Corriere la Lettura 24.2.19
Visioni Le scienze naturali allargano la prospettiva degli studi tradizionali sul mondo omerico
Darwin combatteva a Troia
di Sandro Modeo
Il
mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte
editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco
Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in
cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un
plurisecolare flusso di narrazioni orali.
Può essere l’occasione
per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il
frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come
pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una
prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di
discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che
negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare
proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in
campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza
confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e
bio-antropologia.
Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la
lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La
guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.)
delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano
vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il
simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di
cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale),
conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la
data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei
cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno
tre-quattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner
commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra
specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva
alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse.
Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri
con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli
dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due
lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).
È un’ottica che muta
la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una
trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui
cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e
culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di
«Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una
concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il
canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio
storico-sociale in divenire.
Tutt’altro che secondario è l’inciso
di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale
(Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli
Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente
col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate
dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri
dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto
anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui
il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una
specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli
inizi.
La risalita all’inizio della dark age greca — al
declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of
Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di
letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza
del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze
bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).
L’opprimente
aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema
viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati,
assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra
intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto
questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla
carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28
schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la
sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o
denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così
militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati
affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di
Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre
figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda
dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo
dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e
per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status,
prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa),
nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille
(che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le
compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano
ben più che casus belli poetici.
Per dare un’idea del peso e della
forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel
«muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto
cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne
schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando
l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra
tra le 20 e le 80 mila donne.
In coerenza con la prospettiva
darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi
anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza
anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante
sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un
altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da
dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e
l’origine della coscienza (longseller Adelphi).
La teoria portante
del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della
coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i
due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora
presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi
psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a
ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo»
omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.
Per
mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave
platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade
in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora
l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come
il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il
thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o
l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della
filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente,
versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche
«identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche
come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione,
Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur
dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia
necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di
gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite,
di materia e astrazione insieme).
Basta rileggere, al riguardo, la
discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o
«sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di
parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In
più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una
«coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli
dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la
filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui
sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che
«un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi
capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui,
Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del
poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con
angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non
sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno
— oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad
Antigone.
Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in
fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos:
libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con
le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca
il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e
colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e
leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina»
di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure anche Achille,
nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore —
chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale
dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato.
Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra
animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno
dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal
«mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.