mercoledì 24 aprile 2019

La Stampa 24.4.19
“La Costituzione è antifascista
Il capo leghista non lo capisce”
di Filippo Femia


«Domani tutti dovrebbero essere in piazza a celebrare il 25 aprile. Purtroppo c’è ancora chi cerca di infangare la memoria». Nonostante i 95 anni Carlo Smuraglia, ex partigiano e presidente onorario dell’Anpi, si prepara a un tour de force per celebrare la Liberazione: stasera la fiaccolata a Torino, domani il corteo a Venezia che raggiungerà il ghetto ebraico. «Perché il Paese ha bisogno di ricordare e onorare chi perse la vita per il sogno di un’Italia libera e democratica».
Crede che i valori della Resistenza siano in pericolo?
«C’è chi vorrebbe cancellare la memoria. La Resistenza è stata una battaglia per liberare il nostro Paese dal nazi-fascismo e consegnarlo alla democrazia. Solo una minoranza non festeggerà il 25 aprile».
Fra questi, però, alcuni che guidano le istituzioni.
«Saranno centinaia di migliaia le persone in piazza per coltivare il ricordo del sacrificio di chi lottò per la libertà. Qualche ministro non ci sarà? Andare altrove è un segno di indifferenza. Ma ce ne faremo una ragione».
Anche il 25 aprile è diventato terreno di scontro nel governo giallo-verde.
«Credo che questo esecutivo abbia questioni ben più gravi da affrontare. Certo, se qualcuno delle istituzioni mette in discussione una festa ufficiale come la Liberazione, vuol dire che questo Paese ha un problema. Si immagina la Francia discutere sul 14 luglio? Impensabile».
Matteo Salvini ha parlato di «derby tra fascisti e rossi».
«Mi sorprende che un ministro della Repubblica non capisca il senso profondo del 25 aprile. Non esiste nessun derby: l’unica contrapposizione è tra democratici che credono nella costituzione e chi in altri valori».
Valori contrari alla Carta?
«Dico solo che Salvini non capisce che la costituzione è profondamente antifascista, non solo nella parte in cui vieta la riorganizzazione del partito di Mussolini. Il primo articolo dice che l’Italia è una repubblica democratica: la democrazia è il contrario del fascismo».
In passato il M5S non sempre è sceso in piazza per il 25 aprile, ora si è schierato con l’Anpi. Opportunità politica per sfidare Salvini?
«Non scendo nella polemica politica. I grillini hanno molte anime, non è un mistero. A me piace pensare che abbia prevalso quella più sana, rispettosa dei valori del 25 aprile. Di recente abbiamo presentato un libro per i 70 anni dell’Anpi e il presidente della Camera, Roberto Fico, ha pronunciato parole importanti sui valori della Resistenza. Certo, pensare che il M5S governi con la Lega è assurdo».
Chiede l’unità delle forze politiche ma in passato l’hanno accusata di fomentare le divisioni tra l’Anpi e la Brigata ebraica a Roma. In un’occasione anche i deportati sono stati insultati.
«Di recente ci sono stati incontri per riparare errori del passato. Mi auguro che questo strappo si possa ricucire».
L’attività dei gruppi neofascisti la preoccupa?
«Credo che il pericolo non esista. Ma in questo la scuola deve fare molto di più per garantire i giusti antidoti».
In che modo?
«La legge Scelba imponeva che la scuola si adoperasse per raccontare la barbarie del fascismo. Spesso ha fallito».
A Bonifati, in Calabria, Forza Nuova ha annunciato un corteo per ricordare i caduti di Salò. Cosa direbbe loro?
«Semplicemente che stanno commettendo un reato».
Quale sarebbe il 25 aprile ideale?
«Una giornata in cui il ministro dell’Interno e il governo dicano al Paese che è la festa di tutti e celebrare chi ha perso la vita sognando un’Italia libera».

Il Fatto 24.4.19
C’è la sede di CasaPound sulla via, il prefetto cambia il percorso del corteo del 25 Aprile
di Ferruccio Sansa


