martedì 23 aprile 2019

il manifesto 23.4.19
Il mio ministro è uomo saggio…
di Ascanio Celestini


Il ministro dell’Interno del mio paese indossa la divisa. Non tutta insieme. Una giacca, un caschetto. Se la mette quando fa i comizi o le passeggiate tra la folla. Qualcuno per lui dice «preparate i telefonini».
Lui comunica attraverso la sua pagina Facebook. In quello spazio parla direttamente agli italiani e in molti lo seguono. Ha più di tre milioni e mezzo di follower. Un politico che comunica come il mio compagno di calcetto entra nella mia vita come se fosse un amico. In una foto che ha postato recentemente lo si vede con una t-shirt nera con su stampata una scritta a caratteri enormi: LA DIFESA È SEMPRE LEGITTIMA.
È un’altra delle sue tecniche di comunicazione. Si mette addosso una felpa o una maglietta con una scritta. Basta la foto. La scritta parla per lui. Quasi sempre è infilata sopra la camicia. Usata come una bandiera. Poi aggiunge tre righe di commento. Spesso c’è una faccina. Manda baci, saluti e chiede ai follower: «Che ne dite, amici?». Il giorno di Pasqua ha postato due immagini sbarazzine. In una si fa il selfie con un somaro: «Guardate chi ho incontrato!».
Nell’altra si ritrae con una montagna di polenta. Nelle stesse ore il suo responsabile della comunicazione ha postato una foto sorprendente per il giorno della Resurrezione di Cristo.
Il ministro dell’Interno del mio paese è ritratto con un’arma da guerra e poche righe: «Siamo armati e dotati di elmetto!». Undici anni fa Umberto Bossi minacciò di scatenare i suoi uomini. «Abbiamo 300 mila martiri – disse – i fucili sono sempre caldi».
In quel lontano aprile si chiuse il secondo governo Prodi, tornò Berlusconi e non scoppiò una guerra civile. Non credo che scoppi la prossima settimana. Ma in questi anni è cambiato il linguaggio, dei media e il nostro. Un linguaggio che non tutti sanno gestire e che per qualcuno può diventare un delicatissimo detonatore.
Poco più di un anno fa un italiano di 28 anni ha sparato a sei immigrati di origine sub-sahariana. È stato arrestato davanti al monumento dei caduti di Macerata mentre faceva il saluto romano e gridava «viva l’Italia» con il tricolore sulle spalle. Anche il ministro dell’Interno del mio paese ha condannato quell’azione. Il ministro è un uomo saggio e peserà ogni parola per il bene del mio paese.

La Stampa 23.4.19
Salvini: Italia a rischio attentato
“Migliaia di luoghi da proteggere”
Il ministro dell’Interno: leva obbligatoria negli Alpini. La Difesa boccia l’ipotesi
di Flavia Amabile


L’attentato in Sri Lanka? Per il ministro dell’Interno Matteo Salvini anche l’Italia è a rischio. Sorvolando su tutte le azioni di protezione attivate negli anni scorsi quando l’allarme terrorismo era molto alto in Europa, spiega: «Dobbiamo organizzarci perché in Italia non succeda. Le forze dell’ordine stanno controllando migliaia di punti che potrebbero essere a rischio e quindi contiamo su di loro, che sono tra le migliori del mondo. Finora, fortunatamente, noi non abbiamo avuto problemi o li abbiamo sventati prima che succedesse qualcosa».
Se nella simbologia cristiana la Pasqua è un periodo di pace, per il ministro Salvini sono stati due giorni di messaggi di guerra. Ha rilanciato l’ipotesi di reintrodurre la leva militare obbligatoria. «Magari nel corpo degli Alpini», ha sottolineato. Un’ ipotesi bocciata subito dalla Difesa, aumentando il numero di motivi di scontro tra Lega e Cinque Stelle. «Pensiamo al futuro non al passato», è la risposta fatta trapelare dal ministero di Via Venti Settembre.
Era proprio il giorno di Pasqua e il mondo cattolico era in lutto per gli attentati nelle chiese dello Sri Lanka costati la vita a centinaia di persone, quando Luca Morisi, “spin doctor” di Salvini pubblicava sui suoi social una foto del ministro armato di mitra. Sempre nello stesso post, sopra la foto, Morisi, aveva scritto: «Vi siete accorti che fanno di tutto per gettare fango sulla Lega? Si avvicinano le Europee e se ne inventeranno di ogni tipo per fermare il Capitano. Ma noi siamo armati e dotati di elmetto!». Parole che da due giorni stanno provocando accese polemiche. «Polemiche fondate sul nulla - ha risposto ieri Salvini - Stamani (ieri, ndr)hanno polemizzato anche sui peluche (un’altra foto postata dal ministro, ndr). Se la sinistra si attacca alle foto per polemizzare vuol dire che stiamo lavorando bene».
Secondo Salvini sta andando molto bene anche la sua politica sugli sbarchi. «Il dato aggiornato a questa mattina - spiega - è di una riduzione del 91 per cento in un anno. Abbiamo dimostrato che volere è potere: in Italia si arriva con il permesso». La tendenza era già in corso da un anno. Rispetto al 2017, nel 2018 c’è stata una riduzione degli sbarchi di oltre l’80 per cento. Risulta ancora molto bassa invece la quota di rimpatri. Nel 2018 sono stati circa 5mila, 1500 in meno rispetto al 2017. Nel 2019 si sta avanzando a una media di 18 rimpatri al giorno. Andando avanti di questo passo, per completare l’opera di rimpatrio dei cinquecentomila irregolari presenti in Italia servirebbero più di 70 anni.

Corriere 23.4.19
Foto con il mitra
Sotto accusa lo spin doctor del leader. Ma lui lo difende
I fedelissimi del vicepremier: questa fase è irrazionale, può diventare imprevedibile
I leghisti: no a norme pro Raggi nel Consiglio dei ministri di oggi
di Marco Cremonesi


ROMA «La situazione è tanto irrazionale da diventare imprevedibile... ». Così riflette un leghista di massimo rango in vista del Consiglio dei ministri di oggi. Matteo Salvini, con i figli a Pinzolo, la mette in modo diverso ma neanche troppo: le risse nel governo «sono come le liti fra moglie e marito: per governare bene bisogna volerlo in due». Insomma: il leader leghista ha smesso di essere convinto delle intenzioni dell’alleato. I leghisti non si spiegano le bordate quotidiane dei 5 stelle. L’ipotesi che circola è che «si aspettassero molto di più dal reddito di cittadinanza: a suo tempo ci parlavano di una crescita dei consensi del 6%». Così non è stato, «e allora la guerra personale a Salvini dovrebbe compensare la cedola magra».
Risultato: nessuno sa come finirà questa sera a Palazzo Chigi lo scontro rusticano sul decreto Crescita. In un quadro che il leghista sintetizza così: «Su Alitalia, Luigi Di Maio si tiene tutto in mano e non sappiamo che cosa c’è dentro. Sui truffati dalle banche va forse un po’ meglio ma sul Salva Roma è peggio che andar di notte: per quanto ci risulta, il provvedimento nel decreto non ci dovrebbe essere».
Va detto che la gestazione del decreto Crescita già è stata impervia. Approvato lo scorso 4 aprile «salvo intese» questa sera alle 18 (annunciato un ritardo di Matteo Salvini) torna sul tavolo del governo senza che le «intese» mancanti tre settimane fa siano state raggiunte. In compenso, la mitraglieria tra i due partiti, non ha taciuto un solo giorno. Come dire: politicamente la questione è messa assai peggio che all’inizio del mese.
La miccia che potrebbe innescare la detonazione del governo è appunto il Salva Roma, che i leghisti — in una nota serale — hanno già ribattezzato Salva Raggi. Ieri Salvini ha ribadito che il provvedimento per abbattere il debito della Capitale, così come è, resta indigeribile: «Non ci sono Comuni di serie A e Comuni di serie B. Se in tanti hanno problemi, aiutiamo tutti quelli che hanno i problemi». La traduzione, secondo i leghisti, è semplice: il provvedimento va rivisto in maniera tanto significativa da non poter essere portato in Consiglio dei ministri questa sera.
Di fatto, in molti nel partito già da sabato davano per scontato che il Salva Roma oggi non sarebbe stato sul tavolo. Perché, dicono i salviniani, «questa norma, a partire dal nome, sulla gente ha un impatto, tutti si chiedono “perché Roma sì e gli altri no?”».
Resta il fatto che lo stato di salute dell’alleanza gialloverde è «ormai insostenibile». Anche perché, prosegue il leghista, «se una vicenda dal piano politico passa a quello personale, è molto difficile che torni al politico». Un riferimento al logoramento del rapporto di fiducia tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio dopo la richiesta di dimissioni per il sottosegretario Armando Siri senza averne discusso con l’alleato. Nel bollettino di guerra di ieri c’è la nuova mitragliata del vicecapogruppo al Senato, Primo Di Nicola, che chiede al premier Giuseppe Conte di «pretendere» le dimissioni di Siri, le «fonti della Difesa» che bocciano la proposta di Matteo Salvini sulla leva, le offensive parole del capogruppo in Campidoglio Giuliano Pacetti («Salvini con i numeri ha difficoltà a capire, eppure gli è stato spiegato bene»).
Ma nella Lega c’è anche chi la vede in modo opposto: «Il governo fa tutto, maggioranza e opposizione, e va benissimo: i sondaggi danno noi al 37% e loro in crescita, davanti al Pd. Insomma, sfioriamo il 60% mentre Zingaretti non tocca palla. Mentre le Europee segneranno la fine di Forza Italia». Per il leghista, «si sta anche ragionando sul fatto che se anche i conti non andassero benissimo, potremmo chiedere a un’Europa più amica di far slittare in avanti l’entrata in vigore delle clausole di salvaguardia e la necessità di trovare le risorse per evitare l’aumento dell’Iva». E dunque, a quando le elezioni? «Non prima di un anno». Ma chissà. Forse «la situazione è tanto irrazionale da diventare imprevedibile...».

