridisegnare le rotte della globalizzazione attraverso massicci investimenti in infrastrutture. «Tutto questo - ha detto Xi Jinping - dimostra che la cooperazione sulla Belt and Road è in sintonia con i tempi, gode di ampio sostegno, è centrata sulle persone e porta vantaggi a tutti». Se negli ultimi mesi diversi governi in Asia e Africa hanno iniziato a guardare con scetticismo alla Belt and Road per timori sulla sostenibilità finanziaria dell’iniziativa, la Repubblica Popolare è però riuscita a strappare in questi giorni nuove vittorie diplomatiche.
Con il sostegno di Svizzera e Perù è salito a 126 il numero di Paesi - compresi 13 membri Ue - che hanno firmato accordi di cooperazione con la Cina sulle nuove Vie della Seta. Per la Repubblica Popolare è stata però l’adesione a marzo dell’Italia - storico alleato dell’America, Paese G7 e Nato - il più grande aiuto per migliorare l’immagine della Belt and Road e difendere l’iniziativa dalle critiche. Da tempo gli osservatori evidenziano il rischio delle «trappole del debito», funzionari di Bruxelles stigmatizzano la tattica del «divide et impera» con cui la Cina ha promosso l’iniziativa in Europa, mentre il vice-presidente Usa Mike Pence ha parlato «di una cintura che stritola» e «di una strada a senso unico». Aprendo venerdì il vertice il presidente cinese ha però assicurato maggiore trasparenza, nessuna tolleranza per la corruzione e standard più alti per l’iniziativa. Oltre al sostegno politico, Xi ha annunciato che sono stati firmati accordi di cooperazione per 64 miliardi di dollari, mentre sono stati 283 «i risultati pratici». «Saranno sempre di più gli amici e i partner che si uniranno alla cooperazione della Belt and Road», ha assicurato il presidente cinese.

La Stampa 28.4.19
Medici europei emigranti, più della metà
sono italiani
di Michele Sasso


Carriere spianate, benefit a iosa, zero precarietà e stipendi da favola. Ecco che dopo anni di studi (e sacrifici) i medici italiani mettono lo stetoscopio in valigia e vanno all’estero. Facendo segnare un piccolo record: tra i camici bianchi europei rappresentano il 52% di quelli che espatriano. Secondo i dati della Commissione Ue è la percentuale più alta, seguono a distanza i tedeschi con il 19%. La regione con il maggior numero di medici che si trasferiscono è il Veneto, con 80 professionisti sui 1.500 che vanno via ogni anno. Il motivo è chiaro: secondo Daniele Giordano, Fp Cgil, i professionisti della sanità veneta sono tra i meno pagati d’Italia: è la quart’ultima regione nella classifica delle retribuzioni medie.
All’estero tutti i benefit
E allora si dimentica il clima infernale del Golfo e la barriera linguistica e si parte per Abu Dhabi. In questi giorni, raccontano dall’Azienda sanitaria di Padova, gli Emirati Arabi stanno contattando specialisti e offrono dai 14 ai 20 mila euro al mese, l’interprete, la casa, la scuola per i figli, assistenza e autista.
Nel Vecchio Continente le richieste di dottori arrivano soprattutto da Gran Bretagna, Svizzera, Germania, Francia, Belgio, Olanda, paesi che dopo operai e manovali nel secolo scorso ora importa professionisti qualificati. La ricerca avviene attraverso Linkedin o società di cacciatori di teste straniere specializzate. E a quanto pare l’età non importa: nel giro di poche settimane all’ospedale di Padova una nefrologa esperta ha avuto un’offerta di lavoro dalla Francia, un altro specialista di 55 anni ha ricevuto un invito in Svizzera e uno in Sudtirol direttamente dall’assessore ai servizi sanitari.
«La situazione italiana è paradossale: da una parte alcune regioni assumono neolaureati, pensionati o specialisti dalla Romania. Dall’altra ci sono 10 mila medici specializzati in attesa di chiamata, e altri 6 mila che all’ultimo anno di specializzazione ma nessuno li assume per via del blocco del turn over», spiega Carlo Palermo del sindacato Anaao Assomed. «I motivi che inducono tanti camici bianchi a lasciare l’Italia? All’estero c’è un accesso alla professione più meritocratico, prospettive di carriera migliori e retribuzioni molto più alte che in Italia», elenca Adriano Benazzato, segretario Anaao in Veneto. E non solo: chi rimane accetta condizioni di lavoro disastrose, turni massacranti e rischi collegati inclusi nel prezzo.

Domenica delSole 24 Ore 28.4.19
Ipazia, Teano e le altre
Quando già le donne facevano la «vera» filosofia
di Maria Bettetini


In principio era Ipazia. No, era Eva, erano le fortissime guerriere Amazzoni. Da qualche tempo è di gran moda cercare nomi e biografie di donne rimaste nascoste alla Storia. Lodevole intento, se pur giunto in Italia in ritardo di quella ventina di anni, anzi forse anche il doppio, di quarant’anni. L’età in cui si considera una «femmina» ormai anziana, vicina alla fine della vita sessuale e intellettuale. Allora per comprendere il fenomeno saranno opportune alcune considerazioni. La donna è oggetto misterioso per il maschio, perché intuisce, capisce in fretta il non detto, perché fino al Novecento ha lavorato per padri, fratelli, mariti.
Patrick J. Geary si interessa alla mitologia, da quella tradizionale greca a quella costruita a partire dalle Sacre Scrittura. In entrambe la forza della donna è molto evidente: la civiltà minoica si considera discendente da una società matriarcale, la civiltà ebraica ha atteso e ancora attende il figlio di una donna della famiglia di David. Non importa, non importerà chi ne possa essere padre, la dinastia era ed è trasmessa da una madre. Le donne filosofe, poi: la Storia non le ha mai considerate, perché la storia è scritta dai vincitori, e per tremila anni ha vinto lui, il maschio. Però, nella totale scarsità di manoscritti e prove, qualcosa si può ricostruire.
I volumi curati da Mary Ellen Waithe sono un esempio unico di storia delle filosofe. Si comincia con Teano, forse moglie, forse figlia di Pitagora – se mai anche lui sia esistito. Si incontrano Diotima, sacerdotessa di Mantinea, maestra di Socrate sui temi dell’eros: donna, straniera, sacerdotessa, quindi vicina al divino, qualunque cosa significasse nel V e IV secolo a.C., ad Atene. Ci sono poi le sapienti medievali: Rosvita nel IX secolo, col suo teatro moralizzante e assolutamente «moderno», nella sua essenzialità. Poi la geniale e testarda Eloisa, la veggente e intelligente Ildegarda di Bingen, quando la vita monastica era una scelta di liberazione, da un marito, dai parenti.
L’era moderna ci presenta non poche donne nobili interessate alla filosofia, a noi del tutto sconosciute. Fino al Novecento, quando i nomi vengono citati, quando Ipazia diventa paladina della ricerca pura, non contaminata da credenze religiose. Però non sappiamo se fu vera gloria, alcuni dubitano della sua esistenza, dell’esser femmina, del suo martirio. Evviva Ipazia, matematica, chiunque fosse. Perché ancora le filosofe sono invitate a occuparsi di cuore, sentimenti, educazione. Mi disse un collega, ma sì voi donne al massimo fate della buona storia, non certo della vera filosofia. E questi uomini che si ritengono teoreti, che noia che barba. In principio erano le donne.