La manifestazione della Liberazione deviata. Vietato passare davanti alla sede di CasaPound. Siamo a Savona, via San Lorenzo, strada simbolo dell’Antifascismo: “Qui nel 1922 i fascisti assediarono la sede della Generale di Mutuo Soccorso. Qui nell’aprile 1945 passarono i partigiani che liberavano la città”, racconta lo storico Giuseppe Milazzo.
Erano anni che a Savona non si parlava tanto della Festa della Liberazione. La sera del 24 – quando Savona si liberò – la gente sfilava lungo le strade seguite dalle truppe di liberazione. Questa volta no: il prefetto Antonio Cananà ha disposto che la fiaccolata non passi per via San Lorenzo. Motivi di ordine pubblico, dicono in Prefettura, perché in quella strada è stata aperta l’anno scorso la sede savonese di CasaPound: proprio accanto alle sedi delle storiche società di Mutuo Soccorso, per non parlare di Lotta Comunista e di associazioni anarchiche. Una novità che aveva subito suscitato proteste, per quelle bandiera nere, quei simboli, arrivati nel cuore di Villapiana, quartiere dal cuore operaio. Anche oggi che tante fabbriche stanno chiudendo i battenti e il centrodestra ha conquistato la città.
Uomini vestiti di nero che fanno deviare la manifestazione anti-fascista, a Savona molti l’hanno letta così. L’intenzione, ripetono in Prefettura, era evitare tensione. L’effetto rischia di essere l’opposto, gli animi sono molto inquieti. In una città dove a ottobre fu inaugurata – alla presenza delle autorità – una lapide ai caduti. Salvo poi accorgersi che tra le vittime erano state inserite le Camicie Nere. Savona dove il centrodestra leghista ha usato toni durissimi contro gli immigrati con un assessore arrivato, raccontano le cronache, a bestemmiare durante una manifestazione (salvo poi chiedere che in consiglio comunale fosse messo il crocifisso). Estremismi che hanno messo in difficoltà anche la sindaca Ilaria Caprioglio (centrodestra moderato).
Eppure proprio il divieto di passare in via San Lorenzo ha dato uno scossone. Non solo associazioni – Anpi, Arci, Mutuo Soccorso – e gruppo politici, ma centinaia di messaggi sui social. Come ricorda Milazzo, “Savona fu una spina nel fianco del Fascismo, tanto che Benito Mussolini sciolse il consiglio comunale nel 1922”. Questa è la città di Sandro Pertini. Qui il 9 settembre 1927 si tenne il famoso processo di Savona, l’ultimo per reati politici celebrato da giudici ordinari. Imputati, oltre a Pertini, erano Filippo Turati, Ferruccio Parri e i fratelli Rosselli. L’accusa chiese una condanna a dieci anni, ma i giudici non andarono oltre i dieci mesi. All’uscita gli imputati furono applauditi dalla folla.
Ecco, questa Savona. La stessa degli scioperi del marzo 1944. Dell’avvocato Cristoforo Astengo, trucidato per le sue idee antifasciste. Savona di partigiane come Paola Garelli che prima di essere fucilata lasciò una lettera alla figlia: “Mimma cara, la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata… Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari… che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio”.

Il Fatto 24.4.19
Alla paura dell’Islam ci pensa Capitan Mitra
di Antonio Padellaro


