il manifesto 4.3.19
Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti
«La stampa serve chi è governato, non chi governa»
Corte Suprema degli Stati uniti, 30 giugno 1971
di Andrea Pugiotto
Ciò
che non è riuscito – pur avendoci provato – a molti governi precedenti,
è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio
Radicale.
Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il
programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio,
questo stesso quotidiano.
Poiché sono i mezzi a prefigurare i
fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci
molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare
altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti.
Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando.
È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano «conoscere per deliberare».
Da
un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel
suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di
fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo
parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili
diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà
voce a ogni voce; «dentro, ma fuori dal Palazzo».
Un ossimoro
radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi
lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da
ovunque, per tutti, direttamente.
Così è stata fin dalle origini.
Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le
istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica,
consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto
contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a
farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati.
Se è
la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice
intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal
1975.
La sua probabile chiusura – come quella delle testate che
seguiranno – segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della
realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace
di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce,
dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici
selfie.
Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco
solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e
del futuro.
Il suo archivio è il più grande tabernacolo
audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità
oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una
memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da
chiunque.
Sappiamo da Orwell che «chi controlla il passato,
controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro».
Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per
resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di
plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi
nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori.
Qui lo stop
all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale
per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un
fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a
quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per
sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente.
Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come?
Il
cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di
bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle
sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il
primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del
contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua
duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il
probabile.
Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di
ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio
Radicale?
Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica
memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa
ad hoc?
Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi,
dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del
pluralismo informativo?
Il film The Post, citando la Corte
Suprema, ha ricordato a tutti che «la stampa serve chi è governato, non
chi governa». Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora
tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino
che tutti ci accomuna.