Domenica delSole 24 Ore 28.4.19
Medici e fascismo
Camicie nere in camice bianco
di Armando Torno


Il nuovo libro di Giorgio Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, con una prefazione di Francesco Sardanelli, offre una serie d’informazioni e approfondimenti sul ruolo che ebbe la scienza medica in Italia nel ventennio di Mussolini. Molte le indicazioni per meglio comprendere cosa significassero “lotta alla tubercolosi” o “bonifica della sifilide”, il ruolo dei medici delle mutue e delle ricerche, come cambiarono le cure e la stessa dietetica della popolazione. Certo, la retorica ebbe la sua parte, e l’autore lo nota; inoltre, la medicina del periodo fu anche coinvolta, attraverso alcuni suoi esponenti, nel “Manifesto della razza” e a essa si guardò come alla disciplina che avrebbe aiutato e favorito il “potenziamento della stirpe”. Ai medici fu chiesto, più che ad altre categorie, un aiuto per “fascistizzare” il Belpaese. Operazione che si comprende se si riflette sulle “battaglie” contro la pellagra o l’alcolismo, tanto che in un discorso di Mussolini del 24 maggio 1927 si ricorda che delle 180 mila osterie «ne abbiamo chiuse 25 mila».
Persino la battaglia contro il celibato passava, per taluni aspetti, tra le pareti degli ambulatori medici; d’altra parte, nel discorso ricordato, il capo del governo ribadiva che «le leggi sono come le medicine» e oltre la gabella contro chi non si è ammogliato «in un lontano domani potrebbe far seguito la tassa sui matrimoni infecondi». Insomma, se qualche medico detto oggi di base, incoraggiava i pazienti a sposarsi e a procreare, faceva soltanto il suo dovere.
Cosmacini non dimentica gli aspetti filosofici che la medicina riflette. E per tale motivo analizza con una serie d’indicazioni e storie la mentalità razziale che si diffuse nel fascismo. Né dimentica il coinvolgimento di figure di primo piano, come padre Agostino Gemelli, medico e biologo, allievo di Camillo Golgi (Nobel 1906), fondatore e rettore dell’Università Cattolica. Non è il caso di moltiplicare esempi, ma non va dimenticato che tra le attività di questo scienziato e religioso vi sono anche quelle che Cosmacini ricorda (pagina 101) per la creazione di un laboratorio in cui sperimentava «in diversi settori, tra cui quelli della psicologia del lavoro e della psicotecnica». La questione psicofisiologica dei lavoratori faceva parte della “medicina italica”, uno dei “quattro grandi problemi” su cui poggiava “la politica interna del regime mussoliniano”.
Tra gli argomenti restanti, vale la pena ricordare che un capitolo è stato dedicato a “Il corpo del duce”. La trasformazione da persona comune a simbolo avviene già nei primi anni del governo di Mussolini. Per esempio, nel 1927 Enrico Ferri, già deputato socialista per più legislature e poi fascista, esaltò con toni darwiniani l’ex compagno di lotte, ricordandone la «faccia napoleonica», l’«ampia fronte prominente», la «mandibola quadrata» e persino il «turgore della tiroide». Quest’ultima, «come mi diceva il professor Pende, è un lubrificante psichico». Simili cose e altre si leggono in Mussolini uomo di Stato (pubblicato a Mantova dalle Edizioni Paladino nella collezione Mussoliniana: biblioteca di propaganda fascista). Un’immagine ben diversa da quella che testimonia l’eminente clinico Arnaldo Pozzi che cura il duce dall’11 novembre 1942 al 25 luglio 1943. Nella prima visita a Villa Torlonia trova Mussolini a letto: «Mi colpì il suo aspetto fisico. Non più la faccia piena dall'angolosa mascella sotto la quale scompariva il collo tozzo, non più il largo torace, il tutto espressione della sua costituzione brachitipa, ma una faccia pallida, dalle gote smunte, la pelle avvizzita, il collo scarno».

Medici e medicina durante il fascismo
Giorgio Cosmacini, Pantarei, Milano, pagg. 228, € 10



