domenica 21 aprile 2019

Repubblica 21.4.19
Emanuele Macaluso: “Non mi manca il Pci mi manca la sinistra”
Si avvicinò ai comunisti mentre era ricoverato in sanatorio. Di quel partito è stato fra i massimi dirigenti. Qui racconta la crisi ungherese, gli errori di Togliatti, il litigio fra Sciascia e Berlinguer. Poi Vittorini e Guttuso. E le tante donne di una vita
“Sento il vuoto delle persone dei gesti e delle intelligenze. Qualche giorno fa ho festeggiato i 95 anni. Ero lì e pensavo ai pochi della mia generazione rimasti, come Giorgio Napolitano. Non so se avrò il tempo di vedere un nuovo schieramento progressista
colloquio con Antonio Gnoli


Quasi trequarti di secolo trascorsi vivendo, pensando e ripensando il comunismo. Gran bella idea, gran bella condanna. Verrebbe da dire pensando a Emanuele Macaluso. Da un mese ha compiuto novantacinque anni, vive in un piccolo appartamento a Testaccio, un tempo considerata la zona più autentica di un certo modo di essere romani. Emanuele è nato a Caltanissetta, la città degli angeli e delle miniere di zolfo. Fu quel mondo a strapparlo dai sogni di adolescente e a spingerlo dentro alle grandi problematiche sociali: «Durante i mesi trascorsi in sanatorio conobbi il primo compagno. Fu lui a introdurmi al comunismo. A fare da tramite presentandomi a Calogero Boccadruti, uomo straordinario cui era affidata l’organizzazione della rete clandestina del partito: lì nel 1941 ebbi i primi contatti».
Parli di un periodo trascorso in sanatorio. Che cosa avevi?
«Mi avevano diagnosticato la tubercolosi. Me ne accorsi dopo una notte passata a tossire. La mattina seguente vidi il cuscino e il lenzuolo macchiati di sangue. Lo dissi ai miei fratelli e loro lo riferirono a nostro padre. Lui chiamò un medico che mi fece prontamente ricoverare nel sanatorio. Era su una collina da cui si vedeva Caltanissetta».
Cosa provasti?
« Avevo 16 anni e nessun senso della tragedia. I miei erano preoccupati. Si diceva che chi entrava in quel luogo era facile che ne uscisse con i piedi allungati. Si pensava che la tubercolosi si trasmettesse anche per via aerea e questo determinò il mio isolamento. Erano in molti a temere il contagio. Un’eccezione fu quel mio amico, Gino Giannone, più grande di un paio d’anni, figlio di un libraio e sufficientemente colto da instradarmi oltre che alla politica anche alla lettura dei libri. In casa avevamo dei testi che mio padre aveva raccolto nel tempo».
Di che cosa si occupava?
«Era manovale delle ferrovie. Impromovibile, come fu scritto su una scheda aziendale. Il fascismo lo considerava un elemento inaffidabile. Solo dopo la liberazione gli fu riconosciuto il grado di aiuto macchinista».
Ti fece studiare?
«Per quel poco che le condizioni economiche lo consentivano. Eravamo tre fratelli. Avrei fatto volentieri il ginnasio. Ma alla fine dovetti accettare l’istituto tecnico minerario. Comunque fu una scuola dura, dove si studiava per otto ore al giorno. Non l’ho amata. Me ne sono fatto una ragione».
La malattia che conseguenze ha avuto?
« Nessuna. Lentamente tutto si riassorbì. Tra gli effetti imprevisti, oltre l’incontro che avrebbe contribuito alla mia scelta comunista, ci fu la conoscenza di una donna, della quale mi innamorai. Era sposata. Ma viveva separata con due figli. Cominciammo ad avere una storia clandestina».
Non ti bastava la cellula.
«Che avrei dovuto fare? Strombazzare la nostra storia? Dopo la liberazione resi pubblico il legame. Le famiglie si opposero. Ma cosa ben più grave il marito di Lina, probabilmente istigato dai notabili locali, ci denunciò per adulterio. Fummo arrestati. Feci qualche settimana di carcere e poi venimmo condannati a sette mesi. Uscii con la condizionale e ripresi il lavoro, dividendomi tra una tipografia e l’impegno politico. Nel frattempo la madre di Lina, una vedova piuttosto facoltosa, ci mise a disposizione un appartamentino dove andare a vivere. Insomma, la situazione si normalizzò».
Come reagì il partito alle tue vicende?
« All’inizio male. Una situazione come la mia non poteva che essere disapprovata. Era il 1944. L’organizzazione politica in pieno fermento. Gli appelli al rigore e alla moralità erano quotidiani. Il Pci di fatto mi processò per la mia condotta privata. Ne uscii assolto e iniziai a percorrere seriamente la mia strada. Ma invece di abbracciare il partito, come alcuni dirigenti volevano, preferii il lavoro sindacale. Un impegno che mi portò a ricoprire il ruolo di segretario regionale, carica che tenni  fino al 1956, l’anno dei fatti di Ungheria».
Nel sindacato la figura di riferimento era Giuseppe Di Vittorio. Hai avuto rapporti con lui?
« Fu lui a propormi come segretario regionale. Perciò l’ho conosciuto bene e ritengo sia stato un leader straordinario. Il più amato dell’intera storia sindacale. Aveva doti umane e politiche come raramente si ritrovano in un uomo. Sapeva comprendere le esigenze di chi lavorava. Guardava ai suoi braccianti, ai contadini, agli operai con l’intelligenza di chi sa andare oltre la rivendicazione salariale immediata, che pure era la questione imprescindibile da cui partire».
Da un certo punto in poi i rapporti tra lui e il Pci si inasprirono. Un altro caso di divisione a sinistra.
«Credo che in questo siamo degli specialisti. Ma per restare a Di Vittorio, lo scontro avvenne in relazione ai fatti di Ungheria del 1956. Il segretario della Cgil disse che lì era in corso una rivolta dei lavoratori. E che bisognava condannare l’invasione sovietica. Tutta la direzione del partito si schierò contro di lui. In pratica fu lapidato. E ho la certezza che quello fu il più grave errore commesso da Togliatti».
Tu con chi stavi?
« Ero appena entrato nella direzione. Mi vergogno a dirlo, sostenni la posizione del partito».
Tu che c’hai vissuto più di cinquant’anni com’era la vita nel partito?
«Si sono dette tante cose su quel partito. La più ricorrente è che fossimo una specie di chiesa con i suoi sacerdoti e i suoi riti ».
Io penso che il partito comunista senza liturgia sarebbe incomprensibile.
«Tu trovi? Io non credo che fosse il nostro problema. Avevamo una organizzazione, estesa e radicata sul territorio. Con regole ben precise. Da rispettare. Sentivamo da vicino quali fossero i bisogni della gente, perché erano anche i nostri bisogni ».
Da un lato la casa del popolo, dall’altro il campanile.
