lunedì 4 marzo 2019

Corriere La Lettura 24.2.19
Parla l’autrice di origine nigeriana che vive negli Stati Uniti
Non ci si deve adeguare alla mentalità dominante
Il mio demone africano sfida le vostre certezze
di Viviana Mazza


«Akwaeke è temporaneamente irreale o è stata momentaneamente divorata da un romanzo in corso di realizzazione. L’accesso all’email sarà intermittente. Risponderà quando il romanzo si prende una pausa per pulirsi i denti con uno stecchino. Oppure quando il malfunzionamento della realtà volgerà a vostro favore». Se mandi un’email a Akwaeke Emezi, l’autrice di Acquadolce, ricevi questa risposta automatica. D’altronde, si definisce «una scrittrice che vive negli spazi liminali».
Il suo romanzo d’esordio — in uscita il 28 febbraio in Italia con il Saggiatore — è stato nominato dal «New York Times» tra i cento migliori libri del 2018 ed elogiato dal «Wall Street Journal» per la prosa «serpentesca» che «affonda i denti nel lettore». È la storia della giovane Ada, che proprio come l’autrice ha un papà nigeriano di etnia igbo, una madre malaysiana di etnia tamil e una sorella sopravvissuta a un brutto incidente (fu investita da un camion) a sei anni. Ada lascia la Nigeria per andare a studiare negli Stati Uniti, ma a differenza dei compagni d’università, Lei è anche un Noi: nella sua mente dimorano gli ogbanje, demoni di fumo e ombra, che l’hanno seguita nel mondo quando è nata poiché le porte che separano la nostra realtà dall’«altra parte» non si sono chiuse in tempo. Sono loro l’io narrante del libro. E quando un compagno di college violenta Ada, l’episodio risveglia dentro di lei Asughara, uno spirito femminile di rabbia e lussuria.
Quanto del libro è autobiografico?
«Ho usato la mia vita come scheletro cronologico e ho adoperato il “male” come lente attraverso la quale guardarla. Troppo spesso si pensa che sia reale e vero solo ciò che si basa su concetti occidentali e coloniali. Il colonialismo ha negato la realtà indigena, definendola falsa, superstiziosa, malvagia, arretrata, e l’ha sostituita con la propria: un’operazione deliberata e di grande violenza. Non c’è niente di magico o di folkloristico in quello che racconto, questo è un libro autobiografico. Per me questa è la realtà. E l’ho messa al centro della storia. Il romanzo spiega anche che esistono molteplici realtà e ci sono modi in cui possono intersecarsi, non una sola verità che nega tutte le altre, specialmente quando parliamo di spiritualità. Acquadolce è proprio questo: un libro che esplora concetti metafisici».
Che cosa vuol dire il nome Akwaeke?
«Uovo di pitone. Il pitone è una manifestazione fisica della divinità Ala, che viene menzionata nel libro (“Ala è la terra stessa, giudice e madre, dispensatrice di legge” e “alimenta in grembo l’oltretomba”, ndr). E l’uovo è prezioso perché figlio di una dea».
Lei e sua sorella Yagazie, che fa la fotografa, siete state ritratte da Annie Leibovitz per un servizio di «Vogue» sulle famiglie che stanno cambiando il mondo. «C’è una realtà considerata mainstream, con una certa idea di bellezza. Noi ne usciamo fuori e non ci sposteremo», ha detto nell’intervista parafrasando Toni Morrison, che affermò: «Mi sono messa in piedi sul confine, sul margine, e ho dichiarato la sua centralità, lasciando che il resto del mondo si spostasse dov’ero io». Morrison è un modello per lei?
«È rarissimo che qualcuno sostenga che scegliere come centro il confine sia valido. C’è una direzione, un mainstream verso il quale ci si aspetta che tu ti muova. Devi assimilarti, arrenderti alla narrazione dominante, qualunque sia, devi tradurre te stesso. Grazie a Toni Morrison ho scoperto l’idea radicale che non è necessario farlo, non devi spostarti dalla tua marginalità: puoi restare dove sei e far sì che il mondo venga verso di te, perché il tuo centro, la tua realtà sono validi. Avrei potuto tradurre Acquadolce in una storia più appetibile alla mentalità occidentale, avrei potuto raccontarla semplicemente attraverso le lenti della malattia mentale e questo avrebbe avuto senso per molti. Ma non era la verità: non voglio dire che la malattia mentale non sia un aspetto della storia ma non ne è il centro. Morrison mi ha dato il permesso di raccontare la mia realtà. E poi sta al lettore decidere se vuole venire a incontrarmi».
Qualche critico ha sostenuto che, affrontando attraverso gli «ogbanje» il fenomeno della malattia mentale, non le si rende pienamente giustizia.
«Penso che chi fa questa critica dimentichi che la sua esperienza è soggettiva. Se leggi Acquadolce e credi che sia un libro sulla malattia mentale, arrivi a questo giudizio da una certa percezione, basata sulla psicoterapia occidentale. Ma il libro è al di fuori di quell’esperienza e rifiuta l’assimilazione. La gente è così convinta della propria visione del mondo che non accetta che possano esisterne altre. Nei casi peggiori un simile atteggiamento porta alle deportazioni, ai bombardamenti, alle guerre, perché il modo migliore per disfarsi di una realtà che non ti piace è di far fuori le persone che la vivono. Ci sono genitori eterosessuali che uccidono figli gay perché non si “assimilano” alla loro realtà: preferiscono letteralmente avere un figlio morto che deviante. Ecco, in un certo senso, Acquadolce è deviante. Ma mi è capitato anche di essere contattata da lettori che soffrono di disturbo dissociativo dell’identità e si riconoscono nella mia storia. E sono liberi di farlo: un libro può essere cose diverse allo stesso tempo».
Ha spiegato di non avere un vero luogo di appartenenza, di essere «diventata» nigeriana solo dopo aver lasciato la Nigeria. Lì sua madre era considerata bianca perché «la parola per definire i bianchi e gli stranieri è la stessa». E l’America cos’è per lei? Terra di colonizzatori o luogo spirituale?
«Nessuna delle due cose. Non c’è alcun luogo al mondo dove non si sentano gli effetti del colonialismo: li sentivo in Nigeria come qui. Quanto alla spiritualità, io non l’associo a nessun luogo geografico specifico. Per me è uno stato al quale si può accedere da qualunque posto».