La Lettura del Corriere 28.4.19
Finanza ebraica, un mito
di Michela Valente

A distanza di pochi anni Karl Marx, nella Questione ebraica (1844), e Charles Dickens, in David Copperfield (1849-50), riproposero la perdurante leggenda, diffusa in Europa da metà Seicento, che vedeva gli ebrei inventori delle cambiali, strumenti finanziari considerati diabolici. Alla ricerca delle origini del capitalismo finanziario, si è plasmato questo mito, fondato su un pregiudizio e destinato a diventare allegoria di speranze e paure provocate dall’espansione del commercio globale. Con grande raffinatezza e rigore critico, Francesca Trivellato, docente a Princeton, sulle tracce del passaggio dall’economia monetaria a quella proto-capitalistica, con il suo ultimo libro The promise and Peril of Credit («La promessa e il rischio del credito»), edito da Princeton University Press e di prossima pubblicazione in Italia presso Laterza, ha inseguito il forgiarsi di un’immagine con cui si dava un volto alle paure: da usuraio su cui si abbatteva la condanna nel Medioevo, l’ebreo diventa inventore del credito commerciale. La leggenda rappresenta quindi la reazione alla minaccia costituita dalla nuova economia.
Se non furono gli ebrei a inventare le cambiali, chi fu ad adottarle per primo e quando? Ne sappiamo qualcosa?
«Nessun individuo o gruppo sociale ha, da solo, inventato le cambiali. Come altri strumenti finanziari (per esempio l’assicurazione marittima), esse sono il prodotto della rivoluzione commerciale del Medioevo, il primo periodo di rapida espansione demografica ed economica in Europa dopo la caduta dell’Impero romano. Le città italiane erano allora all’avanguardia, e c’è chi volle attribuire l’ideazione delle cambiali ai fiorentini. In realtà, come autorevoli studiosi hanno dimostrato, esse nacquero dall’esigenza di facilitare i commerci internazionali ed emersero durante un lungo processo di gestazione cominciato nel XIII secolo».
Quando nasce la leggenda?
«Già negli anni Novanta del Trecento, un’ondata di violenza aveva indotto molti ebrei spagnoli a convertirsi al cattolicesimo. Nel 1492, poi, i sovrani di Castiglia e Aragona imposero il battesimo a quanti ancora erano rimasti ebrei praticanti. Per la Chiesa cattolica, il battesimo rende tutti uguali e non è reversibile. Ma il sospetto della gente e le indagini dell’Inquisizione si accanivano su ebrei e musulmani convertiti di recente, e sui loro discendenti. La difficoltà di distinguere tra cosiddetti “vecchi” e “nuovi” cristiani divenne una vera ossessione, uno dei tratti più profondi della cultura iberica, ed europea in generale».
A metà del Seicento, con l’opera sulle usanze commerciali del giurista francese Étienne Cleirac, abbiamo la prima definizione della leggenda.
«Cleirac è un nome oggi sconosciuto, espunto dal canone della storia del pensiero economico, sebbene all’epoca il suo trattato sia stato un bestseller. Cleirac nacque, visse e morì a Bordeaux, l’unica città d’Europa dove, da metà Cinquecento a metà Settecento, un sistema ufficiale di tacita tolleranza permetteva agli ebrei fuggiaschi dalla Spagna di insediarsi sotto il nome di “mercanti portoghesi”. Questa misura, motivata da interessi economici dello Stato, fomentò tuttavia gelosie tra i mercanti cattolici e grande ostilità da parte del clero e della popolazione locale, che vedevano negli ebrei battezzati una fonte di “contagio”. Dovendo spiegare l’utilità, ma anche le incognite, di strumenti creditizi come le cambiali, che facilitavano i commerci e al contempo ledevano le gerarchie sociali tradizionali, Cleirac fece leva sui pregiudizi dei propri lettori: attribuirne l’invenzione agli ebrei era un modo efficace per adombrare pericoli nascosti e imprecisabili. Le lettere di cambio erano opache come lo erano gli ebrei battezzati».
Con l’Illuminismo e con Montesquieu, si assiste a una trasformazione. Quale?
«Anche Montesquieu era nato nei dintorni di Bordeaux e senz’altro conosceva bene l’opera di Cleirac. Nobiluomo critico degli eccessi dell’assolutismo monarchico e dell’oscurantismo della Chiesa cattolica, diede un nuovo significato alla leggenda. Per lui, inventando le cambiali, gli ebrei avevano privato i despoti della capacità di espropriare loro stessi e quant’altri in modo arbitrario e sottratto il commercio al biasimo della Chiesa. Ma questa interpretazione era comunque legata a un momento storico ben preciso: a metà Settecento, Montesquieu dava ancora per scontato che gli ebrei fossero un gruppo separato e inferiore; per questo poteva esaltarne le virtù commerciali senza mettere in discussione le gerarchie sociali e politiche dell’Antico Regime».
Quali mutamenti determina l’emancipazione promossa dalla Rivoluzione francese?
«La Rivoluzione francese fu un momento di rottura: per la prima volta nella storia europea venne sancita l’uguaglianza civile e politica degli uomini ebrei. Questo fu un enorme passo in avanti, ma innescò anche reazioni nefaste. Il razzismo e l’antisemitismo pseudo-scientifici nacquero in reazione al concetto di uguaglianza, furono tentativi perversi di dare basi biologiche a differenze che la legge aveva cancellato. Perciò, invece di scemare, la leggenda che ho voluto ricostruire si diffuse ancora di più nell’Ottocento».
Intanto con Karl Marx, Werner Sombart e Max Weber la riflessione sul capitalismo avanza su basi nuove.
«Tutti i teorici classici del capitalismo moderno volevano spiegare la rivoluzione industriale e l’allora primato europeo. Marx, Sombart e Weber proposero interpretazioni diversissime di questi fenomeni, ma tutti e tre fecero ricorso agli ebrei come metafore o a versioni (più o meno distorte) della storia ebraica per dare forma alle rispettive teorie. In questo furono meno “moderni” di come spesso li concepiamo».
Seguendo la leggenda come filo di Arianna, lei ha posto in luce il riverbero pratico di un’immagine, quella degli ebrei e delle loro capacità commerciali, di cui però non esiste alcun riscontro concreto e indiscutibile nelle fonti.
«La leggenda della paternità ebraica delle cambiali prova il persistere dell’immaginazione, anche di quella meno bonaria, nella storia del pensiero economico occidentale, che troppo spesso viene descritto come un campo di studio pragmatico, teso a identificare certezze, se non addirittura leggi universali».
L’esigenza di fondare le interpretazioni su una base documentaria solida chiama in causa gli storici dell’economia, che sempre più trascurano la ricerca e in particolar modo il confronto con gli aspetti irrazionali che agiscono nel mercato, di cui la leggenda presa in esame è un esempio.
«Il credito non è un tema che si possa studiare separando la sfera economica da quella culturale. Aspettative e stereotipi contribuiscono a dare un prezzo al rischio. Questo è particolarmente vero in contesti, come quello preindustriale, in cui informazioni affidabili non erano facilmente accessibili. Ma come dimostrano le bolle speculative, anche oggi i mercati creditizi rimangono in balia di proiezioni prive di solide basi empiriche».
Ritiene che il suo studio possa suscitare interrogativi attuali, visto anche il riaffiorare di alcune delle radici dell’antisemitismo moderno?
«Contro la tendenza generale a sminuire la rilevanza delle materie umanistiche, e della storia in particolare, ho voluto ribadire il valore della ricerca accademica anche apparentemente più astrusa per comprendere alcune dinamiche di lungo periodo del capitalismo moderno. Due punti mi premono in modo particolare. Primo: oggi come nel passato esiste un forte dissenso su come regolare le economie di mercato, che è cosa molto diversa da uno scontro titanico tra capitalismo e socialismo; ci sono sempre e solo capitalismi al plurale. Secondo: gli attori economici non valicano la soglia del mercato in quanto individui astratti, privi di caratteristiche specifiche; semmai, i rapporti di potere che esistono fuori dalla sfera economica si riflettono e talora vengono amplificati dagli scambi di mercato. Ecco uno dei motivi, oltre all’ignoranza, per cui ancora oggi fanno presa stereotipi riguardanti ebrei e altre minoranze. Lo dimostra l’uso che Donald Trump e Viktor Orbán fanno delle foto dell’ebreo George Soros».

La Lettura del Corriere 28.4.19
Psicologia Colloquio con Matteo Motterlini: ecco perché l’evoluzione cognitiva ci predispone al cospirazionismo
La nostra mente cerca le streghe
Matteo Motterlini, filosofo ed economista dell’Università San Raffaele di Milano, studia l’irrazionalità umana e i modi in cui prendiamo le decisioni. È autore di saggi divulgativi editi da Rizzoli, fra cui Economia emotiva (2006), Trappole mentali (2008) e Psicoeconomia di Charlie Brown (2015). Gli abbiamo chiesto di spiegarci le basi cognitive della mentalità complottistica.
di Vincenzo Pinto


