Corriere La Lettura 24.2.19
La morale identitaria disumanizza i migranti
Leader come Matteo Salvini, giornalisti come Maurizio Belpietro, sovraniste come
Francesca
Totolo rimuovono l’imperativo di «salvare tutti i corpi» richiamato da
Albert Camus. La smania di mostrarsi «cattivi» li induce a considerare
inevitabile sacrificare vite secondo una logica particolaristica e
rattrappita. Rimuovono un dato decisivo: non può esserci etica che non
sia universale
di Luigi Manconi
Alcune settimane
fa, nel corso di un intervento televisivo sull’immigrazione, mi è
sembrato che Massimo Cacciari si commuovesse fino a piangere. Si è
trattato, probabilmente, di un mio abbaglio e chiedo scusa innanzitutto
all’interessato ma — vera o falsa che sia — trovo credibile la
circostanza. Il fatto mi ha colpito. Da tempo, da circa metà della mia
vita, sono impegnato a superare certe rappresentazioni puerili e certe
letture per un verso emotive, per l’altro manichee, che sono state un
elemento significativo della mia concezione della politica. Per esempio,
la tendenza ad attribuire all’avversario una sorta di deficit morale. È
proprio della lotta politica fare dell’antagonista l’oggetto della
massima riprovazione etica: muovere dal disprezzo e dalla
delegittimazione consente di indirizzare contro di esso il massimo di
ostilità e quindi di mobilitazione. Avendo riconosciuto, dolorosamente,
come questa «eticizzazione» del conflitto avesse contribuito alla
degradazione della politica e del suo linguaggio e avesse incentivato il
ricorso alla violenza fino ad attenuare la condanna verso il
terrorismo, ci si è trovati costretti a correre ai ripari
precipitosamente. Mi riferisco, va da sé, ad alcune componenti dell’area
della sinistra. Ne è conseguito, in quelle componenti, un processo di
secolarizzazione dell’attività pubblica che, rovesciando il precedente
paradigma, ha portato a sostituire alla figura del nemico quella
dell’avversario e a derubricare i più radicali antagonismi a «differenti
opinioni». Si è avviato, così, un percorso di laicizzazione della
politica, che va considerato come positivo.
Eppure.
Eppure
si sentono e si vedono, di questi tempi, parole e gesti, pulsioni e
sentimenti che sembrano collocare chi li esprime fuori da un perimetro
di idee e valori condivisi. Perché questo accada è necessario un fatto
traumatico. Per esempio, il manifestarsi — nello scenario attuale e
domestico, qui e ora — di una contraddizione radicale come quella
vita/morte. La stessa che Albert Camus, nel 1946, indicò con queste
parole: «Non tutto si può salvare», e dunque bisogna scegliere di
salvare «almeno i corpi». Non una nuova profezia o un’ideologia
alternativa, bensì un patto tra gli individui che non vogliono essere
«né vittime né carnefici». Attenzione: «salvare i corpi» è, in realtà,
l’obiettivo rivendicato da tutti. Anche coloro che vogliono la chiusura
dei porti e il respingimento alle frontiere dicono di volerlo perché
così, e solo così, sarebbe possibile ridurre il numero dei morti.
Dunque, l’autenticità di quell’asserita determinazione a «salvare» non è
agevolmente verificabile — a meno di saper sondare gli angoli più
riposti della coscienza individuale. D’altra parte, io non so che cosa
abbia in fondo al cuore Matteo Salvini (e francamente non me ne importa
un fico secco), ma se egli si fa leader di un movimento di intolleranza
etnica, è fatale (a meno di non attribuirgli una dissociazione
psicotica) che «diventi» intollerante. In altre parole, per sostenere
quella politica di discriminazione, Salvini è «costretto» a organizzare i
suoi sentimenti e le sue emozioni, oltre che i gesti e le parole, in
senso discriminatorio.
Non so chi sia Francesca Totolo e che
mestiere faccia e, tantomeno, conosco cosa abbia in fondo al cuore (e
francamente non me ne importa un fico secco). Di lei so solo che è
l’autrice del seguente post: «Josefa con le unghie perfette laccate di
rosso dopo 48 ore in mare». Come è noto, in pochi minuti, il post si
rivelò un falso indecente e l’autrice dovette goffamente ridimensionarne
il senso. Resta che, se si coltiva l’attitudine a trattare in maniera
tanto sprezzante la sofferenza altrui, una qualche alterazione della
personalità è altamente probabile.
Insomma, non so se Salvini,
Totolo e l’infinita schiera dei coreuti del Nuovo Conformismo Nazionale
siano davvero cattivi, ma so che mostrarsi costantemente tali e parlare e
gesticolare in tal modo, condizionando in qualche misura la loro sfera
emotiva, li induce a considerare inevitabile, e addirittura giusto, non
salvare tutti i corpi. Se i corpi da salvare sono troppi, si accetta la
loro selezione. Il che è la premessa della disumanizzazione.
Chi
non l’accetta si assume tutto il peso di una scelta tragica, e dunque
può piangerne. Chi, al contrario, accetta la selezione-disumanizzazione
perché giusta — in quanto «sono troppi» o «sono tutti delinquenti» —
deride come buonista chi piange. Difficilissimo — nonostante la
consapevolezza di precipitare ancora nel vizio capitale della superbia —
non essere tentati da un senso di superiorità morale. Quando, per
esempio, un direttore di giornale tanto accorto quanto callido, Maurizio
Belpietro, rifiuta ostentatamente di rispondere alla domanda,
reiterata, sul destino dei naufraghi «restituiti» ai centri di
detenzione libici, viene da chiedersi il perché di quella voluttuosa
automortificazione intellettuale. E viene da pensare che il tema
superiorità/inferiorità debba interpellare innanzitutto coloro che,
negando l’esistenza di una «questione morale», rivendicano con
improntitudine la propria «inferiorità».
È ovvio che quanto fin
qui detto non assolve e non condanna alcuno in maniera netta e
definitiva. Innanzitutto perché chi scrive non ha alcun titolo né alcuna
autorità etica per giudicare altri se non sé stesso. Dunque, la
valutazione morale è, anch’essa, oggetto del contendere e materia del
conflitto, anche politico.
Ma proprio per questa ragione gli atti
politici che hanno implicazioni morali (perché producono sofferenze,
richiamano diritti fondamentali, mettono in gioco la vita umana) vanno
considerati anche con criteri non-politici. Criteri universali che
valgono a prescindere da qualsivoglia considerazione contingente e da
qualsivoglia criterio utilitaristico. È questo che traccia un discrimine
nitido tra opzioni alternative e inconciliabili. Oggi sembra prevalere,
se non trionfare, una politica che si restringe e si rattrappisce. Una
politica che rifiuta — qualificandola come capriccio delle élite e
perversione dei radical chic — ogni dimensione che non sia quella del
«particulare», del corporativo, dell’identitario. E che su questo
pretende di fondare una peculiare moralità, ignorando che non può
esservi morale che non sia universale. Ecco perché chi non piange i
morti nel Mediterraneo sentendoli come propri, si condanna a una
involuzione angusta e arida. È ovvio che, quanto detto, non si riferisce
a una contraddizione destinata a tagliare nettamente le culture e,
tanto meno, a qualificare la frattura destra-sinistra. Qui la
responsabilità è, e non può che essere, tutta soggettiva e individuale.