Non sappiamo se Luca Morisi, il disinvolto uomo social di Matteo Salvini, nel postare la foto del capo col mitra si sia ricordato che Mussolini, come disse qualcuno, era riuscito a conquistare gli italiani entrando nelle loro teste. Detto che chi scrive non crede per nulla che il vicepremier sia la reincarnazione del duce (gli piacerebbe!), solo unendo i classici puntini il messaggio pasquale agli italiani di Luca e Matteo si rivelerà in tutta la sua efficacia, consapevole o subliminale fate voi.
Primo: la carneficina di cristiani nello Sri Lanka. Chi è il leader di partito che non ha mai smesso di collegare, anzi di far coincidere, immigrazione clandestina e terrorismo?
Chi è il vicepremier che sigilla i porti convinto che le navi umanitarie prendano indifferentemente a bordo dei tagliagole mescolati ai tanti disperati, accolti anch’essi come disperati ma pronti a usare la mannaia?
Chi è l’uomo politico che non ha mai nascosto la propria – come vogliamo chiamarla: avversione, repulsione, diffidenza? – nei confronti di un certo Islam che cucina speziato e pretende di aprire moschee nei garage delle nostre città, onde predicare in arabo insegnamenti probabilmente ostili?
Chi è il figlio della Lega che condivide e alimenta la teoria secondo la quale esiste una studiata e precisa strategia per sostituire alla razza italiana, bianca e cristiana un meticciato devoto al Corano, ghiotto di kebab e convinto che la donna debba camminare alcuni passi dietro l’uomo?
Chi è, infine, il ministro degli Interni che dopo l’accoltellamento, alla stazione Termini, di un clochard georgiano con un crocifisso al collo, a opera di un clochard marocchino spinto a quanto pare da ruggini personali, chi è dunque l’uomo di governo che chiede “a prefetti e questori di aumentare controlli nei luoghi di aggregazione islamica”?
Tutto ciò mentre i giornali vicini, vicinissimi al leader, ministro e vicepremier escono, all’unisono, con una titolazione che suona come un serio, serissimo allarme nei confronti della reazione, giudicata a dir poco tiepida, che i quasi 300 cristiani macellati il giorno di Pasqua ha suscitato. Sospetto che non riguarda soltanto la solita sinistra imbelle e codarda, ma da estendere alla stessa chiesa cattolica. Un’ombra che sale più su, più su e ancora più su fino a lambire (proprio il giorno della Resurrezione di Cristo) la candida veste, avete capito di chi. Il Giornale: “Vietato dire ‘cristiani’”. Libero: “Vietato criticare l’Islam impegnato a fare stragi”. La Verità: “Islamisti ammazzano cristiani e nessuno il coraggio di dirlo”.
Ora, sinceramente, se un povero italiano, regolarmente battezzato e di razza bianca dovesse sentirsi smarrito di fronte al dilagante terrore islamico (pronto a sgozzarti a due passi da piazza San Pietro se solo ti azzardi a esibire il simbolo della tua fede); se questa inerme pecorella ritenesse di non sentirsi più protetta dal proprio Pastore, per non parlare di quella parte politica sensibile solo alla tutela di kebab e minareti, come dargli torto?
Però, se nel medesimo giorno, sotto quelle notizie che grondano sangue, apparisse l’immagine maschia del leader, ministro e vicepremier (promosso Capitano sul campo) che imbraccia una maneggevole mitraglietta, non sarebbe rassicurante? Con quell’arma, si direbbe pronta all’uso, l’accorto Morisi non ci sta forse dicendo che il Capitano, in assenza della sinistra codarda e nel silenzio del Pastore dedito al dialogo interreligioso, ci pensa lui, a vigilare sulla sicurezza del gregge? Non ha lo stesso sguardo del Gladiatore prima di scatenare l’inferno? A questo punto unite i puntini e capirete perché, secondo i sondaggi, il consenso di Salvini ha toccato il 36% e non si ferma. Ah, la testa degli Italiani.

Il Fatto 24.4.19
New Ira, il capo di Saoradh: “La lotta armata è legittima”
di Sabrina Provenzani


