lunedì 4 marzo 2019

Corriere La Lettura 24.2.19
La morale identitaria disumanizza i migranti
Leader come Matteo Salvini, giornalisti come Maurizio Belpietro, sovraniste come
Francesca Totolo rimuovono l’imperativo di «salvare tutti i corpi» richiamato da Albert Camus. La smania di mostrarsi «cattivi» li induce a considerare inevitabile sacrificare vite secondo una logica particolaristica e rattrappita. Rimuovono un dato decisivo: non può esserci etica che non sia universale
di Luigi Manconi


Alcune settimane fa, nel corso di un intervento televisivo sull’immigrazione, mi è sembrato che Massimo Cacciari si commuovesse fino a piangere. Si è trattato, probabilmente, di un mio abbaglio e chiedo scusa innanzitutto all’interessato ma — vera o falsa che sia — trovo credibile la circostanza. Il fatto mi ha colpito. Da tempo, da circa metà della mia vita, sono impegnato a superare certe rappresentazioni puerili e certe letture per un verso emotive, per l’altro manichee, che sono state un elemento significativo della mia concezione della politica. Per esempio, la tendenza ad attribuire all’avversario una sorta di deficit morale. È proprio della lotta politica fare dell’antagonista l’oggetto della massima riprovazione etica: muovere dal disprezzo e dalla delegittimazione consente di indirizzare contro di esso il massimo di ostilità e quindi di mobilitazione. Avendo riconosciuto, dolorosamente, come questa «eticizzazione» del conflitto avesse contribuito alla degradazione della politica e del suo linguaggio e avesse incentivato il ricorso alla violenza fino ad attenuare la condanna verso il terrorismo, ci si è trovati costretti a correre ai ripari precipitosamente. Mi riferisco, va da sé, ad alcune componenti dell’area della sinistra. Ne è conseguito, in quelle componenti, un processo di secolarizzazione dell’attività pubblica che, rovesciando il precedente paradigma, ha portato a sostituire alla figura del nemico quella dell’avversario e a derubricare i più radicali antagonismi a «differenti opinioni». Si è avviato, così, un percorso di laicizzazione della politica, che va considerato come positivo.
Eppure.
Eppure si sentono e si vedono, di questi tempi, parole e gesti, pulsioni e sentimenti che sembrano collocare chi li esprime fuori da un perimetro di idee e valori condivisi. Perché questo accada è necessario un fatto traumatico. Per esempio, il manifestarsi — nello scenario attuale e domestico, qui e ora — di una contraddizione radicale come quella vita/morte. La stessa che Albert Camus, nel 1946, indicò con queste parole: «Non tutto si può salvare», e dunque bisogna scegliere di salvare «almeno i corpi». Non una nuova profezia o un’ideologia alternativa, bensì un patto tra gli individui che non vogliono essere «né vittime né carnefici». Attenzione: «salvare i corpi» è, in realtà, l’obiettivo rivendicato da tutti. Anche coloro che vogliono la chiusura dei porti e il respingimento alle frontiere dicono di volerlo perché così, e solo così, sarebbe possibile ridurre il numero dei morti. Dunque, l’autenticità di quell’asserita determinazione a «salvare» non è agevolmente verificabile — a meno di saper sondare gli angoli più riposti della coscienza individuale. D’altra parte, io non so che cosa abbia in fondo al cuore Matteo Salvini (e francamente non me ne importa un fico secco), ma se egli si fa leader di un movimento di intolleranza etnica, è fatale (a meno di non attribuirgli una dissociazione psicotica) che «diventi» intollerante. In altre parole, per sostenere quella politica di discriminazione, Salvini è «costretto» a organizzare i suoi sentimenti e le sue emozioni, oltre che i gesti e le parole, in senso discriminatorio.
Non so chi sia Francesca Totolo e che mestiere faccia e, tantomeno, conosco cosa abbia in fondo al cuore (e francamente non me ne importa un fico secco). Di lei so solo che è l’autrice del seguente post: «Josefa con le unghie perfette laccate di rosso dopo 48 ore in mare». Come è noto, in pochi minuti, il post si rivelò un falso indecente e l’autrice dovette goffamente ridimensionarne il senso. Resta che, se si coltiva l’attitudine a trattare in maniera tanto sprezzante la sofferenza altrui, una qualche alterazione della personalità è altamente probabile.
Insomma, non so se Salvini, Totolo e l’infinita schiera dei coreuti del Nuovo Conformismo Nazionale siano davvero cattivi, ma so che mostrarsi costantemente tali e parlare e gesticolare in tal modo, condizionando in qualche misura la loro sfera emotiva, li induce a considerare inevitabile, e addirittura giusto, non salvare tutti i corpi. Se i corpi da salvare sono troppi, si accetta la loro selezione. Il che è la premessa della disumanizzazione.
Chi non l’accetta si assume tutto il peso di una scelta tragica, e dunque può piangerne. Chi, al contrario, accetta la selezione-disumanizzazione perché giusta — in quanto «sono troppi» o «sono tutti delinquenti» — deride come buonista chi piange. Difficilissimo — nonostante la consapevolezza di precipitare ancora nel vizio capitale della superbia — non essere tentati da un senso di superiorità morale. Quando, per esempio, un direttore di giornale tanto accorto quanto callido, Maurizio Belpietro, rifiuta ostentatamente di rispondere alla domanda, reiterata, sul destino dei naufraghi «restituiti» ai centri di detenzione libici, viene da chiedersi il perché di quella voluttuosa automortificazione intellettuale. E viene da pensare che il tema superiorità/inferiorità debba interpellare innanzitutto coloro che, negando l’esistenza di una «questione morale», rivendicano con improntitudine la propria «inferiorità».
È ovvio che quanto fin qui detto non assolve e non condanna alcuno in maniera netta e definitiva. Innanzitutto perché chi scrive non ha alcun titolo né alcuna autorità etica per giudicare altri se non sé stesso. Dunque, la valutazione morale è, anch’essa, oggetto del contendere e materia del conflitto, anche politico.
Ma proprio per questa ragione gli atti politici che hanno implicazioni morali (perché producono sofferenze, richiamano diritti fondamentali, mettono in gioco la vita umana) vanno considerati anche con criteri non-politici. Criteri universali che valgono a prescindere da qualsivoglia considerazione contingente e da qualsivoglia criterio utilitaristico. È questo che traccia un discrimine nitido tra opzioni alternative e inconciliabili. Oggi sembra prevalere, se non trionfare, una politica che si restringe e si rattrappisce. Una politica che rifiuta — qualificandola come capriccio delle élite e perversione dei radical chic — ogni dimensione che non sia quella del «particulare», del corporativo, dell’identitario. E che su questo pretende di fondare una peculiare moralità, ignorando che non può esservi morale che non sia universale. Ecco perché chi non piange i morti nel Mediterraneo sentendoli come propri, si condanna a una involuzione angusta e arida. È ovvio che, quanto detto, non si riferisce a una contraddizione destinata a tagliare nettamente le culture e, tanto meno, a qualificare la frattura destra-sinistra. Qui la responsabilità è, e non può che essere, tutta soggettiva e individuale.