Repubblica 24.2.19
Il ritorno di Francis Fukuyama
Cara sinistra svegliati, la Storia non è finita
Intervista con Francis Fukuyama di Federico Rampini Fotografie di Mark Peterson
Il
professor Francis Fukuyama ha il dono di scatenare le controversie. A
tutt’oggi non si sono ancora placate le polemiche furibonde sul testo
che lo rese celebre nel mondo intero — scritto ben trent’anni fa. Il
saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, la cui primissima stesura (
sotto forma di articolo) precedette di pochi mesi la caduta del Muro di
Berlino nel 1989, lui lo scrisse quando aveva appena 36 anni. Fukuyama
vi teorizzò la prevalenza del modello occidentale cioè capitalismo più
liberaldemocrazia. Il crollo dell’Unione sovietica, la conversione della
Cina all’economia di mercato, il “ momento unipolare” di egemonia
americana, sembrarono dargli ragione. Temporaneamente. Oggi quel testo è
citato per lo più come un modello di profezia ottimistica, e smentita
dall’evoluzione successiva. Lo stesso Fukuyama ha pubblicato ampie e
approfondite revisioni autocritiche. Molti lo contestano anche a
sproposito, senza averlo letto, fissandosi sul solo titolo e quindi
sulla semplificazione estrema della sua tesi. È il prezzo del successo:
da Marx a Gramsci per la sinistra, da Adam Smith a Karl Popper per la
tradizione liberale, i più grandi pensatori spesso vengono criticati da
chi li ha letti poco. L’ultimo libro di Fukuyama, Identità, ha già
costretto una delle più autorevoli riviste americane, Foreign Affairs, a
ospitare un consistente numero di recensioni ostili. Tra gli attacchi
si distingue quello di una neo- celebrity della sinistra, la politica
afroamericana Stacey Abrams, candidata ( sconfitta per un soffio) al
ruolo di governatrice della Georgia. L’accusa che la Abrams rivolge a
Fukuyama è condivisa da gran parte dell’intellighenzia progressista e si
può riassumere così: lo studioso di scienze politiche fa il gioco di
Donald Trump, con la sua analisi sulla “deriva identitaria” della
sinistra assolve il razzismo della destra, che dell’identità etnica fa
un uso ben più spregiudicato e distruttivo. Alla vigilia dell’uscita in
Italia lo intervisto all’università di Stanford, in California, dove
insegna.
Una delle tesi controverse di questo saggio è che la
sinistra “ ha scelto di celebrare delle forme particolari d’identità, si
è concentrata su gruppi sempre più piccoli e marginalizzati”, a scapito
di un principio di adesione a un patrimonio di valori universali, a
un’idea di cittadinanza che è il fondamento stesso della democrazia
liberale. Per lei questa è un’evoluzione che viene da lontano e coincide
con l’attenuarsi delle rivendicazioni economiche per le classi
lavoratrici. Può approfondire cos’è accaduto alla sinistra?
«
Durante gli anni Novanta sia in America che in Europa la sinistra fece
la pace col capitalismo, e così facendo si staccò dalle sue tradizioni
precedenti. Al punto che, retrospettivamente, è difficile vedere la
differenza tra un cancelliere socialdemocratico come Gerhard Schröder e
una democristiana come Angela Merkel. La definizione delle ingiustizie,
che nel XX secolo guardava soprattutto alle diseguaglianze economiche e
sociali, si spostò. Un grande partito della sinistra europea come il Pci
aveva una base tra i lavoratori bianchi. Nell’ultima generazione invece
si è guardato soprattutto agli immigrati e alle minoranze etniche come
le vittime di ingiustizie. Naturalmente queste categorie sono davvero
vittime di ingiustizie. E tuttavia la sinistra parlando soprattutto a
loro ha perso il contatto con le vecchie classi lavoratrici. Trump ha
catturato consensi tra queste; almeno quanto basta per essere presidente
degli Stati Uniti. Tanti operai che avevano perso il loro lavoro, che
non vivono nelle città delle due coste, e si sentono vittime della
globalizzazione, si sono sentiti ignorati dalle élite benestanti».
Questo
schema si sta ripetendo nella controversia sul muro col Messico? Se
Trump riesce a spingere una parte della sinistra su posizioni estreme —
del tipo “quando si è poveri le leggi sull’immigrazione si possono
violare” — finirà per mantenere il suo zoccolo duro di consenso?
«L’immigrazione
è diventato il tema centrale, lo è negli Stati Uniti come lo è in
Italia per quei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo.
Il sostegno alle posizioni moderate fra i democratici si è indebolito.
Io non metto in discussione l’obbligo morale di aiutare i profughi.
Questo non significa che possano varcare le frontiere tutti quelli che
vogliono farlo. Bisogna controllare i flussi, è importante che ci sia
una capacità d’integrazione, è essenziale che i nuovi arrivati adottino i
valori della nostra società. Ma questa posizione ragionevole e
centrista sta scomparendo nel dibattito politico. Voi italiani avete da
un lato Matteo Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e
sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile, se non
sappiamo chi è, come si definisce, “il popolo” su cui si fonda questa
democrazia».