« E che c’è di male? Siamo andati avanti per trent’anni con questa dialettica. Sapendo che c’era una democrazia da rafforzare e una Costituzione da difendere. Poi, capisco che le cose cambiano, che la gente si rompe i coglioni di lottare o sacrificarsi per un partito. Ma c’erano delle idee, cazzo! Un bracciante o un operaio avevano letto più libri dei nostri vice premier. E lascia stare se erano i libri giusti o meno (per me lo erano), però si informavano, crescevano culturalmente».
Crescevano e viaggiavano su binari precisi e guai a deragliare.
«Tutta questa storia del partito occhiuto controllore di un’ideologia culturale a me ha stancato. Che ti aspettavi, che un partito di quelle proporzioni non provasse a esercitare anche un’egemonia culturale? Gli altri che cosa pensavi volessero fare? Noi avevamo i mezzi, le persone, le strutture per poterci provare. Lo dico senza pentimenti, perché non c’è battaglia culturale che non sia anche politica e viceversa».
La politica quasi sempre aveva il sopravvento sulla cultura. Pensa al caso Vittorini.
« Elio l’ho conosciuto bene. Nella biblioteca della camera del lavoro di Caltanissetta tenevano la serie “ Americana” e posso capire che alcuni dirigenti del partito non apprezzassero queste aperture».
Ti stai riferendo a Mario Alicata.
« Proprio a lui che commentò acidamente che Vittorini avrebbe dovuto leggere meno Hemingway e più Marx. E quando uscì Uomini e no, il libro ebbe una recensione favorevole sull’Unità di Milano e una stroncatura sull’edizione romana».
Chi firmava la stroncatura?
«Fabrizio Onofri, il quale parlò del libro in modo impietoso al punto che Togliatti scrisse una lettera a Vittorini dissociandosi da quel giudizio ed esprimendogli tutta l’ammirazione per quello che aveva scritto».
Lo stesso Togliatti che nel 1947 gli stroncherà la rivista “Il Politecnico”.
«Potremmo stare qui a discutere su quell’episodio fino a domattina. Sta di fatto che Vittorini non fu espulso, se ne andò e Togliatti ironizzò su quell’uscita scrivendo: “ Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!”».
La vita culturale del Pci è segnata da ricorrenti scontri. Un altro conflitto, che vide coinvolto un segretario, fu quello tra Berlinguer e Sciascia.
«Le premesse di quello scontro non ebbero nulla di ideologico visto che riguardavano il rapimento Moro e le Brigate rosse. Tieni conto che io ero molto amico di Leonardo e lavoravo nella segreteria di Berlinguer. Sapevo benissimo com’era».
E com’era appunto?
«Un uomo fondamentalmente timido, come Sciascia del resto. Qualcuno disse che fu un dialogo tra due muti che finirono col querelarsi a vicenda per incomprensione. La storia in breve è questa: Sciascia chiese a Berlinguer se le Br si addestravano militarmente in Cecoslovacchia. E scrisse che Berlinguer glielo aveva confermato. Il quale negò, di qui l’alterco che stava per finire in tribunale. Poi le querele furono ritirate e Sciascia commentò: vedi, le liti giudiziarie in Italia finiscono sempre così».
In quella vicenda fu coinvolto anche Renato Guttuso?
« Renato fu sentito come testimone, perché pare fosse presente. E diede ragione a Berlinguer. Sciascia se ne risentì al punto da rompere l’amicizia con Guttuso. Non volle più vederlo. Quando andai a trovare Sciascia che era già ammalato gli chiesi se voleva in qualche modo riappacificarsi con Guttuso. Mi guardò, sollevandosi lievemente dal guanciale: non lo voglio neppure al mio funerale, disse con un filo di voce».
E Guttuso?
« Era dispiaciuto, lui avrebbe volentieri fatto pace. In ogni caso morì prima di Sciascia. E strano a dirsi fu anche lui toccato da un gran rifiuto».
A cosa ti riferisci?
« Posto che è sempre stato un uomo cui piacevano le donne, non accettò di buon grado che la contessa Marzotto si fosse messa con uno più giovane».
Ti riferisci a Lucio Magri?
«A lui. Ricordo un viaggio che feci in Unione Sovietica con Renato e la moglie Mimise. Io ero con Ninni Monroy, la mia nuova compagna. Ogni tanto arrivavano in hotel delle telefonate complicate. Renato mi diceva: “ Ti prego distrai Mimise che al telefono c’è Marta”. Fu un rapporto tumultuoso il loro. Ma alla fine di tutta la loro lunga storia lui non volle più vederla. Mimise era morta da qualche mese. Me lo ricordo Renato sdraiato sul divano perché non ce la faceva a stare in piedi a dire no. E la Marzotto accusò me e Antonello Trombadori di impedirle di vedere Renato. Anche in questo caso rischiammo di finire tutti in tribunale».
Anche tu sei stato uno sciupafemmine.
« Non userei quell’espressione. Diciamo che ho avuto donne con cui ho condiviso delle lunghe stagioni. Accompagnate da cose belle e da episodi dolorosi, come quando ahimè lasciai una ragazza senza poter immaginare le conseguenze di quel gesto».
Tu ne hai scritto come se volessi liberarti da un peso. La ragazza era la sorella di Eugenio Peggio, importante economista del Pci.
«E mio grande amico. Conobbi Erminia nel 1964 dopo un paio di anni tra noi nacque una storia d’amore. A un certo punto mi chiese di metterci insieme e io, poiché ero già legato e con dei figli, non ebbi il coraggio».
Lo hai definito un gesto di “viltà”.
«Tale fu, perché non riuscii ad affrontare la situazione, nella convinzione che né Lina né i miei figli avrebbero accettato la rottura. Fu un bel casino e tutto precipitò quando Erminia, segnata da alcune fragilità, pochi mesi dopo si suicidò».
Ci furono ripercussioni nel partito?
« Sono stato malissimo ed era l’ultima cosa che mi importava. Però ci furono. Amendola istruì una specie di inchiesta. Ma ne venni a conoscenza molto tempo dopo. Fu lo stesso Eugenio, fratello di Erminia, a dirmi, quando finalmente c’eravamo riappacificati, che Amendola gli aveva chiesto di formalizzare l’accusa di “ scorrettezza morale”. Ma poi non se ne fece niente».
Contavano un po’ meno i doveri del militante.
«Diciamo che si stava attenuando l’accanimento moralistico. Pensa a quello che ha dovuto passare Togliatti dopo essersi messo con Nilde Iotti. Ma come il suo o il mio caso, ce n’erano altri. Questo era il partito comunista, con le sue grandezze e le sue miopie».
Ti manca, intendo il partito?
« Mi mancano le persone che ho incontrato e con cui ho stretto rapporti di conoscenza e di amicizia. Mi mancano certi gesti, certe intelligenze: come quella sottile di Togliatti, dotta di Bufalini o sofferta di Berlinguer. Qualche giorno fa ho festeggiato i novantacinque anni. C’erano ancora amici, molti dei quali più giovani. Ero lì e pensavo ai pochi della mia generazione rimasti, come Giorgio Napolitano, e ai tanti che non ci sono più. Mi mancano. Ma non mi manca il partito. Soltanto un cretino potrebbe pensare di rifare il Pci. Però mi manca la sinistra. Di quella abbiamo bisogno. Quella va ripensata. Ma non so se avrò il tempo di vederla. Temo c