Lunedì di Pasqua. Milltown Cemetery, West Belfast. Il sacrario dell’indipendenza irlandese. Qui le famiglie repubblicane portano i bambini piccoli, vestiti a festa, a farsi la foto sulle tombe di Bobby Sands e degli altri morti per la causa. Attorno al memoriale dei caduti di County Antrim circa 200 persone, alcuni giovanissimi chiusi nel mutismo. Sono membri e simpatizzanti della sezione di Belfast di Saoradh, il partito considerato dagli investigatori il braccio politico della New Ira, responsabile dell’omicidio di Lyra McKee, uccisa negli scontri di giovedì fra repubblicani e polizia a Creggan, Derry. “La morte di Lyra è un momento difficile per la sua famiglia e per tutti i repubblicani. L’Ira deve assumersene la responsabilità e chiedere scusa” è l’appello del presidente nazionale Brian Kenna, 58 anni. Un appello che conta, se davvero, come dicono gli inquirenti, la leadership di Saoradh si sovrappone a quella della New Ira. Che poche ore dopo infatti chiede scusa. È difficile associare l’immagine di combattente a questo sessantenne sovrappeso e affabile. Ma il suo curriculum da repubblicano è impeccabile: membro della Provisional Ira condannato a 10 anni di carcere, poi attivista di gruppi antidroga, ruolo tradizionalmente di copertura per i leader paramilitari. Da lì il rifiuto degli accordi di pace, la dissociazione dal Sinn Fein, il supporto attivo dei prigionieri politici, un nuovo arresto. Nel 2016, Saoradh. L’omicidio di Lyra ha innescato una reazione di rigetto che si è abbattuta sul partito e sui suoi legami – mai ammessi – con la New Ira. Eppure domenica Saoradh ha segnato una straordinaria vittoria simbolica: le immagini di 40 membri in divisa militare e 500 simpatizzanti che sfilano nel centro di Dublino hanno provocato l’indignazione anche del premier irlandese Leo Varadkar e la richiesta di revisione delle autorizzazioni per le parate politiche.
Kenna, pochi giorni fa ho chiesto alla leader del Sinn Fein Mary Lou McDonald cosa pensasse di voi. Vi ha definito ‘irrilevanti’.
Se siamo irrilevanti, perché Varadkar vuole vietare le nostre manifestazioni?
Cosa volete?
Siamo un partito dei lavoratori, di sinistra, antimperialista e combattiamo per una Irlanda socialista e indipendente. Riempiamo il vuoto politico lasciato dal Sinn Fein, che ha tradito sia i lavoratori che la causa dell’indipendenza irlandese ed è un partito corrotto e nepotista. Stiamo costruendo un movimento dal basso, che rimetta al centro della politica la brutale realtà dell’occupazione britannica del nostro Paese – 10 mila soldati britannici in Irlanda, 700 agenti dell’Mi5, 70 prigionieri politici repubblicani. Il Good Friday Agreement è fallito: non ha migliorato le condizioni dei repubblicani e ha normalizzato l’occupazione, con la complicità del Sinn Fein. La gente se ne sta accorgendo…
Che seguito avete?
Circa 200 membri attivi e richieste di iscrizione ogni settimana e da tutta l’Irlanda.
Siete favorevoli a un referendum per la riunificazione come vuole il Sinn Fein?
Il referendum presuppone una concessione del governo britannico, che è uno Stato occupante. L’indipendenza irlandese è un diritto.
Da affermare anche con la lotta armata?
La lotta armata è una forma legittima di resistenza all’occupazione.
Anche se ad armarsi sono dei ragazzini come quelli che hanno ucciso Lyra McKee? Siete veterani con un seguito di giovanissimi.
È stata una tragedia, ma ogni generazione ha il diritto di combattere. E questi ragazzi sono informati e critici, capiscono bene che questo sistema politico li ha traditi. Vogliono cambiare le cose.
Lei ha detto che la Brexit è una manna dal cielo.
La Brexit è una grande opportunità per la causa repubblicana, perché le sue conseguenze mostreranno alla gente gli effetti dell’occupazione in cui viviamo. E perché è inevitabile che il ritorno di un confine fisico provochi degli attacchi.
Siete il braccio politico della New Ira?
Non posso parlare per l’Ira. Rappresento solo Saoradh.
Risposta obbligata. Rischierebbe un altro arresto.