Il Fatto 23.4.19
Strage di cristiani, allarme ignorato per dieci giorni
290 morti - Nella carneficina anche 500 feriti: gli 007 erano stati avvisati, inutilmente
di Roberta Zunini


L’isola più bella, il soprannome con cui Marco Polo definì lo Sri Lanka, è ancora scossa dopo la strage di Pasqua. A Colombo, la capitale dell’isola, dove nella mattina di domenica sono state fatte saltare in aria tre chiese e altrettanti hotel di lusso con un bilancio di 290 morti e 500 feriti, ieri è scoppiata un’altra bomba vicino alla chiesa di Sant’Antonio, durante un disinnesco. La polizia ha inoltre comunicato che 87 detonatori sono stati trovati presso la principale stazione degli autobus della città. Tra le vittime anche una cingalese di 55 anni, Haysinth Rupasingha, che lavorava come badante e abitava a Catania dagli anni Novanta. L’opposizione e i media si domandano come mai i servizi segreti non siano stati in grado di prevenire il massacro di cristiani cingalesi e turisti che, secondo fonti del governo, sarebbe stato provocato da sette kamikaze appartenenti a una organizzazione jihadista islamica locale semi sconosciuta, National Thawheed Jama’ut, finora accusata “solo” di azioni vandaliche contro statue cristiane. Anche alcuni ministri del governo cingalese hanno sottolineato i fallimenti dell’intelligence.
Dopo l’ennesimo attacco, le autorità di Colombo hanno deciso di proclamare lo stato di emergenza.
La legge di emergenza conferisce alla polizia e ai militari ampi poteri di fermare e interrogare i sospetti senza l’ordine del tribunale. Alle 8 di sera di ieri è scattato anche il coprifuoco. Lo Sri Lanka ha ventuno milioni di abitanti, la maggior parte è di religione buddista, mentre il 10% è induista, un altro 10% cristiano, mentre i musulmani sarebbero intorno al 7%. Questi ultimi non hanno mai rivendicato, al contrario delle tigri Tamil induiste, alcuna indipendenza. I cristiani sono sempre stati accettati anche se negli ultimi anni il movimento nazionalista buddista (legato a quello birmano) ha subito intimidazioni.
Nelle ultime ore gli investigatori hanno ribadito che sette attentatori suicidi hanno preso parte agli attacchi e un portavoce del governo ha aggiunto che è coinvolta una rete internazionale. Secondo l’agenzia Reuters, che sostiene di aver visionato il documento, le forze dell’ordine avevano ricevuto una nota su un possibile attacco contro luoghi di culto cristiani da parte di un gruppo islamico locale quasi due settimane fa. Il rapporto della polizia, datato 11 aprile, rivelava che un’agenzia straniera aveva avvertito le autorità di possibili attacchi alle chiese da parte del leader del gruppo National Thawheed Jama’ut. Le domande sul perché il rapporto non ha fatto scattare misure opportune potrebbe alimentare una faida tra il primo ministro Ranil Wickremesinghe e il presidente Maithripala Sirisena. Gli arresti sono saliti a 24 ma non sono stati rivelati i nomi dei fermati. È certo però che si tratti di cittadini dell’isola. Numerosi esperti internazionali anti-terrorismo hanno detto che è molto probabile ci sia un coinvolgimento dell’Isis o di al-Qaeda, dato il livello di sofisticazione. Il presidente Sirisena, ha fatto rilasciare una dichiarazione in cui si comunica che il governo cerca assistenza straniera per tracciare i collegamenti oltreoceano.
Per ora le ricostruzioni degli inquirenti sostengono che due dei kamikaze si sono fatti esplodere nel lussuoso hotel Shangri-La uccidendo alcuni dei 36 stranieri vittime degli attentati. Tra questi ci sono tre dei quattro figli di Anders Holch Povlsen, l’uomo più ricco della Danimarca. Gli attentati negli hotel sono avvenuti durante l’ora della colazione, quando i turisti erano quasi tutti ancora all’interno della struttura. Il corrispondente del quotidiano El Mundo, dopo aver sentito alcuni testimoni rimasti feriti, ha scritto che uno degli attentatori suicidi dell’hotel Cinnamon “si è messo in coda per la colazione speciale di Pasqua, ha aspettato il suo turno con il piatto in mano fino al momento di essere servito e solo allora ha fatto detonare l’esplosivo”. I terroristi, scrive il giornale spagnolo, avevano preso camere negli alberghi obiettivo degli attentati e sembra che la strategia sia stata la stessa anche negli altri alberghi. Nelle chiese a trovare la morte sono stati soprattutto i cristiani dell’isola.

Il Fatto 23.4.19
Il ministro con il mitra adesso rivuole la naja. Trenta: “Impossibile”


“Si avvicinanole Europee e se ne inventeranno di ogni tipo per fermare il Capitano. Ma noi siamo armati e dotati di elmetto!”. Parola di Luca Morisi, alias il responsabile della comunicazione di Matteo Salvini, che nel giorno di Pasqua pubblica sul suo profilo social una foto che lo ritrae in compagnia del vicepremier. Il quale imbraccia un mitra. Inevitabili le polemiche di chi ha visto nell’immagine un incitamento alla violenza: “Un messaggio eloquente e agghiacciante”, dice lo scrittore Roberto Saviano. Silenzio da parte di Salvini, che non si è espresso sulla questione ma ha lanciato una nuova provocazione ieri, rilanciando l’idea della leva obbligatoria. In un comizio nel comune trentino di Pinzolo, il leader del Carroccio ha infatti dichiarato: “Da settembre l’educazione civica diventerà materia obbligatoria nelle scuole e dovremo anche reintrodurre il servizio militare obbligatorio, magari nel Corpo degli Alpini”. Ipotesi, quest’ultima, bocciata dalla ministra della Difesa, Trenta: “Impossibile”.

La Stampa 23.4.19
Libia, centomila migranti pronti a sbarcare in Italia
L’allarme nelle comunicazioni fra Roma e Washington in caso di guerra civile
Il governo Conte potrebbe affrontare l’emergenza umanitaria prima delle elezioni europee.
di Paolo Mastrolilli