Repubblica 21.4.19
Psicoanalisi
Quant’è marxista questo Lacan
di Massimo Recalcati


TITOLO: IL SEMINARIO LIBRO XVI AUTORE: JACQUES LACAN EDITORE: EINAUDI PAGINE: 448

Nell’estate del ’68, in piena contestazione lo psicoanalista tributa il proprio debito verso l’autore del “Capitale”. Così la teoria del plus-valore gli ispira quella del plus-godere
Dopo l’estate della contestazione del ‘68 (che per Lacan «è stata una grande presa di parola»), lo psicoanalista francese, ormai divenuto noto anche a un vasto pubblico grazie ai suoi Scritti (1966), si appresta a tenere il suo Seminario numero XVI che titola Da un Altro all’altro (Einaudi) e nel quale tesse un dialogo serrato con Marx. Il riconoscimento è innanzitutto quello di un debito: è Marx, prima di Freud, ad avere aperto la via per la scoperta del famoso oggetto piccolo e la cui invenzione teorica viene considerata da Lacan stesso il suo contributo maggiore alla dottrina psicoanalitica. Esiste una profonda omologia (non una semplice analogia) tra questo oggetto e la nozione marxiana di plus-valore (Mehrwert).
Non a caso l’oggetto piccolo a viene definito plusgodere ( plus- de- jouir). Marx ha descritto nella figura del plus-valore l’origine del profitto capitalista. Il plus-valore scaturirebbe da quella parte del lavoro operario non retribuita; si genererebbe da una procedura di sottrazione, di spoliazione. Una perdita d’essere attiva un guadagno d’essere. È lo stesso processo a doppio scatto da cui scaturisce l’oggetto piccolo a. Esso è, infatti, l’oggetto che causa il desiderio inconscio del soggetto condensandovi il suo godimento. La sua genesi implica il taglio dell’Altro che separa il godimento dal corpo del soggetto. È quello che avviene anche in ogni processo educativo: la vita si umanizza a partire dall’esercizio di una perdita di godimento. Il bambino deve cedere il seno, i propri escrementi, la sua onnipotenza fallico-narcisistica per iscriversi nel registro della polis. Una serie di separazioni successive definiscono la sua soggettivazione. Ma le zone del corpo dove il taglio dell’Altro si è esercitato sono anche quelle dove si fissa un piacere (inconscio) che genera un nuovo godimento (per Freud pregenitale), un plusgodere appunto. Il che significa che l’identità di un soggetto non si deve reperire sul piano (immaginario) del suo rispecchiamento narcisistico, né nell’attività cartesiana del suo pensiero («il soggetto prima ancora di essere pensante, è innanzitutto un oggetto piccolo a»), ma in questo resto di godimento sul quale si fissa il suo desiderio. È solo così che il soggetto, come spiega Lacan, può ricuperare una sua sufficienza a partire da una condizione di assoluta insufficienza.
La centralità della dialettica del desiderio ancora presente negli Scritti sembra lasciare il posto ad una inedita centralità del «campo del godimento». Il soggetto diviso — il soggetto della «mancanza a essere» — , viene rimpiazzato dall’oggetto piccolo a come luogo di addensamento pulsionale del godimento. Questo processo implica anche una destrutturazione del grande Altro. In piena koinè
strutturalista Lacan ricorda agli strutturalisti che il luogo della struttura (il grande Altro) porta sempre con sé una inconsistenza fondamentale. Non solo di tipo logico — come insiste a dimostrare in gran parte di questo Seminario soprattutto attraverso Godel — , perché questa inconsistenza deriva, in realtà, dall’irriducibilità del soggetto alla presa della struttura. La «falla» che rende inconsistente il grande Altro rendendolo un «luogo bucato» è, infatti, provocata dall’esistenza del soggetto. Il campo dell’Altro non può ospitare il suo godimento singolare pur concorrendo a generarlo. Questo campo risulta «inconsistente», martella Lacan: non può includere il reale del godimento perché questo reale resta per definizione «escluso» dal sistema dell’Altro. La biografia di un soggetto implica sempre la messa in forma singolare di questo godimento escluso; innanzitutto l’oggetto piccolo a che è stato nel desiderio dei suoi genitori. L’Uno del soggetto non trova posto nell’Altro, insiste a dire Lacan. L’Uno è il luogo di una differenza che non si lascia ricomporre dialetticamente. La mirabile lezione XVI dedicata alla perversione (un vero e proprio gioiello della clinica psicoanalitica) mostra il disperato sforzo del perverso di ridare consistenza al grande Altro. È la sua personale crociata, la sua fede indomita: supplire o togliere la falla dell’Altro restituendo a tutti i costi la sua solidità imperturbata. È un movimento che nel nostro tempo cattura i fondamentalismi reazionari di ogni genere.
Avere a che fare con l’inconsistenza dell’Altro comporta infatti riconoscere la nostra condizione di soggetti destinati all’esilio, senza possibilità di risiedere nel campo rassicurante di un Altro consistente, come invece garantiva il «buon Dio» di un tempo.