La Stampa 24.4.19
E Einstein mise il Duce sulla forca
”Come giustamente meritato” Lo schizzo in una lettera all’amica Ernestina
di Gabriele Beccaria


Einstein ricorda sé stesso quando era solo Albert, un adolescente irrequieto, così irrequieto da simulare un esaurimento nervoso per scappare da Zurigo e rifugiarsi dalla famiglia. A Pavia. È il 1946 e in un italiano incerto compie il suo personale miracolo. Afferra i fili dello spaziotempo e lo modella con la forza del pensiero, come solo lui sapeva fare: gli esperimenti mentali non erano sempre stati il suo forte?
Così, dalle atmosfere rarefatte di Princeton, manda una lettera all’amica d’infanzia Ernestina Marangoni, che, invece, si agita in una Pavia semidistrutta dalla Seconda guerra mondiale, e con lei rievoca un periodo della propria vita che pochi conoscono e che, tuttavia, Einstein non ha mai smesso di custodire in qualche angolo del suo spazioso cervello. Quel periodo è lontano: è il 1895, quando il padre Hermann si trasferisce in Italia, a Pavia, appunto, e apre l’Officina Einstein-Garrone, fabbrica elettrotecnica che produce dinamo. Il momento è magico e a sottolineare quello stato di grazia, sospeso tra un business rivolto al futuro e le bellezze senza tempo del Belpaese, la famiglia del genio che diventerà il padre della Relatività si stabilisce nella casa appartenuta a Ugo Foscolo, palazzo Cornazzani.
Il giovane Albert è stato lasciato a Zurigo, al Luitpold Gymnasium, ma non riesce a resistere a quella specie di esilio al contrario. E fugge anche lui in Italia. Trascorrerà mesi spensierati, ai quali non smetterà di pensare da adulto. L’idillio è racchiuso in una lettera che pochi conoscono, conservata all’Università, e che è ignorata anche dagli scarsi turisti-eruditi che a Pavia cercano qualche traccia del passaggio di Einstein. Sabato 27, però, la lettera riemergerà durante il programma Sapiens di Mario Tozzi su Rai3 alle 21,45. Il quale dice così: «Sappiamo dai biografi di Einstein che a Pavia fece poco, pochissimo. Ma si divertì molto».
Di sicuro non studiò e il tempo lo consumò scaricando le energie in attività prima di tutto muscolari: lunghe gite in bicicletta, frequenti passeggiate sulle colline dell’Oltrepò e tanti bagni nel Ticino. «Sembra che con Ernestina abbia organizzato anche un’interminabile camminata fino a Genova». Follie tipicamente adolescenziali, che Einstein deve avere intervallato con visite alla fabbrica paterna, dove le tecnologie per imbrigliare l’energia delle dinamo potrebbero avergli acceso pensieri più che fertili.
«Forse qualche seme del genio è stato gettato in quel periodo», dice Tozzi, che nella nuova puntata, la settima della serie, si interrogherà sulla natura del genio scientifico, declinandola attraverso quattro personalità-simbolo: oltre a Einstein, indietro nel tempo, Galileo, Leonardo e Archimede: «Accomunati da una capacità di pensare in modo eccentrico». In una progressione di lunghissimo periodo, in cui Tozzi prova a individuare i rapporti che li legano gli uni agli altri. Quei rapporti - com’è intuibile - sono racchiusi nel labirintico linguaggio della matematica, che Archimede padroneggiò alla grande, ma che per Leonardo e Galileo risultò sempre un po’ ostico, finché Einstein lo riportò alla vette conosciute.
Ma nella lettera a Ernestina, che gli chiede un aiuto che lui non può dare, di numeri non c’è traccia. C’è invece uno schizzo, quello della forca da cui pende Mussolini («onestamente meritato», scrive). Una riflessione simile a uno sfogo, più sarcastico che cattivo, dello scienziato, che si firma Alberto, abituato a pensare prima che con le formule con l’energia incontenibile delle immagini.