Le «trappole mentali» sono un retaggio dell’evoluzione. Ma non sono affatto diminuite nel tempo. Perché?
«Non c’è dubbio che l’informazione nell’era di Google, dei social network e delle fake news rappresenti un detonatore di irrazionalità e ci renda particolarmente vulnerabili alle trappole mentali. Si tratta di “virus cognitivi” per cui non ci siamo ancora dotati di anticorpi e per cui non si intravede ancora un vaccino in grado di arrestare l’epidemia».
Partiamo proprio dai vaccini, quelli veri, uno dei casi più esemplari di successo della scienza. Quale trabocchetto della mente sta dietro alla decisione irrazionale di non vaccinare i figli?
«In generale preferiamo avere ragione anziché torto. Siamo cioè bravissimi a cercare l’evidenza che confermi le nostre teorie, e siamo spesso ciechi verso l’evidenza che le smentisce. Peccato però che sia proprio l’evidenza di tipo falsificante, cioè potenzialmente in contraddizione con le nostre credenze, quella che distingue la scienza dalla pseudoscienza. Per esempio, si sa che le persone tendono a leggere il quotidiano in accordo con le proprie idee, e chi è su Facebook si circonda di “amici” che la pensano come lui. Quindi: ci formiamo un’opinione, per esempio che i vaccini causino autismo; poi cerchiamo prove a suo favore. A questo punto è difficilissimo riuscire a mostrare a qualcuno che ha torto. Si è visto sperimentalmente che se si presentano dei dati allo scopo, le persone tendono in tutti i modi a selezionare solo quei dati che “confermano” la loro opinione; dove non ci sono dati a favore, arrivano persino a inventarli di sana pianta. Il che spiega anche il pernicioso e inarrestabile successo delle fake news. Ma c’è di peggio».
A che cosa si riferisce?
«L’effetto si accentua quando alla “trappola della conferma” si aggiunge quella del “falso consenso”, per cui credo che tutti la pensino esattamente come me. La trappola del falso consenso è tipicamente indotta e sfruttata da movimenti come i No Vax, per esempio, ma anche da gruppi politici. C’è un dato interessante: negli Usa i genitori che si interrogano se vaccinare o meno il loro figlio prima che questo sia nato, hanno otto volte più probabilità di non vaccinarlo. Che cosa significa? Significa che chi ha un dubbio va su Google o Facebook, si “documenta” e rintraccia l’evidenza a favore della sua idea… sbagliata. Se la mia diagnosi cognitiva è corretta, si potrebbe dire che gli antivaccinisti inoculano innanzitutto trappole mentali».
La storia è fatta di congiure più o meno riuscite. Ma anche di teorie complottistiche. Si possono spiegare con le scienze della mente?
«Rimaniamo sul caso dei vaccini, perché istruttivo anche per spiegare il meccanismo mentale complottista. L’autismo è solitamente notato dai genitori nel primo anno di vita per un ritardo di linguaggio, oppure al terzo per mancanza di sviluppo cognitivo o ritardo di apprendimento. Ovvero nel periodo in cui si fanno i vaccini e i loro richiami. Di fronte a una simile coincidenza, la mente umana ha un talento peculiare nel raggruppare l’informazione così da vedere una relazione anche dove non c’è (cadendo così nella trappola della “correlazione illusoria” o del “pensiero magico”). Attenzione: tracciare collegamenti, produrre uno schema, cercare cause è una qualità evolutivamente utilissima per rispondere in modo dinamico all’ambiente complesso e in costante cambiamento in cui viviamo. Peccato però che la mente tenda spesso ad abusare di questa capacità. La convivenza con il caso può essere psicologicamente intollerabile. Ecco che non riusciamo a valutare con equilibrio una mera coincidenza. Lo stupore per l’occorrenza di due eventi — così pregnanti per la nostra immaginazione come vaccini e autismo — porta ad abbandonare la logica e le leggi della probabilità per rintracciare una causa e un effetto. Non possiamo farci nulla, è naturale. Deve esserci una spiegazione, deve esserci un colpevole: forse Roberto Burioni o Big Pharma! Succede nella vita di tutti i giorni. Ed è la base psicologica del complottismo. Tecnicamente si chiama agency detection (rilevazione degli agenti): una moderna caccia alle streghe che risponde all’esigenza umana di incolpare qualcuno o qualcosa: l’euro, il turbocapitalismo, Soros, i migranti. Se non ci credete, chiedetevi come sia possibile che la gente cerchi un motivo anche per i numeri ritardatari al lotto!».
Poi c’è chi cavalca queste tendenze.
«I talk show sono pieni di “tiratori scelti” e presunti opinionisti che prima sparano con il fucile vari colpi sulla porta del fienile, poi disegnano attorno un bel bersaglio colorato, quindi invitano il pubblico per vantarsi della loro mira infallibile. Ci comportiamo anche noi così tutte le volte che isoliamo un gruppo di fatti fuori dal loro contesto, e ci costruiamo intorno un bersaglio. Vedo tutti i bambini autistici vaccinati, ma ignoro tutti i bambini vaccinati non autistici (che sono ben di più). Ma ciò ha lo stesso valore nel provare un legame causale tra vaccini e autismo di quanto i fori sulla porta del fienile ne hanno nel dimostrare la buona mira del tiratore. In breve, il caso ha delle ragioni che la ragione non vuole riconoscere; e per questo inciampiamo in letture della realtà complottiste, pregiudiziali, o perfino superstiziose o mistiche».
Oggi spesso i pregiudizi cognitivi sono alimentati dai governanti. Che cosa può fare la buona politica?
«La politica potrebbe rivolgersi agli straordinari risultati delle scienze comportamentali, per una nuova arte del governo che tenga conto del reale comportamento dei cittadini e della possibilità di migliorarlo, avvicinando l’economia alle scienze che funzionano. Un’economia più umana e sperimentale e allo stesso tempo più aderente alla sua vocazione originaria di efficiente allocazione delle risorse scarse. Invece si assiste a un maldestro tentativo di servirsi delle scienze cognitive per sfruttare l’umana irrazionalità a scopi propagandistici».

La Lettura del Corriere 28.4.19
E Magellano ridisegnò la Terra
di Alessandro Vanoli