Repubblica 21.4.19
Franco Marcoaldi
Da Spinoza A Heidegger la casa rivela ciò che siamo


Che vi sia un nesso stretto tra le opere dell’ingegno (filosofiche, letterarie, pittoriche, musicali) e i luoghi in cui sono state concepite, è un dato di fatto. Si tratta soltanto di capire se esistono delle costanti, dei tratti ricorrenti, tra un certo tipo di opere e un certo tipo di luoghi. È questa la prima domanda suggerita dalla lettura dell’insolita “geografia delle idee” offerta da Paolo Pagani nel suo I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo (Neri Pozza), in cui si succedono intrecciandosi tra loro l’Olanda del Seicento (con Spinoza e Cartesio), le peregrinazioni in mezza Europa di Wittgenstein, la Foresta Nera di Heidegger e Arendt, la Cambridge di Keynes e le tante, elegantissime case di Thomas Mann.
Ma giusto a proposito di rimandi e intrecci. Grazie alle suggestioni di Pagani, balza subito all’occhio una prima correspondance tra i luoghi di Spinoza e quelli di Wittgenstein.
Figlio il primo di un mercante ebreo, il secondo di uno dei più importanti industriali viennesi, entrambi «rinunciano completamente ai beni di famiglia». Le loro vicissitudini biografiche sono radicalmente diverse: bandito dalla propria comunità, Spinoza deve difendersi dai pericoli reali dell’intolleranza politico-religiosa, Wittgenstein deve difendersi soprattutto da se stesso. In compenso, comune ai due è l’intimo desiderio di ridurre al minimo i contatti sociali, per concentrarsi su un’opera vertiginosa e scarna quante altre mai. E anche qui le assonanze non mancano, visto che al Tractatus theologico- politicus di Spinoza farà seguito, di rimando, il
Tractatus logico- philosophicus di Wittgenstein. Due testi radicali, geometrici, implacabili, tesi a mettere ordine nel mondo liberando il pensiero da equivoci e orpelli di ogni genere. Come sorprendersi, allora, nel vederli poi vivere in case spoglie, severe, monacali? Quei luoghi sono gli specchi ideali di chi intende evitare ogni distrazione, rispetto al compito che si è dato. E tale spasmodica spinta all’essenziale dà tanto più da pensare in un’età come la nostra: regno incontrastato del ridondante, del superfluo, dell’inutile. Intendo dire. Anche senza essere Spinoza o Wittgenstein, non sarebbe il caso di invertire la rotta? E invece di continuare ad aggiungere, cominciare a togliere e sottrarre?
Solo per fare un po’ di pulizia, dentro e attorno a noi. Per riscoprire quanto davvero conta, quanto davvero vale.

Il Sole Domenica 21.4.19
La rivincita di Schelling
Lezioni monachesi. Il filosofo viene spesso confinato nell’indigesto repertorio scolastico dell’idealismo tedesco. Oggi è al centro di pubblicazioni in Italia e all’estero
di Gaspare Polizzi