La Stampa 24.4.19
Genocidio degli armeni, l’allarme inutile
di Laura Mirakian


È il 28 agosto 1896 quando da Costantinopoli l’ambasciatore Alberto Pansa, accreditato presso la Sacra Porta e decano del corpo diplomatico, trasmette a Roma un telegramma del seguente tenore: «Ho testé inviato al Sultano, anche a nome delle Grandi Potenze, una urgente missiva per descrivere i massacri, gli assassini, le violenze in atto contro gli armeni. Stermini nelle strade e altresì nelle case sono in corso nella Capitale e in altri villaggi del Bosforo. Ho chiesto che egli dia ordini immediati, precisi, categorici, perché si metta fine allo stato delle cose, che è tale da condurre alle conseguenze più disastrose per il Suo impero».
E prosegue, l’ambasciatore Pansa, informando Roma che se non otterrà risultati «entro domani» si recherà personalmente con i cinque colleghi ambasciatori dal Sultano stesso per confermare la «più formale protesta». E a fine pagina annota che, mentre sta scrivendo, «due armeni sono stati assassinati davanti all’Ambasciata».
Questa preziosa testimonianza, un testo redatto in francese secondo il costume dell’epoca, in due fogli consunti dal tempo ma perfettamente leggibili, è stata inserita per la prima volta tra i documenti storici esposti nella vasta rassegna in corso alla Farnesina a cura del Servizio storico del ministero degli Esteri sulla diplomazia italiana. È corredata da stralci delle note personali dell’ambasciatore, ove trapelano senza mezzi termini forte riprovazione e scandalo.
Onore all’ambasciatore Pansa, esempio di coraggio, sensibilità, dirittura morale, lealtà al giovane Stato italiano. Testimonianza preziosa, perché poco è stato rivelato delle persecuzioni, deportazioni, spoliazioni di beni, l’immensa tragedia (Metz Yeghern) di quegli interminabili anni, conclusisi solo nel 1922 con gli incendi dei quartieri di Smirne abitati dagli armeni, che vi erano approdati alla fine di lunghe marce forzate attraverso l’intera Anatolia. Quegli incendi segnarono l’esodo definitivo dalle loro terre di insediamento.
Solidarietà con gli ebrei
Oggi che papa Bergoglio ha pubblicamente riconosciuto il genocidio, e che negli anni molti parlamenti europei (Germania, Francia, Svizzera, Austria, Svezia e altri, ivi incluso il Parlamento europeo) hanno formalmente statuito che di questo si è trattato, possiamo commemorare insieme quel 24 aprile 1915 in cui l’intera intellighenzia armena fu appesa ai pali dell’impiccagione. Lo facciamo in totale solidarietà con il popolo ebraico, tragicamente erede di quel primo genocidio del XX secolo, rabbrividendo di fronte alle parole beffarde di Hitler mentre ne sanciva la «soluzione finale»: «Chi ricorda più lo sterminio degli armeni?».
Un popolo sconfitto? Certamente no. Esiste, in un lembo di Caucaso, una giovane Repubblica di Armenia che nell’aprile del 2018 ha dato prova di saper transitare pacificamente verso una modernizzazione economica e politica, nella ricerca di un difficile equilibrio geopolitico tra Oriente e Occidente. Una «rivoluzione colorata», si direbbe, che ha condotto al potere Nikol Pashinyan, attivista dei diritti e delle libertà democratiche. Trai suoi primi gesti, i contatti con l’Azerbaigian per rafforzare il cessate-il-fuoco nella regione contesa del Nagorno-Karabakh, aprire canali di comunicazione, lasciar transitare aiuti umanitari. Ed esiste una diaspora armena in Europa e nel mondo che, fin dalla prima ora, ha dato prova di grande vitalità nel percorrere un modello di piena, fruttuosa integrazione nei Paesi di accoglimento senza mai sconfinare nell’assimilazione.
Gli armeni sono impegnati in una straordinaria, silenziosa battaglia contro l’oblio. Sorretta dalle croci rosa di pietra intagliata (khachkars) di cui hanno costellato le loro terre e dalle preziose miniature religiose degli amanuensi medievali, e dall’amore per l’arte, la musica e la cultura, in una visione liberale e aperta a quella degli altri.
Tra due imperi
Tutto mirabilmente documentato nella mostra al Metropolitan di New York intitolata semplicemente «Armenia». Sorretta da una storia che li ha collocati tra due grandi imperi, romano e persiano, arricchita dai contatti con le città mesopotamiche e con gli antichi greci, giù dalle montagne fino al Mediterraneo, e più tardi snodo cruciale dei grandi circuiti commerciali sul tragitto della Via della Seta, fino a Venezia. E sorretta soprattutto dalla religione cristiana, adottata fin dal 312 d.C. precedendo Costantino. No, il progetto di pulizia etnica e ingegneria sociale che ha colpito gli armeni nel passato non ha potuto spegnerne la forza d’animo, non ha potuto annientarli. Noi ne siamo i fieri e orgogliosi figli.