Arriva a circa 100mila, il numero complessivo dei migranti posizionati lungo tutta la costa libica, che sarebbero pronti ad imbarcarsi per l’Italia appena dovessero ricevere il segnale di farlo. Se l’offensiva lanciata dal generale Haftar contro Tripoli si trasformasse in una guerra riconosciuta ufficialmente come tale dall’Onu, lo status legale di queste persone cambierebbe, e per il governo italiano diventerebbe impossibile rifiutare di aiutarle. Uno scenario molto preoccupante per l’esecutivo gialloverde, in particolare perché questo esodo potrebbe corrispondere proprio con la fase finale della campagna elettorale per il voto europeo di fine maggio. In questa luce, acquista ancora più importanza la seconda telefonata avvenuta ieri tra il presidente americano Trump e il premier Conte:«Ho parlato con il premier italiano riguardo all’immigrazione, agli scambi commerciali, le tasse e le economie dei nostri rispettivi paesi» ha twittato The Donald.
Durante un’intervista con il Corriere della Sera, il premier Sarraj ha detto che circa 800.000 persone potrebbero invadere le nostre coste, tra cui anche criminali e jihadisti. Forse il suo obiettivo era spaventare, per attirare l’attenzione sulla crisi e ricevere aiuto, ma i rapporti di intelligence parlerebbero di almeno 6.000 profughi pronti a partire. La stima complessiva più realistica, effettuata sul campo, dice invece che lungo l’intera costa libica ci sono circa centomila esseri umani praticamente con i piedi nell’acqua. Alcuni si qualificano come rifugiati, e altri come migranti, mentre al numero complessivo andrebbero aggiunti anche i cittadini libici, come ha avvertito l’Alto commissario Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, che nel caso dell’esplosione di una vera guerra civile a tutto campo potrebbero iniziare anche loro a cercare rifugio lontano dal proprio paese. Sul piano legale la materia è regolata dalla Convention Relating to the Status of Refugees del 1951, che garantiva lo status si rifugiati alle persone che hanno fondati motivi di essere perseguitati «a causa della razza, la religione, la nazionalità, l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica». Questo testo poi era stato ampliato nel 1967 dal Protocol Relating to the Status of Refugees, mentre nel 1984 la Cartagena Declaration aveva stabilito che lo status andava esteso alle «persone che sono fuggite dal proprio paese perché le loro vite, la sicurezza o la libertà sono state minacciate dalla violenza generalizzata, l’aggressione straniera, i conflitti interni, massicce violazioni dei diritti umani, o altre circostanze che hanno seriamente disturbato l’ordine pubblico». Il testo di Cartagena non è vincolante come gli altri, ma davanti alla fuga di massa da una guerra civile ufficialmente riconosciuta dall’Onu, per Roma diventerebbe giuridicamente molto difficile, e moralmente impossibile, tenere chiusi i porti e negare assistenza.
La stima delle centomila persone pronte a partire è riservata, ma realistica, e quindi tiene in grande apprensione il governo. Già durante il precedente esecutivo Renzi, gli sbarchi erano molto diminuiti per gli accordi con le milizie libiche, gli acquisti delle imbarcazioni usate per i trasporti, ma anche perché il ministero dell’Interno si mobilitava ogni mattina prima dell’alba per capire attraverso le previsioni del tempo dove sarebbero avvenute le partenze, e quindi aiutare le autorità locali ad intercettarle. Questa attività è proseguita, e con Salvini si è aggiunta la determinazione a tenere chiusi i porti e osteggiare le attività delle ong. Tutto ciò però difficilmente resisterebbe all’urto di centomila persone in fuga da una vera guerra, con le immagini e le storie delle vite minacciate o perdute. Questo scenario, alla vigilia del voto europeo, accresce ancora di più l’attenzione dell’Italia per quanto sta avvenendo tra Haftar e Sarraj, a cui la settimana scorsa si è aggiunta la telefonata dal presidente Trump al generale, avvenuta due giorni prima di quella col premier Conte. Ieri i due si sono risentiti, per chiarire la strategia e il senso del riconoscimento offerto dal capo della Casa Bianca ad Haftar. Sul piano tattico il generale si è esposto, allungando troppo le retrovie, ma dall’esito della sua sfida dipende ora anche il destino dei migranti con i piedi nell’acqua.

Il Fatto 23.4.19
Libia, l’intervento Nato che bombardò la ragione
Guerre umanitarie - Nel 2011 l’Alleanza atlantica ribaltò il conflitto con il pretesto dell’emergenza. Da allora si contano 10 mila morti
di Pino Arlacchi


L’attacco alla Libia del 2011 è forse il più lampante esempio dell’inganno che si nasconde dietro gli interventi umanitari e di promozione della democrazia intrapresi di recente e progettati per il futuro.
Come nel Kosovo 12 anni prima, i bombardamenti Nato in Libia furono giustificati con l’urgenza di impedire uno sterminio di innocenti. Secondo l’allarme lanciato dai media e dai governi europei le truppe di Gheddafi stavano per compiere un bagno di sangue a Bengasi, l’ultima roccaforte dei ribelli antigovernativi ispirati dalla Primavera araba. L’intervento militare fu rapidamente autorizzato dal Consiglio di Sicurezza.
Il suo scopo doveva essere quello di salvare le vite di migliaia di dimostranti per la democrazia dalla brutalità delle forze armate di Gheddafi, composte in larga parte da mercenari di pelle scura che si erano macchiati di stupri di massa. L’aviazione del regime aveva usato elicotteri d’assalto e caccia da combattimento per falciare civili inermi, ed erano già perite migliaia di persone.
Due giorni dopo l’autorizzazione Onu del 17 marzo 2011, fu stabilita la no-fly zone e la Nato iniziò a bombardare. Grazie al martellamento aereo, e al sostegno logistico dei paesi europei, dopo solo sette mesi i ribelli avevano assunto il controllo della Libia ed eliminato fisicamente Gheddafi.
Il successo dell’operazione sembrava totale. Media e capi di governo europei – gli stessi che fino a pochi mesi prima si erano scambiati baci e abbracci con Gheddafi durante le sue suggestive visite di Stato – erano inebriati per esserselo tolto di mezzo.
Con l’operazione libica si era riusciti a difendere la Primavera araba, evitare un genocidio stile Srebrenica e creare le premesse di migliori rapporti tra Libia e Occidente.
Ma il verdetto si è rivelato prematuro. A un esame retrospettivo, l’intervento in Libia è stato un miserevole fallimento. Non solo la Libia non si è trasformata in una democrazia ma è diventata uno stato fallito.
Dal 2011 in poi abbiamo visto susseguirsi in quel paese una decina di primi ministri e governi, per non parlare dei due parlamenti e della frammentazione tribale. Dopo otto anni di caos e di tragedie, il paese più ricco dell’Africa, abitato da una popolazione ben istruita e ben nutrita, è divenuto una landa desolata e senza legge, nella quale scorrazzano bande di delinquenti e terroristi di ogni risma.
La giustificazione dei sostenitori dell’ingerenza armata è la solita: non c’erano altre strade percorribili. Non è vero. Anche questa volta, la migliore cosa da fare era non intervenire del tutto.
Le menzogne fabbricate per favorire la guerra contro la Libia sono state smentite dagli osservatori indipendenti presenti sul posto, che non hanno trovato alcuna traccia degli stupri di massa. Non si è trovato un solo mercenario al soldo di Gheddafi, e sia il segretario alla difesa Usa, Robert Gates, che il chairman del Joint Chief of staff, Michael Mullen, hanno testimoniato di non avere avuto alcuna conferma dell’esistenza di aerei di Gheddafi impiegati per fare strage di civili. Si sono potute confermare solo 110 vittime a Bengasi, distribuite tra le parti in lotta.
Dove sono finite, allora, le migliaia o le decine di migliaia di morti sbattuti in prima pagina dai giornali occidentali? Da nessuna parte, perché sono esistite solo nella fantasia dei cronisti e degli inviati embedded, cioè dei manovali dell’inganno.
In Libia orientale, si sono documentate solo 233 morti durante il primo giorno degli scontri, e non le 10 mila riportate dalla Tv saudita Al Arabya e citate poi dai media euroamericani. La pioggia di bombe lanciate dall’aviazione di Gheddafi all’inizio del 2011 su Bengasi e Tripoli, poi, fu inventata di sana pianta.
Nel mese precedente l’Intervento Nato le perdite totali in Libia, tra civili, soldati e ribelli, ammontavano a circa 1000 persone. Il numero così basso si deve al fatto che le forze governative si erano astenute dalla violenza indiscriminata, avevano assunto come bersaglio solo i maschi combattenti e si erano sforzate di risparmiare i civili.
D’accordo, si potrebbe dire. Ma si può negare che Gheddafi abbia minacciato il bagno di sangue se i ribelli di Bengasi non si fossero arresi?
Certo che si può negare, perché è l’esatto contrario di quanto avvenuto. Il 17 marzo Gheddafi si era impegnato a proteggere la popolazione civile di Bengasi e aveva offerto ai ribelli di lasciare loro aperta una via di ritirata in Egitto. Il suo impegno era credibile perché nelle settimane precedenti le sue forze avevano riacquistato il controllo di tutte le altre città libiche senza compiere massacri di civili.
Il genocidio degli abitanti di Bengasi fu pura propaganda, confezionata dagli espatriati anti-Gheddafi in Svizzera, e bevuta pari pari dai media nostrani smaniosi di sguazzare entro le emozioni forti della guerra e del sangue. Ma l’intervento Nato ribaltò le sorti dello scontro. E i combattimenti divennero più sanguinosi perché le milizie sostenute dalla Nato si abbandonarono ad atti di violenza incontrollata, e continuarono a usarla in ostilità reciproche che si prolungano a tutt’oggi. Poiché la stima corrente è di circa 11 mila vittime totali, e le perdite prima dell’attacco Nato erano di 1000 vite umane, quest’ultimo ha accresciuto di 11 volte il pedaggio pagato dai libici all’intervento dei “liberatori” occidentali.
Nonostante perfino Obama abbia riconosciuto che l’aggressione della Libia è stato un errore, ci sono ancora dei fan delle bombe umanitarie che sostengono che il non intervento avrebbe lasciato Gheddafi in sella peggiorando le cose.
Questi “esperti “ ignorano che era in corso una transizione, preparata da vari anni dal figlio di Gheddafi, Saif, strutturata intorno a una serie di riforme in direzione di libere elezioni, una nuova costituzione, e una serie di ammende rispetto ai traumi del recente passato.
Saif aveva convinto il padre a fare un’ammissione di colpa per il massacro nelle prigioni del 1966 e a risarcire le famiglie di centinaia di vittime. Tra il 2009 e il 2010 Saif aveva ottenuto il rilascio di quasi tutti i prigionieri politici della Libia e aveva creato un programma di deradicalizzazione per gli islamisti che gli esperti occidentali citavano come un modello. È ovviamente impossibile sapere se Saif avrebbe dimostrato la capacità di trasformare la Libia, ma egli sembrava deciso ad eliminare le più eclatanti storture del regime paterno.
Nel corso dei bombardamenti Nato, lo stesso Saif tentò di intavolare una trattativa con esponenti di governi i cui capi avevano mostrato grande amicizia verso il padre, ma fu catturato e imprigionato dalle milizie filo-Nato. Come in Iraq e nel Kosovo, quindi, anche in Libia la ragione dei bombardamenti è finita col coincidere con il bombardamento della ragione.