Sbaglierebbe chi pensasse che la conoscenza della filosofia di Schelling sia confinata, con quella di Fichte e ben più di quella di Hegel, nell’indigesto repertorio scolastico della triade dell’idealismo tedesco. Nei licei e nei manuali viene peraltro ampiamente sottodimensionata la vastissima produzione successiva al Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), il capolavoro del venticinquenne professore dell’Università di Jena che oscurò la notorietà di Fichte. E si dimentica che Schelling sopravvisse a Hegel, anche filosoficamente, e nei suoi fortunati corsi berlinesi dedicati alla «filosofia positiva» suscitò l’interesse di anti-hegeliani e post-hegeliani del calibro di Kierkegaard e di Engels.
Tralasciando la produzione in lingua tedesca, nel solo 2018 Schelling è al centro di tre volumi in lingua inglese: Interpreting Schelling, curato da Lara Ostaric, la prima raccolta di saggi in inglese dedicati allo sviluppo storico della sua filosofia; The gestation of german biology: philosophy and physiology from Stahl to Schelling di John H. Zammito, che lo inserisce in una trattazione storica della filosofia biologica tedesca; Nature, speculation and the return to Schelling, nel quale gli autori – Tyler Tritten e Daniel Whistler – si soffermano sulla sua filosofia della natura, richiamandosi a Il resto indivisibile: su Schelling e questioni correlate di Slavoj Žižek (2007) curato per Orthotes da Diego Giordano nel 2012. Aggiungo che è stato appena pubblicato The Re-Emergence of Schelling: Philosophy in a Time of Emergency, di Matthew David Segall, giovane ricercatore del California Institute of Integral Studies di San Francisco, che ha trattato dell’esperienza del tempo in Einstein e Whitehead al convegno Einstein-Bergson 100 years later. What is time?, organizzato dal Gran Sasso Science Institute il 4 aprile a L’Aquila.
Sempre nel 2018 sono apparsi tre studi in lingua italiana: l’indagine di Giuseppe Riconda su Schelling storico della filosofia (1821-1854), che tratta ampiamente degli scritti monachesi; la traduzione di uno studio di Kurt Appel, professore di teologia fondamentale alla Facoltà Teologica Cattolica di Vienna, Tempo e Dio: aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling e un’edizione riveduta e ampliata di un saggio di Emilio Carlo Corriero, giovane studioso dell’Università di Torino, Vertigini della ragione: Schelling e Nietzsche. Nella Prefazione Massimo Cacciari scrive «Schelling rappresenta ancora l’arcano della filosofia della krisis, e cioè del pensiero che pretende di oltrepassare quel compimento della filosofia che l’idealismo classico voleva rappresentare».
Gli scritti schellinghiani del secondo periodo monachese, legati a lezioni universitarie che avviarono la sua filosofia al successo, consolidato nei primi anni berlinesi (le seguì anche Gino Capponi), permettono di cogliere con chiarezza i lineamenti della filosofia schellingiana nel suo porsi contro e oltre l’hegelismo. In questa edizione per la prima volta Carlo Tatasciore cura in italiano l’intero corpus dei sei scritti composti a Monaco tra il 1827 e il 1841, ovvero, per ordine di rilevanza filosofica e di grandezza: Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna; Esposizione dell’empirismo filosofico dall’Introduzione alla filosofia; Prefazione a uno scritto filosofico del Signor Victor Cousin; Schema antropologico; Prima lezione a Monaco; Discorso agli studenti della Ludwig-Maximilian-Universität.
Tatasciore è studioso schellinghiano di lungo corso. Allievo di Giuseppe Semerari, al quale ha dedicato il suo primo studio (La vita vivente: l’interpretazione schellinghiana di Giuseppe Semerari, 1982) e del quale ha curato l’aggiornamento bibliografico della terza edizione dell’Introduzione a Schelling (1996), Tatasciore ha pubblicato le Lezioni sul metodo dello studio accademico (1989), un’antologia sulla Filosofia della natura (1797-1781) (1990), Le età del mondo (1991), Bruno, ovvero Sul principio divino e naturale delle cose (2000), e, per Orthotes, le Lezioni di Stoccarda (2013) e Sull’anima del mondo: un’ipotesi della fisica superiore per la spiegazione dell’organismo universale (2016), nonché l’aggiornamento dell’edizione di Michele Losacco del Sistema dell’idealismo trascendentale (2017) e la traduzione di Leggere Schelling di Wilhelm G. Jacobs (2008).
Nelle Lezioni monachesi si coglie la centralità dell’empirismo idealistico e del sistema della filosofia positiva di Schelling attraverso una trattazione storico-critica della tradizione razionalistica nella filosofia moderna da Cartesio a Spinoza, Leibniz e Kant, che contrastando lo scetticismo di Hume ha – secondo Schelling – ridato dignità alla filosofia aprendo la strada all’idealismo. La «filosofia positiva» guarda all’esistenza, che «è dappertutto il positivo, ossia ciò che viene posto, che viene assicurato, che viene affermato», è filosofia assoluta, «che non lascia nulla fuori di sé», nonostante l’interpretazione di Hegel, «un episodio che si opponeva a quest’ultimo sviluppo». Un idealismo che va inteso empiricamente nel nesso inscindibile tra soggetto conoscente e realtà oggettiva, un «real-idealismo» che riconosce la dimensione empirica di Dio come processo positivo di libertà, che realizza la vittoria del soggettivo sull’oggettivo e trionfa nella rivelazione progressiva che si dà nell’arte, nella religione e nella filosofia.
Agli antipodi rispetto a quella filosofia positiva che negli stessi anni Auguste Comte promuoveva in Francia. Schelling qui afferma sul «soggetto infinito» «che mai può cessare di essere soggetto, che non può mai passare nell’oggetto, diventare mero oggetto» e che tanto intride lo spirito del nostro tempo, lanciato «verso un infinito che non comprendiamo» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, pagina 165).
Lezioni monachesi e altri scritti
Friedrich W.J. Schelling
Edizione integrale, a cura di Carlo Tatasciore, Orthotes, Salerno-Napoli, pagg. 320, € 20

Repubblica 21.4.19
Guerra e Resistenza nell’incubo di Dick
“L’uomo nell’alto castello”, tratta da “La svastica sul sole”
di Katia Riccardi