Repubblica 24.4.19
Verso il 25 aprile
Ada Gobetti la Liberazione spiegata ai bambini
di Paolo Di Paolo


In libreria e nel dibattito pubblico si torna a parlare di questa grande figura della Resistenza, moglie di Piero, traduttrice dall’inglese, pedagogista. E autrice di una splendida favola antifascista ora ripubblicata
È la ragazzina appassionata di musica che incrocia, nel condominio di via XX Settembre a Torino, il coetaneo Piero Gobetti. Lui le chiede di collaborare alla sua "rivistina", lei accetta, ne nasce un sodalizio intellettuale e amoroso, sfociato nel matrimonio. Il ragazzo geniale, l’editore giovane, il militante antifascista muore a Parigi prima di compiere venticinque anni («Non è possibile. Non deve essere possibile» annota lei nel diario, febbraio 1926). È la ragazza che insegna e traduce letteratura inglese; è la giovane donna che tiene saldo il filo dell’amicizia con Benedetto Croce, nata negli anni di Piero, e ospita in casa antifascisti vicini a Giustizia e Libertà. È la partigiana che si muove nelle valli piemontesi e fonda i Gruppi di difesa della donna, anche se le suona meglio Volontarie della libertà. È la vicesindaca di Torino. È la pedagogista che fonda, alla fine degli anni Cinquanta, il Giornale dei Genitori, a cui collabora anche Gianni Rodari. A Life of Resistance, una vita di Resistenza, dice il titolo di una biografia americana curata da Jomarie Alano, ma per Ada Gobetti (Torino, 1902-1968) — grande figura femminile dell’antifascismo ora al centro di una riscoperta non solo editoriale, incarnazione perfetta dello spirito della Liberazione in questa vigilia di 25 aprile — bisognerebbe parlare di molte vite.
Saranno esplorate a Torino in una giornata a lei dedicata il prossimo 5 maggio, organizzata dal Centro Studi Piero Gobetti, seguendo uno dei fili che le tiene insieme: la scrittura. Una passione antica, che risale all’adolescenza ed è rinnovata — come racconta Elisiana Fratocchi in un saggio incluso nel recente Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza (Bulzoni) — nei primi anni di guerra e in quelli di lotta clandestina (ne verrà il Diario partigiano, un grande classico edito da Einaudi).
Incoraggiata proprio da Croce, Ada è anche una straordinaria autrice per bambini: «Mi ha fatto piacere che Sebastiano le sia piaciuto e mi ha commossa che si sia presa tanta pena per lui», gli scrive Ada riconoscente nel gennaio del 1940. Fresca di stesura della Storia del gallo Sebastiano,
appena tornata in libreria per le Edizioni di Storia e Letteratura. La vicenda è quella di un galletto venuto fuori da un uovo in esubero.
L’uovo numero tredici di una covata solitamente di dodici, allungato, storto, strano. E lui pure è così: non somiglia agli altri; ogni suo movimento è un guaio, ogni gesto un disastro.
Goffo, disordinato, distratto.
Ma soprattutto, libero. Un po’ Piero Gobetti e un po’ suo figlio Paolo: un intemperante, uno che sacrifica tutto a un «indomabile spirito critico».
Quando, alla scuola dei Vitelli, pretendono che sia Vitello anche lui, Sebastiano si sente smarrito, ma non rinuncia alla propria identità: «No, rispose il nostro eroe, che aveva per la verità un rispetto grandissimo. No, sono soltanto Sebastiano». Se gli altri cantano, Sebastiano resta muto. Se gli altri marciano, resta fermo. Se gli altri vanno avanti, lui va indietro. Se gli altri alzano la zampa destra, lui alza la sinistra. L’autrice gioca al romanzo di formazione a rovescio: il galletto si sforza di essere come tutti, di camminare al passo, ma niente, finisce per ritrovarsi solo, maltrattato dai Vitelli, respinto dai Conigli, picchiato dai Caproni, inseguito dai Porcelli. Solo una farfallina azzurra, con un filo di voce sottilissima, lo incoraggia: «T’hanno respinto, t’hanno beffato, / t’han con minacce mandato via… / ma qui avrà fine tua sorte ria! / Non ripensare ai guai sofferti: solleva il guardo nei cieli aperti». Sebastiano si rianima, e accetta la solitudine come una sfida. Cammina fiero per il mondo; incrocia una piazza immensa in cui è radunata «una quantità enorme di polli d’ogni genere, ma tutti in posizioni innaturali e penose»; si imbatte in gente che vuole ridurlo in schiavitù e costringerlo a camminare con gli stivalini da generale. Fra ramarri presuntuosi e cani San Bernardo con la pelliccia da alta montagna e l’anima da fondo valle, tra volpi troppo furbe e oche sofisticate, Ada Gobetti inquadra un’intera società. Malata di conformismo. E di paura. Il vecchio Calisto, sul finale, indica a Sebastiano due modi opposti di stare al mondo: come bolle di sapone — «ottime, simpatiche creature, a vederle dal di fuori, ma dentro, in fondo, non hanno nulla» — o come palline d’argento. «Son vere, son forti, non han bisogno di difendersi contro tutti gli urti. Li cercano anzi». Ma il mondo è fatto di bolle di sapone e di palline d’argento; l’importante è mescolarsi, fare «sempre esattamente il contrario di quel che gli altri si aspettano».
Dalle avventure dell’irregolare Sebastiano — osserva Goffredo Fofi nella prefazione — si ricava netta una morale antifascista. Una morale "resistente", sempre valida per Ada, come testimoniano due volumi recenti: Pam, croak, ugh! Ada Gobetti giornalista di Emmanuela Banfo (Effedì) e
Non siete soli (Colibrì), la raccolta degli scritti per il
Giornale dei Genitori. «Fu per me una delle non poche ragioni di ammirazione per Ada il fatto che non si fosse lasciata schiacciare dal suo passato», scrisse Bobbio. E d’altra parte lei, prendendo congedo dal gallo Sebastiano, dice: «Ma la sua storia non è finita».

Corriere 24.4.19
L’enigma Stauffenberg
Germania Polemica sul congiurato a 75 anni dal 20 luglio 1944. Lo difende la nipote: fece una scelta morale
Dubbi sull’esecutore dell’attentato a Hitler: ex nazista, non fu mai democratico
dal nostro corrispondente
di Paolo Valentino