il manifesto 23.4.19
Fascismo: Emilio Gentile e Umberto Eco, letture e riletture per affrontare le nuove sfide
di Guido Caldiron


Per lo storico l'allarme sul possibile ritorno del fascismo rischia di distogliere l’attenzione generale «da altre minacce, queste veramente reali, che incombono sulla democrazia». Mentre per il compianto semiologo, esiste un «ur-fascismo, un fascismo eterno», definibile attraverso «una lista di caratteristiche tipiche» che vanno dallo «sfruttare la naturale paura della differenza trasformandola in razzismo», al tentativo di definire una «comunità nazionale» in virtù dei nemici che dovrebbe combattere, fino all’«ossessione del complotto»
nelle edicole

Il Fatto 23.4.19
Scalzone: “Il 25 aprile è a Torre Maura, non con l’Anpi”


“In piazze e cortei della ‘Nuova Anpi’ dove aleggiano gli Smuraglia non mi ritrovo neanche per fischiare o come presenza critica o contestatrice. Di Torre Maura o di impatti con i Cpr, veri lager in attesa di rinvii a quelli di Libia o di ‘accoglimento’ come carne da lavoro semi-schiava; oppure di necessità di gesti di azione diretta, di solidarietà concreta con occupazioni di case, fabbriche, tetti di capannoni ‘logistici’, e altro ancora, ne nascono ogni giorno. Ecco, lì è il nostro 25 aprile: campo di battaglia concreta e non di celebrazioni da museo, peggio che niente”, ha detto ieri Oreste Scalzone, leader storico degli anni ’70 e co-fondatore di Potere Operaio, all’Adnkronos a proposito del 25 aprile e il 74° anniversario della “Liberazione”.
“Ciò che dice Oreste Scalzone sono problemi suoi. Noi sappiamo che la nostra è una battaglia molto dura”, ha risposto Luigi Giannattasio, presidente dell’Anpi Salerno. “Nel frattempo ci troviamo in un’Italia in cui accadono sempre più episodi di fascismo e razzismo e tutto ciò va contrastato e in questo, molte volte, ci troviamo da soli”.

Il Fatto 23.4.19
Per i 130 anni dalla nascita di Hitler il concerto è negli spazi del Comune
Polemiche dopo l’evento nazirock di venerdì a Cerea. Il 25 aprile è pure vicino…
di Giuseppe Pietrobelli


“Coincidenze, sono solo le coincidenze che ognuno vuole vederci. La nostra festa di Primavera è caduta la sera del 19 aprile, non perchè il 20 aprile è la data di nascita di Hitler, ma perchè è il venerdì di Pasqua, il periodo ideale visto che dovevano arrivare ragazzi da tutta Europa. Non prendetevela con noi, ma con il Calendario Gregoriano”. Povero Giordano Caracino, portavoce e rappresentante legale del Veneto Fronte Skinheads: quando lui e i suoi ragazzi con la testa rasata organizzano qualcosa, si imbattono sempre in giornalisti maliziosi, politici che non dimenticano, partigiani ancorati alla festa del 25 Aprile che – un’altra coincidenza – cade a distanza di pochi giorni dal concerto che ha richiamato un migliaio di nostalgici nazisti e fascisti a Cerea, in provincia di Verona.
Nel capoluogo scaligero, un anno e mezzo fa, quando organizzarono un altro concerto in una discoteca alla vigilia di Natale, intitolandolo “X Mas”, dovettero dribblare l’ennesimo “equivoco”. Non suonavano in memoria della Flottiglia fascista comandata da Junio Valerio Borghese – spiegarono – era solo un omaggio all’Happy Christmas che, in tutto il mondo e in inglese, viene abbreviato con “Xmas”. Un’altra coincidenza.
Il Veneto Fronte Skinheads organizza i concerti di primavera dal 2004. Poco importa se qualcuno ha scambiato questo ultimo revival in una innocua festa della birra. A impressionare è il campionario dei complessi musicali e delle persone presenti venerdì scorso, quando ricorrevano i 130 anni dalla nascita del dittatore nazista, il 20 aprile del 1889. La musica è tutta ideologicamente orientata: hanno suonato il meglio del repertorio europeo dei difensori dell’identità cristiana, dei nemici giurati di globalismo, capitalismo, Banca Centrale Europea, guerra di liberazione e vittoria alleata del ’45. Leggere, per credere, l’elenco: i Katastrof sono una band “arian rock” friulana; i Gesta Bellica sono praticamente la colonna sonora del VFS; gli Squadron sono arrivati dall’Inghilterra; gli Slepnir dalla Germania; i Fortress dall’Australia; i Legion dalla Polonia; i Jolly Roger da Barcellona; gli Snofrid dalla Svezia.
A concedere lo spazio è stato il Comune di Cerea, in una capannone della fiera. Marco Franzoni, eletto con il centrodestra nel 2018, era noto come “il sindaco senza tessera”. Poi è stato illuminato sulla via di Matteo Salvini e di Luca Zaia: in pompa magna, con la benedizione di onorevoli e consiglieri regionali veneti, lo scorso dicembre ha preso la tessera della Lega. Spiegando: “Credo fermamente nel tricolore e nella Patria. Ora che la Lega ha spostato la sua battaglia federalista a un livello che non intacca l’unità dell’Italia, non c’è motivo per cui non debba farvi parte”. Ma qualcosa dovrà spiegare anche alle minoranze di centrosinistra, Pd in testa, che sono insorte e chiedono chiarimenti in Consiglio comunale.
Nel frattempo, a proposito di “coincidenze”, nel milanese è stato incendiato il monumento in memoria di Giulia Lombardi, staffetta partigiana ammazzata a 22 anni dai nazisti, nel 1944.

Repubblica 23.4.19
L’allarme
Raduni e concerti nel nome di Hitler l’onda neonazi sfida la Liberazione
Gli ultimi due eventi a Verona e Varese. Con migliaia di partecipanti. E nel silenzio delle istituzioni
di Paolo Berizzi


