Corriere La Lettura 24.2.19
Parla l’autrice di origine nigeriana che vive negli Stati Uniti
Non ci si deve adeguare alla mentalità dominante
Il mio demone africano sfida le vostre certezze
di Viviana Mazza
«Akwaeke
è temporaneamente irreale o è stata momentaneamente divorata da un
romanzo in corso di realizzazione. L’accesso all’email sarà
intermittente. Risponderà quando il romanzo si prende una pausa per
pulirsi i denti con uno stecchino. Oppure quando il malfunzionamento
della realtà volgerà a vostro favore». Se mandi un’email a Akwaeke
Emezi, l’autrice di Acquadolce, ricevi questa risposta automatica.
D’altronde, si definisce «una scrittrice che vive negli spazi liminali».
Il
suo romanzo d’esordio — in uscita il 28 febbraio in Italia con il
Saggiatore — è stato nominato dal «New York Times» tra i cento migliori
libri del 2018 ed elogiato dal «Wall Street Journal» per la prosa
«serpentesca» che «affonda i denti nel lettore». È la storia della
giovane Ada, che proprio come l’autrice ha un papà nigeriano di etnia
igbo, una madre malaysiana di etnia tamil e una sorella sopravvissuta a
un brutto incidente (fu investita da un camion) a sei anni. Ada lascia
la Nigeria per andare a studiare negli Stati Uniti, ma a differenza dei
compagni d’università, Lei è anche un Noi: nella sua mente dimorano gli
ogbanje, demoni di fumo e ombra, che l’hanno seguita nel mondo quando è
nata poiché le porte che separano la nostra realtà dall’«altra parte»
non si sono chiuse in tempo. Sono loro l’io narrante del libro. E quando
un compagno di college violenta Ada, l’episodio risveglia dentro di lei
Asughara, uno spirito femminile di rabbia e lussuria.
Quanto del libro è autobiografico?
«Ho
usato la mia vita come scheletro cronologico e ho adoperato il “male”
come lente attraverso la quale guardarla. Troppo spesso si pensa che sia
reale e vero solo ciò che si basa su concetti occidentali e coloniali.
Il colonialismo ha negato la realtà indigena, definendola falsa,
superstiziosa, malvagia, arretrata, e l’ha sostituita con la propria:
un’operazione deliberata e di grande violenza. Non c’è niente di magico o
di folkloristico in quello che racconto, questo è un libro
autobiografico. Per me questa è la realtà. E l’ho messa al centro della
storia. Il romanzo spiega anche che esistono molteplici realtà e ci sono
modi in cui possono intersecarsi, non una sola verità che nega tutte le
altre, specialmente quando parliamo di spiritualità. Acquadolce è
proprio questo: un libro che esplora concetti metafisici».
Che cosa vuol dire il nome Akwaeke?
«Uovo
di pitone. Il pitone è una manifestazione fisica della divinità Ala,
che viene menzionata nel libro (“Ala è la terra stessa, giudice e madre,
dispensatrice di legge” e “alimenta in grembo l’oltretomba”, ndr). E
l’uovo è prezioso perché figlio di una dea».
Lei e sua sorella
Yagazie, che fa la fotografa, siete state ritratte da Annie Leibovitz
per un servizio di «Vogue» sulle famiglie che stanno cambiando il mondo.
«C’è una realtà considerata mainstream, con una certa idea di bellezza.
Noi ne usciamo fuori e non ci sposteremo», ha detto nell’intervista
parafrasando Toni Morrison, che affermò: «Mi sono messa in piedi sul
confine, sul margine, e ho dichiarato la sua centralità, lasciando che
il resto del mondo si spostasse dov’ero io». Morrison è un modello per
lei?
«È rarissimo che qualcuno sostenga che scegliere come centro
il confine sia valido. C’è una direzione, un mainstream verso il quale
ci si aspetta che tu ti muova. Devi assimilarti, arrenderti alla
narrazione dominante, qualunque sia, devi tradurre te stesso. Grazie a
Toni Morrison ho scoperto l’idea radicale che non è necessario farlo,
non devi spostarti dalla tua marginalità: puoi restare dove sei e far sì
che il mondo venga verso di te, perché il tuo centro, la tua realtà
sono validi. Avrei potuto tradurre Acquadolce in una storia più
appetibile alla mentalità occidentale, avrei potuto raccontarla
semplicemente attraverso le lenti della malattia mentale e questo
avrebbe avuto senso per molti. Ma non era la verità: non voglio dire che
la malattia mentale non sia un aspetto della storia ma non ne è il
centro. Morrison mi ha dato il permesso di raccontare la mia realtà. E
poi sta al lettore decidere se vuole venire a incontrarmi».
Qualche
critico ha sostenuto che, affrontando attraverso gli «ogbanje» il
fenomeno della malattia mentale, non le si rende pienamente giustizia.
«Penso
che chi fa questa critica dimentichi che la sua esperienza è
soggettiva. Se leggi Acquadolce e credi che sia un libro sulla malattia
mentale, arrivi a questo giudizio da una certa percezione, basata sulla
psicoterapia occidentale. Ma il libro è al di fuori di quell’esperienza e
rifiuta l’assimilazione. La gente è così convinta della propria visione
del mondo che non accetta che possano esisterne altre. Nei casi
peggiori un simile atteggiamento porta alle deportazioni, ai
bombardamenti, alle guerre, perché il modo migliore per disfarsi di una
realtà che non ti piace è di far fuori le persone che la vivono. Ci sono
genitori eterosessuali che uccidono figli gay perché non si
“assimilano” alla loro realtà: preferiscono letteralmente avere un
figlio morto che deviante. Ecco, in un certo senso, Acquadolce è
deviante. Ma mi è capitato anche di essere contattata da lettori che
soffrono di disturbo dissociativo dell’identità e si riconoscono nella
mia storia. E sono liberi di farlo: un libro può essere cose diverse
allo stesso tempo».
Ha spiegato di non avere un vero luogo di
appartenenza, di essere «diventata» nigeriana solo dopo aver lasciato la
Nigeria. Lì sua madre era considerata bianca perché «la parola per
definire i bianchi e gli stranieri è la stessa». E l’America cos’è per
lei? Terra di colonizzatori o luogo spirituale?
«Nessuna delle due
cose. Non c’è alcun luogo al mondo dove non si sentano gli effetti del
colonialismo: li sentivo in Nigeria come qui. Quanto alla spiritualità,
io non l’associo a nessun luogo geografico specifico. Per me è uno stato
al quale si può accedere da qualunque posto».