Perché ci piacciono tanto i racconti di viaggio? Gli ultimi anni hanno visto un grande successo di libri sulle mappe, sulle esplorazioni e sulle strade percorse nei secoli. Credo ci sia più di una spiegazione: la prospettiva globale con cui siamo ormai obbligati a guardare al mondo, la crisi di un certo tipo di storia (e assieme ad essa di un certo tipo di geografia); e anche il bisogno di ritrovare un senso d’avventura che la nostra faticosa società ci nega sempre di più. Ma forse oltre questo c’è anche il fatto, non scontato, che di mondo da scoprire semplicemente non ne abbiamo più. E questa, a pensarci bene, non è una cosa da poco, perché per millenni noi non abbiamo fatto altro che superare limiti e confini e, superandoli, abbiamo rivisto le nostre conoscenze e dato nuovo alimento ai nostri sogni.
In questa prospettiva è difficile trovare un momento più significativo e determinante di quello che si visse in Europa e sull’Atlantico alla fine del Quattrocento. Da secoli oltre le colonne d’Ercole, i marinai navigavano lungo le coste del Marocco e della Spagna, sino alle fredde isole del Nord; e qualcuno, come gli islandesi, era giunto persino alle coste più settentrionali dell’America. Ma ora, in quell’ultimo scorcio di secolo, tutto era pronto per un vero balzo in avanti. Nuove imbarcazioni con un sistema di vele sempre più complesso e più resistenti fasciami delle carene. Una progressiva decifrazione dei venti e delle correnti, anche grazie al controllo delle isole oceaniche, soprattutto le Canarie. E inoltre conoscenze geografiche sempre più solide. A quei tempi nessuno che fosse sufficientemente istruito o intelligente dubitava della sfericità della Terra. Semplicemente lo si sapeva da sempre, da quando gli antichi, Eratostene prima e Tolomeo dopo, l’avevano calcolato. Il problema semmai era capire quanto quei calcoli fossero giusti: se l’Oceano Indiano era davvero un mare chiuso o se il tratto di mare tra Europa e Asia fosse corto a sufficienza da poter essere affrontato. Così in quegli ultimi scorci di secolo, portoghesi e castigliani moltiplicarono le esplorazioni. Sino a quel fatidico 3 agosto 1492, quando da Palos de la Frontera Cristoforo Colombo partì alla ricerca di una via occidentale per le Indie. Perché il motivo era quello: l’Oriente. Le ricchezze della Cina, le spezie, i tessuti, le pietre preziose che giungevano in Europa lungo le vie dell’Asia. Era quella la ragione di ogni sforzo e di ogni sfida all’ignoto. Con gli spagnoli che cominciarono a spingere verso Ovest e i portoghesi verso Sud, lungo le coste d’Africa. Bastarono pochi anni per capire che la situazione andava regolamentata. Ci pensò papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, che però era spagnolo e dunque decisamente di parte), che nel 1494 con il trattato di Tordesillas stabilì i confini dei reciproci imperi: collocato un meridiano nei pressi delle isole di Capo Verde, stabilì che a Ovest di quel punto tutto sarebbe stato spagnolo e a Est portoghese.
Intanto la gara continuava. Pochi anni dopo, il 20 maggio 1498, le navi di Vasco da Gama erano a Calicut, di fronte alle coste dell’India. Fu solo un primo contatto: i portoghesi tornarono pochi anni dopo, questa volta in armi. Nel 1510 la conquista del porto di Goa e nel 1511 il controllo dello stretto di Malacca attraverso cui si accedeva alla gran parte delle isole indonesiane. In altra maniera: i portoghesi si erano impadroniti del cuore del commercio delle spezie.
Fernão de Magalhães, che noi conosceremo come Ferdinando Magellano, cominciò proprio in quegli anni la sua carriera. Era un nobile, un soldato e un avventuriero; e navigando per l’Oceano Indiano si era fatto un’idea piuttosto chiara di che cosa fosse la ricchezza e di come raggiungerla. Tornato in Portogallo, cercò di convincere i suoi sovrani che sarebbe stato più facile navigare verso le Indie passando dall’Atlantico. Ma il Portogallo aveva già una rotta più che soddisfacente e nessuno l’ascoltò. Così si rivolse ai diretti concorrenti, gli spagnoli, dove trovò tutt’altro ascolto. Magellano si sbagliava: pensava, come Colombo, che il tratto di mare tra Europa e Asia fosse molto più corto. Ma su quell’errore avrebbe fatto letteralmente la storia.
Era il 20 settembre 1519 — esattamente cinquecento anni fa — quando salpò da Sanlúcar de Barrameda, con cinque navi e circa duecentocinquanta uomini. Una spedizione imponente, raccontata da Laurence Bergreen in Oltre i confini del mondo (libro riproposto ora da HarperCollins a 15 anni dalla prima edizione con una nuova introduzione dell’autore).
Dopo le consuete soste alle Canarie e alle isole di Capo Verde, Magellano giunse in Brasile, sostò un’altra volta, poi volse la prua a sud. Agli inizi del 1520 la flotta incrociava lungo la costa dell’America meridionale alla ricerca dello stretto. In marzo il clima si fece spaventoso: Magellano fu obbligato a svernare in Patagonia e si ritrovò a dover sedare un ammutinamento. Quando finalmente arrivò in vista dello stretto, alle porte dell’Oceano Pacifico, in realtà aveva già fallito: il passaggio era troppo a sud per servire davvero come via d’accesso all’Asia. Inoltre era un tale intrico di canali e di venti avversi che sarebbero occorse sette settimane per superarlo. Durante quei giorni forse davvero sentì di essere giunto alla fine del mondo. Talvolta intravide qualcosa che poteva tradire la presenza di un insediamento umano: fuochi lontani e d’ignota natura che bruciavano, e rosse fiamme che sembravano apparizioni spettrali sullo sfondo verde cupo di cipressi, rampicanti e felci. Talvolta vide invece immensi muri di ghiaccio: duecento o cinquecento piedi, le cui creste si elevavano più alte dei condor che volavano lontani in ampi cerchi.
Quando finalmente uscì da quell’inferno, sembrò a Magellano di avercela fatta: venti propizi e un mare così calmo da convincersi a battezzarlo Pacifico. Ma si sbagliava anche questa volta: lo aspettavano novantanove terribili giorni di viaggio in alto mare. Quando nel marzo del 1521 avvistò l’isola di Guam, le riserve d’acqua erano putride e le gallette ormai piene di vermi, mentre gli uomini del suo equipaggio si erano ridotti a masticare gli involucri di cuoio delle vele, con le bocche gonfie per lo scorbuto. Magellano comunque raggiunse le Filippine e le rivendicò nel nome di Carlo V. Ma fu proprio lì che il viaggio gli fu fatale. I rapporti con i locali sembrarono inizialmente cordiali, ma poco ci volle perché le cose degenerassero. Magellano morì in battaglia, combattendo a fianco di un rajah locale contro quello della vicina isola di Mactan.
La spedizione aveva perso il suo comandante. Il 27 aprile lo spagnolo Juan Sebastián Elcano assunse il comando della Victoria, la nave che era stata di Magellano e che ora era ridotta a sessanta uomini di equipaggio; e si accinse al viaggio di ritorno. L’Oceano Indiano, innanzi tutto, poi il Capo di Buona Speranza e ancora l’infinita costa dell’Africa. Il 6 settembre 1522 all’orizzonte del porto di Sanlúcar de Barrameda, in Spagna, apparve la sagoma di un vascello in rovina. A mano a mano che la nave si avvicinava, la gente accorsa sulla banchina poté vedere brandelli di vele sbattuti dal vento penzolare dall’alberatura, sartiame marcio, colori sbiaditi dal sole e fiancate corrose dalle burrasche. Dal parapetto di quel relitto si affacciavano i corpi scheletriti di diciotto marinai e tre prigionieri drammaticamente denutriti. Il cronista della spedizione, l’italiano Antonio Pigafetta, annotò con la consueta precisione: «Navigammo 14.460 leghe e completammo il circuito del mondo da est a ovest». Di quella lunga tragedia e di quella incredibile avventura era sicuramente quello il risultato più importante.
La spedizione di Magellano aveva fornito un’evidenza decisamente nuova riguardo alle dimensioni della Terra. La sua circumnavigazione cambiò per sempre la concezione occidentale della cosmologia e della geografia. Grazie a quel viaggio, fu provato che le Americhe non facevano parte dell’India, ma erano un continente a sé stante, e che gli oceani coprivano la maggior parte della superficie terrestre. Nel 1531 fu pubblicata la prima carta attendibile dello Stretto di Magellano: in questa rappresentazione, disegnata da Oronce Finé, esso compare nella sua posizione corretta in fondo al continente sudamericano, e anche se il cartografo non lo chiama così, c’è pure l’Oceano Pacifico. Ci avrebbe poi pensato il fiammingo Gerardo Mercatore a fissare definitivamente il nome dello stretto sul suo famoso planisfero del 1541. Ben pochi però vollero ritentare l’impresa. Nel 1525 una spedizione impiegò quattro mesi e mezzo per attraversare lo stretto e i partecipanti consigliarono caldamente di cambiare rotta. Quella speranza di un passaggio verso la Cina si spostò dunque a nord: per i secoli successivi le navi di inglesi e olandesi avrebbero sfidato i ghiacci dell’Artico nell’inutile sforzo di trovare il passaggio a nord-ovest.
Quando gli esploratori tornarono a sud lo fecero per altri motivi: c’era una parte di mondo ancora da cercare. Un continente intero, pensavano. E quella terra non poteva che essere laggiù. Una terra che persino Aristotele e i pitagorici avevano previsto e che da secoli faceva sognare filosofi e viaggiatori. Di una terra australe c’era bisogno, pensavano in molti, perché serviva a compensare le altre terre emerse; perché un continente simmetrico al mondo conosciuto — dicevano i filosofi — sarebbe stato indispensabile per equilibrare il pianeta e impedirgli di rovesciarsi. E al di là degli aspetti più fantasiosi, l’idea continuava a sembrare ragionevole. Soprattutto perché proprio Magellano l’aveva visto: quando passando dalla Terra del Fuoco aveva scorto alla sua sinistra isole di foreste e di neve. Così per secoli ogni volta la Terra Australis sembrò farsi più vicina. Sembrò soltanto. E forse è proprio lì il segreto e il lascito più grande di Ferdinando Magellano. Averci dimostrato che superare i limiti della propria conoscenza è l’unico modo per dare vita a sogni e fantasie ancora più grandi.