Milano Varese chiama, Verona risponde. Nel nome di Adolf Hitler. Di qua, a ovest, Varese Skinhead e Do.Ra. ( Comunità militante dei dodici raggi); di là, a est, nelle retrovie più buie della "Verona nera", i soldati politici del Veneto Fronte Skinhead. Sempre loro, quelli dei blitz squadristi anti-immigrati e della becera propaganda razziale. Varese e Verona: l’asse lombardo- veneto. Nazionalsocialista, revisionista. Festeggiano il genetliaco del Führer tra svastiche, saluti romani, slogan d’odio e fiumi di birra. Come se il compleanno del responsabile del più atroce genocidio nella storia dell’uomo fosse una data fausta per l’Italia. Risultato: in questi giorni — nel silenzio delle istituzioni — sta andando in scena il peggio. Raduni in onore di Hitler, concerti nazirock, parate dentro e fuori i cimiteri. In scia alle celebrazioni dell’anniversario della nascita dei Fasci italiani di combattimento: ovvero l’inizio del fascismo. Sconcertante per modalità e frequenza (ormai seriale), l’onda nera dei gruppi neonazisti monta con la sua schiuma di provocazioni alla vigilia del 25 aprile: la festa della Liberazione dell’Italia dal regime nazifascista.
Sabato 20 aprile. Il solito 20 aprile "loro". Cerea, 16mila abitanti nel Veronese. Tre giorni fa il paese si trasforma nel cuore dell’estrema destra europea. A sorpresa, o quasi. L’evento organizzato nei padiglioni del Comune chiamati Area Exp, il quartiere fieristico, a qualcuno all’inizio era sembrato una normale festa della birra. Invece no: è stata una kermesse a sfondo politico. Il concerto pasquale promosso dal Veneto Fronte Skinhead, un raduno a cui hanno partecipato oltre mille naziskin da tutta Europa. Sul palco, band come i veronesi Gesta Bellica, gli australiani Fortress, e i Katastrof Aryan Rock, già autori di un brano dedicato a Erich Priebke. La data di nascita di Hitler? « Una casualità » , dice Giordano Caracino, leader del Vfs. Il solito giochino, tra infingimento e ambiguità. Secondo Caracino la scelta della data è legata a motivi logistico- organizzativi («per chi viene da Paesi come Spagna, Germania, Russia, Slovacchia, Svezia, Inghilterra era la più comoda per spostarsi » ). E di Hitler dice « è una persona nata nell’800, siamo oltre tutto ciò, siamo per la difesa dell’Europa del popoli». Già. E contro i migranti, i gay, le minoranze, gli ebrei.
C’erano le teste rasate del Vfs schierate in parata il 23 marzo scorso al cimitero monumentale di Milano per ricordare i "martiri" fascisti nel centenario dei Fasci italiani di combattimento. Gli stessi che, a dicembre 2017, fanno irruzione a scopo intimidatorio nella sede di "Como senza frontiere", la rete di aiuto ai migranti: un blitz filmato (reso noto da Repubblica) che suscitò clamore e indignazione. Adesso la provocazione di Cerea. « È sconvolgente apprendere che l’evento promosso da associazioni sorvegliate per i loro contenuti antisemiti e razzisti sia stato tenuto nascosto alla cittadinanza — dice la consigliera pd Alessia Rossignoli — Il raduno è stato un’offesa alla memoria storica di chi ci ha liberato dai crimini nazifascisti, proprio alla vigilia del 25 aprile».
Sabato, in concomitanza con Cerea, a Varese i neonazisti di Varese Skinhead e i Do. Ra. davano vita, come da tradizione, al loro concerto nazirock. Di essere fan di Hitler i Dodici Raggi (dal simbolo della sede delle SS naziste) non lo hanno mai nascosto. Loro il genetliaco del Führer lo festeggiano ogni 20 aprile dal 2013, come sempre documentato da questo giornale. Sono proprio l’esibita ideologia, e la propaganda nostalgica, che faranno finire i Do. Ra. alla sbarra: la procura di Busto Arsizio ha chiesto il rinvio a giudizio per 52 imputati (chieste pene per quasi 600 anni, il reato portante è tentata ricostituzione del partito fascista). La storia dei Do. Ra. è una lunga serie di provocazioni: l’ultima il 23 marzo, quando i nazi varesini hanno tappezzato piazza Monte Grappa di striscioni e manifesti inneggianti ai Fasci di combattimento. Il " centenario" che ha visto schierati, in varie città, gli altri gruppi dell’estrema destra: da Lealtà Azione a Fortezza Europa, da CasaPound a Forza Nuova. Il 25 aprile è alle porte, e i gruppi neonazi si preparano alle loro manifestazioni revisioniste: i Do.Ra. — come denunciato da Osservatorio sulle nuove destre e Anpi — ricorderanno con il rito del " presente" i martiri fascisti sul piazzale del cimitero di Varese. « L’ennesimo sfregio alla memoria e alla storia», dice Gennaro Gatto dell’Osservatorio.
A Varese è stata appena creata una cabina di regia per chiedere alle istituzioni — magistratura, Parlamento, governo — lo scioglimento delle formazioni neonaziste ( anche i Blood & Honour). La legge Mancino lo consente, lo hanno confermato costituzionalisti e politici. « Forse manca la volontà — attaccano Laura Boldrini e Nicola Fratoianni — In questo clima di odio c’è chi coccola e protegge i gruppi neofascisti e neonazisti. Adesso è ora di dire basta. Basta tollerare chi vuole resuscitare i fantasmi del passato e le macerie della peggiore storia».

Repubblica 23.4.19
Così il suo no rilancia la Resistenza
Il boomerang di Salvini che riduce a un derby la festa del 25 aprile
di Gad Lerner


Annoiato da quel derby e per una volta critico nei confronti degli ultràs, spedisce la palla in tribuna annunciando che il 25 aprile lui inaugurerà un commissariato di polizia a Corleone. Anche gli altri ministri della Lega, prossimo partito di maggioranza relativa, seguono il suo esempio: diserteranno a loro volta le celebrazioni.
Vale la pena di soffermarsi sulla compiaciuta grossolanità di questa sintesi storica — "il derby fascisti-comunisti" — con cui Salvini pensa di asfaltare "paroloni" come Resistenza, antifascismo, lotta partigiana, Liberazione nazionale, guerra civile. Essa corrisponde, certo, all’esigenza di divertire il suo pubblico. Da ventriloquo del Buonsenso popolare, enfatizza la contrapposizione rispetto ad avversari descritti sempre come noiosi, invidiosi, anzi "rosiconi" e bisognosi del Maalox. Ecco un’altra parola-chiave di cui si nutre lo sberleffo salviniano: le compresse contro il bruciore di stomaco, il Maalox versione edulcorata dell’olio di ricino somministrato agli antifascisti perché se la facessero addosso, ora destinate ai "simpaticoni della sinistra".
Si tratta della medesima ilarità corporale con cui l’estate scorsa vennero occultate le cicatrici dei migranti sequestrati sulla nave Diciotti («belli, robusti, palestrati e vaccinati») o si attribuirono «unghie smaltate» alla naufraga Josefa. Un meccanismo di degradazione delle vittime necessario a giustificare l’indifferenza per la loro sorte.
Ma c’è di più nel caso del 25 aprile ridotto a impiccio fastidioso, festività da abolire, perché «quella data è diventata un appuntamento ideologico», come sostenuto dal leghista candidato sindaco di Firenze. O come risulta dalle motivazioni con cui il sindaco di Trieste censurò pochi mesi or sono il manifesto di una mostra sulle leggi razziali: «Su questi temi non dobbiamo accendere il fuoco. Il ‘900 va rispettato, dobbiamo tutti metterci sull’attenti e chiedere scusa, da una parte e dall’altra». Chiedere scusa da una parte e dall’altra per le leggi razziali: ecco il Buonsenso codardo di un paese che fascista lo è già stato, e non se ne è mai dispiaciuto troppo.
Pari e patta. Nello spirito del derby di Salvini la storia patria diventa una cattiva consigliera; meglio non rivangare il passato e, se proprio bisogna, riferirsi genericamente a «i drammi storici di settant’anni fa» (sic, data sbagliata). Ridotti a fazioni superate «partigiani e contro-partigiani», ne consegue che non vi sarebbero più testimoni affidabili. «Basta Anpi nelle scuole», recitava infatti lo striscione appeso nei giorni scorsi dal Blocco studentesco davanti al liceo Severi di Milano.
Torneremo sul ruolo cruciale che l’associazionismo partigiano sta riprendendosi nel vuoto politico della smemorata Italia contemporanea. Ma prima vale la pena di rivedere la fotografia scattata in piazza del Popolo il 28 febbraio 2015, dove un militante leghista (usava ancora il fazzoletto verde) issa il cartello col ritratto di Mussolini e la scritta: "Salvini, ti aspettavo!". Sarà piaciuta al diretto interessato?
Il vitalismo compulsivo di Salvini, la sua tendenza a impersonare da icona pop i movimenti passionali d’inimicizia, lo sospingono a una relazione ambivalente con il passato, intessuta di "dico e non dico". Come ogni homo novus egli si propone custode delle tradizioni ma al tempo stesso dissacratore e rivoluzionario. Ai movimenti neofascisti che lo sostengono ha promesso l’abrogazione della legge Mancino, in nome della libertà d’opinione. Ne ha clonato gli slogan, la postura, le divise. Con i trucchi dei ventriloqui emette sarcastici richiami alla figura di Benito Mussolini («il figlio del secolo», per dirla con Scurati) e come lui potrebbe dire: «Cerco il polso della folla e sono sicuro che il mio pubblico ci sia». Tutto questo è vero, ma, dichiarandosi figlio di un secolo nuovo, al tempo stesso Salvini irride sistematicamente chiunque denunci i sintomi di un ritorno di fiamma del fascismo in Italia.
Anche per questo gli viene comodo etichettare il 25 aprile come derby: per sostenere che se viviamo un revival fascista, la colpa sarebbe degli eccessi di un antifascismo di maniera. Meglio minimizzare, ridimensionare il fascismo contemporaneo a innocua tradizione, folklore.
Non fate i tromboni, si scherza.
In effetti se l’antifascismo viene ridotto a tradizione, calcificato in quanto ideologia d’altri tempi, anacronistica e obsoleta, allora perché non retrocederlo al ruolo di sfidante in un derby minore?
Tutto ciò funzionerebbe se davvero, grazie alle elezioni del 2018, il presente italiano fosse una pagina bianca; la nuova era in cui la presenza del 25 aprile risulterebbe superflua, ingombrante.
Carlo Ginzburg, che per autorevolezza di studioso e vicissitudini familiari sul fascismo ha molto da insegnare, suggerisce un altro modo di guardare il presente, per cercare di capirlo. Dice che dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco, o se si vuole a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Ecco laggiù Trump a capo di una democrazia statunitense che già in passato fu schiavista; ecco il brasiliano Bolsonaro che si fa fotografare col mitra in mano durante la campagna elettorale (vi ricorda qualcuno?); ecco Orbàn teorizzare la democrazia illiberale ungherese… Ne consegue, secondo Ginzburg, che «il fascismo ha un futuro»; e che si può incarnare in nuove forme, non rifuggendo paradossalmente le antiche.
Chi per istinto ha avvertito prima degli altri la metafisica del fascismo che circola sotto forma di razzismo, maschilismo, militarismo nel nostro tempo contemporaneo, sono stati i sopravvissuti della Shoah e i partigiani ancora viventi. Alla senatrice a vita Liliana Segre solo pochi gaglioffi osano mancare di rispetto. Ma mi permetto di suggerire a Matteo Salvini di usare prudenza, nei suoi sfottò, anche riguardo all’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Mettersi contro l’Anpi non porta mai bene, altri se ne sono già accorti.
L’inedito protagonismo politico toccato in sorte a questa associazione, e il fastidio che a quanto pare esso suscita, sono anch’essi un segno dei tempi. A quei vecchietti e a quelle vecchiette, l’estrema destra chiede di levarsi dai piedi, finalmente. Contro i giovani che prendono la tessera dell’Anpi per tramandarne la testimonianza, serpeggia l’insinuazione che sarebbero degli abusivi della storia. Tali attacchi stanno ottenendo il risultato contrario: di fronte al dirompente rovesciamento degli equilibri politici, culturali e linguistici verificatosi nel corso del 2018, la scelta partigiana ha riacquistato un’attualità evidente, così come la parola Resistenza.
Fu un incidente fatale del renzismo di governo, ignaro di toccare un nervo vitale della comunità democratica, quando Maria Elena Boschi nel 2016 polemizzò con l’Anpi sostenendo che «i partigiani veri» avrebbero votato Sì al referendum costituzionale.
In quei giorni fui chiamato a moderare sul palco della festa dell’Unità di Bologna, di fronte a quattromila persone, una sfida tra l’allora presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, 93 anni, e l’allora segretario del Pd, Matteo Renzi, 41 anni.
Smuraglia era arrivato da solo a piedi, con la sua cartella degli appunti. Durante l’incontro, lungo ed estenuante, parve cancellarsi per miracolo ogni differenza d’età. Alla fine pensavo di dover offrire la premura di un braccio di sostegno a quell’anziano signore che subito lo allontanò rassicurandomi: «Andiamo, ora semmai ci vuole proprio un whisky».
Buon 25 aprile a tutti. Anche a quelli che oggi faticano a comprendere perché ci è tanto necessario.