Nella serie “L’uomo nell’alto castello”, tratta da “La svastica sul sole” dello scrittore americano, le potenze dell’Asse hanno sconfitto gli alleati.
Ma spuntano dei video che mostrano un’altra verità. Una donna li prende in consegna. La ribellione può cominciare
C’è un anarchico passaparola nel processo che porta alla scelta di una serie da guardare. Arrivata alla terza stagione, su Amazon Prime Video c’è L’uomo nell’alto castello e ha tutte le caratteristiche per essere confidata come i segreti, sussurrando. L’episodio pilota andato in onda nel 2015 è stato il più visto di sempre per una serie del colosso di internet. Si basa sul romanzo di Philip K.
Dick La svastica sul sole del 1962. La trama è complessa, la fotografia elegantissima, le prime due stagioni perfette. Seconda guerra mondiale, le potenze dell’Asse hanno sconfitto gli alleati. Giuseppe Zangara è riuscito ad assassinare Roosevelt creando così una reazione a catena letale. Heisenberg ha vinto in velocità sulla bomba atomica, Hiroshima e Nagasaki sono intatte, sono i tedeschi a lanciarla su Washington. Nazismo e imperialismo dominano il mondo e gli Stati Uniti non esistono più. Il Reich controlla Europa, Africa e la costa occidentale degli Usa: la “Nazi America” o “il Reich americano”, con il Reichsmarschall al comando.
L’impero più tradizionale del Giappone domina su Asia, Oceania e sugli “Stati giapponesi del Pacifico”. San Francisco è la loro capitale buia e umida, un labirinto di strade nebbiose per i vapori del riso cotto. Biciclette, negozi di antiquariato che vendono a ricchi collezionisti pezzi di sogno americano. A New York sorge invece il Grande Reich Nazista. Grattacieli di cristallo, svastiche enormi, modernità geometrica, tutto lucido come scarpe di vernice, algido, spaventoso. I forni crematori sono sparsi nelle campagne, servono a eliminare vecchi, disabili, malati. In mezzo ai due territori c’è la Zona Neutrale, gli Stati delle Montagne Rocciose con Denver come epicentro di ribelli e fuggitivi, cowboy rinnegati. La Resistenza deve salvare pellicole che mostrano una realtà parallela in cui i nazisti hanno perso, farle arrivare all’uomo dell’Alto Castello. L’atmosfera rarefatta, scura e piovosa è quella di Blade Runner e infatti Ridley Scott coproduce la serie insieme a David Zucker ( L’aereo più pazzo del mondo, Scary Movie) e a Isa Dick Hackett, la figlia di Philip K.
Dick e Nancy Hackett. I personaggi principali sono più numerosi che nel romanzo. Alexa Davalos è una bellissima Juliana Crain, cuore della storia, vive a San Francisco, esperta di Aikid?. Frank Frink (Rupert Evans) è il fidanzato di Juliana con origini ebraiche. C’è Joe Blake, spia nazista infiltrata, infine un incredibile John Smith (Rufus Sewell) spietato obergruppenführer che vuole smembrare i ribelli. Tutti si muovono tra personaggi storici realmente esistiti. Hitler, Himmler e Goebbels, Eva Braun, Rockwell, l’Fbi di Hoover, perfino Mengele. L’adattamento è di Frank Spotnitz, lo sceneggiatore che ha dato l’anima a X- Files negli anni Novanta. La prima puntata ha inchiodato critica e pubblico, raggiungendo sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes un gradimento del 97%. “Imperdibile” per The Guardian, Los Angeles Times, Daily Telegraph, Wired. Rolling Stone la include tra le migliori 40 science fiction di tutti i tempi. The Man in the High Castle
(questo il titolo originale) si appesantisce un po’ nella terza stagione e il mese scorso Amazon ha confermato che si concluderà con la quarta. Gran finale della realtà immaginata da uno scrittore visionario che tante volte ha predetto, più che inventato.

TITOLO: L’UOMO NELL’ALTO CASTELLO IDEATORE: FRANK SPOTNITZ CON: ALEXA DAVALOS,
DOVE: AMAZON PRIME VIDEO QUANDO: IN STREAMING SOCIAL: # HIGHCASTLE

Repubblica 21.4.19
L’omicidio di Cassino
Ucciso perché piangeva arrestato anche il padre
Dopo il fermo della madre, svolta sulla morte del bimbo di due anni Lui non si dava pace: “Sono arrivato tardi”. Ma l’alibi non ha retto
di Clemente Pistilli,


Cassino Aveva giurato di non darsi pace per non essere arrivato prima: «Non sono riuscito a impedire l’omicidio di mio figlio» . Poi, una volta fermato dai carabinieri, ha negato per una notte intera di essere coinvolto in quel crimine terribile. E quando infine, ieri pomeriggio, ha deciso di dare una versione ancora diversa dei fatti è scoppiato in lacrime senza riuscire a dire una parola in più. I carabinieri e i magistrati di Cassino sono convinti che della morte di Antonio Gabriel Feroleto, un bimbo di soli due anni e quattro mesi soffocato a Piedimonte San Germano, nelle campagne vicine allo stabilimento della Fiat, siano responsabili sia la madre che il padre. E per tale ragione venerdì notte hanno sottoposto a fermo e rinchiuso in carcere anche quest’ultimo.
Le contraddittorie affermazioni fatte finora da Nicola Feroleto, 48 anni, autotrasportatore precario di Villa Santa Lucia, un altro centro della zona, non aiutano però gli inquirenti. E i contorni della vicenda continuano a sfuggire, come il movente, facendo crescere un giallo attorno alla morte di un bimbo che, come proverebbero i graffi trovati sul suo corpo e su quello della madre, ha lottato fino alla fine, con le sue poche forze, per continuare a vivere.
Erano le 16 di mercoledì scorso quando in via Volla, nell’omonima frazione di Piedimonte, la 28enne Donatella Di Bona ha iniziato a chiedere aiuto, dicendo che il figlio era stato appena investito da un’auto pirata. Appurato subito che non vi era stato alcun investimento, da allora non si contano quasi più le bugie e le contraddizioni nei racconti della donna e del compagno. Ritenendo che a uccidere il bimbo fosse stata proprio la 28enne, disturbata dal suo pianto durante una passeggiata, i carabinieri hanno subito sottoposto a fermo la donna, che inizialmente ha parlato della presenza anche del compagno per poi negarla, addossandosi tutte le responsabilità. Sarebbe stata lei ad uccidere il bimbo, stringendogli il collo con una mano e chiudendogli la bocca con l’altra. Andando avanti con le indagini, tra le discrepanze sulla ricostruzione dell’accaduto, testimonianze, l’analisi delle celle telefoniche agganciate dai protagonisti della vicenda, le intercettazioni telefoniche e ambientali, i militari si sono però convinti che, quando Antonio Gabriel è stato assassinato, ci fosse anche il papà. Magari poi aiutato anche da altri nel tentativo di sviare gli investigatori. Per questo, con l’accusa di concorso in omicidio volontario, il 48enne è stato fermato venerdì notte.
« Li avevo lasciati al mattino e quando sono tornato, nel pomeriggio, il dramma si era già consumato » , aveva detto poche ore prima Nicola Feroleto. Che per ore ha continuato a negare di essere coinvolto. Poi, portato in carcere, ha chiesto di essere interrogato di nuovo dalla pm Valentina Maisto. Assistito dall’avvocato Luigi D’Anna, il 48enne ha iniziato a dare una versione diversa sugli orari dei suoi spostamenti quel tragico mercoledì e per la prima volta, parlando del figlio, è scoppiato in lacrime. A quel punto non ce l’ha più fatta ad andare avanti; forse domani, con il gip Salvcatore Scalera, chiarirà una volta per tutte il suo ruolo nella vicenda.
Il movente e l’esatta dinamica dell’omicidio, a cominciare dal ruolo degli indagati, restano per ora poco chiari. Dall’autopsia è emerso soltanto che il piccolo è stato soffocato, ma occorrono altre indagini: non a caso la salma non è stata liberata per il funerale. Donatella viveva in una condizione di disagio ed era depressa. Nicola, dopo un matrimonio fallito e due figli, viveva con una compagna, da cui aveva avuto un terzo bambino. Nel frattempo, dall’ulteriore relazione con Donatella, aveva avuto Antonio Gabriel. Poi l’orrore.