BERLINO Poche figure uniscono e rendono orgogliosi i tedeschi come quella di Claus Schenk Graf von Stauffenberg, l’eroe dell’Operazione Valchiria, il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Nella complessità della Vergangenheitsbewältigung, il superamento del passato nazista che assilla la Germania, Stauffenberg e i suoi congiurati sono quelli che con il loro sacrificio hanno riscattato l’onore nazionale, liberando almeno parzialmente i tedeschi dalla colpa collettiva.
La resistenza nazional-conservatrice contro il nazionalsocialismo diventa così la tragica testimonianza di un’altra e migliore Germania. «Il loro sangue — disse Theodor Heuss, il primo presidente della Repubblica federale tedesca — ha lavato la vergogna in cui Hitler aveva costretto noi tedeschi». Anche la letteratura ha celebrato il mito liberatorio e fondativo del 20 luglio: nel romanzo L’amico ritrovato di Fred Uhlman, il protagonista, l’ebreo Hans Schwarz, si riconcilia idealmente con Konradin von Hohenfels, l’amico d’infanzia tedesco diventato nazista, quando dopo la guerra apprende che è stato giustiziato per aver preso parte all’attentato di Rastenburg.
Sono passati 75 anni dalla bomba nella Tana del Lupo. Ma alla vigilia del giubileo, che la Germania si prepara a celebrare in grande stile, una nuova biografia di von Stauffenberg ne rivede criticamente la figura, contestando la sua opposizione al nazismo come ideologia e negando che abbia agito per ragioni di coscienza. Appena uscito in Germania per i tipi di Blessing, il libro di Thomas Karlauf ha scatenato reazioni molto polemiche, non ultima quella di Sophie von Bechtolsheim, storica ma anche nipote di Stauffenberg.
Non ci fu alcuna motivazione morale, secondo Karlauf, nel tentativo di colpo di Stato di cui Stauffenberg divenne la figura più rappresentativa insieme ai generali Henning von Tresckow e Ludwig Beck. Egli agì unicamente «sulla base di considerazioni politiche e militari». Convinti, dopo la sconfitta di Stalingrado che la guerra fosse ormai perduta, i congiurati volevano «preservare il popolo tedesco dalla barbarie satanica del bolscevismo», instaurando una dittatura militare e cercando di negoziare velocemente una «pace separata con le potenze occidentali». L’eliminazione di Hitler era la condizione imprescindibile per il successo del loro piano.
Ma nulla, secondo l’autore, Stauffenberg ha che fare con l’immagine di eroe della democrazia e difensore dei diritti umani, costruita dopo la guerra per «soddisfare il bisogno di legittimazione morale della giovane Repubblica federale». A sostegno della sua tesi, Karlauf cita un documento autografo di sei pagine, nel quale Stauffenberg spiega le ragioni dell’attentato, che l’ufficiale aveva addosso al momento del suo arresto e del quale esiste una sintesi (fin qui inedita) fatta dalla Gestapo: «Di tutti i possibili motivi, non c’è alcuna menzione dello sterminio degli ebrei, in quel momento in pieno svolgimento». Stauffenberg, così scrive lo storico, «non aveva alcuna idea della democrazia. La Repubblica di Weimar era per lui un luogo di discussioni inutili, inefficiente e lacerata dai partiti e dagli interessi particolari».
Ecco perché, sin dall’inizio, egli fu un sostenitore entusiasta del nazionalsocialismo: i suoi diari raccontano di un’adesione piena al regime e alle sue imprese di guerra, a cominciare dall’invasione della Polonia, «una terra triste e primitiva», nel 1939, a cui egli prese parte con la X armata. Ancora nel 1941, quando molti dei suoi colleghi dello Stato maggiore espressero seri dubbi sulla saggezza dell’attacco all’Unione Sovietica, Stauffenberg lodava il genio di Hitler, una «personalità superiore e dotata di grande forza di volontà». «Il padre di quest’uomo — scrisse in quei giorni a proposito del Führer — non era un piccolo cittadino. Il padre di quest’uomo è la guerra».
La conclusione di Karlauf, il quale riconosce comunque a Stauffenberg «un coraggio e una determinazione che meritano rispetto», è che egli, prima di imbarcarsi nella congiura del 20 luglio, «condivise in gran parte le idee e gli obiettivi del nazismo». E se è vero che già nell’estate del 1942 iniziò il suo percorso di straniamento dal regime, che lo avrebbe condotto alla determinazione di dover eliminare Hitler, la sua non divenne mai una «rivolta delle coscienze».
Contro questa nuova lettura insorge però Sophie Freifrau von Bechtolsheim, studiosa di storia e nipote di Stauffenberg, che in un lungo articolo su «Die Zeit» contesta a Karlauf metodologia, interpretazione delle fonti e un uso spregiudicato e selettivo delle citazioni. E soprattutto attacca la tesi di fondo dell’autore: «Uccidere un tiranno non può essere altro che un atto di coscienza». Von Bechtolsheim concede che le idee del suo avo non coincidano con quelle di un democratico odierno, ma questo non autorizza Karlauf a negare che i congiurati del 20 luglio agissero mossi da impulso morale. Quello dell’operazione Valchiria, secondo la storica, è un processo individuale e solitario, che porta ognuno dei protagonisti, tutti con retroterra culturali e idee di società affatto diverse, a una decisione comune. E comunque, aggiunge con una legittima punta di veleno, «il primo a negare che i congiurati agissero per ragioni di coscienza fu niente di meno che Hitler in persona, quando dopo il 20 luglio parlò di una “piccola cricca di ufficiali ambiziosi e incoscienti”». Questa, conclude von Bechtolsheim, non è una questione di famiglia: «Se non contestassimo le tesi di Karlauf, mineremmo l’eredità che il 20 luglio 1944 ci ha lasciato».

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