Il Fatto 23.4.19
La memoria di Kiev nella fossa dei 30 mila liquidati dalle SS
di Stefano Citati


La battuta potrebbe essere: “Come se Woody Allen fosse diventato presidente”. Negli attuali tempi farseschi dei comici leader politici, Volodymyr Zelensky sorge dalle pieghe della Storia d’Europa amara e violenta, intrisa anche dello spirito ebraico. La risata beffarda che conquista Kiev esce fuori dalla terra culla dell’hassidismo, il movimento dell’ebraismo ortodosso che nel XVIII secolo ha conformato la cultura yiddish propagatasi in Europa e poi in America con le migrazioni dai ghetti.
“Lì giacciono i miei trentamila ebrei”, rispose sorridendo con un ampio gesto del braccio Paul Blobel all’ospite che gli chiedeva cosa fossero quel ribollire della terra e l’accendersi di fuochi fatui mentre la limousine nazista si recava nella dacia del generale delle SS di Kiev. Era la gola di Babi Yar, quartiere periferico di Kiev nel 1942, quando la città ucraina era caduta nelle mani delle truppe di Hitler che sfondavano le linee sovietiche, obiettivo Mosca.
Nel libro-documento pubblicato di recente da Adelphi, Babi Yar, Anatolij Kuznecov raccolse le memorie di bambino, l’arrivo dei tedeschi, osannati dal nonno anti-sovietico (l’opera, scritta negli anni ’60, fu sempre censurata in Urss) il pane e il sale offerto agli “invasori-liberatori” e poi l’eccidio nella fossa dove scorreva il ruscello nel quale gli abitanti del quartiere prendevano l’acqua.
Era fine settembre, era il 1941, i nazisti erano arrivati da una decina di giorni: radunarono gli ebrei rimasti in città (60 mila sui 160 mila della comunità) e ne uccisero 33.771 in un’unica soluzione, a colpi di mitraglia. Altre decine di migliaia se ne aggiunsero, così da far ribollire la terra per un anno, mentre in tutta l’Ucraina 1,5 milioni di ebrei venivano “liquidati”.
Chissà se decenni dopo una risata presidenziale dissotterrerà la memoria ebraica di Kiev.

Il Fatto 23.4.19
“La pace è stata una promessa mancata: ora New Ira arruola”
Dieter Reinisch - “Il Nord Irlanda resta uno dei posti più poveri d’Europa, l’hard Brexit darà pretesto a nuove violenze”
di Sabrina Provenzani


Un video pubblicato dalla polizia nordirlandese sul suo account Twitter mostra una persona con il passamontagna che sbuca da un angolo, spara sulla folla e poi sparisce. Sono stati questi gli ultimi istanti di Lyra McKee, la giornalista uccisa a Derry tre giorni fa . Due ragazzi di 18 e 19 anni sono stati arrestati. Dieter Reinisch è uno dei maggiori esperti di gruppi radicali repubblicani irlandesi e ieri era alla commemorazione di Pasqua del Republican Network for Unity, nell’enclave repubblicana di Ardoyne Avenue a Nord Belfast
Qual è il contesto che ha portato alla morte di Lyra McKee?
Derry è da sempre una roccaforte repubblicana e in aree povere come Creggan o Bogside i repubblicani sono radicalizzati. La tensione era alta da mesi, con la polizia che entra in quei quartieri per continue perquisizioni. Quella di giovedì è stata una provocazione mirata a dare una prova di forza prima delle celebrazioni di Pasqua, che per i repubblicani sono l’occasione per contarsi. La polizia è entrata a Creggan con un numero eccessivo di mezzi e la gente ha reagito. Una perfetta pubblicità per la New Ira e il suo braccio politico Saoradh che in quei quartieri stanno con successo reclutando giovani e costruendo nuovo consenso. Dietro gli scontri c’era una regia esperta ed è chiaro che chi ha sparato obbediva a un ordine dall’alto. Ma la morte della giornalista è stato un tragico incidente che ha scioccato anche loro.
Perché?
Anche nei momenti più duri dei Troubles l’Ira ha cercato di attenersi alla regola di non colpire civili. A volte senza successo, come sappiamo. Ma tutti sono consapevoli che la lotta armata non va lontano senza il supporto della popolazione e la morte di Lyra ha creato rabbia e disgusto.
Come è organizzata la New Ira?
In modo molto simile alla Provisional IRA, fortemente gerarchico, con un direttivo militare e delle brigate locali. Abbiamo il sospetto che a Derry i numeri siano cosi alti che i battaglioni operativi sarebbero due. In totale la New Ira può contare su alcune decine di “soldati”. Molto più ampio il numero dei sostenitori, soprattutto nella Repubblica Irlandese. Dal sud vengono soldi, supporto logistico, organizzazione di campi di addestramento, protezione, case sicure, le auto usate per le azioni. Una rete di alcune centinaia di persone che mantengono un profilo molto basso.
E qual è il rapporto con Saoradh, il partito politico?
L’intelligence e la polizia nord-irlandese dicono che sono la stessa cosa. Sappiamo che ci sono delle sovrapposizioni, ma non direi che una organizzazione prenda ordini dall’altra. Di certo in Saoradh sono confluiti alcuni veterani della lotta armata che hanno abbandonato il Sinn Fein quando ha riconosciuto la polizia nel 2007. Per molti anni questi irriducibili non hanno avuto una rappresentanza politica, fino alla creazione di Saoradh nel 2016.
Saoradh sembra avere un consenso crescente in alcune aree. A cosa è dovuto?
Al fatto che le promesse del Good Friday agreement non sono state mantenute. L’Irlanda del Nord è ancora una delle regioni più povere dell’Europa occidentale, la disoccupazione anche giovanile è altissima, l’economia arretrata. Non c’è un governo da due anni perché i due partiti principali, Sinn Fein e Dup, non superano le loro divergenze. E cresce la consapevolezza che il processo di pace sia sostanzialmente fallito: ha fermato la guerra, ma la violenza a bassa intensità non si è mai arrestata. Al contrario, le divisioni sono state istituzionalizzate. Nel 1994 a Belfast le barriere fisiche fra comunità repubblicane e unioniste erano una ventina. Adesso sono oltre 80.
La violenza può tornare?
Di certo non sulla scala dei Troubles, ma se ci dovesse essere una hard Brexit la New Ira di certo ne approfitterebbe.