Corriere La Lettura 21.4.19
La strategia della Cina in 4 pilastri
di Danilo Taino


Nel giro di un decennio, il mondo sarà definitivamente bipolare: fondato su un equilibrio instabile tra Stati Uniti e Cina che escluderà l’Europa. Non ci saranno valori dominanti, ma una «competizione caleidoscopica tra varie ideologie», con il corollario del declino del liberalismo occidentale. Difficilmente tra le due superpotenze ci sarà uno scontro diretto, dal momento che la deterrenza nucleare della guerra fredda rimane presente anche nel confronto odierno tra Washington e Pechino. L’incertezza nelle relazioni internazionali crescerà ulteriormente e il cuore di ciò che succederà sarà deciso nell’Asia dell’Est.
Questa è la migliore approssimazione possibile di ciò che pensa oggi il vertice del Partito comunista cinese. Ed è fondata su una teoria delle relazioni internazionali nuova, elaborata tra mondo politico e accademia, basata sulla storia della Cina e sullo studio dell’emergere e del declinare delle grandi potenze. A differenza che nelle teorie occidentali — le quali legano il potere di una nazione alle istituzioni, alla forma politica dello Stato, alla governance — a Pechino la chiave è la leadership, considerata la «variabile indipendente» che dà forma e velocità ai cambiamenti dell’ordine globale. Il libro appena uscito di Yan Xuetong — Leadership and the Rise of Great Powers (Princeton University Press, pp. 260, £ 24) — è tutto questo, quanto di più vicino all’analisi e alla strategia cinese in questa fase storica di confronto tra potenza emergente e potenza dominante.
Yan Xuetong è un’autorità accademica di primo livello in Cina. È professore di Scienza politica e preside dell’Istituto di Relazioni internazionali all’università Tsinghua di Pechino, considerata la numero uno del Paese, dalla quale sono usciti molti degli alti quadri del Partito comunista, compreso il segretario Xi Jinping. Le teorie che presenta nel libro sono il frutto del dibattito serrato in corso in Cina, finalizzato a comprendere le caratteristiche della sfida tra grandi potenze, che per Pechino è l’attualità. Il fatto poi che il testo venga pubblicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti racconta che il vertice cinese intende discutere e gareggiare con l’Occidente sulla base di quella che Yan chiama una «nuova teoria» delle relazioni internazionali. Di matrice cinese. Si tratta insomma di un libro di interesse straordinario: per chi lo scrive, per quando e come lo scrive e soprattutto per ciò che scrive.
Yan sostiene che gli interessi strategici di uno Stato sono definiti dalle sue «capacità onnicomprensive», le quali consistono di 4 elementi: politica, apparato militare, economia, cultura. È sulla base della forza di queste capacità che uno Stato può avere l’interesse a mantenere uno status quo di dominio mondiale, può cercare di ottenere questo dominio se è un potere emergente, può puntare a un’egemonia regionale se è una potenza media, può proteggere la sua sopravvivenza se è uno Stato debole.
Nella lettura di Yan, delle 4 capacità statuali le ultime 3 sono «elementi di risorsa» mentre quella politica è «l’elemento operativo» che «applica un effetto moltiplicativo sugli altri tre elementi». Conseguenza: «Il miglioramento o il declino della capacità di uno Stato è determinato dalla capacità politica di quel Paese». E cos’è che determina la capacità politica di uno Stato? «La leadership nazionale». Leadership che può essere inattiva, conservatrice, proattiva o aggressiva, ma che comunque si rafforza quando fa riforme, quando modifica la realtà internazionale. In quest’interpretazione, la Cina è naturalmente riformista, in quanto emergente, più riformista degli Stati Uniti vincolati allo status quo, alla conservazione delle proprie posizioni. Dunque, il compagno Xi è più forte di Donald Trump.
Il libro di Yan Xuetong è la sistematizzazione teorica della visione cinese delle relazioni internazionali come finora non era stata espressa in Occidente. Molto discutibile e molto interessante.

Repubblica 21.4.19
Memoria 25 aprile
Ora e sempre resistenza
Perché tutti cantano Bella ciao
L’ho imparata quando mio padre mi ha portato alla sfilata della Liberazione nel 1964. Era una canzone così diversa Non triste, melanconica e quasi romantica. La intonano ovunque nel mondo. Ma io mi sono commosso una sola volta: quando accompagnava il finale di una serie tv
di Maurizio Maggiani