La Lettura del Corriere 28.4.19
Un sito per esplorare la mappa mundi del ’300
di Annachiara Sacchi


I pellegrini osservavano l’atlante incantati. Gerusalemme, Roma, Parigi. Perfino Hereford, la cittadina inglese in cui la mappa è ancora oggi custodita. La indicavano con il dito, sfiorando la pergamena, «noi siamo qui», dovevano toccarla, sentirla, tanto che in quel punto l’inchiostro è sbiadito, quasi cancellato. Osservavano le storie della Bibbia, l’Eden, la Torre di Babele, cercavano il Mar Rosso e il loro posto nel mondo. Lo spazio, il tempo, la spiritualità: erano queste le loro coordinate. Riassunte superbamente nella Mappa Mundi di Hereford, la più grande carta geografica medievale oggi esistente, realizzata intorno al 1300 in Inghilterra da Richard di Haldingham e Lafford: le terre allora conosciute, il mito, la religione, la fantasia.
Est, in alto; Ovest, in basso; Nord a sinistra, Sud a destra. Gerusalemme al centro. Le isole britanniche in basso a sinistra. Intorno, palazzi e castelli, animali fantastici dipinti magistralmente (c’è anche l’unicorno, molto in voga perfino oggi), Trogloditi e Cinocefali, immagini e testi. È una summa delle conoscenze umane questa enorme mappa pentagonale — disegnata e miniata, appesa a una parete della cattedrale di Hereford, non lontano dal confine con il Galles — 158 per 133 centimetri su pelle di vitello, la «sezione geografica» circoscritta in un cerchio (diametro: 130 centimetri) , parabole e leggende vicino alla cornice .
I disegni sono oltre cinquecento: 420 città, 15 storie bibliche (dall’Eden al Giudizio), 33 piante, animali (cammelli, linci, elefanti), uccelli e strane creature, 32 immagini di popolazioni (compaiono anche due Sciapodi, con una sola gamba e un enorme piede), 8 tratte da miti classici (il Labirinto di Cnosso, il Vello d’oro, l’accampamento di Alessandro Magno). Da perderci le giornate. A osservare i rattoppi del vellum, la collocazione delle isole «Farei», cioè le Fær Øer che compaiono qui per la prima volta, ad ammirare Roma caput mundi regit orbis frena rotundi, «Roma capitale del mondo regge le redini dell’orbe rotondo» (altro che piatto), la maestosa Parigi con le sue torri e i pinnacoli, famosa e ammirata come sede universitaria, culla di studi filosofici e teologici (vi aveva studiato san Tommaso di Cantilupe, vescovo di Hereford dal 1275 al 1282). Ma a guardare bene la mappa (anche virtualmente: il sito themappamundi.co.uk, registrato quest’anno, è formidabile) è proprio intorno a Parigi che si notano profondi graffi, come se qualcuno, in un moto di stizza, avesse voluto cancellare la capitale francese.
Inchiostro nero, rosso, oro, mari e fiumi in blu o verde. Christopher de Hamel, uno dei massimi esperti di codici miniati, autore di Storia di dodici manoscritti (Mondadori, 2017) ha definito la Mappa Mundi di Hereford «il più importante manoscritto illustrato dell’Inghilterra medievale», sedotto da quel documento in cui convivono scienza e fede, draghi e giganti, salvato dalla Seconda guerra mondiale (a differenza del Mappamondo di Ebstorf, distrutto nel 1943 ad Hannover), «quasi» venduto nel 1988 in seguito a una crisi economica della diocesi, salvato ed esposto là dove è nato. E dove si trova in ottima compagnia: la cattedrale di Hereford ospita la più grande biblioteca del mondo di libri incatenati (1.500). E uno dei quattro esemplari della Magna Charta del 1217.


Repubblica Robinson 28.4.19
Le operette morali di Kurt Vonnegut
di Stefano Massini


TITOLO: TUTTI I RACCONTI AUTORE: KURT VONNEGUT EDITORE: BOMPIANI
PAGINE: 1440 PREZZO: 38 EURO TRADUTTORE: VINCENZO MANTOVANI

Bompiani pubblica in un solo volume tutti i racconti del grande scrittore americano Inattuali nel senso migliore del termine: perché ci indicano ciò che è giusto e ciò che non lo è
We don’t need no education, cantavano i Pink Floyd esattamente quarant’anni fa. Ed è lampante che in quel contesto l’educazione fosse il simbolo restrittivo del potere più bieco, quello che impone non solo regole, ma schemi e modelli per leggere la realtà. Forse non esiste fattore più politico (nel senso alto del termine) dell’educazione: le dittature ne fanno un presupposto imprescindibile, convertendo però la palestra del libero pensiero nello scatolificio prestampato del consenso, ed è la riprova di quanto l’educazione, nelle sue forme libere e pluraliste, sia il più autentico ingrediente di un sistema democratico, così come lo concepiva don Milani. Parto da qui, perché c’è qualcosa che ai nostri orecchi suona inaudito, in questi racconti di Kurt Vonnegut (1922-2007) raccolti oggi da Bompiani: essi osano porsi nei confronti del lettore con un intento palesemente educativo. E ha ragione Dave Eggers nella sua prefazione: noi oggi ci sottraiamo immediatamente non appena un autore sembra additarci la retta via, la percepiamo come una catechesi non richiesta, perfino irritante. We don’t need no education versione 2.0, con la differenza sostanziale che nel 1979 si accusava l’educazione di regime, mentre oggi spariamo a vista contro chiunque indichi agli altri un barlume di direzione. Ma è giusto, vi chiedo, assecondare un simile rifiuto epidermico? Forse — anche per comprendere al meglio questi scritti di una penna formidabile — converrà allargare un minimo lo sguardo, tentando una franca riflessione su questo nostro ribrezzo anti-pedagogico. D’accordo: esimersi dall’indicare una via è sempre il metodo più furbo, perché consente di non esplicitare una scelta fra bene e male. Questo è il punto: noi non crediamo più né al bene né al male, tacciamo di manicheismo chi allude seppur vagamente allo steccato, e — se proprio dobbiamo — optiamo semmai più felicemente per il dark side, marchiando di buonismo e melassa ogni tenue raggio di luce. Siamo sinceri, una volta per tutte: va bene temere a ogni passo l’erba infestante della retorica, ma quanto gioca invece la codardia? Quanto incide la smania dell’abbraccio consolatorio, in quella nebbia democristiana in cui nessuno è né perduto né perfetto? Viceversa, Vonnegut crede spassionatamente nei buoni e nei cattivi, sentendosi a sua volta chiamato a una scelta di campo. Pare che una delle sue letture preferite fosse Piccola città di Thornton Wilder (un testo che anch’io amo molto), in cui assistiamo alla biopsia sociale di una cittadina americana ritratta sul perenne ciglio di uno sbando morale. Ecco: Vonnegut avverte nella sua missione di scrittore echi di una antica custodia e garanzia collettiva, non dissimile da quella che animava Wilder, più anziano di lui di un quarto di secolo. Non ci stupisce, in fondo: in continuità con quanto iniziato da Wilder prima degli anni ’40, i racconti di Vonnegut coprono un po’ tutto il secondo dopoguerra, traducendo in forma letteraria il sincero bisogno del lettore medio di essere orientato, assistito, indirizzato. Perfino di più: istruito. Era un’epoca in cui si cercavano voci autorevoli, riconoscendo loro un crisma magistrale, e si annotavano le frasi dei romanzi, si sottolineavano passaggi interi trascrivendoli magari sul proprio diario come moniti esistenziali, in nome di un qualche laico rigore.
E non per niente gli esordi letterari di Vonnegut furono nel segno di una fantascienza camuffata, allegorica, in cui il vero oggetto del contendere — fra alieni e automi — era il discrimine etico fra bene e male, e dunque la salvezza del genere umano, altrimenti avviato al mattatoio (non solo il n.5). Tronfia pretesa? Sarà. Ma almeno — mi sia consentito dirlo — implica il coraggio di una scelta drastica, passaggio davvero troppo impegnativo per chi sguazza come noi in un acquario di certezze liquide, provvisorie, continuamente ritrattabili. Perfino alla Marvel e alla Walt Disney hanno sentito il bisogno di intervenire sulla delineazione dei caratteri, sfumando i confini prima troppo netti fra le schiere angelicate del bene e quelle abiette dei villains. L’avranno fatto certo per maggiore realismo psicologico, non ho dubbi… Ma quanto avrà inciso il fatto che nella terra di mezzo ci riconosciamo tutti, mentre gli eroi puzzano di casta? Anche solo per questo, varrebbe la pena di consigliarvi la lettura dei racconti: sono un’allucinante full immersion dentro un tempo ormai tramontato, in cui le affermazioni implicavano una consapevole permanenza, non modificabile a colpi di tweet.