Corriere 23.4.19
Sudafrica L’anniversario
Quel grido, 25 anni fa «Addio all’apartheid»
Ora la nuova sfida dell’Anc è superare le denunce per corruzione
dal nostro inviato a Johannesburg Pier Luigi Vercesi


Sotto a uno delle migliaia di cartelli con scritto «jobs, not corruption» (lavoro, non corruzione), affissi a ogni angolo di strada sudafricana in questo periodo di campagna elettorale, due poliziotti (spero finti) mi spazzano dal portafogli 2.000 rand, circa 130 euro. Sono le 11 del mattino, il passante che cerco di coinvolgere chiedendogli se davvero sono poliziotti, risponde: «Certo, non vedi?». Capisco che è meglio lasciarsi truffare con il sorriso sulle labbra, per fortuna ho preso un biglietto di andata e ritorno da Johannesburg. Così sgommano via e posso gettare lo sguardo oltre i cancelli, sui Botha Lawns che annunciano gli Union Buildings di Pretoria. Splendido colpo d’occhio: la rigogliosa vegetazione africana, le jacarande blu sfiorite in quest’annuncio soleggiato d’autunno australe e, lassù, il Palazzo del governo. Verrebbe da dire che la sua forma a semicerchio abbraccia la città ma, fino a 25 anni fa esatti, era la morsa che stringeva il Paese nell’infamia dell’apartheid. Fu così che la notte stessa dell’insediamento di Nelson Mandela a presidente del Sudafrica immaginarono di disturbarne lo sguardo occhiuto impiantandovi un immenso Madiba benedicente.
Era il 10 maggio 1994, dal palazzo Mandela scese in mezzo alla gente danzando al ritmo degli African Jazz Pioneers. Più in basso, un fiume di giovani faceva il trenino dietro a una bara in palissandro con su scritto «Hamba kahle apartheid» (addio all’apartheid). Non c’è parola, in una delle nove lingue ufficiali autoctone parlate in Sudafrica, per tradurre quel neologismo politico apparso, per la prima volta, nel 1929 e assurto a regime dopo le elezioni del 1948. Ne avvertirono l’assurdità persino i discendenti degli olandesi sbarcati in questa punta estrema dell’Africa nel 1652: attribuirono l’origine del termine al francese «à part», giustificandolo come difesa della comunità afrikaner.
In quattro anni di libertà, il galeotto Nelson Mandela (lo era stato per 28 anni, dal 1962 al 1990) aveva compiuto il miracolo. Fu l’ultimo dei leader dell’African National Congress (Anc) a essere liberato. Prima negoziò, dalla sua cella di Victor Verster, nei pressi di Città del Capo, la scarcerazione di otto prigionieri politici e si assunse la responsabilità di dichiarare al mondo che il presidente Frederik De Klerk era un «galantuomo». Incontrò addirittura, per dare impulso alle trattative, il suo predecessore, Die Groot Krokodil, il Grande Coccodrillo Pieter Botha, acerrimo difensore del regime segregazionista.
In quell’ottobre 1989 crollava il Muro di Berlino e la notizia, in Occidente, passò inosservata, mentre in Africa le teste calde dell’Anc accusarono «il vecchio» di essersi bevuto il cervello. Ma il galeotto più famoso della Storia, festeggiato l’anno prima con un concerto allo stadio Wembley di Londra, aveva avuto trent’anni per studiare il nemico. L’isolamento del Sudafrica e il marxismo finito in soffitta rendevano la fine dell’apartheid ineluttabile; una devastante guerra civile, però, poteva prenderne il posto. Lo sapeva Mandela e lo sapeva De Klerk, che il 2 febbraio 1990 svelò in cosa consistesse quel «galantuomo» attribuitogli da Madiba: annunciò la revoca del bando per l’Anc e gli altri partiti. Curiosamente restò in prigione solo Mandela, entrato perfettamente nel ruolo del giocatore di scacchi in questa complicatissima partita. Avrebbero voluto rilasciarlo prima e portarlo a casa sua, a Soweto. Lui rifiutò, disse che sarebbe uscito di galera per ultimo e avrebbe varcato i cancelli con i suoi piedi, in una scenografia da film hollywoodiano destinata a rimanere impressa nelle coscienze. Non disse nulla nemmeno con i suoi, che avrebbero preferito disinnescare le trattative con De Klerk.
Sul terrazzo al primo piano del municipio di Città del Capo, davanti alla Grand Parade, dove ora, al calar del sole, smontano i banchetti di cianfrusaglie e gli homeless si apprestano a imbastire le cucce per la notte, un Mandela ad altezza naturale, il braccio alzato, parla ancora al Sudafrica, in un tripudio di fiori acquistati nel vicino mercato di Trafalgar. Sulla sinistra, come a Pretoria, domina l’altro simbolo, il più antico, dell’oppressione: il Castello di Buona Speranza, speranza buona per la Compagnia olandese delle Indie orientali che lì programmò la cacciata degli autoctoni. Mentre dai cancelli della prigione raggiungeva quel balcone, Mandela comprese che la partita sarebbe stata più difficile del previsto. Il tratto di strada da percorrere fu tortuoso, un presagio del viaggio che attendeva il Paese per giungere alla democrazia. La città era un focolaio pronto a divampare e l’autista deviò nel sobborgo di Rondebosch. Poco dopo lo raggiunse l’arcivescovo Desmond Tutu, angosciato: «Madiba, vieni subito in Municipio, altrimenti scoppia una sommossa». L’inviato del New Yorker annotò: «Mandela non somiglia al ritratto del pugile avanti con gli anni che circola. Uno sconosciuto alto e affascinante avanza a grandi passi nel mondo. Il suo viso è trasfigurato in tratti scultorei che ricordano le antiche relazioni tra gli xhosa e i khoi, e la sgraziata riga tra i capelli è scomparsa. Sospirano allo stesso modo top model e filosofi…».
La gente dice che poteva andare peggio: almeno Ramaphosa è ricco di suo e non dovrà rubare
Due settimane dopo, al King Park Stadium di Durban, Mandela venne sommerso dai fischi mentre esortava: «Prendete pistole, coltelli e panga (macete, ndr) e gettateli a mare!». Ma non si lasciò zittire e continuò a tessere la sua tela in mezzo alla tempesta. Allo stesso tempo l’estrema destra bianca creava incidenti per contrastare «l’arrendevolezza» di De Klerk. Il 10 aprile 1993, un immigrato polacco assassinò uno dei più popolari leader sudafricani, Chris Hani. La guerra civile fu scongiurata da una donna afrikaner che fornì informazioni per arrestare l’assassino e dalla tv di Stato che aprì i microfoni a Mandela. In quella terribile settimana, Botha, De Klerk e anche il capo di Stato Maggiore dell’Esercito compresero che, per evitare la catastrofe, il potere doveva passare all’Anc moderato di Mandela.
Madiba aveva al suo fianco un abile negoziatore. Cyril Ramaphosa si era fatto le ossa nel sindacato dei minatori. Fu lui a rivelare come Madiba superò l’ultima strettoia sul cammino che separava il Paese da una democrazia «sostenibile», vale a dire la diffidenza dei mercati finanziari. Il leader dell’Anc si presentò al World Economic Forum di Davos nel 1992. Sebbene l’avessero consigliato di smorzare la retorica sulla statalizzazione, parlò di pianificazioni. Dissero che fu Bill Clinton a fargli cambiare idea; in realtà fu il primo ministro cinese Li Peng a suggerirgli che le nazionalizzazioni erano un errore.
Ramaphosa, classe 1952, divenne il candidato di Mandela alla successione, ma il partito si oppose e l’ex sindacalista si consolò trasformandosi in imprenditore di successo fino a scalare la classifica degli uomini più ricchi del Sudafrica. Tornato in politica con la carica di vicepresidente, alle elezioni del prossimo 7 maggio dovrà far dimenticare le oltre 700 denunce per corruzione che pendono sul capo del predecessore Jacob Zuma. La gente a Johannesburg, a Città del Capo, a Pretoria dice che poteva andare peggio: Ramaphosa è ricco di suo e non dovrà rubare. In giro per il mondo, tale discorso si è già sentito diverse volte. Ma se beato è il Paese che non ha bisogno di eroi, ancor più beato è il Paese che non ha bisogno di essere amministrato da un miliardario.
Venne dunque il 27 aprile 1994 e portò le prime elezioni democratiche in Sudafrica. L’Anc prese il 62,6% dei suffragi e il 2 maggio De Klerk ammise la sconfitta. Quella sera il partito festeggiò la fine di un incubo nella sala da ballo del Carlton Hotel, che è ancora lì, nel centro di Johannesburg, con i suoi cinquanta piani a contendersi la fama di edificio più alto d’Africa. Madiba si era preparato, per il luogo, la conclusione del discorso: «Ora possiamo urlare, a gran voce dai tetti: finalmente liberi!».
Un fiume di giovani faceva il trenino dietro a una bara in palissandro
Il 9 maggio lo acclamarono presidente del Sudafrica e, prima di raggiungere Pretoria, tornò al balcone davanti alla Grand Parade. Al suo fianco, oltre all’arcivescovo Tutu, anche l’aguzzino di un tempo, il «galantuomo» De Klerk. Il resto è storia di ordinaria corruzione, penetrata ovunque nell’organizzazione dello Stato man mano che ci si allontanava dalle lotte per le conquiste democratiche. Mandela non volle essere ricandidato e rimase a vegliare sull’Anc fino alla sua morte (5 dicembre del 2013). Più volte tornò sull’argomento dando corpo alle sue paure: «Dopo la liberazione e l’insediamento di un governo democratico, gli antichi liberatori si spostano dalle foreste alle stanze del potere, e lì diventano intimi con i ricchi e i potenti».
Racconto al taxista che mi porta all’aeroporto di Johannesburg la mia disavventura di Pretoria. Lui non è convinto che i poliziotti fossero finti. Confessa: «Mi avessero raccontato, quand’ero ragazzo, il Sudafrica nel 2019, avrei fatto i salti di gioia; ma avrei dato un pugno sul naso a chi me l’avesse prospettato la sera in cui ballavo, nei giardini Pretoria, dietro alla bara di palissandro con il cadavere dell’apartheid».