Mio padre non la sapeva, non me l’ha mai cantata. Mio padre conosceva tutte le canzoni del mondo e me le ha cantate tutte, Bella ciao mai. Mio padre era un canterino, lo sono diventato anch’io, come se ci fossi andato a scuola. Mio padre mi metteva a letto e diceva, dì una parola, una qualunque, io cercavo una parola, anche la più scema che mi veniva in mente, e lui ci trovava la canzone. Lo so fare anch’io, è un bel gioco, lo so fare anche con i nomi; è incredibile, ogni nome ha la sua canzone, e le persone sono contente di sapere che c’è una canzone apposta per loro, proprio non immaginano che ci sia così tanta musica per tenere su di morale le parole, e le vite che le abitano. Mio padre cantava, fischiettava, zufolava, mormorava musica dappertutto, anche per strada, e mia madre si scocciava, allora lui faceva un sorriso birichino e diceva, cuor contento il ciel l’aiuta. È vero, se non avessi da cantare su ogni cosa sarei l’uomo più avvilito del mondo, per fortuna che ho un repertorio infinito, c’è tutto il lascito di mio padre e la mia vasta carriera canora, che è stata, naturalmente, anche una significativa carriera politica. Anche quella di mio padre lo è stata, conosceva tutte le canzoni fasciste e tutte le canzoni socialiste, tutte le canzoni di guerra e tutte quelle partigiane. Perché mio padre questo è stato, un giovane fascista, un soldato, un fervente socialista e un partigiano; il fascismo gli ha dato la scuola operaia e l’ha mandato alla guerra, la guerra gli ha insegnato il socialismo e il socialismo la resistenza. Ma anche se la sua vita è stata piena di prima e di dopo, le canzoni sono rimaste, e c’erano canzoni fasciste e canzoni guerresche che lui mi cantava assieme a quelle socialiste e partigiane, perché in effetti non erano brutte canzoni.
Ce n’erano che mi facevano piangere di commozione, indistintamente, perché non è che lui mi dicesse, attento, questa è una canzone dell’orrido fascismo e questa dell’eroico socialismo; per esempio le canzoni del figlio del soldato e del figlio del prigioniero. Il figlio del soldato scrive al suo papà una lettera: “caro papà ti scrive la mia mano, il cuore trema e io non so perché, le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime d’orgoglio credi a me”. E il figlio del prigioniero: “all’angolo della lurida galera, il figlio dell’ergastolano sta, muto invoca Lenin con la preghiera che gli riporti a casa il suo papà, sì grida il bambino sì, verrà Lenin, perché Lenin soltanto riporta l’innocente al suo piccin”.
Come avrei potuto non versare lacrime; anch’io ero orgoglioso del mio papà che era sempre lontano a lavorare come se fosse in guerra, era lo stesso mio papà che i fascisti lo volevano mettere in galera e poi fucilare. Per non dire della malinconica fierezza che mi induceva a un solitario eroismo, addobbato con l’agognato costume da cow boy e armato di un prezioso fuciletto a tappi, al canto tragico di: “colonnello non voglio il pane, voglio il piombo pel mio moschetto, ho la terra nel mio sacchetto che per oggi mi basterà”. Col dubbio, infantile ma non del tutto inconsistente, che la terra nel sacchetto servisse al coraggioso soldato per autoseppellirsi.
E in tutta questa enciclopedia canora, Bella ciao
mai. Bella ciao l’ho imparata che avevo tredici anni, l’ho imparata proprio assieme a mio padre. È stato la prima volta che mi ha portato alla sfilata della Liberazione, il 25 Aprile 1964, era già tempo di prepararsi all’esame di terza media. Mi aveva fatto allestire da mia madre, mettilo come si deve, camicia bianca e farfallina, giacchetta e calzonetti blu della prima comunione; certo che mi ricordo, mio padre sembrava uno sposo. Tutti quanti sembravano degli sposi e delle spose in festa per le vie della città, eleganti e profumati, impettiti e sorridenti, era la festa più grande della Repubblica; dai fili della tranvia sventolavano centomila bandiere tricolori, dai marciapiedi le ragazze con il fazzoletto rosso lanciavano sulla sfilata a piene mani garofani dello stesso identico colore, tutti avevano un garofano all’occhiello, mio padre ne ha raccolto uno anche per me. Davanti a tutti, gli eroi della Libertà portavano
bandiere così cariche di medaglie che nemmeno il maestrale riusciva a spolverarle. E la banda, una banda musicale spropositata, fatta di tutte le bande della città, con certi clarini più piccoli di me e i bassotuba avvinghiati come il serpente di Laocoonte a dei giganti con il fiato potente come il vento. Nel mezzo della banda un camion tutto coccarde e corone di fiori, e sul cassone il gran coro della Libertà, che cantava tutte le canzoni che mi aveva già cantato mio padre, compresa quella del “ battaglion Lucetti”, che “ son libertari e nulla più”, il suo battaglione; mio padre cantava con il coro e io con lui, era così bello da farmi venire il languore allo stomaco e dappertutto. Poi è venuta questa Bella ciao mai sentita, e mio padre cercava di seguire le parole, che non gli venivano tutte, così che bisbigliava appena, e io con lui. Era così diversa, sembrava quasi una canzone romantica, e anche un po’ melanconica, non triste, melanconica, melanconica come le canzoni d’amore, anche se lì per là sembrava allegra; sì, infatti alla fine della canzone i partigiani non vincono mica. Quel 25 Aprile a casa, di Bella ciao mi son portato il fiore, il fiore del partigiano morto per la libertà, e l’ho messo dentro un gran campo pieno di fiori che coprivano appena il corpo di un soldato giovinetto, forse era un film perché i fiori erano meravigliosi ma in bianco e nero, così come il giovinetto e tutto quanto. E questo è quello che ancora rimane. Non la canto spesso, non è una canzone che è bello sentirla cantare dai vecchi, è una canzone che è bene che cantino quelli che possono dire bella ciao, e bella è una ragazza, bella è la vita, bella è la gioventù, e salutarla con un ciao allora è davvero romantico e sconvolgente; solo i ragazzi sono credibili quando prendono la loro vita e la gettano nel fuoco della Libertà con un ciao.
Ma quando la canto, lo faccio sempre per quel fiore, quel meraviglioso fiore in bianco e nero e per quel soldato giovinetto. Si canta ovunque nel mondo, del resto è sempre stato così, sin da quando fu cantata per la prima volta, che si sappia, al primo incontro mondiale della gioventù, nel ’47, nella Praga della terza repubblica, giusto un anno prima del colpo di stato del partito comunista. Quando la cantano i ragazzi è sempre bello starla a sentire, con le sue prime o con le parole che ci vogliono mettere a piacere, ma se devo dire, mi sono commosso un’unica volta in questi anni; è stato quando un giovane che sa di dover morire arma il suo Uzi, saluta la donna che ama con “qui si fa la resistenza ragazzina”, e comincia a sparare contro l’esercito dell’oppressione, mentre, prima mormorate e poi eclatanti lo esortano la musica e le parole di Bella ciao. Ma questo è il finale di una serie tv sulla grande rapina alla zecca spagnola, e la cosa mi dà da pensare.

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