Repubblica 24.2.18
Angelo Del Boca
di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
Certe
volte, quando la luce della giornata declina, il vecchio uomo guarda
dalla finestra del settimo piano: «C’è un momento in cui il riflesso
della luce che piove sulla stazione sembra renderla invisibile. In
quell’attimo vedo solo i treni che da Porta Susa vanno dove vogliono o
dove devono andare. E io sono qui che penso ai viaggi fatti, alle
persone conosciute, alle situazioni vissute: Africa, India, Israele, ma
anche la Resistenza in val d’Ossola o sull’Appennino » . Una stazione,
penso, è anche un catalogo di emozioni, di storie in movimento, di volti
che fuggono. Una sintesi che ritrovo nelle parole di Angelo Del Boca,
lo storico e il giornalista che negli anni Settanta dimostrò, documenti
alla mano, che in fondo non eravamo stati così buoni nelle nostre
conquiste coloniali: « Se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere al
pensiero che oggi trattiamo queste ondate di disgraziati, giunti dalle
coste libiche, come se ci stessero rubando la vita. Quando la vita
gliela abbiamo scippata noi. Per anni Indro Montanelli si ostinò a
ribadire che i miei erano solo pregiudizi, che tutto quanto avevo
documentato, i gas e i morti, fosse inattendibile. Si scusò solo verso
la fine della vita. E quello mi parve un bel gesto dopo tanto contrasto
».
Qual è l’immagine più forte o più cara che lei conserva dell’Africa?
«Sono
tante perché per anni ho vissuto con passione e partecipazione le
vicende di quel continente. Ma c’è un’immagine su tutte: i tre giorni
che passai a Lambaréné, nel Gabon, con il dottor Schweitzer».
Che anno era?
«
Giugno 1959. Atterai con un piccolo Cesna ai bordi della foresta. Qui
era venuto a seppellirsi Albert Schweitzer: alsaziano, scrittore,
musicista, medico ed esperto di filosofia e teologia. Si specializzò in
malattie tropicali. Neppure quarantenne abbandonò gli agi dell’Europa
per curare gli indigeni. Costruì un lazzaretto e un ospedale. La sua
fama si sparse nel paese. Era il “dottore bianco”. L’uomo che con
tenerezza si chinava sui lebbrosi».
Che impressione le fece?
«Di
un uomo fedele alla missione che si era dato. Agiva nel piccolo ma
pensava in grande. Afferrandomi le mani mi disse: “Scriva che il mondo è
in pericolo e che l’umanità va incontro al disastro”. Una sera lo
ascoltai suonare all’organo il suo adorato Bach: “ Avevo qualche chance
come musicista”, ironizzò. Fu un momento suggestivo. Quando ripartii,
dalla piroga ammirai la sua figura: l’immancabile casco coloniale, le
folte sopracciglia, gli enormi baffi. Alzò la mano per salutarmi. Ero
commosso. Era quella l’Europa migliore».
Torneremo a parlare della “sua” Africa. Lei dove nasce?
«Sono
nato a Novara, ma dal 1945 vivo qui a Torino. Durante la guerra decisi
di non arruolarmi. Fuggii nel modenese da certi parenti. Nel 1943
arrestarono mio padre. Lo tennero in ostaggio, poi dissero a mia madre
che la sua libertà dipendeva da me. Se avessi accettato di entrare nella
Repubblica Sociale, lui si sarebbe salvato. Tornai a Novara e mi
presentai al distretto. Liberarono mio padre e mi spedirono in Germania
con tutta la divisione degli alpini».