La Stampa TuttoScienze 23.4.19
Un’eredità di neuroni
L’intelligenza è un processo ma c’è anche una base biologica che trasmette ogni madre
di Marco Pivato


Se scoprissimo che l’intelligenza non si impara ma si eredita, sarebbe il caos: basta ricordare come i totalitarismi strumentalizzarono e manipolarono il determinismo genetico. E come lo si faccia ancora oggi, a partire da premi Nobel del calibro di James Watson, scopritore del Dna, finito nella bufera per aver bollato le donne e le minoranze come intellettualmente inferiori.
È anche per via di questo timore che la scienza non ha mai esplicitamente indagato l’intelligenza come si fa con le altre espressioni della fisiologia e della biochimica umane, per esempio le malattie, in cui geni e marcatori biologici permettono di delineare strategie di prevenzione e di cure mirate. Ricorderete l’«outing» di Angelina Jolie, quando si sottopose a mastectomia dopo avere appreso da alcuni test genetici di avere geni che la predisponevano al cancro. Ma che mondo sarebbe se potessimo farci davvero il «ritocchino» all’intelletto, asportando i geni della pigrizia oppure quelli della stupidità?
Naturalmente non è così semplice, ma l’intelligenza è, in parte, determinata geneticamente e il ricercatore non dovrebbe mai tirarsi indietro di fronte all’opportunità di capire. È l’opinione di Pietro Pietrini, neuroscienziato e psichiatra, direttore della Scuola Imt Alti Studi di Lucca, ospite al Festival della Scienza Medica di Bologna, in programma dal 9 al 12 maggio. «Cosa sappiamo sulle basi genetiche e neurobiologiche dell’intelligenza umana e dei suoi usi» è il titolo dell’intervento, previsto sabato 11. «Noi sappiamo che i geni coinvolti sono migliaia e contano per il 50%, mentre l’ambiente fa il resto», anticipa Pietrini. Potrebbe sembrare un eccesso di meccanicismo, ma - come insegna la critica a Cartesio - non possiamo comunque prescindere dalla materia, quando parliamo dell’uomo: mente e corpo coesistono.
Il «trucco» metodologico
Se per individuare la predisposizione a una malattia o i geni responsabili di un tratto fisico ci basiamo su elementi biologici, come le proteine, cosa dovremmo «analizzare» per cercare l’intelligenza? Un test che ne stabilisca le basi genetiche (il dibattito è vivissimo, a partire da contribuiti su «Nature Review» come «The new genetics of intelligence» dei neuroscienziati Robert Plomin e Sophie von Stumm) deve saper separare il contributo innato da quello ambientale. Per farlo c’è un «trucco»: si impostano tecniche simili a quelle per valutare altre attitudini comportamentali come, per esempio, la predisposizione all’alcolismo. In questo caso si confrontano i figli biologici di alcolisti, che hanno vissuto con i propri genitori, con altri figli biologici di alcolisti che però, alla nascita, sono stati adottati da genitori senza problemi di alcol. Così, se si svilupperà la dipendenza negli individui del secondo gruppo, è possibile sostenere che questa non sia legata a modelli culturali «favorenti», ma ai geni.
Figli e genitori alcolisti
«In effetti figli biologici di alcolisti allevati da non alcolisti sviluppano la malattia con una frequenza inferiore a quella dei figli di genitori alcolisti allevati dagli stessi, ma superiore rispetto ai figli di genitori sani». Dunque, i comportamenti sono, in parte, «innati». C’è anche una letteratura che sostiene, addirittura, che sia la madre a contribuire in modo predominante all’intelligenza della prole. Lo si ipotizza perché esistono geni detti «condizionati», che si comportano in modo diverso, se si ereditano dalla madre o dal padre. I geni condizionati che si ereditano dalla madre sembrano essere responsabili del funzionamento della corteccia cerebrale, con cui esercitiamo le funzioni cognitive superiori come il pensiero astratto, il linguaggio, la pianificazione. In questa sede, invece, non si attiverebbero i geni ereditati per via paterna. Quindi il «tempio» dell’intelligenza sarebbe costruito da geni materni. «Un ragionamento comprensibile, ma difficile da dimostrare in modo incontrovertibile - secondo Pietrini - perché il legame del bambino con la madre è talmente vincolante che le attitudini cognitive potrebbero risultare fortemente influenzate dal rapporto con lei piuttosto che dai geni».
Definizioni variabili
Ma al di là del fatto se la corteccia cerebrale ce la «faccia» mamma o papà, l’obiezione più importante resta: com’è possibile affermare l’origine dell’intelligenza se non ne esiste una definizione univoca? Che cosa cercano gli scienziati? Secondo Pietrini, è giusto includere la capacità di risolvere problemi ma anche quella, meno tecnica eppure molto utile, di essere felici, che equivale - aggiunge - alla «capacità di proiettarci nel futuro». «Ci immaginiamo sempre chi saremo da grandi o che cosa faremo il mese prossimo e questo è naturale: sarebbe infatti difficile studiare, lavorare e pagare le tasse, se non ne vedessimo lo scopo. E infatti la mancanza di immaginare il futuro è il sintomo tipico di uno stato depressivo». Ecco perché la capacità di essere felici e l’intelligenza, in parte, coincidono.
Valutarla geneticamente, poi, significa anche sapere prescindere dai condizionamenti geografici e dall’istruzione, perché non siamo intelligenti se siamo nati a New York piuttosto che nelle steppe siberiane e intelligenza non equivale a erudizione: un ragazzo di 20 anni che abbia frequentato la scuola superiore ha nozioni incredibilmente più evolute di qualsiasi essere vivente vissuto fino a un paio di secoli prima. Se non fosse così, dovremmo concludere, per esempio, che Leonardo da Vinci fosse stupido. «Leonardo è considerato un genio, perché seppe vedere oltre gli schemi della sua epoca. Uno dei limiti dell’intelletto è proprio quello di ragionare in base alle convenzioni».
«Intelligenza», quindi, è anche essere in grado di «arrivare» alle idee prima degli altri. Ma è estremamente difficile, perché il contesto ci acceca. Basta pensare come è evoluta nel tempo l’idea stessa di cervello: «Ai tempi di Galeno, quando la maggiore tecnologia era rappresentata dall’acquedotto, le funzioni mentali erano attribuite ai liquidi che fluivano da una zona all’altra, mentre dai calcolatori in poi il cervello è diventato un “super-computer” e oggi si paragona il suo funzionamento alla rete di Internet». Prudenza, allora, a definirvi dotati di «intelligenza»: le sue forme sono davvero numerose.

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