Repubblica Robinson 28.4.19
Pietro Citati
Sopporto la realtà solo a
ttraverso i libri
di Antonio Gnoli

L’anno prossimo compirà novant’anni. Alla vaghezza dei vecchi Pietro Citati preferisce l’asprezza del disincanto. Con cui guida e accompagna le sue preferenze. Il mondo letterario ai suoi occhi si divide tra imbecilli (sono la maggioranza) e coloro che, dotati di un certo talento, difendono ciò che resta della critica e della narrativa. Ben poco a sentir lui, ma ancora sufficiente per arginare il dilagare di personalità inconsistenti e delle fumisterie culturali. Ancora oggi, pratica la scrittura come il migliore dei mondi possibili. Ciò che gli piace lo dice in modo esplicito. Il bello è bello. Del brutto cerca di non occuparsi. Adora il sublime. Ancora adesso continua il suo rito quotidiano: si alza presto, si fa la barba ( gesto indispensabile con cui iniziare la giornata), una rapida colazione e poi nello studio: « Qui leggo, prendo appunti, preparo i miei articoli». Quando parla dal divano, color senape del suo salotto, sembra fornire una versione di sé attenuata. Meno superba, meno infrangibile, come se l’uomo solo, nella fragilità degli anni che passano, prendesse il sopravvento sul critico. Ma è solo un attimo, la finestra che si apre sulla distruzione del vecchio mondo e da cui verrebbe l’impulso di gettarsi di sotto, si richiude di scatto.
Ha mai pensato al suicidio?
« Non amo le persone che rinunciano a vivere e a scontrarsi con le difficoltà della vita. So che è un giudizio irritante e presuntuoso. Un amico come Franco Lucentini si gettò nella tromba delle scale; una morte analoga qualche anno prima scelse Primo Levi. Ho un’immensa pena, ma anche rabbia per tutto quello che avrebbero potuto ancora fare, la bellezza di cui ci hanno privato. Conoscevo bene Lucentini, meno Levi. Restai ammutolito davanti a quel tragico episodio».
E poi?
« Pensai a Fruttero, al quale mi legava una grande amicizia. Consolidatasi durante le vacanze estive al mare. Pensai a cosa potesse passare per la testa o nel cuore di quell’uomo: sempre misurato, ironico, settecentesco».
Cosa concluse?
«Siamo maschere che indossiamo in un prolungato carnevale. I momenti autentici sono pochi e ciascuno li trova forse in ciò che sa fare meglio. A un certo punto Fruttero e Lucentini trovarono uno scampolo di autenticità nel sodalizio letterario».
Furono una coppia abbastanza unica. Secondo lei come funzionava?
«Mai nature più diverse si sono combinate così bene. Lucentini scriveva e Fruttero riscriveva completamente, dando al libro la sveltezza necessaria per trasformarlo in un bestseller. Il loro romanzo più bello è stato La donna della domenica. Il libro piacque perfino a Mario Praz. Ricordo il vecchio professore estasiato davanti alle indagini del commissario Santamaria».
Fruttero e Lucentini erano state due colonne dell’Einaudi.
«Traducevano e scovavano con competenza i nuovi libri. Non credo che fossero così in sintonia con l’ambiente einaudiano. Troppo plumbeo e ideologico. Oltretutto, Giulio Einaudi detestava Fruttero. L’intelligenza unita all’ironia lo spaventavano».
Forse perché non era abbastanza colto.
«Non sapeva niente. Ma sapeva scegliersi gli uomini. E aveva il dono di capire se un libro poteva aspirare al successo. Non è poco per un editore. I suoi difetti sono diventati leggendari, man mano che passavano di bocca in bocca».
Era il principe capriccioso.
«Si era immedesimato nella parte del figliolo del re cui tutto è lecito. Durante certi pranzi infastidiva i commensali — da Fruttero a Manganelli — rovistando nei loro piatti».
Come reagivano?
« Alcuni rassegnandosi, altri come Manganelli potevano diventare furiosi. Ho cenato tantissime volte con Manganelli, sempre nello stesso ristorante dalle parti di Porta Pia, sempre nelle stesse posizioni. Guardarlo mangiare era uno spettacolo circense. In quegli istanti, crollasse il mondo, c’erano lui e il piatto. Un  rapporto furioso, lo stesso che coltivava per i libri».
Dove vi eravate conosciuti
«Alla Garzanti dove ero andato a lavorare nei primi anni Sessanta. Un giorno Manganelli si presentò con una sua opera pubblicata da Feltrinelli
era il suo esordio come scrittore. Fino a quel momento avevo pensato che fosse un polveroso professore, scoprii la sua voracità narrativa».
Si dice che su quell’opera si fosse scatenata l’ira di Gadda.
«Lo inseguì insultandolo convinto che egli avesse scritto una parodia della
« Mah, qualunque cosa avesse scritto, per quanto bella, non era misurabile con Gadda. A Livio Garzanti — l’uomo più isterico che abbia mai conosciuto — riconosco il merito di aver compreso la grandezza de
«Goffredo Parise che abitava non distante da lui, sulla collina di Monte Mario, e gli era molto amico, ne aizzava i sentimenti più riposti. Poteva, che so, parlargli dell’omosessualità nel mondo animale per vedere Gadda arrossire come una fanciulla».
«Fu una presenza dominante nella mia vita. Si insiste troppo sulla sua nevrosi. Ma ogni scrittore è a suo modo un nevrotico. Solo i grandi, come lui o come Virginia Woolf, hanno saputo trasformarla in stile. E poi sapeva ridere di se stesso».
«Negli ultimi giorni di vita mi chiese di leggergli alcune pagine dei
Ci alternammo io, Gian Carlo Roscioni e Ludovica Ripa di Meana. Stava mezzo moribondo nel letto mentre gli leggevo il capitolo in cui Renzo e Lucia chiedono a Don Abbondio di sposarli. E mentre mi inoltravo nella lettura sentivo Gadda ridere e imporporarsi, col suo pancione che sotto il lenzuolo sussultava».
C’è scrittore italiano del ’900 paragonabile a Gadda?
«Non c’è, il solo che gli si avvicina ma gli resta decisamente inferiore è stato Italo Calvino. Italo fu un amico della giovinezza. L’ho conosciuto quando avevo diciassette anni e lui ventitré. Era ironico, curioso, disponibile. Col tempo il suo carattere si fece più impenetrabile. Ma l’amicizia non venne mai meno. Credo fui tra gli ultimi a vederlo prima che l’ictus se lo portasse via. Tre giorni prima della tragedia venne a cena nella mia casa di Roccamare. Anche lui passava lì le estati, come del resto faceva Fruttero. Sicché si stava spesso insieme».
In quel periodo della fine di agosto lo vidi spesso stanco e ossessionato dal lavoro. Ma quella sera mi sembrò felice, perfino tenero. E, cosa incredibile, loquace. Espresse una singolare visione della letteratura, dividendo il campo tra gli urlatori ( Mario Soldati in testa), i mezzi urlatori ( cui io appartenevo) e i taciturni ( tra cui si metteva). Fu spiritosissimo. E la morte fu gelosa di quella vis comica ».
«Facevo l’ultimo anno di liceo. Sono nato a Firenze ma a due anni mi trasferii con i miei a Torino perché mio padre era direttore di una compagnia della Lloyd adriatico. Poi andai alla Normale di Pisa. Torino resta la mia città mentale».
«La sua forma è un misto di rigore matematico e di follia. Sembra razionale e non lo è. Un po’ come la letteratura che viene dal Piemonte. In quegli anni frequentai Elémire Zolla. Viveva alla periferia di Torino. Ogni volta che andavo a trovarlo lo vedevo disteso su un vecchio sofà con un libro in mano. Era la sua postura naturale: pigrizia e letteratura. Un giorno in treno gli parlai in maniera orrenda di Maria Luisa Spaziani e lui rideva, rideva. E allora gli chiesi cosa c’era di tanto comico. Maria Luisa è mia moglie, rispose di gusto».
« La lasciò per Cristina Campo, con la quale visse a Roma nel quartiere Aventino. Lei in un albergo lui in un sottoscala».
«Penso di sì anche se alla fine non facevano che litigare. Cristina aveva nervi e cuore fragilissimi e una prosa sublime.
è un libro avvincente. La sera in cui era agonizzante mi telefonò Zolla: Vittoria (Vittoria Guerrini era il suo vero nome sta morendo, mi disse con un filo di voce. Da tempo si erano separati, ma l’affetto era rimasto intatto».
Accennava alla Normale, ci andò per studiare cosa?
«Filologia classica con Giorgio Pasquali, un genio per le vaste conoscenze che possedeva. Arrivai a Pisa nel 1947. Fu un periodo di studi intenso. C’erano Delio Cantimori, Aldo Capitini. Pasquali ebbe un incidente mortale. Fu investito da una motocicletta. E questo ahimè mise fine al nostro rapporto».
Lo dice come se si fosse chiusa un’opportunità.
« Con lui certamente. Anche se ebbi la fortuna di incontrare Gianfranco Contini. A quel tempo insegnava a Friburgo e venne alla Normale per dei seminari. Fu un filologo immenso ma secondo me contagiato dall’università».
«Dai meccanismi burocratici e accademici. Le cose più belle le ha scritte da giovane. Penso che l’università non gli abbia fatto bene. E credo ne fosse consapevole. Quando tornò in Italia gli chiesi se era animato dalla stessa forza interiore con cui era partito per la Svizzera. “Sì Citati è molto bello combattere per gli ideali, ma si combatte sempre nella merda”. Mi colpì quel lessico che poco gli somigliava e che denunciava
«Andai a fare il lettore di italiano all’università di Monaco. Imparai il tedesco e la città era piacevole e ordinata».
« La persona più interessante che conobbi fu Ingeborg Bachmann. Scriveva dei racconti meravigliosi. Un po’ meno mi sarebbero piaciuti i suoi romanzi. Allora viveva con Max Frisch, uno scrittore che valeva poco. Conobbi anche Günter Grass. E non mi piacque per niente. Con la sua smania di grande scrittore».
« Di tutta la sua opera salverei solo le prime cento pagine del
È molto esigente con gli altri. Lo è anche con se stesso?
«Mi interesso pochissimo a me stesso. Per me contano solo le cose oggettive».
Che sembra, al contrario, molto interessato a se stesso.
«Sono interessato ai miei ottantanove anni che sono tanti».
«Me ne occupo nel senso che mi sento un sopravvissuto. I più cari amici non ci sono più. Ma come si dice: il problema non è di quelli che se ne vanno ma di chi resta».
«Non mi interessa assolutamente. Se scrivo, se continuo a farlo, cerco di cavarmela meglio che posso».
«Una professione estinta, come certe specie animali».
« Qualcuno che si installa nel corpo di un altro. Vive e si alimenta della sua carne e del suo sangue».
«Adorazione. Senza adorazione per lo scrittore e senza l’idea che tutto il mondo sta in lui la letteratura non esisterebbe. È chiaro che la venerazione non è detto che porti alla verità, ma alla passione sì. Senza passione non si fa né si legge letteratura».
Un tempo il suo lavoro di critico non disdegnava la stroncatura. E ora?
« Stroncare è un attività per giovani. Invecchiando ho capito che è un esercizio inutile. Un cattivo libro va ignorato, perché perdere tempo a occuparsene?».
Tutto il mondo di Citati passa attraverso i libri. Si riconosce?
«Pienamente. E la cosa è comprensibile. Leggo libri da quasi ottant’anni».
Non desidera a volte leggere direttamente la realtà?
« Avrei gli occhi per farlo. Ma non ho la forza del racconto. Non posso affrontare la realtà direttamente come farebbe un narratore. Posso riuscirci solo sulla base di un racconto già scritto. Ho immaginazione per gli oggetti, meno per le storie».
«Sarebbe inutile su un carattere come il mio e poi mi seccherebbe essere interpretato come fossi un libro».
So che ha avuto dei periodi di depressione come l’ha combattuta?
« Fu un solo lungo periodo tra i quaranta e i cinquant’anni. Brutto e triste. Mia moglie era molto preoccupata. Ho combattuto la depressione con i farmaci e con la scrittura. Imparando a difendermi ».
«Anche da essi. Non vorrei avere un tono troppo giudicante. Ma in questo tempo della discordia non riesco a vedere una via di uscita».

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